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Guarda Genealogia di una forma di genere. Pianissimo di Sbarbaro come diario poetico

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Genealogia di una forma di genere

Pianissimo

di Sbarbaro come diario poetico

Stefano Ghidinelli

Università degli Studi di Milano

Abstract

Il saggio propone, nella prima parte, una sintetica definizione preliminare del diario poetico co-me paradigma di genere della moderna letterarietà in versi. La tesi è che la lunga e ricca storia delle trasformazioni del genere lirico nell’ultimo secolo si possa inquadrare all’insegna di un pro-cesso di diarizzazione della forma-canzoniere, che determina una riattualizzazione complessiva dei dispositivi retorico/rappresentativi essenziali del libro lirico (enunciazione intercalata e intermit-tenza soggettiva), tanto nell’orizzonte testuale quanto in quello macrotestuale. Nella seconda parte il ragionamento stringe sull’analisi di Pianissimo di Camillo Sbarbaro come esempio para-digmatico di inventivo impiego del modulo diaristico in funzione non tanto dell’espressione liri-camente immediata della vicenda di una soggettività, ma semmai della sceneggiatura quasi-drammatica di un regime di nervosa alternanza e pendolarità sclerotica fra una pluralità incom-ponibile (e irriducibile) di proprie/improprie manifestazioni attimali, irrelate e contraddittorie.

The first part of the essay offers a brief preliminary definition of the poetic diary as a paradig-matic genre of modern poetry. The long and rich history of lyric genre in the last century can be seen as originating from a process that has brought it closer to the form of the diary. This pro-cess implies an overall re-actualization of the rhetorical and representational devices of lyrical book (intercalated enunciation and subjective intermittence), both in textual as in macrotextual dimensions. In the second part the essay takes in analysis Camillo Sbarbaro’s Pianissimo as a par-adigmatic example of inventive employ of the diary model. Rather than delivering the immedi-ate lyrical expression of a subjective experience, Sbarbaro dramatizes a condition of nervous wavering and sclerotic fluctuation between an uncomposed and irreducible myriad of momen-tary self emergences, unrelated and contradictory.

Parole chiave

Poesia lirica, macrotesto, diario, Sbarbaro, Pianissimo Contatti stefano.ghidinelli@unimi.it

1. Preliminari di metodo: appunti sul diario come genere poetico

È stato Pier Vincenzo Mengaldo, in un articolo del 1986, a formulare autorevolmente la tesi secondo cui Pianissimo di Camillo Sbarbaro è il libro che in Italia istituisce «il gene-re novecentesco del diario lirico» (4). Quindici anni più tardi un altro dei maggiori studio-si sbarbariani, Lorenzo Polato, ha ripreso l’argomento nell’introduzione alla nuova edi-zione di Pianissimo uscita per sua cura da Marsilio, ribadendo che «prima del Porto sepolto di Ungaretti» è il volumetto apparso per le «Edizioni della Voce» nel ’14 a inaugurare «la forma del diario lirico» o meglio ancora, come dice poco oltre, «il genere novecentesco del diario in poesia» (Pianissimo 12 e 24).

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In un suo intervento recente, tuttavia, Paolo Zublena ha avanzato «qualche dubbio» sulla attendibilità dell’indicazione. Il principale ostacolo all’attribuzione di primogenitura sarebbe da ravvisare nella «tendenziale assenza», in Pianissimo, «di marche di situatezza dell’esperienza biografica personale». «Mancano – osserva il critico – determinazioni pre-cise quanto a date (abbiamo solo “inverno 1912” e “maggio 1913” alla fine delle due se-zioni), ai nomi di luoghi e delle persone (del tutto assenti)» (47). In specie riguardo allo spazio, la carenza di riferimenti puntuali «alla precisa realtà extratestuale» sarebbe la spia di un «processo di decontestualizzazione, tipico della tradizione lirica» (anche se qui de-terminato non dalla «separazione dalla realtà evenemenziale tipica degli ermetici», ma piuttosto da «una completa chiusura del soggetto su se stesso»), che troverebbe ulteriore conferma nella «scarsità di deittici spaziali relativi»: altra riprova di una attitudine al «mancato sfruttamento di una risorsa decisiva della poesia moderna», vale a dire «il vin-colo enunciativo al contesto di posizione del soggetto, la sua situatezza nell’evento del testo» (54–55).

Al di là della possibilità, che più avanti cercherò di argomentare meglio, di attenuare e in parte relativizzare alcune delle pur acute considerazioni di Zublena, ciò che in primo luogo bisognerebbe discutere, in realtà, è la misura della loro effettiva pertinenza o rile-vanza come argomenti a sfavore dell’identificazione di genere proposta da Mengaldo e Polato (e da molti altri, invero, in modo più o meno esplicito). Il fatto è che, a dispetto della sua apparente autoevidenza e perspicuità, nell’uso critico che normalmente ne fac-ciamo la nozione di “diarismo poetico” continua ad essere accompagnata da un consi-stente alone di presupposizioni implicite – e dunque anche di potenziali malintesi. Ecco allora la prima questione, o nodo di questioni, che la piccola querelle critica appena rievo-cata di fatto pone: che cos’è, in definitiva, un diario poetico? Esiste davvero un genere

poe-tico novecentesco identificabile con questa formula? E quali sarebbero, nel caso, le sue

carat-teristiche distintive? I rilievi di Zublena sono obiettivamente inappuntabili in riferimento a una definizione forte o restrittiva, per così dire, di diarismo. L’opzione cui mi atterrò, nelle prossime pagine, è invece quella di provare a delineare un genere dalla canonistica non troppo rigida e definita, isolandone una griglia di tratti distintivi sufficientemente ca-ratterizzante ma anche duttile e leggera, meglio adatta forse a restituire la notevole varietà ed eterogeneità di manifestazioni di quello che appare un paradigma di scrittura caratteri-sticamente spurio, meticcio, tutt’altro che univoco e ben differenziato.

Vera e propria forma primaria o prototipica delle scritture dell’io in ambito extra-letterario – almeno secondo la prospettiva attraverso cui l’ha inquadrata Philippe Lejeu-ne1 – quella del diario è in effetti una tipologia testuale notoriamente ben disponibile ad una ricca e varia gamma di pratiche di riuso cerimoniale nel contesto dei generi discorsivi più eterogenei (dal saggismo filosofico al reportage d’autore, dalla narrativa autobiografi-ca o memorialistico/testimoniale a quella d’invenzione). La peculiare influenza che ha assunto ed esercitato nell’ambito della poesia contemporanea, però, si accompagna all’evidente eccezionalità o anomalia delle procedure di riuso o «mimesis formale» – se-condo la formula che Jean-Marie Schaeffer riprende da Michal Glowinski (Schaeffer 90) 1 Accanto a (e dopo) i lavori sull’autobiografia, quella degli studi sul journal intime è la seconda linea

d’interesse cui Philippe Lejeune ha consacrato la propria ricerca, a partire soprattutto dalla seconda metà degli anni ’80. Si veda in proposito la ricostruzione che lui stesso ha proposto nel saggio Tenir un

journal, incluso col titolo The Practice of the Private Journal: Chronicle of an Investigation (1986-1998) nella

ricca selezione dei suoi scritti curata da Jeremy D. Popkin & Julie Rak per il Biographical Research Center dell’Università delle Hawai’i (On Diary 16–26).

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– che in questo particolare contesto si rendono necessarie. Qui sarà sufficiente indicarne due.

La prima è di tipo tecnico/formale: a distinguere il diarismo poetico da ogni altra forma di diarismo (anche) letterario è cioè anzitutto, come ovvio, la forte mediazione e marca distintiva del verso. Plateale dispositivo di straniamento della apparente innocenza e naturalezza della forma-modello, l’impaginazione versale è la prima spia del carattere scopertamente artificioso, simulatorio/finzionale di ogni diario poetico. Se già nella sua lista di condizioni definitorie dell’autobiografia Lejeune includeva, sul piano formale, l’opzione per la prosa, a maggior ragione bisognerà convenire che nessun libro di poesia può seriamente pretendere di illudere il lettore della sua autenticità in quanto diario. Se il “vero” diarismo è il paradigma delle scritture del sé di tipo privato, extra-letterario – il dominio dell’«antifiction», sempre secondo Lejeune (On diary 201–12), quelli composti e pubblicati dai poeti sono invece a tutti gli effetti diari finti o, se non altro, ficti – diari co-struiti, prodotti attraverso un impegnativo sforzo di elaborazione e formalizzazione este-tica dell’auto-espressione (del tutto funzionale, si intende, alla loro pubblicazione in quanto artefatti verbali letterariamente connotati).

Ciò non vuol dire però che essi non pretendano di essere altrettanto “veri”, intensa-mente autorappresentativi dei diari-diari. In fondo è una delle convenzioni costitutive del «patto lirico», anche nelle sue formulazioni più tradizionali, quella di presupporre una re-lazione di corrispondenza o identità “sostanziale” – per così dire – fra autore reale e voce

poetante. Certo il modo di intendere e modulare questa relazione di identità è poi soggetto

– oltre che a una più o meno spiccata plasmabilità idiosincratica, secondo la sensibilità di ciascun poeta – ad un regime di variabilità storica, nel lungo così come nel medio o breve periodo, rispetto al quale proprio la possibilità di attivazione del riferimento al paradigma diaristico sancisce anzi, evidentemente, uno scarto storico/tipologico di rilievo; indivi-duando uno stadio o momento di maturazione avanzato di quel nuovo modello di auto-biografismo «empirico» (secondo la formula di Mazzoni) il cui progressivo affermarsi, «fra il romanticismo e l’età delle avanguardie», avrebbe determinato il superamento dell’autobiografismo «trascendentale» di marca classicistico/petrarchesca e la nascita di quella che siamo soliti chiamare poesia moderna (Mazzoni 73 e 100–14). In particolare l’approdo al diarismo poetico novecentesco sembrerebbe sancire l’ulteriore scarto de-terminato, in quel processo trasformativo, dalla definitiva inscrizione in una dimensione macrotestuale del problema della (ri)modulazione del genere lirico tradizionale.

Eppure è evidente che quello praticabile ed esperibile nelle scritture liriche novecente-sche resta pur sempre un autobiografismo sui generis, fra virgolette. Di nuovo, è anzitutto il banale effetto di filtro del verso ad avvertire il lettore della ambiguità costitutiva della relazione che intercorre fra l’io del poeta/personaggio e l’io del poeta/artefice – che ne modella la fisionomia e la stessa voce anche mettendo in rapporto una più o meno idio-sincratica sensibilità estetica con il sistema di convenzioni e attese attive nel contesto sto-rico/letterario in cui opera. Il fatto è che, se l’immediatezza autorappresentativa non esi-ste (nemmeno nei diari veri, se è per questo), l’operazione di proiezione di sé in un dop-pio testuale in cui l’autore di un diario poetico è tenuto a impegnarsi si configura per principio (tanto più, va da sé, in un orizzonte post-freudiano) come uno strumento di messa in forma costruttiva, figuralizzata, problematica e rifratta di una più o meno insta-bile, inaffidainsta-bile, precaria e contraddittoria immagine di sé. Le stesse posture di teatraliz-zazione autoironica o patetica, rastremazione astrattiva o generalizteatraliz-zazione allegorica, de-formazione espressionistica o onirico/visionaria attraverso cui il poeta vorrà filtrare quell’operazione ne risulteranno subordinate al superiore scopo di arricchire e screziare

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l’autorappresentazione: consentendo anzi di distinguere, in sincronia come in diacronia, fra tante diverse proposte e varianti tipologiche di autobiografismo, che di volta in volta ri-solveranno in modo più o meno originale – lungo uno degli assi di differenziazione con-correnziale esteticamente più vitali e produttivi, in ogni caso, dello stesso lirisimo nove-centesco – l’alternativa fra le polarità dell’autenticità espressivistica e della stilizzazione convenzionale, dell’adesione mimetica all’accidentalità empirica del vissuto e della spinta ad una sua essezializzazione noumenica o trascendentale (ma anche fra modelli di mime-tismo soggettivo differente, declinati ad esempio in una chiave più intensamente psicolo-gico/coscienziale o con una più viva apertura e attenzione alla relazionalità stori-co/sociale). Detto altrimenti: se finzione e non finzione sono i termini non di un’alternativa discreta secca ma di una polarità entro la quale ogni nostro atto di riferi-mento simbolico al reale oscilla, il punto è che le convenzioni di lettura della poesia lirica novecentesca non risolvono stabilmente lo statuto semantico dell’«io» testuale (secondo quella funzione di guida disambiguante che è o sarebbe una delle risorse precipue delle canonistiche di genere). Lo collocano anzi in un regime di fibrillazione fra quei due poli che non è neppure all’insegna dell’incertezza o indecisione ma proprio di una irriducibile coesistenza.

Né è questo il solo risvolto paradossale del rapporto tra diarismo e versificazione. Il riferimento al paradigma della scrittura privata, autocomunicativa, offre anche una corni-ce particolarmente vantaggiosa entro cui assolvere l’esigenza di provvedere ad una ri-giustificazione estetico/funzionale del verso come forma specifica del discorso letterario: un’esigenza di fatto ineludibile, dopo la crisi determinata dalla rivoluzione versoliberista. È l’assillo di fronte al quale qualunque scrittore di versi contemporaneo si trova implici-tamente convocato: se non è più la misura istituzionale del canto, di quel regime di discor-sività rituale/cerimoniale regolata dalle auree e solide leggi prosodico/musicali di una metrica intersoggettivamente riconosciuta e accettata, che cosa è o può ancora essere, nel Novecento, il verso? Perché continuare a organizzare e scandire il discorso secondo una struttura che sembrerebbe aver perso la propria plurimillenaria funzionalità costitutiva? È stato anche facendosi interpretare come una sorta di iper-formalizzazione del paradigma testuale eminentemente extra-letterario dell’annotazione, dell’appunto da taccuino (con la sua tipica vocazione peraltro all’espressione reticente, elusiva/allusiva, pencolante sul crinale fra verbale e pre- o extra- verbale) che il moderno verso lirico ha potuto rivendi-care una propria ritrovata e rinnovata specificità, in quanto guizzante unità di misura di quello che Northrop Frye chiamava «ritmo associativo»: ovverosia in quanto forma “or-tolinguistica” deputata a pedinare le nervose discontinuità logiche e complesse stratifica-zioni temporali dell’interiorità del soggetto.2

È quanto basta per cominciare a mettere a fuoco come quella del diarismo in versi sia una pratica di scrittura il cui potenziale di ambiguità o iridescenza, nella definizione della fisionomia di genere del testo, è anzitutto l’effetto della destabilizzante messa in risonan-za di una tipologia testuale di schietta estrazione extra-letteraria con una delle aree o re-gioni generico/tipologiche più illustri e codificate della letterarietà tradizionale. Il che ci conduce direttamente alla seconda, cruciale ragione di specificità del diarismo poetico novecentesco, che è di tipo storico/funzionale.

Come è quasi banale osservare, le fortune di quello che nelle citazioni d’esordio è chiamato «il genere novecentesco del diario in poesia» si devono anche se non anzitutto 2 Sul tema della ri-funzionalizzazione del verso nel contesto del sistema letterario della piena

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alla sua ambivalente relazione con la forma letteraria che ne costituisce l’analogon funzio-nale, per così dire, all’interno del sistema letterario tradizionale e premoderno: quella cioè del canzoniere lirico.

Proprio in questa prospettiva non solo testuale ma già integralmente e organicamente macrotestuale la centralità della forma-diario nel sistema dei generi della poeticità mo-derna emerge anzi al meglio, consentendo di inquadrare la lunga e ricca storia delle tra-sformazioni del genere lirico nell’ultimo secolo all’insegna di un processo – tutt’altro che lineare, certo, anzi spiccatamente plurivoco e contrastatamente dialettico – non tanto di romanzizzazione ma semmai, appunto, di diarizzazione della forma-canzoniere. In quest’ottica il ruolo giocato dal riferimento al diario, nella sensibilità dei poeti dell’ultimo secolo ma anche dei loro lettori (nelle dinamiche di ristrutturazione del loro orizzonte d’attesa), non sembra riducibile a quello di un ‘semplice’ nuovo modello di genere. As-somiglia semmai all’azione di un agente contaminante che, interferendo con le quasi-omologhe (almeno in apparenza) strutture generative di un paradigma di genere plurise-colare, ne determina una sorta di deriva evolutiva verso una gran varietà di esiti anomali, ibridi/mutanti, tutti interpretabili però come effetti di una medesima, epocale dinamica di alterazione – per così dire – della mappa cromosomica del modello di genere di par-tenza.

La premessa tecnica per l’innesco di questa dialettica trasformativa è data dal princi-pio in base a cui entrambe le forme realizzano, strutturalmente, la sintesi fra la costitutiva episodicità del discorso lirico e l’orizzonte di continuità dischiuso dalla cornice composi-tiva/fruitiva del libro. Detto in breve, tanto il canzoniere quanto il diario si contraddi-stinguono per una logica macrotestuale che sfrutta le convenzioni di quella che potrem-mo chiamare enunciazione intercalata: la saldatura di una catena di testi singoli, in sé ben leggibili come epifanie verbali autonome di un ego fictus variamente modellato come rifles-so dell’io autoriale, in una serie testuale organicamente orientata a produrre un effetto di

intermittenza soggettiva.

Enunciazione intercalata, intermittenza soggettiva: entrambe le categorie richiedono qualche rapida puntualizzazione. La prima è ovviamente un blando adattamento della nozione di «narrazione intercalata» con cui Gérard Genette identificava appunto la moda-lità di configurazione del rapporto fra tempo della storia e tempo del discorso caratteri-stica del diario. Ora, è sintomatico che anche Lejeune abbia rilevato qualcosa di insoddi-sfacente, di forzato o impreciso in questa definizione – ma che le sue perplessità riguar-dassero semmai il tratto strutturale indicato dall’aggettivo:

I have always been bothered by the term Gérard Genette proposed in Figure III to refer to diary narration: he called it “intercalated”, to distinguish it from retrospective narration. That is the effect it has after the fact, upon rereading. […] When I write a diary, I am not “interca-lated” between two equivalent things: there is something behind me, nothing in front. (On Diary 207–08).

Ma qui Lejeune ha in mente i diari reali, per i quali è ben comprensibile che la pro-spettiva della lettura o ri-lettura altrui (non prevista e dunque non autorizzata per non di-re abusiva, nel quadro di una forma di scrittura essenzialmente autocomunicativa) sia percepita come fuorviante o posticcia. Volendosi invece occupare di quei diari finti o si-mulati – di quegli artefatti verbali esteticamente connotati che sono i diari in versi, è esat-tamente vero il contrario: ciò che qui rileva non è certo il modo in cui l’autore ha effetti-vamente proceduto nello scriverli (comunque di massima piuttosto diverso, è quasi bana-le osservarlo, da quello di un vero diarista) quanto appunto l’effetto che l’ensembbana-le

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macrote-stuale mira a produrre e di fatto produce su chi legge (anche al di là delle possibilità, del resto sempre parziali, di controllo intenzionale da parte dell’autore).

Sostituire alla categoria di narrazione quella più neutra di enunciazione significa allora, banalmente, prendere atto del fatto che nei libri di poesia di stampo lirico di norma non si assiste propriamente al racconto di una storia (quando ciò accade, il loro statuto di genere comincia già a slittare verso i modi del poema/poemetto o della narrazione intertestuale). Se una storia e un tempo della storia ci sono – quelli della più o meno unitaria, compatta, lineare ‘vicenda esistenziale’ del personaggio che dice io –, essi tendono però a costituirsi come una sorta di sfondo implicito che avvolge e inguaina testi: i quali vi risultano bensì inframmezzati, o intercalati appunto, senza però che ciò li vincoli ad un resoconto anche solo sintetico/riassuntivo dell’insieme di eventi e circostanze intercorsi, di volta in volta, fra un atto d’enunciazione e il seguente. Naturalmente qualcosa quei testi possono co-munque raccontarlo, ma si tratterà di una serie di episodi diegetici di natura singolativa: non insomma l’intermittente racconto di una storia, ma l’intermittente manifestarsi (se del caso, attraverso una serie di atti di racconto) di una voce.

L’instaurarsi di questo peculiare regime retorico si salda così immediatamente al re-gime rappresentativo che ho chiamato della intermittenza soggettiva. A definirlo è il rap-porto di inclusione convenzionalmente istituito fra la più o meno frammentata episodici-tà degli atti di parola (e di racconto) condotti/simulati nei singoli testi, e la supposta con-tinuità esistenziale di un io personaggio. Chi legge ne deve postulare la consistenza anche di là e al di fuori di essi, in una dimensione fittizia ulteriore – la cui immagine testuale più attendibile è il bianco tipografico che si allarga fra e intorno a le poesie – variamente agget-tante sulla biografia reale dell’autore anche se mai del tutto coincidente con essa, di cui i testi si offrono al più come selezionati frammenti-sineddoche o rastremati, evocativi se-dimenti indiziari.

È a partire da (e sullo sfondo di) questo elementare canovaccio strutturale che ogni singolo libro lirico attualizza la propria specifica e irripetibile forma: in ragione anzitutto – per riprendere l’essenziale griglia di parametri messa a punto da Enrico Testa – del più o meno ricco sistema di ricorrenze isotopiche che il poeta avrà saputo o voluto sviluppa-re nelle poesie che lo compongono; del modo in cui avrà risolto il problema della loro distribuzione in una architettura o planimetria complessiva; del vario effetto di sviluppo o progressione – secondo i più inventivi intrecci di linearità, modularità, circolarità – prodotto di fatto dalla combinazione dei due criteri compositivi precedenti. Al di là di ogni altra strategia della coerenza, comunque, il ricorso ai dispositivi della enunciazione intercalata e della intermittenza soggettiva è ciò che in ultima analisi sembra definire la specifica identità generica del macrotesto lirico: determinandone anche la caratteristica, infida disponibilità o tendenza a produrre in chi legge un effetto di lievitazione in senso pseudo-narrativo della sequenza testuale – o detto altrimenti l’illusionistica, anti-romanzesca evocazione del fantasma di una storia anche in assenza di un vero e proprio

racconto.

Quanto poi alle peculiarità che l’attivazione del ‘nuovo’ paradigma diaristico compor-ta, nei modi di attualizzazione di questo essenziale schema compositivo, non è difficile osservarne le possibili manifestazioni un po’ a tutti i livelli: dai modi di definizione della situazione enunciativa a quelli di configurazione della scena rappresentata, fino ovvia-mente agli aspetti più strettaovvia-mente linguistico/stilistici e metrici (cui in parte si è già ac-cennato). Di sicuro una delle direttrici di trasformazione più evidenti – non per caso da sempre variamente rilevata dagli studiosi – riguarda appunto la tendenziale introflessione del regime retorico del discorso lirico, attraverso il vario slittamento, che non esclude

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pe-rò tante possibili formazioni di compromesso e modulazioni spurie, da un orientamento enunciativo di stampo essenzialmente pubblico/oratorio, innodico, ispirato al paradigma convenzionale del canto, verso uno di tipo più intimo e privato, al limite auto-comunicativo: che anche sul piano stilistico tende a modellarsi sui modi dell’annotazione ellittica, o della mormorazione fra sé e sé, simulando un pensato variamente verbalizzato o orientandosi alla varia riproduzione di un magmatico mondo (sub)coscienziale di sen-sazioni inarticolate e intuizioni pre- o ultra- verbali. Se è facile inquadrare in quest’ottica una serie di caratteristiche stilistiche diffuse della poesia post-simbolista, si può dire che la medesima dinamica trasformativa faccia da sfondo alla rimodulazione impressa in quel contesto al classico modulo della apostrofe o della simulazione allocutiva.

Capitale dispositivo retorico e vera figura-emblema della discorsività di genere lirico, che agisce «not troping on the meaning of a word but on the circuit or situation of communication itself» (Culler 144), l’apostrofe è già in qualche modo inscritta nell’immagine con cui Frye (sulla scorta di John Stuart Mill) definisce il «radicale di pre-sentazione» della lirica moderna come quello di un discorso pronunciato voltando le spalle al proprio pubblico reale, per rivolgersi invece a interlocutori fittizi o assenti (pur sapendo ovviamente qual è il proprio vero uditorio).3 Spesso liquidata come un semplice residuo convenzionale del discorso poetico, di fronte a cui è impossibile non provare un certo imbarazzo, nella lettura di Jonathan Culler l’apostrofe è la vera traccia di ciò che c’è di più radicale, estremo, mistificatorio nella lirica. La forza ottativa/imperativa che essa esprime presupporrebbe una fiducia nella possibilità di «rendere gli elementi dell’universo forze responsive» (149), riattivando una dimensione di ritualità originaria in cui al discor-so poetico, e al poeta stesdiscor-so, è riconosciuta la capacità di «far accadere qualcosa» attraver-so il proprio strano atto verbale (150). Attraverattraver-so l’apostrofe il poeta istituisce inattraver-somma una relazione Io/Tu con gli elementi del reale attraverso cui lui stesso si costituisce come una «presenza poetica», il depositario di uno «spirito poetico» in grado di intrattenere «un dialogo con l’universo» (152).

Si potrebbe allora osservare, anzitutto, che l’inscrizione del discorso lirico entro una cornice diaristica produce un doppio effetto di neutralizzazione e naturalizzazione di questo tradizionale rapporto fra discorso lirico e apostrofe. Da un lato essa favorisce cioè una spiccata tendenza a stemperare o spegnere le movenze allocutive del discorso lirico in una più o meno varia e screziata gamma di modulazioni discorsive di tipo (au-to)diegetico. Dall’altro lato, nella misura in cui quelle movenze allocutive si ripropongo-no (con la loro valenza di forze imperative/ottative per un universo responsivo), è la loro specificità in quanto moduli marcatamente poetici ad essere bruscamente attutita, grazie 3 Una prospettiva in parte analoga è quella sviluppata da noi da Giuseppe Bernardelli, secondo cui il

poeta lirico «si trova inevitabilmente diviso tra due logiche opposte, che inducono di necessità antitetici procedimenti comunicativi: da un lato, costitutiva del discorso lirico, c’è […] la logica della

presenza», il fatto cioè che esso simula un discorso situato «‘in presenza’, come se si stesse rivolgendo a

qualcuno che si trova dinnanzi e condivide lo specifico sapere connesso alle circostanze di enunciazione». Da qui derivano una serie di tratti strutturali della testualità lirica, quale «il suo carattere allocutivo o apostrofale; la sua apertura o indeterminazione complessiva; la tendenziale brevità e addirittura frammentarietà», eccetera). Dall’altro lato, però, «ugualmente costitutiva dell’enunciazione lirica è la distanza di fatto […] del destinatario vero, che è il lettore»: da qui una «logica della distanza», orientata appunto al lettore e alla chiusura del testo, di cui sarebbero spia un po’ tutti i fattori di «‘poetizzazione’, di elaborazione estetica del discorso» (a partire dal «titolo», passando per le varie «forme della ridondanza semantica testuale», per arrivare ai modi di «allestimento della raccolta») (G. Bernardelli 279–302).

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all’omologia con una famiglia di atti o attività verbali (e mentali) molto più quotidiana e prosaica. Il fatto che la relazione retorica fittizia io-apostrofante/tu-apostrofato sia tra le opzioni abitualmente adottate o adottabili nelle vere scritture diaristiche, fa sì che anche nella poesia novecentesca possa essere percepita come un dispositivo abbastanza norma-lizzato di drammatizzazione del sistema di relazioni che definiscono il soggetto (lungo gli assi io-io, io-mondo, io-altri) non anzitutto in quanto poeta, ma in quanto individuo che riflette su di sé di fronte allo schermo/specchio della pagina. Mai come nel Novecento insomma il «tu / falsovero dei poeti» (Sereni, Niccolò vv. 16–17) non è affatto prerogativa esclusiva dei poeti. E in effetti è chiaro che la vera novità del modulo diaristico, da que-sto punto di vista, sta proprio nella sua possibilità di modellizzare quella specialissima, anomala, contraddittoria forma di interazione verbale che è la scrittura/lettura lirica at-traverso una forma extraletteraria di attività verbale scritta, funzionale all’estroflessione discorsiva di un rovello emotivo e/o riflessivo di natura essenzialmente mentale, co-scienziale (cioè a rigore non o pre- verbale).

Non solo. Uno dei più vistosi effetti rimodulanti del paradigma diaristico sull’assetto della tradizionale scena lirica, in quest’ottica, riguarda la sua spiccata propensione a favo-rire una sensibile movimentazione della situazione enunciativa, tanto in un’ottica macro-testuale quanto in relazione al modo in cui la voce percepisce e parla, ricorda e rappre-senta, esperisce e valuta (ed eventualmente ‘narra’) all’interno dei singoli testi.

Il primo banale rilievo è che raramente un libro lirico-diaristico presenta una modalità enunciativa univoca e stabile all’interno di tutte le poesie che lo compongono (da qui an-che i limiti delle prospettive di descrizione generica ancorate ad un’ottica strettamente testuale). Più tipicamente, esso prevede invece una certa varietà di modi atteggiamenti posture: con un effetto di instabilità o volubilità retorico/enunciativa che può ricordare certi suggestivi rilievi di Erving Goffman a proposito dei continui cambi di footing genera-ti, nelle interazioni faccia a faccia, dai sottili stratagemmi di switch code retorico/stilistico attraverso cui il parlante è in grado di ridefinire, implicitamente, la struttura della scena d’interazione ‘reale’ in cui è coinvolto, sovrapponendovi una scena retorica diversa (ad esempio selezionando, all’interno del proprio uditorio, il destinatario ultimo del proprio discorso, e conseguentemente riassegnando a tutti gli altri astanti un sistema di ‘ruoli’ cui attenersi) (cfr. cap. “Footing” in Goffman 175–216). In modo non dissimile si può dire che, se ogni scrittura diaristica è anzitutto uno strumento di drammatizzazione di un atto autoriflessivo, anche all’interno dei diari poetici novecenteschi più egoticamente centripe-ti il più o meno mosso balletto di posture cui l’oscillare della voce dà luogo, di testo in testo (anzitutto alternando diegesi memoriale e autodiegesi in praesentia, moduli apostro-fali/allocutivi e cadenze argomentativo/commentative), costituisce già un minimo, es-senziale strumento di teatralizzazione degli spazi di dialogismo che strutturalmente si schiudono all’interno di una soggettività esposta alla temporalità spiccatamente «attimale» (Mazzoni), fenomenicamente parcellizzata e contingente prefigurata nel (meta)cronotopo diaristico. C’è insomma nella logica macrotestuale della forma-diario un potenziale di demoltiplicazione e diffrazione problematizzante della struttura dell’io (e dunque della sua parola, del suo punto di vista) che nei casi di messa a frutto più intensiva e consape-vole può addirittura condurre a effetti di noteconsape-vole complessità polifonica (per fare un no-me su tutti, è il caso dei libri maturi di Vittorio Sereni): benché, di nuovo, si tratti di una polifonia di specie con tutta evidenza diversa da quella tradizionalmente associata al ge-nere del romanzo (se non altro perché, per dirla in modo un po’ rapido e rozzo, a strut-tura piuttosto o prevalentemente paratattica che non gerarchico/ipotattica, come invece avviene nella più mediata diegesi romanzesca).

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In modo certo meno sistematico, una dinamica analoga può instaurarsi d’altronde an-che all’interno dei singoli testi lirico/diaristici. È indubbio ad esempio an-che una delle ri-sorse più peculiari di quel particolare tipo di riuso simulatorio e finzionale della forma-diario che è il forma-diario poetico consista nella collocazione dell’io in scena, in una condizio-ne di palpitante prossimità, di inclusiocondizio-ne immersiva e adesiocondizio-ne quasi immediata all’evento o stato mentale rappresentato nel testo. La simulazione di ‘presa diretta’ – o per meglio dire, la simulazione di simultaneità fra regime dell’esserci e regime del dire (fra il presente dell’io-personaggio implicato in una esperienza e quello dell’io-voce impegna-to a restituircela nel suo farsi) – configura una situazione reimpegna-torico/rappresentativa parti-colarmente complessa e sofisticata, che induce a riprodurre anche nella struttura dei sin-goli testi quel caratteristico nesso fra enunciazione intercalata e intermittenza soggettiva che co-stituisce la marca distintiva del genere a livello macrotestuale. Da qui un effetto di forte articolazione e sgranatura interna della struttura della singola scena testuale: anche se poi, come è ovvio, l’attivazione di questo regime di co-embricazione e intreccio fra evento e pensiero, impressione e parola, esperienza e restituzione dell’esperienza, resta pur sempre disponibile a veicolare esiti quanto mai vari (oscillanti fra un massimo di valorizzazione degli effetti di rarefazione e quasi dissoluzione coscienziale ovvero di diffrazione pro-spettica e movimentazione scenico/narrativa della rappresentazione lirica).

Altrettanto rilevante, su un piano diverso ma interrelato, è la rimodulazione che ri-guarda le coordinate di spazio e tempo tanto della rappresentazione quanto e per certi versi anzitutto dell’enunciazione poetica. Già Bachtin, si sa, individuava una delle specificità differenziali decisive della narrazione romanzesca rispetto a quella epica nella rottura del-la assolutezza assiologico-temporale in cui era strutturalmente collocato il passato eroico dell’epos. In modo non dissimile, si potrebbe dire che il più intenso potenziale di ancorag-gio situante implicito nella forma-diario tende a far precipitare il regime di inerziale astrattezza e assolutezza assiologico/temporale del presente canzonieristico in un qui ed

ora storico/biografico determinato e contingente, aperto e inconcluso, relativo e

relazio-nale. Al modello del diario è connessa cioè una sorta di trascendentale cronotopico – un meta-cronotopo della situatezza immersiva/parcellizzata – la cui attivazione come agente di rimodulazione generica della forma-canzoniere (in quanto paradigma del libro lirico), non può che apparire allora, di nuovo, che come un momento di piena maturazione e nuova problematizzazione del processo trasformativo avviato un secolo prima, nella poesia occidentale, con il passaggio a quel nuovo modello di autobiografismo che Maz-zoni chiama empirico (vivificato da una inedita, post-romantica disponibilità alla rappre-sentazione seria della contingenza e dell’individuale). In effetti il modello diaristico sem-brerebbe costituire un’incarnazione esemplare di quella fondamentale vocazione

narcisisti-ca che narcisisti-caratterizzerebbe la poesia moderna come forma simbolinarcisisti-ca:

La visione della realtà cristallizzata nella nostra forma simbolica sembra attraversata da due faglie profonde. La prima, la più visibile, è l’isolamento dell’io dai propri simili, l’interruzione della catena sociale che lega gli individui in sistemi di reciproca dipendenza esteriore e interio-re; la seconda, meno visibile ma altrettanto importante, è l’interruzione della catena cronologica che lega gli istanti della vita fra loro, in una continuità ideale che la narrativa coglie sotto forma di trama. Accentuando una deriva immanente alla struttura della forma lirica, la poesia de-gli ultimi due secoli tende a calcare la natura attimale ed epifanica del monologo soggetti-vo, come se la frantumazione si fosse diffusa all’interno dell’esperienza stessa e avesse se-parato i pochi momenti di vita significativa dal corso insensato di un destino sempre ugua-le. (Mazzoni 212–13)

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Non c’è dubbio che una delle risorse precipue del libro diaristico consista nella varietà di modi con cui questo sentimento del tempo eminentemente attimale, segmentato e sconnesso si traduce in, e combina con, la più o meno elusiva evocazione del regime di continuità della storia di sfondo dell’io personaggio e del mondo in cui vive. Al di là delle contrapposte inclinazioni espressive che può legittimare, la costitutiva collocazione della voce in questa condizione di massima prossimità, adesione, allacciamento confusivo alla propria esperienza e nel contempo di massima precarietà, limitatezza prospettica, esposi-zione ad effetti di dispersione e lacuna è ciò che definisce in qualche modo il dispositivo strutturale basilare di ogni macrotesto diaristico. Epperò ciò non sembra affatto implica-re la necessità di un forte aumento del numero, dell’intensità, della pimplica-recisione dei riferi-menti al contesto di realtà dell’esperienza del soggetto. Intanto perché l’allacciamento dell’io al suo intorno esperienziale – segnalato da elementi di deissi e indessicalità di vario genere – può prescindere dalla espressione di date e riferimenti storico/sociali, toponimi e indicatori spaziali, nomi di persone o personaggi (che tutt’al più potranno concorrere a connotare un certo tipo di diarismo – e di realismo). Del resto in molti casi di simulazione diaristica forte l’esibizione di indicazioni di data e luogo in calce ai testi può paradossal-mente convivere con – e anzi favorire/legittimare – una estrema rarefazione degli indici di situazionalità all’interno delle poesie. Passibile di spingersi verso periferie paratestuali anche molto più esterne (titoli, epigrafi, note a piè di pagina o in fondo al libro, autom-menti esterni), questa strategia di espunzione o confinamento ai bordi limitrofi del testo di dati informativi che il discorso poetico non esplicita, pur essendo variamente utili alla sua decifrazione, è del tutto coerente del resto con la caratteristica simulazione di auto-comunicatività (o comunque di privatezza) che fonda ogni scrittura lirico-diaristica, in-scrivendovi una destinazione finzionale spostata rispetto a quella del lettore reale.

È evidente d’altronde che una forma estetica caratterizzata dalle due cruciali «faglie» indicate da Mazzoni è già segnata da una incandescente ambivalenza costitutiva. È cioè sintomatico che, da un lato, il genere egocentrico per antonomasia del sistema della lette-rarietà moderna sia anche quello che più insistentemente, in specie nelle sue declinazioni novecentesche, ha messo in figura e assunto come filtro rappresentativo uno stato di cri-si o indebolimento, danneggiamento o perdita, sfiguramento o malfunzionamento dell’io; e che però le prassi individuali e i programmi intersoggettivi all’insegna della varia pro-blematizzazione e riduzione dell’io (ma persino dell’aperto antisoggetivismo o antiliri-smo) non siano affatto garanzia – come la storia della poesia dell’ultimo secolo illustra oltre ogni possibile dubbio – di un approdo a paradigmi espressivi e rappresentativi di stampo più ‘oggettivo’ (o per meglio dire, ancorati ad un più spiccato fondamento di ri-conoscibilità intersoggettiva). Come ha scritto di recente Christine Ott, nella prefazione a un volume collettivo dal titolo eloquente (Costruzioni e decostruzioni dell’io lirico nella poesia

italiana da Soffici a Sanguineti), «rinunciare a dire “io” non significa necessariamente

rinun-ciare ad una forte soggettività lirica, e inversamente anche “dire io, io” non è forse sem-pre segno di narcisismo poetico» (Ott 11).

In questo quadro, il territorio circoscritto dal genere del diario o, per dir meglio, dallo spettro di modulazione generica della diarizzazione del canzoniere, è più propriamente quello delle esperienze di scrittura che – al di là della varietà delle loro configurazioni testuali – si danno (nascono e/o si ricompongono) nella forma macrotestuale del libro lirico, caratte-rizzato dai dispositivi della enunciazione intercalata e della intermittenza soggettiva. Fuo-ri dal nostro peFuo-rimetro stanno dunque, essenzialmente, i libFuo-ri che infrangono l’uno o l’altro di quei vincoli costitutivi (o entrambi), presentandosi come organismi macrote-stuali costruiti investendo su altri principi: di stampo ad esempio poematico/narrativo,

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con una logica di articolazione discorsiva; ovvero a matrice catalogico/seriale, secondo i modi dell’allestimento espositivo (Ghidinelli 176–208). Dentro quel perimetro stanno in-vece, in un rapporto di competizione concorrenziale, proposte che ne declinano nei mo-di più vari l’elementare formula macrotestuale mo-di base: dal Porto sepolto mo-di Ungaretti a

Ac-que e terre di Quasimodo a Ossi di seppia di Montale; da Gli strumenti umani di Sereni o La vita in versi di Giudici, a Le mie poesie non cambieranno il mondo di Cavalli o Ora serrata retinae

di Magrelli.

Ecco allora che all’insegna della diarizzazione del canzoniere è poi possibile inquadra-re anche una serie di altri fenomeni implicati nella ridefinizione della postura eti-co/psicologica e conoscitiva del soggetto, nella spiccata tensione novecentesca all’incrinatura delle sue doti di integrità, sicurezza, autorevolezza. A riguardo possono ri-sultare illuminanti alcune indicazioni proposte da Gilberto Lonardi, in particolare, in re-lazione alle raccolte mature di Sereni (messe a confronto con il maggiore Montale), ma evidentemente disponibili, almeno entro certi termini, ad una più larga generalizzazione:

L’assenza di una anche imperfetta forma di canzoniere comporta l’estraneità – in una poe-sia che pure si sa quanto straordinariamente giochi alcune delle sue carte sul dialogato – l’estraneità a un dialogo continuo, fondante, ontologico con e per il Femminile. […] Que-sto vuole l’apetrarchismo di ogni assetto “a diario”, e queQue-sto forse ha appreso o riappreso da Sereni il Montale ultimo. […] Ma in Montale non esiste affatto la forte componente di pensiero della colpa che c’è in Sereni – col che anzi Sereni crea una specie di distanza clas-sica per Montale. In Sereni il personaggio-io sbanda, tradisce (Nella neve), è puer davanti dall’ombra del padre, nel Muro; l’anima stessa non è che «una fitta di rimorso» (Intervista a un suicida): perché possano coltivarsi i «rimorsi e pensieri di colpa» di questo eroe senza re-quie, «sempre in ritardo» […] occorre che non ci siano scappatoie: in particolare, che non spunti una figura di espiazione e riscatto. Per questo il «pensiero della colpa» e l’assenza della Mediatrice fanno tutt’uno in Sereni. Se la Donna è partecipe della potenza e della pienezza, rinunciarvi come a tramite cardinale significherà infine che non si intende gio-varsi dell’ambiguità stessa della finzione poetica per un compenso e una maschera alla de-bolezza e incompletezza dell’io. (Lonardi 110–12)

Di nuovo, insomma, il ruolo rimodulante/dinamizzante del riferimento al diario si misura anche nel suo valore funzionale – di volta in volta attivato in misura variabile, e non sempre col medesimo grado di consapevolezza – di rifiuto o perdita o drammatica problematizzazione, se non altro, dei «valori sedimentati» nella forma del canzoniere. La rinuncia alla funzione di compenso e soccorso del Tu femminile (o, che è in qualche modo lo stesso, la schietta rimodulazione in senso prosaico, quotidiano, esperienziale della relazione amorosa) è in questo senso un altro dei risvolti emblematici della profon-da istanza di disincanto della parola lirica che la diarizzazione del canzoniere comporta ed esprime. E non stupisce allora che Lonardi – sempre sulla scorta dell’esempio sereniano ma, di nuovo, cogliendo un punto di rilevanza critico/teorica più generale – associ que-sto capitale asse di opposizione a quello che si attiva, su un piano più squisitamente for-male, in relazione al «tetto» o «riparo» (qui la formula mutuata è caproniana) della metrica tradizionale: altra guarentigia istituzionale di autorevolezza e legittimazione del discorso della poesia rispetto a cui, nel diarismo poetico novecentesco, è sempre implicato un più o meno acuto senso di danneggiamento o perdita (percepibile in filigrana anche nella mossa del recupero/restauro postumo). Canzonieri disincantanti, i diari in versi dell’ultimo secolo sono anche libri di poesia «sempre più senza canto» (109) o, comunque, destinati a rifondare inventivamente, ogni volta, la propria eventuale, residua possibilità di ‘canto’.

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Nella loro schematica essenzialità, comunque, le considerazioni qui abbozzate eviden-ziano già abbastanza chiaramente come quella del diario poetico sia da intendersi come una forma generica lasca, proteiforme, disponibile ad attualizzazioni eterogenee e persino divaricate (sia in sincronia sia in diacronia). Questo anche e proprio in ragione del suo emergere e affermarsi, piuttosto che come paradigma generico veramente autonomo e indipendente, come forma lirica concorrenziale e alternativa a – ma anche strutturalmen-te in dialogo con – l’aureo e in un certo senso ormai inattingibile modello tradizionale del canzoniere. Il sistema di polarità strutturali che se ne ingenera resta così disponibile ad essere risolto, di volta in volta e da ciascun poeta, secondo intenti e con equilibri quanto mai vari, anche perché la dialettica trasformativa può attivarsi e incidere in modo anche molto asimmetrico sull’una o sull’altra delle coordinate della scena testuale (e macrote-stuale): con effetti di forte squilibrio e tensione (di «scoscendimento delle componenti stilistiche», secondo un’icastica formula di Fortini 351) che lungi dal potersi intendere come difetti costruttivi o indizi di incompiutezza, rappresentano spesso risvolti piena-mente intenzionali ed esteticapiena-mente attivi di una proposta espressiva.

È su questo sfondo che Pianissimo di Sbarbaro può davvero essere letto come un esempio paradigmatico di attualizzazione del paradigma diaristico in un modernissimo libro lirico.

2. Sul palcoscenico dell’attimo: cronotopo diaristico e instabilità

enunciati-va in Pianissimo

Per la verità è sintomatico che, nella lunga e ricca tradizione di studi sbarbariani, sia tutt’altro che rara la propensione ad identificare l’opera, sul piano del genere, anche o piuttosto come un poemetto (lo stesso Polato, nel saggio citato in apertura, alterna le due formule di identificazione senza tematizzarne la dissonanza). È un uso che intende sotto-lineare la forte coerenza e compattezza dell’opera, anche se per come Sbarbaro lo ha ef-fettivamente composto (almeno secondo quanto è possibile ricostruire)4 e per i tratti es-senziali con cui si presenta (gli stacchi di pagina al termine di ogni poesia, le indicazioni di data al temine di ciascuna delle due parti), Pianissimo non sembra concepito come un

unico componimento suddiviso in parti ma semmai, appunto, come una raccolta di poesie

distinte – benché caratterizzate da una spiccata organicità e delineanti nella loro sequenza un ‘percorso’ significativo. Vero è che lui stesso– nella prefazione scritta per la ristampa del ’54 presso Neri Pozza – ha descritto retrospettivamente il suo «secondo libretto di versi» come «una specie di sconsolata confessione fatta a fior di labbro» a sé stesso

(L’opera in versi e in prosa 473, corsivo mio). Indicazione da cui appare difficile però desumere davvero un intento di unitarietà costruttiva, e che semmai contiene altri motivi di sugge-stione: a dispetto della sua persistente inerzia quasi-orale, la metafora della mormorazio-ne fra sé (ma potremmo dire: della trascriziomormorazio-ne di una serie di mormorazioni fra sé) trasla l’immagine tradizionale del canto poetico in una zona dello spettro diamesico molto vici-na, per così dire, a quella delle scritture private; una zona entro la quale la stessa «implici-4 Pur in assenza di riscontri documentari puntuali, Antonella Padovani Soldini ha potuto congetturare

una sostanziale omologia – che pure non esclude lievi spostamenti significativi– fra l’ordinamento dei testi e la cronologia di composizione: ciò che consentirebbe di «guardare a Pianissimo, alla vicenda che vi è tracciata, come a un prodotto della più immediata autobiografia, con tutto che la raccolta presenta i requisiti di un canzoniere che ospita lo svolgimento di una vicenda ideale» (Padovani Soldini 49).

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ta teatralità, sia pure monologica, del genere confessione», ben notata da Zublena (47), può in effetti apparire una risorsa del tutto tipica della drammatizzazione auto-comunicativa del diarismo in versi.

La specifica funzionalità del sistema di risorse strutturali che Sbarbaro mette a frutto, nel modellare il suo compatto e calibratissimo macrotesto secondo un modulo di genere distinto e alternativo a quello del poemetto, emerge invero piuttosto bene già nella de-scrizione condensata ma icastica che Franco Gavazzeni tratteggia, introducendo lo studio di Padovani Soldini, quando descrive Pianissimo appunto come un «diario […] per fogli d’album» le cui pagine

illuminano l’attimo della presenza, dell’apparizione, della memoria, o denunciano l’assenza di ogni sensazione, la stasi, e preparano il risorgimento, il movimento dialettico di un con-trapporsi disperato di certezze apodittiche e di delusioni altrettanto drastiche, ben rispon-dente a quello che Sbarbaro confessava di avere di più vivo: “il senso della provvisorietà”, conforme alla sostanza dell’amato lichene, né «una crittogama né l’associazione di due, ma solo un conflitto: un fenomeno dunque e di distruzione, paragonabile a quello di due so-stanze che venute a contatto si elidono». (7)

La citazione sbarbariana viene da uno degli ultimi frammenti in prosa raccolti in

Fuo-chi fatui, che vale forse la pena rileggere rapidamente per intero per il suo valore di

fulmi-nea autodiagnosi retrospettiva:

Finalmente! Leggo in un libro, l’ultimo uscito sulla controversa questione, che il lichene non è una crittogama né l’associazione di due, ma solo un conflitto: un fenomeno dunque e di distruzione, paragonabile a quello di due sostanze che venute a contatto si elidono.

Capisco adesso perché questa passione ha attecchito in me così durevolmente: rispon-deva a ciò che ho di più vivo, il senso della provvisorietà.

Sicché per buona parte della mia vita avrei raccolto, dato nome, amorosamente messo in serbo… neppure delle nuvole o delle bolle di sapone – che per un poeta sarebbe già bello: ma qualcosa di più inconsistente ancora: delle effervescenze, appunto.

Saluto con trasporto la nuova interpretazione e l’abbraccio: nessun bilancio a tanti anni di ricerche andrebbe più a genio a chi vive nell’attimo. (L’opera in versi e in prosa 530–31)

In effetti tanto la struttura di Pianissimo quanto l’assetto di molti dei singoli testi che lo compongono traggono buona parte della loro più persistente carica di vitalità estetica proprio dalla capacità di sceneggiatura, insistita quanto variata, di questo «senso della provvisorietà». Nella poesia sbarbariana si manifesta non solo e non tanto come tema esplicito, ma attraverso la teatralizzazione spinta – all’interno dei testi come nel libro – della sussultoria alternanza di posture atteggiamenti gesti di un io-personaggio inchiodato all’orizzonte sempre transeunte e precario di un presente invalicabile, e nel contempo inabitabile. Un qui ed ora spietatamente situante epperò anche radicalmente alienante, che mortifica ogni tensione all’altrove o all’altrimenti proprio mentre esilia l’io da ogni possibilità di autoriconoscimento e coincidenza con sé stesso.

Vero è che questo così ambivalente, paradossale a priori strutturale della situatez-za/alienazione dell’io è a sua volta caratterizzato, in quanto scenario rappresentato, da una vistosa ambiguità. Dei tre poli che definiscono lo spazio entro cui l’io personaggio di

Pianissimo si muove – l’interno domestico/familiare, gli esterni naturali, gli esterni urbani

– è indubbiamente quest’ultimo a plasmare la struttura cronotopica del libro, istituendo un regime rappresentativo cui anche gli altri poli sono sottoposti. L’evidenza ossessiva della sua presenza e la forza della sua influenza modellizzante (che senz’altro consentono

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di vedere in Pianissimo un libro «interamente ambientato nella città, come accade forse per la prima volta per un ‘poemetto’ nella letteratura italiana» – secondo la classica nota-zione di Bàrberi Squarotti, 61 – imprecisa però quanto al genere!) si accompagnano però ad un vigoroso processo di riduzione essenzializzante dei suoi connotati, che la depriva anzitutto di un nome, di una toponomastica interna, insomma degli indici più immediati della sua identificabilità in quanto luogo del mondo storico. Ciò è vero soprattutto nella

Parte prima, dove l’ambientazione urbana è ad un tempo meno sistematicamente ribadita

(specialmente nella zona centrale, occupata da una singolare forma di asserragliata intro-spezione teatralizzata/oggettivata dalla ingombrante mediazione del modulo apostrofale) e investita da una più forte stilizzazione rastremante: emblematico, in I, 4, l’effetto disi-dentificante dello sguardo dell’io, che agisce rovesciando sul fuori il proprio senso di espropriazione: sicché la città gli pare essersi «fatta immensamente vasta e vuota», un astratto reticolo di «vie simmetriche e deserte» (vv. 7 e 11).5 Ma anche nella Parte seconda, dove il motivo baudelairiano dell’attraversamento della città, nei luoghi della Perdizione e della Lussuria, definisce la reiterata sceneggiatura-base di quella che Polato ha chiamato la «saison en enfer» di Sbarbaro (Pianissimo 135), l’indubbio inspessimento delle modalità di rappresentazione dello spazio urbano (già intuibile dall’esordiale II, 1 – da confrontare anche per questo, nella zona centrale dei vv. 8–17, con l’assai più stilizzato elenco di I, 1, vv. 15–18; ma evidente poi soprattutto nelle ampie strutture catalogico/accumulative di poesie come II, 3 e II, 7) non permette ad esempio una precisa identificazione della città di Pianissimo con la Genova biografica dell’autore (al di là della presenza del porto in I, 3 o dei fondaci in II, 3).

È una dinamica che è stata interpretata e si può interpretare variamente, alla luce di una pluralità di cause che in larga misura appaiono invero intersecate e concorrenti piut-tosto che alternative: la spiccata propensione dell’io personaggio alla introflessione lirica del mondo esterno; la forte spinta analitico/conoscitiva – emblematicamente espressa dal ricorrente motivo degli «occhi chiari» – ad una riduzione del reale ai suoi termini essen-ziali; la propensione al rovesciamento sul fuori del senso di disidentificazione che estra-nia l’io da sé stesso. Certo è che lo scenario di Pianissimo resta uno di quegli elementi, di quei «miti» e «figure» con cui Sbarbaro «recupera alla cultura italiana la grande lezione di Baudelaire, innestandola su quella di Leopardi» (come ha scritto Polato, sulla scorta della capitale «jonction» suggerita da Gilberto Lonardi) e mostrando così come «la forma con cui interpreta la crisi storica di quel primo scorcio di secolo affonda la radici in un altro processo, quello del disagio o della possibilità della poesia moderna» (Pianissimo 18). In particolare la città si costituisce fin da subito – baudelairianamente, appunto – come la matrice cronotopica del capitale motivo del «crollo» e della «sparizione dell’esperienza» (ivi), della sua atrofizzazione e riduzione ad Erlebnis (secondo appunto le note categorie del Benjamin lettore di Baudelaire). Ed è certo nel quadro di questa personale modalità di riappropriazione del «problema antropologico della grande città e del cambiamento radi-cale delle forme della percezione che esso comporta» (Romanello 232) che l’io-personaggio di Pianissimo può anche mettere in figura alcuni tratti caratteristici del «tipo 5 Secondo una consuetudine critica ormai invalsa, che qui non è necessario giustificare ulteriormente, il

mio testo di riferimento è il Pianissimo della princeps del 1914, in particolare per come si legge nell’edizione curata da Lorenzo Polato, nel 2001, per Marsilio (sulla scorta di quella già approntata per Il Saggiatore nel 1983). Da quell’edizione mi scosterò sistematicamente soltanto per la numerazione dei versi, che là conteggia sempre i due cola di un verso a gradino come due versi distinti (io assumerò invece che facciano parte di un unico verso).

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umano metropolitano» descritto da Georg Simmel (l’individuo blasé, col suo atteggiamen-to di «indifferenza crescente verso la realtà», per cui «i nervi trovano nel rifiuatteggiamen-to a reagire alla loro stimolazione l’ultima possibilità di adattarsi ai contenuti e alle forme della vita metropolitana», Romanello 233).6

Quel che qui conta mettere in luce, comunque, è che lo strumento capitale di questa operazione rappresentativa – nonché uno dei più forti motivi di originalità del libro – è proprio l’iridescente impiego del dispositivo diaristico della enunciazione intercalata, e insomma la peculiare raffinatezza e sensibilità con cui Sbarbaro attualizza e rimodula la situazione retorico/rappresentativa dell’intermittenza soggettiva: dando forma così al fi-brillante e labirintico qui ed ora cui è ancorata non solo l’espropriata situazione esisten-ziale dell’io personaggio, continuamente reificato in una incomponibile deriva attimale, ma anche e soprattutto la posizione dell’io voce, condannato a patire il colloso invischiamento in quella medesima condizione, a scontare l’assenza di distanze e spiragli prospettici che consegue alla asfissiante prossimità di sé a quel proprio sé parcellizzato e disidentificato. La varia e ricca fenomenologia di oscillazioni e pendolarità, avvitamenti e sconnessioni di cui il soggetto di Pianissimo si rivela vittima – ad entrambi i livelli, e tanto nello sviluppo dei singoli testi, in verticale, quanto nell’articolarsi orizzontale della loro sequenza – ma-nifesta allora la propria funzionalità in quanto sofisticato strumento e addirittura oggetto dell’auto-rappresentazione. Tutte le letture più acute del libro hanno di fatto finito per convergere nell’evidenziare il ruolo esteticamente cruciale giocato da questa inclinazione sbarbariana a mettere in tensione – un po’ a tutti i livelli della compaginazione testuale – polarità o spinte dissonanti, discordi, conflittuali. Paolo Giovannetti è stato fra i primi ad insistere, ad esempio, sugli effetti di riverbero che le brusche increspature ritmiche e i se-greti disturbi di una metrica altrimenti quasi monotona esercitano, agendo contropelo al-le strutture della sintassi, sulla tenuta della progressione logico-argomentativa e rappre-sentativa del discorso: con un «effetto conclusivo» di erosione o logoramento e brusco «aumento dell’incertezza semantica» (Giovannetti 108). È una dinamica non dissimile da quella che individua Vittorio Coletti quando osserva che in Pianissimo «la sovrabbondanza dei segni dell’io», l’«effetto di soprassaturazione impressionante» determinato dalla loro esposizione «anche là dove grammaticalmente non richiesto», è in realtà una sorta di ro-vescio compensatorio (e dunque anche una spia o prova) di una «riduzione della consi-stenza, della continuità psicologica dell’io»: tanto più che poi «anche l’io grammaticale ri-flette la flebilità di quello psicologico e intellettuale, sdoppiandosi a sua volta (…), diven-tando oggetto della visione di un soggetto che vede se stesso come fosse un altro» (Co-letti 27). Questa fondamentale ambivalenza e instabilità del soggetto poetico di Pianissimo – non luogo «in cui si sintetizzano (per quanto nevroticamente) pulsioni e sensazioni op-poste» ma «il molteplice e irrelato collettore di tanti io diversi, contraddittori, tutti veri allo stesso modo» (34) – è anzi uno dei principali fattori di movimentazione del libro, la cui «ristretta gamma tematica» potrebbe persino ingenerare «la sensazione della monoto-nia, della ripetitività», se non fosse animata e mossa da una inquieta ed ossessiva «pendo-larità, in cui la ricorsività tematica introduce uno spostamento ora verso l’uno ora verso l’altro polo» (36).7

6 Non la pensa così invece Perli 93–108.

7 Su questo aspetto insiste anche il recentissimo contributo di Alessandro Viti, secondo cui in

Pianissimo le «posizioni estreme di rifugio dell’interiorità («mi serro cieco e guardo in me») e di

cancellazione della stessa («in me stesso non guardo perché nulla vi troverei»), per quanto provvisorie, non vengono mai risolte in un punto mediano di dialettica riconciliazione degli opposti, bensì

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Sono indicazioni di lettura che, in definitiva, concorrono nel delineare quella di

Pianis-simo come una operazione di sfruttamento quasi-drammatico dei tratti caratterizzanti e

costitutivi della situazione diaristica (di Pianissimo come «monologo drammatizzato» parla appunto Coletti 28): piuttosto che per esprimere la propria soggettività in modo lirica-mente immediato, l’adozione della forma diario serve cioè al poeta-regista Sbarbaro co-me piattaforma per la co-messa in scena di un insistito teatro dell’io, funzionale non tanto alla rappresentazione e allo scandaglio di una postura esperienziale e intellettuale (al sin-golare) quanto di un peculiare modo o regime di irrisolta compresenza e sclerotizzata al-ternanza coatta fra una pluralità contraddittoria di atteggiamenti o posture.

Anche ad una rapida ricognizione preliminare, non è difficile osservare come Sbarba-ro adotti, a tale fine, una selezione relativamente semplice eppure significativamente va-riata di modi di impostazione della situazione enunciativa. Schematizzando un po’, si può dire che sono sostanzialmente tre le opzioni-base che, alternandosi e in parte anche ibri-dandosi, informano i ventinove testi della raccolta (diciannove nella prima sezione, dieci nella seconda).

Le due più diffuse, con un’incidenza complessiva sostanzialmente analoga, sono quel-le caratterizzate dal ricorso, rispettivamente, al modulo della apostrofe o comunque dell’allocuzione (quattordici occorrenze) e a quello della autodiegesi durativa/iterativa (una dozzina di casi). Questi due preponderanti moduli-base costituiscono la piattaforma retorico/enunciativa entro cui si innestano, come momentanee increspature o complica-zioni secondarie, le stesse rare emergenze di una diegesi retrospettiva – come soprattutto avviene nelle due poesie dedicate al padre (I, 7 e I, 17) e nell’ampia rievocazione di una scena d’infanzia su cui si apre II, 2. Né è difficile cogliere i primi indizi della logica che presiede all’alternanza fra le due opzioni – e dei suoi effetti di lettura in un’ottica macro-testuale: mentre infatti il ricorso all’apostrofe è largamente concentrato nella Parte prima, dove informa ben 11 dei 19 testi totali, quello alla diegesi iterativo/durativa – pur presen-tando una distribuzione più omogenea – ha una incidenza relativa molto maggiore nella

Parte seconda, dove è ravvisabile in ben 7 dei 10 testi totali. Ma su questo avremo modo di

tornare più avanti.

Una presenza più ambigua caratterizza invece il terzo modulo enunciativo, quello cioè della autodiegesi in praesentia, in cui l’io si manifesta al tempo stesso e inscindibilmente come voce e personaggio, riferendo verbalmente lo svolgersi di un’esperienza nel mo-mento stesso in cui si svolge. Qui la scrittura diaristica giunge insomma al limite della ve-ra e propria simulazione di presa diretta, attivando un regime di (fittizia) simultaneità e serrata intercalazione fra parola e azione: la durata dell’‘evento rappresentato’ viene di fatto a coincidere con la durata dell’intermittente atto di parola che lo dice, pedinandone le più o meno articolate svolte ed evoluzioni esterne così come i più o meno guizzanti riverberi interni alla coscienza del soggetto. L’incidenza relativa di questa forma all’interno di Pianissimo, in apparenza piuttosto modesta se ci fermiamo ai meri dati nu-merici, è in realtà strategicamente cruciale se si considera il ruolo di marcatore strutturale e agente contaminante che Sbarbaro evidentemente le attribuisce, facendone un prezioso dispositivo di dinamizzazione dell’assetto retorico/rappresentativo del libro. Così, ben-ché essa informi compiutamente e univocamente soltanto 3 dei 29 testi della raccolta (tutti concentrati peraltro nella Parte prima), la sua spiccata disponibilità ad ibridarsi con i

continuano a fronteggiarsi gridando inconciliate e diventando significanti proprio in virtù della loro irrisolvibile opposizione» (Viti 44)

(17)

due tipi precedenti ne estende l’effettiva area di influenza ad oltre un terzo delle poesie (cinque nella sezione iniziale, sei nella seconda). Non meno vistoso, d’altro canto, è il ri-lievo che Sbarbaro le assegna in quanto dispositivo in grado di plasmare alcuni momenti-chiave dell’organismo macrotestuale. Colpisce in particolare osservarne la dominanza re-lativa proprio fra i testi iniziali del libro (dei primi quattro ne informa ben tre: I, 1 e poi I, 3 e I, 4): come se proprio in questa zona di primo contatto col lettore Sbarbaro volesse sfruttarne con insistenza la naturale presa situante per inchiodare il proprio io ad un qui ed ora (ad una specifica forma di qui ed ora) la cui pertinenza, nella percezione ritensiva del lettore, è destinata a lievitare e riverberarsi anche sui testi successivi, definendo di fat-to una sorta di essenziale orizzonte cronofat-topico dell’intero libro.

Proprio nella poesia esordiale l’autodiegesi in presenza si intreccia invero, almeno all’inizio, con una delle più classiche declinazioni del modulo allocutivo, quella cioè della pseudo-apostrofe alla propria anima: che fin da subito si rivela però il veicolo rappresen-tativo di una perturbante dinamica psichica di sdoppiamento e dissociazione:8

Taci, anima stanca di godere e di soffrire (all’uno e all’altro vai rassegnata).

Nessuna voce tua odo se ascolto:

non di rimpianto per la miserabile 5 giovinezza, non d’ira o di speranza,

e neppure di tedio.

Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena d’una rassegnazione disperata.

Noi non ci stupiremmo, 10 non è vero, mia anima, se il cuore

si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato…

A segnalarlo è anzitutto il soffuso metaforismo attraverso cui è delineata la relazione fra i due ‘personaggi’: se la spossata atonia dell’interlocutrice si emblematizza nel suo di-sperato «tacere», l’io appellante manifesta invece un residuo di vitalità proprio nella solle-citudine partecipe della ricerca di un colloquio (attestata tanto dallo sforzo di «ascolto» quanto dallo sconsolato atto verbale che sta conducendo, di fronte a lei e a noi). Nei ver-si seguenti lo stato di perver-sistente inerzia dell’anima è però inquadrato attraverso una nuova similitudine, che arricchisce la scena di due ulteriori elementi. Da un lato è l’immagine di questo soggetto scomposto, diffratto in un caleidoscopio di pro-prie/improprie lamine identitarie disarticolate, a complicarsi di un ulteriore attante: ac-canto all’anima, ora anche «il corpo» è convocato dall’io voce come emblema della condi-zione di intima disidentificacondi-zione, di dissociacondi-zione centrifuga che lo reifica estraniandolo

8 «Il poeta parla con se stesso interloquendo con la propria anima. L’espediente è antico. Ma dal

decadentismo in poi ha un senso nuovo: parlando con se stesso, il poeta dialoga con la propria diversità, con le sue due anime: si scopre doppio, abitato da un “altro io”. Dello sdoppiamento del soggetto Pianissimo produce, come si vedrà, un’immagine altrettanto frequentata nella poesia del tempo: lo specchio, il ritratto di sé che mostra l’altro. L’altro è spesso lo sconosciuto, Mister Hyde» (Coletti 28).

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