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Efficacia della Psicoterapia interpersonale su pazienti affetti da disturbi dell'umore

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L’EFFICACIA DELLA PSICOTERAPIA

INTERPERSONALE SUI DISTURBI

DELL’UMORE

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INDICE

1. Disturbi dell’umore

1.1 Disturbo depressivo Maggiore

1.1.1 Disturbo depressivo maggiore in adolescenza

1.1.2 Disturbo depressivo Post-partum

1.2 Disturbo distimico

1.3 Disturbo Bipolare

2. La Psicoterapia Interpersonale (IPT)

2.1 I modelli interpersonali della depressione

2.2 Il ruolo del “supposto sociale” nell’IPT

2.3“How”: come agisce l’IPT

3. La psicoterapia Interpersonale nel disturbo depressivo maggiore

3.1 La relazione tra variabili cliniche ed outcome della terapia

3.2 Il ruolo della IPT in monoterapia e del trattamento combinato nel disturbo depressivo maggiore

3.3 Il ruolo dell’IPT nella depressione post-partum

3.4 L’IPT-A: un adattamento della psicoterapia interpersonale al disturbo depressivo negli adolescenti

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4. Adattamenti dell’IPT al disturbo bipolare e al disturbo distimico

4.1 L’IPT dei ritmi sociali (IPTSR): adattamento della terapia interpersonale al disturbo bipolare

4.2 L’IPT nel disturbo distimico CONCLUSIONI

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CAPITOLO PRIMO

Disturbi dell’umore

I disturbi dell’umore rappresentano una categoria psicopatologica di disturbi del tono dell’umore e si distinguono in forme monopolari e bipolari. L’attuale manuale di diagnosi per i disturbi psichiatrici (DSM 5) inserisce all’interno della categoria anche il disturbo disforico premestruale e il disturbo dell’umore dirompente. In questo lavoro verrà presa in considerazione l’efficacia della psicoterapia interpersonale (IPT) sui disturbi depressivi e bipolare.

Sono disturbi caratterizzati dall’alterazione del tono dell’umore, il quale assume diverse caratteristiche dipendentemente dal disturbo specifico.

Doveroso è precisare la distinzione tra il fisiologico cambiamento dell’umore, che corrisponde spesso ad alterazioni ormonali transitorie, oppure a reazioni emotive contingenti agli eventi di vita di ogni persona, e la vera e propria psicopatologia, dove il carattere oscillatorio cede il posto alla rigidità della manifestazione timica. Di fronte, infatti, ad un disturbo dell’umore, sia esso depressivo, bipolare, o distimico il tono dell’umore è rigido verso una polarità, o della estrema gioia ed euforia, o viceversa, in direzione opposta, nell’estrema tristezza, apatia, abulia e anedonia. Come più avanti si avrà modo di leggere, questi sono disturbi che affliggono indistintamente ed in modo trasversale sia uomini che donne, con una probabilità maggiore per quest’ultime.

1.1 Disturbo depressivo maggiore

Il disturbo depressivo maggiore (DDM) è uno dei più complessi e comuni disturbi della salute mentale, che comporta una riduzione della funzionalità globale del paziente (Changsu et al., 2015), e si caratterizza per la presenza di un umore depresso, accompagnato da bassa autostima e perdita di interesse per attività

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“normalmente” piacevoli. È tra le principali cause di disabilità, dove con questa s’ intende l’incapacità di lavorare e vivere in modo autonomo. È una delle cause principali di suicidio (Piraglia et al., 2004). Negli Stati Uniti circa il 7-9% della popolazione adulta esperisce un episodio di depressione maggiore, ed ogni anno si stimano circa otto milioni di nuovi casi (Saltier & Silversheirn, 2015). Si stima che nel 2020 il DDM si collocherà al secondo posto tra le patologie mentali; ad oggi l’incremento dei casi di depressione comporta un ingente aumento dei costi sanitari (Hees et al., 2013).

I sintomi cognitivi, emotivi e fisici compromettono il funzionamento psicosociale, impattando notevolmente anche sui costi sanitari, oltre che sulla produttività lavorativa (Kessler, 2012).

Esso si presenta con disturbi nella sfera emotiva, cognitiva (deficit attentivi, soprattutto nel versante dell’attenzione sostenuta); i pazienti mostrano spesso alterazione della motivazione ed il livello di autostima ed autoefficacia è basso; inoltre, ad essere coinvolte sono anche le funzioni psicomotorie (Clèry-Melin et al., 2011), che costituiscono uno dei sintomi più comuni, a causa di un coinvolgimento del circuito fronto-striatale (Liberg & Rahm, 2015).

Nell’attuale manuale diagnostico e statistico dell’APA (DSM 5), un episodio depressivo è caratterizzato da un insieme di nove sintomi clinici, tra cui tristezza, perdita di interesse per ciò che prima dell’esordio del disturbo generava piacere per il paziente, alterazioni dell’appetito e del peso, del sonno ed affaticamento, difficoltà di concentrazione, sentimenti di colpa e pensieri ricorrenti di morte (Zorumski et al., 2015). Per potere diagnosticare un disturbo depressivo maggiore devono essere presenti almeno cinque dei nove sintomi suddetti e devono compromettere la funzionalità della persona (Zorumski et al., 2015).

L’esordio del disturbo, solitamente, si colloca in un’età compresa tra i 25 e i 40 anni, a differenza del disturbo bipolare, la cui origine spesso risale al periodo adolescenziale. Il paziente a cui viene diagnosticato un disturbo depressivo maggiore non deve avere vissuto episodi di maniacalità o ipomaniacalità.

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1.1.1 Disturbo depressivo maggiore in adolescenza

Il disturbo depressivo maggiore, purtroppo, non è una psicopatologia che colpisce in modo esclusivo la popolazione adulta, ma coinvolge, molto spesso, in modo non indifferente, anche il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Qui l’attenzione sarà rivolta alla depressione nell’adolescenza.

Esso impatta notevolmente sulla vita del ragazzo adolescente, così come sul sistema familiare in cui è inserito. Tra le cause più comuni vi sono gli stili parentali e disaccordi coniugali, a cui, non da ultimo, si aggiungono, fattori più strettamente legati all’utilizzo delle nuove tecnologie, come internet e i social media (Lewis et al., 2015).

Nel 2007, uno studio condotto dall’Australian National Survey of Mental Health ha individuato che, approssimativamente, un adolescente su quattro ha esperito un disturbo mentale nei dodici mesi precedenti l’indagine (Reavley et al., 2010).

Studi americani (Lewis et al., 2015) hanno stimato che circa il 5% degli adolescenti soffre di depressione; tale percentuale aumenta fino al 20% nei ragazzi dai 18 anni in su. Uno dei maggiori rischi della depressione adolescenziale è il comportamento suicidario, che è stato stimato essere perfino la seconda causa di morte nei giovani australiani di età compresa tra il 15 e i 24 anni (Lewis et al. 2015).

Non è facile parlare di disturbo depressivo nell’adolescenza, poiché il percorso adolescenziale è caratterizzato, in modo quasi costante e trasversale per tutti, da oscillazioni dell’umore. Infatti, il ragazzo adolescente si trova spesso a vivere l’alternanza tra sentimenti di grandiosità ed onnipotenza e sentimenti pessimistici, legati al senso di inutilità. Ed è in questo caso che diventa importante la fase di valutazione, nella quale occorre discriminare il profilo fisiologico da quello patologico (Mufson, 2004).

Da uno studio di De Salvo (2012) è emerso che in Italia i ragazzi depressi sono più di 800.000 (De Salvo, Cavallitto & Martinetto, 2012).

Circa il 2-8% dei ragazzi adolescenti tra i 13 e i 18 anni sviluppa un episodio depressivo, con un picco di incidenza nel puberale (Costello et al., 2003).

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La durata media di un episodio depressivo nell’adolescenza è di circa nove mesi. Tuttavia il 70% dei pazienti che hanno una remissione dei sintomi svilupperà altri episodi depressivi entro cinque anni e le ricerche hanno dimostrato una continuità tra la depressione nell’adolescenza e in età adulta (Thapar et al., 2012). Vi è una forte compromissione del funzionamento sociale, includendo l’abbandono della scuola, e adozione di comportamenti lesivi della propria integrità psicofisica.

Nella storia della psicologia diversi autori, da Bowlby alla Mahler hanno ricercato le cause della depressione nell’adolescenza; in particolare, secondo il modello psicologico relazionale, un fattore causale è da attribuire agli aspetti e le modalità relazionali all’interno della famiglia, talvolta caratterizzati da un’eccessiva iperprotettività materna. Oppure, ancora, altri fattori possono essere i disaccordi coniugali o separazioni conflittuali, quando vi è una perdita del genitore o ancora quando vi è un marcato controllo ed atteggiamento autoritario nei confronti del figlio, teso al diniego delle sue aspirazioni.

Nel panorama degli autori più famosi si vogliono ricordare Melanie Klein, Bowlby, Margareth Mahler. Essi, nelle loro dissertazioni, parlando di depressione, hanno ognuno una prospettiva diversa in merito alla questione.

In particolare, Melanie Klein parla di “posizione depressiva” come tappa obbligata della vita infantile, che consiste nel periodo che consegue la perdita del senso di onnipotenza, tipico ed utile nella prima infanzia per il bambino. Da qui, il modo in cui il bambino avrà attraversato questa “posizione” sarà determinante rispetto allo sviluppo in età adulta di una condizione depressiva patologica o meno.

Per Bowlby, invece, la depressione è determinata dalla perdita degli oggetti del proprio affetto, del proprio attaccamento e che determina la perdita della stima di sé.

Per la Malher la depressione è fisiologica nella fase, da lei chiamata, “separazione-individuazione”; tanto più naturale è tale processo, meno dolorosa sarà l’esperienza che il bambino vivrà al momento della separazione dalla madre. Viceversa, esperirà sentimenti di rabbia, così come di depressione. La sua capacità di sopportare la frustrazione, determinata dalla separazione dalla madre, sarà il precursore

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fondamentale della sua futura modalità di affrontare il sentimento della perdita (Mahler et al., 1978).

Come si può evincere, anche dai soli tre autori appena citati, il comune denominatore della depressione sembra essere la perdita. Quanto più precoci ed arcaiche sono state le perdite, tanto più saranno le probabili difficoltà che il soggetto incontrerà nell’affrontarne di altre in età più matura, dando vita a vissuti depressivi, che possono così trasformarsi in malattia vera e propria.

1.1.2 Il disturbo depressivo post-partum

La depressione post-partum è un disturbo molto frequente ed invalidante la cui fisiopatologia non è ancora stata chiarita. È un disturbo che esordisce solitamente nei tre mesi dopo il parto, ed è stato stimato che circa il 10%-20% delle neo-mamma ne è affetta (Gavin et al., 2005).

Il periodo perinatale è un periodo delicato per la donna, in quanto essa è esposta ad una maggiore vulnerabilità allo sviluppo di diversi disturbi mentali, tra cui ansia, attacchi di panico e depressione. La loro comparsa si associa in modo inevitabile alla nascita di problemi nella relazione della diade madre-bambino; questo è uno dei motivi per cui in questo lavoro di tesi sembra utile dedicare uno spazio ad uno di essi, ovvero alla disturbo depressivo (Sagadayevan et al., 2015).

È un disturbo che rappresenta una delle più comuni complicazioni neuropsichiatriche post-natali (Bobo et al., 2014), insieme ai disturbi d’ansia (Sagadayevan et al., 2015).

La depressione post-partum interferisce con le capacità da parte della mamma di prendersi cura del proprio bambino. È importante sottolineare che la depressione post-partum può apparire come un disturbo ex-novo, ma in realtà, seppur in forma più silente, si manifesta spesso nel periodo prenatale (Apter et al, 2011) e non essendo adeguatamente riconosciuta, non viene diagnosticata e, da qui, non trattata; inoltre, una depressione prenatale non trattata porta spesso le madri a non seguire le

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indicazioni ostetriche, con il rischio di compromettere la gravidanza fino ad un parto prematuro.

Più che di “post-partum”, infatti, sarebbe più corretto utilizzare il termine “periparto”. Pertanto, nell’attuale manuale diagnostico, DSM V, tale disturbo viene indicato con “depressioni ad esordio nel periparto”.

A tale proposito è stato stimato che circa il 5%-8% delle donne in gravidanza soffre di depressione, di cui una parte cerca terapie di tipo farmacologico (negli Stati Uniti assumono SSRI), mentre una buona parte di donne preferisce interventi non-farmacologici.

Il quadro clinico non differisce in modo significativo dal disturbo depressivo maggiore (Stuart, 2012; Hees et al., 2013); ma viene considerato un disturbo a se stante per il periodo delicato di vita in cui ha esordio, ovvero quando la madre dovrebbe concentrare il pieno delle proprie energie alla cura del proprio figlio. Quindi, seppur i sintomi sono equiparabili al DDM, il trattamento deve essere adattato ad una condizione diversa e alquanto particolare. Il disturbo è da prendere in seria considerazione per tutte le implicazioni che ha sulla salute sia del figlio che della madre; sono noti, nostro malgrado, i casi di infanticidio, spesso conseguenza estrema di gravi quadri psicopatologici nella madre.

Le letteratura suggerisce un’eziologia multifattoriale del disturbo, tra cui la nascita prematura, disturbi di tipo neurobiologico e chimico, ormonali e fattori più strettamente sociali, tra cui conflitti coniugali, basso supporto sociale, stile di attaccamento insicuro (Halligan et al., 2007).

1.2. Il disturbo distimico o “disturbo depressivo persistente”

La distimia, o disturbo depressivo persistente, rientra all’interno della categoria dei disturbi dell’umore unipolari (DSM 5). È una condizione equiparabile dal punto qualitativo alla sindrome depressiva, dalla quale si differenzia sul piano dell’intensità dei sintomi (ICD-10) (Bscor, Bauer & Adley, 2015). Infatti, esso si

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caratterizza per la presenza di disturbi dell’appetito, disturbi del sonno, faticabilità, scarsa energia, bassa autostima, difficoltà di concentrazione o nel prendere decisioni; sono stati riscontrati elevati livelli di dolore fisico, che compromette la funzionalità sociale e cognitiva dei pazienti (Bell et al., 2004). Sul piano della compromissione sociale le loro difficoltà sono paragonabili a quelle dei pazienti schizofrenici; da una ricerca di Shaunak e collaboratori (2015) è stato evidenziato che i pazienti distimici mostrano difficoltà in una delle quattro scale della WHOQOL-BREF, ovvero nell’area delle relazioni sociali, nella quale anche i soggetti schizofrenici avevano ottenuto dei punteggi similari (Shaunak, Pradeep & Shruti, 2015).

Sebbene in passato per “distimia” s’intendesse qualsiasi alterazione del tono dell’umore, sia in senso depressivo che maniacale, oggi, invece, si caratterizza per la presenza di sintomi depressivi per almeno due anni, tutti i giorni per la maggior parte del giorno.

1.3 Disturbo bipolare

Il disturbo bipolare è un problema di salute mentale multi sfaccettato e complesso che affligge più dell’1% della popolazione nel mondo (Tsitsipa & Fountolakis, 2015). Se fino al DSM IV-TR si collocava all’interno della categoria dei disturbi depressivi, oggi con il DSM V diventa un’unica categoria collocata a ponte tra i disturbi depressivi e lo spettro dei disturbi psicotici.

Si caratterizza per l’alternanza di episodi depressivi, maniacali o ipomianacali. Pazienti bipolari all’esame neuro-cognitivo mostrano una compromissione delle capacità mnestiche oltre che di quelle esecutive, in particolare la flessibilità cognitiva e il ragionamento astratto (Bauer et al., 2014). Il disturbo bipolare è caratterizzato dalla disregolazione dell’umore, del pensiero e dell’attività.

Inoltre, uno studio condotto dal Worth Health Organization, nel 2002, ha individuato come il disturbo bipolare sia una delle condizioni che espone le persone

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affette ad un maggiore rischio di sviluppare, nella tarda età, altri disturbi di tipo neurologico, come il disturbo di Alzheimer.

Il disturbo bipolare impatta notevolmente sul sistema immunitario; infatti, i pazienti mostrano elevati livelli si proteina C-reattiva che segnala un’infiammazione sistemica dell’organismo, con una successiva diminuzione dei livelli di BDNF (Fattore Neutrofico Cerebrale) (Bauer et al., 2014).

Evidenze cliniche e precliniche dimostrano che la natura del disturbo bipolare, implica la rottura dell’omeostasi tra meccanismi infiammatori, processi ossidatici e fattori di neuroprotezione, determinando così apoptosi e cambiamenti nella neurogenesi (Berck et al., 2014).

Il disturbo bipolare può essere di due tipi a seconda della presenza di mania (DB-I) o ipomania (DB-II). L’attuale manuale diagnostico per le patologie psichiatriche (DSM V) definisce l’episodio ipomaniacale per la presenza di euforia e/o umore irritabile; a ciò si aggiungono sentimenti di grandiosità, logorrea, ridotto bisogno di dormire, agitazione psicomotoria, distraibilità e per l’adozione di comportamenti di rischio per la persona e per gli altri. L’episodio maniacale si presenta dal punto di vista qualitativo il medesimo al precedente, con la differenza sul piano dell’intensità; infatti, in questo caso vi è un’importante compromissione funzionale. Il disturbo bipolare può comparire a qualunque età, dall’infanzia all’adolescenza, ed ancora in età adulta; il quadro clinico è parzialmente diverso per ogni fascia d’età, infatti da uno studio di Birmaher e collaboratori (2006) è emerso i ragazzi adolescenti vivono maggiori cambi di polarità per anno, rispetto alla popolazione adulta (Birmaher et al., 2006)

Tra i fattori imputati nel determinare la vulnerabilità al disturbo bipolare vi sono fattori genetici e biologici, che regolano l’equilibrio dei circuiti neurotrasmettitoriali; in particolare di quelli serotoninergici, dopaminergici e noradrenergici. Altri fattori che comportano l’insorgenza del disturbo bipolare sono quelli psicologici, e tra questi le modalità disfunzionali di risposta allo stress; le interazioni con l’ambiente rivestono un ruolo importante. Infatti, i sintomi possono insorgere in corrispondenza a difficoltà relazionali, insuccessi scolastici, perdita del

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lavoro, problemi economici, esperienze traumatiche, lutto; al contrario il contesto sociale può svolgere un ruolo protettivo quando la persona vive in un clima relazionale sereno e gode di un buon supporto familiare e sociale.

Dai dati della letteratura emerge che il disturbo si manifesta spesso in pazienti che hanno un temperamento ipertimico, pieno di vitalità ed energia o, viceversa, un temperamento irritabile con esplosioni di rabbia sproporzionate alle cause, o ancora, un temperamento ciclotimico, con forti oscillazioni dell’umore e dell’energia, ed infine un temperamento melanconico che tende alla tristezza e al pessimismo.

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CAPITOLO SECONDO

La Psicoterapia Interpersonale

Negli ultimi decenni gli interventi psicoterapici per il trattamento dei disturbi dell’umore vengono sempre più accettati dalla popolazione. Tra le psicoterapie evidence-based vi è la Psicoterapia interpersonale (IPT).

La psicoterapia interpersonale è un modello di psicoterapia breve sviluppatosi inizialmente per il trattamento di pazienti ambulatoriali con depressione unipolare (Klerman et al., 1984); successivamente, come nel corso della tesi si avrà modo di leggere, sono stati elaborati adattamenti per il trattamento del disturbo bipolare (IPT-DB) (Frank et al., 2005) e del disturbo distimico (IPT-DD) (Markowitz, 1996). Ad oggi l’IPT è un approccio poco conosciuto in Italia, ma che ha avuto un’ampia diffusione negli Stati Uniti e nel Canada, grazie anche ai suoi fondatori, ovvero Klerman e Weissman, i quali attorno agli anni ‘70 si accorsero che i pazienti che avevano in cura rispondevano bene alla terapia, ma il tasso di recidiva, una volta interrotta questa, era molto elevato; così iniziarono a individuare nel contesto interpersonale e contingente al paziente il fattore che non solo predisponeva, bensì manteneva il disturbo. Da qui elaborarono il modello dell’IPT, che successivamente venne manualizzato nel testo “Psicoterapia interpersonale della depressione maggiore”, partendo dal presupposto che il contesto dovesse rientrare all’interno del setting psicoterapeutico, ovvero le modalità interazionali del paziente, le sue relazioni più importanti ed eventuali deficit interazionali, che nel paziente depresso sono quasi sempre presenti, in virtù di una correlazione biunivoca; infatti, da un lato deficit interazionali possono creare le condizioni per lo sviluppo di una psicopatologia come il disturbo depressivo, ma allo stesso tempo esso ne compromette le capacità relazionali. Infatti, presupposto fondamentale del modello è che i rapporti interpersonali tra il paziente e gli altri significativi hanno una grande influenza sull’insorgenza e mantenimento del disturbo.

Quindi l’IPT si focalizza sulle relazioni interpersonali del presente (Weissmann & Paykel, 1974).

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L’IPT si articola in 12 sedute-16 sedute, il cui protocollo prevede la suddivisione in tre fasi, ovvero una iniziale, centrale e finale. Un importante elemento che succede il contratto terapeutico, è l’elaborazione dell’inventario interpersonale. Questo, infatti, contiene gli elementi più salienti delle modalità interazionali del paziente con persone per lui significative, permettendo così di trovare il focus della terapia, che poi corrispondono alle aree su cui spesso agisce l’IPT, ovvero i conflitti interpersonali, le transizioni di ruolo e i deficit interpersonali.

Le sue radici teoriche si rintracciano in Harry Stack Sullivan e Freida Fromm-Reichmann, Bowlby e Meyer, i quali già nelle loro teorie asserivano che le cause della predisposizione allo sviluppo delle psicopatologie sono da attribuire a fattori socio-ambientali e familiari (Bellino, 2012; Pirati & Gaetano, 2014).

L’IPT s’inserisce all’interno delle psicoterapie brevi, ovvero di quelle psicoterapie che agiscono sul qui ed ora, sui problemi contingenti e recenti, che possono aver determinato una sintomatologia rilevante per il paziente; essa prevede un intervento a tempo limitato, diversamente dagli approcci psicoanalitici.

Con l’IPT i fattori sui quali si pone attenzione sono quelli sociali, al posto di quelli intrapsichici, considerando i primi alla base delle attuali patologie dell’individuo. E da qui bisogna partire per il trattamento, ovvero analizzando le relazioni che il soggetto intrattiene con l’ambiente a lui circostante. Quindi con l’IPT il disagio psichico non trova la sua causa principale nella predisposizione individuale al disturbo, bensì nei fattori esterni all’individuo, che in questo modo interagiscono con eventuali vulnerabilità presenti nel soggetto.

L’uomo nella prospettiva dell’IPT non è che il risultato finale delle sue relazioni con l’ambiente e la cultura in cui è inserito.

Il principio teorico, nonché anche pratico, è che la patologia attuale è inevitabilmente legata a quello che sta accadendo nella vita della persona, nel qui ed ora. Il terapeuta esplicita sin dall’inizio al paziente il ruolo che hanno gli eventi di vita nell’insorgenza dei suoi sintomi psicopatologici e come questi allo stesso tempo possano determinare un cambiamento nella qualità e quantità delle relazioni interpersonali.

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Le aeree problematiche sui cui agisce l’IPT sono il lutto (non in termini di perdita di abilità, ma in riferimento alla perdita concreta di una persona cara), i conflitti di ruolo (due o più persone confliggono sulle aspettative reciproche), le transizioni di ruolo (il ruolo sociale che cambia per esempio a seguito della comunicazione di una malattia, che segna il passaggio dal sé sano ad un sé malato) e i deficit interpersonali (le condizioni in cui la persona non ha rapporti interpersonali importanti dal punto di vista affettivo e cognitivo) (Miniati, 2014).

Un’area che non viene presa in considerazione dall’IPT riguarda i tratti della personalità, non perché non siano ritenuti importanti nell’assetto del comportamento della persona, ma in quanto questi presuppongono un intervento psicoterapico che richiede anche anni di lavoro. Gli obiettivi principali e diretti dell’IPT sono la diminuzione dei sintomi depressivi, l’informazione sul legame tra il disturbo depressivo e le attuali relazioni interpersonali, che possono aggravare o lenire il quadro clinico (Pirati & Gaetano, 2014), e quindi il fine ultimo diventa la creazione di una buona rete sociale costituita da legami intimi e di fiducia. Questo è importante nella misura in cui la capacità di fare fronte ad evento significativamente negativo per la persona è determinato dalla presenza ed adeguatezza del supporto di cui può godere.

Le relazioni con gli altri significativi sono disfunzionali nella misura in cui sono caratterizzate da impoverimento sociale e i rapporti con l’altro sono inconsistenti o caratterizzati da conflitti (Coyne, 1976).

2.2 Il ruolo del supporto sociale nell’IPT

Il supporto sociale, oggetto di diverse descrizioni, è un concetto generale e complesso, difficilmente inquadrabile con un’unica definizione. Negli anni ’70, studi scientifici hanno cominciato a documentare una correlazione significativa tra scarso supporto sociale e rischio di mortalità, suggerendo che esso svolge un’azione protettiva sulla salute psicofisica delle persone sia in modo diretto che come effetto

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“tampone” nei confronti degli effetti negativi dello stress (Lipsitz & Markovitz, 2013).

È opportuno sottolineare che alcuni studi, (Lazarus & Folkman, 1984) attorno agli anni ’60, hanno identificato una componente fondamentale della risposta allo stress, ovvero la valutazione cognitiva. Infatti, la risposta a medesimi stressors non era uguale e trasversale ai diversi individui, poiché ciò che mediava la risposta affettiva ed emotiva era proprio la valutazione che la persona fa delle proprie capacità nel far fronte all’evento (Lazarus & Folkman, 1984). L’individuo valuta ed interpreta cognitivamente ciò che avviene nel suo ambiente, decidendo se tali avvenimenti rappresentano o meno una minaccia.

In virtù di queste evidenze scientifiche, l’IPT agisce sulla modificazione dei pattern di comunicazione disfunzionali, aiutando il paziente a trovare le modalità che permettano una migliore relazione ed interazione con gli altri; questo è una delle “conditio sine qua non” il paziente può riuscire nella costruzione di legami sociali, intimi ed affettivi. Da alcuni studi è emerso che il supporto sociale assume un ruolo protettivo nei confronti della salute mentale; infatti, di fronte ad un evento potenzialmente stressogeno, come per esempio un licenziamento, una malattia, la perdita di una persona cara, separazione coniugale, gioca un ruolo importante il supporto sociale poiché la persona può “usufruire” di risorse emotive, sociali e talvolta anche economiche, di cui viceversa ne sarebbe priva; quest’ultima condizione, può essere alla base di una visione negativa dell’evento, che scatena una serie di risposte emotive, cognitive che inducono una maggiore vulnerabilità allo sviluppo di psicopatologie, come il disturbo depressivo (Brown & Harris, 1978). Da uno studio di Brown ed Harris è stato sviluppato un modello per spiegare il ruolo dei fattori sociali nella depressione. Infatti, per esempio, l’assenza di relazioni intime, siano esse amicali e/o sentimentali, privano l’individuo di risorse interpersonali che possono essere utili per far fronte ad eventi di vita percepiti come stressanti, con il conseguente aumento del rischio di depressione (Handerson et al., 1978). Diversi studi hanno messo in relazione lo sviluppo dei disturbi dell’umore con uno scarso sostegno sociale (Duer et al., 1988; Monroe et al., 1986). Quindi la

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probabilità di sviluppare una psicopatologia è tanto maggiore, quanto più povera è la rete sociale.

Il sostegno sociale da un lato può attenuare gli effetti negativi dello stress (Cohen & Wills, 1985), e allo stesso tempo, dall’altro, contribuisce al mantenimento di una buona salute. Al contrario l’assenza o inadeguata presenza di supporto sociale, quindi una condizione di solitudine, costituisce la base per l’esacerbazione della percezione dello stress (Cacioppo et al., 2002).

Allo stesso tempo diverse ricerche sul ruolo dello stress e del supporto sociale hanno evidenziato l’importanza che riveste la percezione del supporto sociale; infatti vi sono persone, che seppur godano di una buona rete sociale, la possono percepire in termini negativi, perché magari percepita come invadente, e quindi le interazioni ed i legami affettivi perderebbero il loro valore positivo.

Nonostante le ricerche sullo stress e sul ruolo del supporto sociale suggeriscano che il contesto interpersonale può rappresentare il terreno che rende vulnerabili allo sviluppo dei psicopatologie, l’IPT parla di un’influenza bidirezionale tra disturbo psichiatrico e problemi interpersonali (Lipsitz & Markowitz, 2013). Infatti da un lato il difficoltà nelle relazioni sociali possono essere alla base di bassa autostima e dello sviluppo di depressione, dall’altro questa impatta sulla modalità interazionali, incrementando il disturbo.

Nella prospettiva interpersonale di Coyne (1976), i soggetti depressi hanno una modalità relazionale disfunzionale, in quanto caratterizzata dall’espressione di emozioni negative, che innescano, in modo inevitabile, un circolo vizioso nella relazione con gli altri: infatti, secondo Coyne, le persone depresse cercano, soprattutto negli altri significativi, rassicurazioni sul proprio valore e conferme del loro sincero interessamento nei loro confronti; certezze, che seppur ricevute, vengono messe costantemente in discussione dai pazienti. Sebbene gli altri spesso forniscano tali rassicurazioni, i soggetti depressi non ne traggono alcun vantaggio, poiché dubitano della sincerità di tali affermazioni, pensando che gli altri accontentino il loro bisogno di conferme esclusivamente per compassione o per senso di dovere. La ripetizione di tale dinamica interpersonale, nel tempo, porterà

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gli altri ad essere frustrati ed irritati, cosicché aumenterà per il paziente la probabilità di essere rifiutato. Tutto ciò compromette l’ambiente interpersonale del soggetto depresso, che a sua volta mantiene i sintomi e ne peggiora la prognosi (Compare et al., 2006; Compare & Manzoni, 2007; Wittstein et al., 2011). Il contributo di Coyne è importante per comprendere non tanto l’eziologia, quanto i meccanismi di mantenimento della patologia depressiva.

2.2 Modelli interpersonali dell’IPT

L’IPT utilizza il modello della “diatesi-stress” nella spiegazione delle malattie psichiatriche ed integra due cornici teoriche, ovvero la teoria interpersonale-relazionale (Sullivan, 1940) e la ricerca sullo stress e supporto sociale (Lipsitz & Markowitz, 2013). La prima pone in rilievo la relazione tra la salute mentale e le interazioni interpersonali; la seconda, invece, fa riferimento al ruolo dello stress e del supporto sociale.

Sullivan, esponente della teoria interpersonale-relazionale, focalizzò l’attenzione sull’importanza delle relazioni sociali, le quali costituiscono ciò di cui l’essere umano ha bisogno e da cui dipende la sua salute mentale. Influenzato dalla teoria psicobiologica di Adolph Meyer (1951), Sullivan asserì che “il campo della psichiatria è il campo delle relazioni interpersonali; una persona non può essere isolato dal complesso di relazioni in cui vive e trova lì la sua essenza” (Lipsitz & Markowitz, 2013). Sullivan si distaccò quasi radicalmente da Freud, insistendo sul fatto che le relazioni interpersonali rappresentano un bisogno umano fondamentale. Pur considerando importanti per la salute mentale le relazioni intime, non sottovaluta il ruolo di contesti più ampi, come la scuola e il gruppo dei pari.

Sullivan prima, Bowlby dopo, con la teoria dell’attaccamento, hanno fatto delle relazioni sociali il nodo da cui dipendono la salute mentale e la psicopatologia. Precedentemente alla nascita dell’IPT, era già presente l’ipotesi che nella genesi delle malattie psichiatriche, così come nel decorso della depressione, giocassero un ruolo importante, se non addirittura determinante, esperienze di vita stressanti

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(separazione dal coniuge, morte di una persona cara, l’insorgenza di una malattia, problemi lavorativi) (Paykel et al., 1969).

Alcuni studi, a questo proposito, hanno identificato come gli eventi stressanti di vita (“stressful life events”) rivestissero il ruolo di fattori scatenanti nell’insorgenza del disturbo bipolare (Hlastala et al., 2000) e dei disturbi d’ansia (Blazer et al., 1987). A differenza dell’approccio psicodinamico, l’IPT si concentra sulle relazioni attuali ed inoltre, mentre nel primo caso i sentimenti e le emozioni negative che il paziente dimostra nei confronti del terapeuta sono considerati fenomeni di transfert, nell’IPT vengono analizzati solo nel momento in cui rappresentano un ostacolo nella relazione terapeutica o per chiarire una modalità interazionale che il paziente sta attualizzando nel qui ed ora nel setting terapeutico, ma che viene anche usata nelle relazioni con gli altri significativi (Pirati & Gaetano, 2014).

2.3 “How”: come agisce l’IPT

L’IPT si focalizza su ciò che il paziente “fa” nel contesto interpersonale, le sue modalità interazionali con l’ambiente sociale, individuando quali sono i comportamenti “disfunzionali” (Bateman & Fonagi, 2010; Lipsitz & Markowitz, 2013); infine, raccoglie queste informazioni utili ai fini terapeutici nel cosiddetto “inventario interpersonale”.

L’intervento con IPT è costituito da tre fasi. La fase iniziale comprende la valutazione delle relazioni attuali e passate del paziente con l’elaborazione dell’inventario interpersonale; viene formulata la diagnosi ed in particolare l’aerea problematica all’interno del contesto interpersonale sui cui agire; infine, viene concordato il piano terapeutico. La seconda fase, ovvero quella centrale, si propone di applicare quanto formulato nella prima fase, ed infine, nella terza ed ultima fase si mettono a punto i miglioramenti rispetto all’aerea problematica individuata nella prima fase (Lipsitz & Markovitz, 2013).

Per l’IPT il contesto interpersonale costituisce un potenziale fattore scatenante e di mantenimento del disturbo dell’umore, motivo per cui focalizza la terapia sui

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problemi interpersonali della vita del paziente, proponendo di risolvere tali crisi che costituiscono il processo centrale.

Nelle tecniche di cui fa uso l’IPT vi è un’impronta di quelle provenienti dall’approccio psicodinamico, sistemico-relazionale e cognitivo-comportamentale. L’IPT riconosce l’importanza e l’impatto che hanno le esperienze precoci di vita e soprattutto le modalità relazionali che il bambino esperisce nella diade materna, e che determinano le future modalità interazionali da adulto. Da qui emerge come abbia avuto una notevole influenza la teoria dell’attaccamento di Bowlby sull’IPT. Diversamente da altri approcci psicoterapici, come quello psicodinamico, nell’IPT assume una maggiore rilevanza, ai fini terapeutici, non tanto la ricostruzione di modalità interazionali infantili, ma di quelle attuali. Infatti, il terapeuta si focalizza sul qui ed ora. Nell’IPT non sono i meccanismi di difesa, come per esempio la proiezione e l’introiezione, a determinare il comportamento disadattivo del paziente, ma questo viene considerato come funzionale per il contesto del paziente. Infatti, uno degli obiettivi dell’IPT è quello di “scoprire” il significato e quindi la funzione del comportamento disadattivo. In questo si può notare un’impronta cognitivo-comportamentale.

Un evento stressante può essere percepito in misura minore o al contrario maggiore, se, rispettivamente, il paziente ha una buona rete sociale, oppure no. Infatti, l’IPT considera il supporto sociale come la variabile, che, insieme ad altri fattori, modera l’effetto stressogeno: le limitazioni psico-fisiche ed il dolore, determinati da una malattia cronica, vengono vissute diversamente se il paziente ha la possibilità di esprimere i correlati emotivi a tale esperienza, come la rabbia e la tristezza, diventando così più tollerante a questa nuova realtà (Lipsitz & Markowitz, 2013.). Il sostegno sociale comprende una vasta gamma di risorse, tra cui quelle contestuali e interpersonali, che vanno dalle relazioni più intime, fatte di supporto e comprensione, ed economiche. Il bisogno del supporto sociale riflette quello che Bowlby chiama “legame di attaccamento”, dove con questo, però, si intende nello specifico la capacità e la modalità di interiorizzazione dello stile relazionale con

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l’ambiente e la costruzione di modelli operativi interni (MOI) di sé, degli altri e del mondo.

I teorici hanno sottolineato l’importanza specifica del sostegno sociale sulla salute mentale (Toiths, 2011); diametralmente opposto a tale concetto è quello di stress interpersonale sul quale l’IPT agisce.

Gli effetti di quest’ultimo sembrano impattare più negativamente rispetto alla sola mancanza di sostegno sociale.

Weissman e Paykel (1974) hanno verificato il ruolo della rappresentazione del rapporto coniugale in donne depresse; da questo studio è emerso che le donne che avevano un rapporto coniugale conflittuale e contrassegnato da infelicità avevano una probabilità 25 volte maggiore di sviluppare un disturbo depressivo, a differenza delle donne che avevano una rappresentazione positiva del proprio matrimonio. È stata dimostrata una relazione inversamente proporzionale tra il basso livello di supporto sociale e gli elevati livelli di nevrosi e depressione in diverse classi sociali di donne (Henderson et al., 1978; Duer et al., 1988). Quindi una buona rete relazionale e sociale può mediare gli effetti dello stress e delle avversità o agire come un fattore protettivo nella promozione della salute psicologica.

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CAPITOLO TERZO

La psicoterapia interpersonale nel disturbo depressivo maggiore

La depressione è una delle forme di psicopatologie più debilitanti per la persona che ne è affetta, oltre che per chi se ne prende cura. La compromissione che spesso si associa al disturbo è molto severa e l’impatto che essa ha sulla sofferenza è determinata dal fatto che spesso è una condizione che si ripete nel tempo (Wright et al., 2015).

Negli ultimi tre decenni un gran numero di studi randomizzati e controllati ha riferito l’efficacia del trattamento psicoterapico per il disturbo depressivo maggiore (Pirati & Gaetano, 2014). Tra i trattamenti psicoterapici empiricamente supportati vi è l’IPT, insieme alla terapia cognitivo-comportamentale.

L’efficacia della psicoterapia per il tipo di depressione lieve/moderata è quasi sovrapponibile all’efficacia che la farmacoterapia ha già sulla remissione dei sintomi (Cujpiers et al., 2010).

Inoltre vi sono risultati concordanti circa la sua efficacia sulla riduzione dell’episodio acuto, oltre che nella prevenzione delle ricadute e recidive (Pirati & Gaetano, 2014).

L’IPT è stata sperimentata, anche, in ambito oncologico. Patologie come quelle oncologiche espongono, in modo particolare il paziente allo sviluppo di disturbi psicopatologici, come la depressione, con la conseguenza di esacerbare il quadro di inabilità fisica, oltre che incidere sulla risposta immunitaria del paziente.

L’IPT, a questo proposito, è oggetto di sperimentazione in uno studio di Miniati e collaboratori (2014), dove vengono reclutate circa 200 pazienti donne, con diagnosi oncologiche, che hanno sviluppato un quadro clinico di tipo depressivo. La scelta dell’IPT è motivata, come dice Miniati, dal fatto che è un intervento psicosociale, come psicosociali sono le limitazione ed i deficit che un paziente con malattia oncologica sviluppa, e per di più con depressione.

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3.1 Variabili cliniche ed outcome della terapia

Nella risposta ad uno specifico trattamento giocano un ruolo importante sia i fattori di tipo predittivo che i cosiddetti fattori moderatori (Kraemer et al., 2002). Gli indici predittivi ci dicono quali tipologie di pazienti rispondono meglio ad uno specifico trattamento piuttosto che ad un altro. In merito a ciò le variabili cliniche studiate nell’ambito dell’outcome all’IPT sono i sottotipi di depressione e la variabile età (Bellino, 2008). Tra i fattori predittivi come il livello di funzionalità sociale, il profilo cognitivo e la gravità della sintomatologia depressiva, la variabile maggiormente predittiva di un buon outcome sembrava essere già nello studio di Sotsky (1991) il buon funzionamento sociale; questo a riprova del fatto che l’IPT ha una maggiore efficacia in soggetti depressi non psicotici e che si collocano più sul versante nevrotico. I soggetti che, viceversa, mostravano una maggiore compromissione a livello cognitivo rispondevano meglio ad altre tipologie di psicoterapie, come la terapia cognitiva o al trattamento psicofarmacologico. Inoltre, altri fattori come il singolo episodio depressivo o, viceversa, una depressione ricorrente rappresentano un altro fattore importante di discriminazione nell’outcome all’IPT. Risulta importante per tali ragioni essere a conoscenza non solo delle differenze individuali, ma come queste giochino un ruolo importante nella determinazione del risultato finale di in un intervento psicoterapico. Conoscendo le caratteristiche dei diversi modelli, delle loro potenzialità, così come dei loro limiti è possibile personalizzare, per ogni esigenza individuale, il protocollo d’intervento. In questo caso l’IPT, sia per i focus d’azione, che per la durata dell’intervento, è adatta a quei pazienti che non mostrano disturbi di tipo psicotico, né di personalità, ma si presta bene alla depressione melanconica piuttosto che ad una forma atipica. In particolare è emerso che i pazienti affetti da depressione di tipo melanconico, quindi caratterizzati da sintomi come apatia, abulia, anedonia, rallentamento psicomotorio, sentimenti di colpa, inappetenza rispondono bene all’IPT rispetto ad altri trattamenti psicoterapici (Bellino, 2012). Questo dato dimostra che da sola l’IPT è in grado di ridimensionare i sintomi depressivi; questo è più vero laddove il disturbo è di tipo

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reattivo, viceversa, per pazienti affetti da depressione endogena, il trattamento che ha una maggiore risonanza è quello combinato tra IPT e psicofarmaci (Thase & Friedman, 1999; Prusoff et al., 1980). Anche qui è possibile evidenziare il ruolo determinante nell’outcome, e quindi nella futura scelta del trattamento, giocato dal tipo di depressione (melanconica, atipica, endogena, reattiva).

3.2 Il ruolo della IPT in monoterapia e in terapia combinata nel trattamento del disturbo depressivo maggiore

L’IPT nel suo percorso di validazione per il trattamento del disturbo depressivo maggiore è stata costantemente comparata sia a condizioni di placebo, che ad altre psicoterapie come la terapia cognitivo-comportamentale, così come anche al trattamento farmacologico (SSRI, imipramina, fuoxetina) (Bellino, 2008). La sua efficacia è stata valutata sia in somministrazione singola, che in combinazione al trattamento farmacologico. In particolare diversi studi hanno evidenziato che proprio quest’ultimo apporta dei benefici maggiori nei pazienti affetti da depressione, in termini di riduzione delle recidive oltre che di funzionalità sociale. Negli studi che hanno ipotizzato il valore che l’IPT ha nella remissione dei sintomi, vi sono quelli che hanno fatto una comparazione di essa con gruppi placebo, notando una percentuale molto elevata nel miglioramento dei sintomi rispetto ai controlli (Weissmann et al., 1979; Bellino, 2008), così come ha una maggiore efficacia nella profilassi delle ricorrenze della sintomatologia depressiva rispetto al placebo (Frank et al., 1990; Reynolds et al., 1999).

In uno studio di Schulberg e collaboratori (2006) è stata fatta una comparazione tra il gruppo a cui è stato somministrato l’IPT singolarmente, un gruppo il trattamento psicofarmacologico con noritriptalina ed un altro gruppo a cui sono state somministrate cure di routine; da questa ricerca è emersa la quasi sovrapponibilità tra l’IPT e il trattamento farmacologico in merito a remissione dei sintomi (rispettivamente 46% e 48%).

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In uno studio di Klerman e collaboratori furono valutate al follow-up di un anno un gruppo di donne, trattate precedentemente alcune con placebo, altre con amitriptilina, ed altre ancora con IPT, e dai quali risultati è emerso che solamente il gruppo a cui era stato somministrato il trattamento psicoterapico mostrava un livello di adattamento socio-ambientale migliore, ed in particolare, emergeva una maggiore capacità relazionale, nonché un buon funzionamento lavorativo.

A dimostrazione del potere che ha l’intervento psicoterapico nella riduzione dei sintomi, oltre che nella riabilitazione socio-ambientale, vi sono degli studi (Martin et al., 2001) che tramite la SPECT hanno rilevato un aumento del flusso ematico cerebrale a livello del sistema limbico nei pazienti che avevano usufruito del trattamento con IPT, a differenza del gruppo di pazienti trattati sono con antidepressivi triciclici.

Le evidenze emerse da diversi studi hanno permesso di affermare che l’IPT, somministrata singolarmente, può essere considerata una tipologia di psicoterapia particolarmente indicata per pazienti con depressione “reattiva”, ovvero secondaria ad eventi e situazioni esterne (Bellino, 2008).

Finora, dagli studi menzionati, sappiamo che il trattamento con IPT somministrato singolarmente ha una buona efficacia e, talvolta, sovrapponibile ai trattamenti farmacologici (Schulberg et al., 2006) nella riduzione dei sintomi nel paziente con DDM. In alcuni casi, però, soprattutto quando l’entità del disturbo è di livello moderato/grave, la scelta migliore sembra essere la combinazione dei due tipi di terapie (APA, 1999). La ricerca e le linee guida olandesi suggeriscono l’integrazione tra la psicoterapia e il trattamento farmacologico (Weis & Wert, 2011; Hees et al., 2013).

Circa il 20% dei singoli episodi depressivi ha una prognosi negativa, in quanto si trasformano in DDM, e quindi un disturbo cronico (Wolff et al., 2012).

Inizialmente, negli anni ’80 (Klerman, 1982) la farmacoterapia nel caso di DDM non era ben vista, in quanto considerata un ostacolo all’adozione di comportamenti attivi da parte del paziente (Bellino, 2012).

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Solo successivamente, altri autori (Beck et al., 1985), evidenziarono che oltre ai potenziali limiti, sono da annoverare i seguenti benefici della terapia farmacologica, soprattutto nelle forme acute dei DDM di grado moderato/grave, che consistono nel ripristinare l’equilibrio biochimico tra neurotrasmettitori, e quindi agendo sulla motivazione, che in tali forme di DDM è alquanto ridotta, sul rallentamento psicomotorio, che rappresenterebbero un importante ostacolo al trattamento psicoterapico, poiché interferisco con la costruzione di una buona relazione ed alleanza terapeutica. Quest’ultima necessita di una buona capacità di insight, oltre che di un buon livello motivazionale.

Da una meta-analisi condotta da Thase e collaboratori (1999) il trattamento con IPT ed il trattamento che la integra, invece, alla farmacoterapia, mostra differenze solo in quei casi di depressione grave, dove per i motivi su descritti, gli psicofarmaci, come l’imipramina e gli SSRI, sono indispensabili per la creazione di un profilo psico-affettivo idoneo alla psicoterapia. Un altro studio (Frank et al., 1990), ancora prima, conferma i suddetti risultati, aggiungendo che la terapia integrata ha un effetto importante nella riduzione delle recidive in pazienti con depressione ricorrente. Quindi, ad oggi nella scelta del tipo di trattamento, singolo o combinato, è un fattore determinante il tipo di depressione, e quindi di compromissione cognitivo-emotiva del paziente.

Oltre al trattamento di tipo integrato, vi sono autori (Frank et al., 2000) che hanno studiato l’effetto che la somministrazione sequenziale ha sulla remissione dei sintomi depressivi in forme di DDM ricorrente. In questo caso la somministrazione prevedeva dapprima l’IPT da sola e, solo successivamente, nel caso in cui non vi fosse stata una buona risposta, la somministrazione del trattamento con IPT e fluoxetina; le pazienti che avevano ricevuto la terapia sequenziale hanno avuto una migliore risposta di remissione dei sintomi, rispetto alle pazienti a cui era stata somministrata, sin dall’inizio, la terapia integrata (Bellino, 2008).

Sulla base di queste evidenze, diversi modelli psicoterapici hanno posto l’attenzione all’opzione della terapia sequenziale.

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Da questi risultati è possibile dedurre che il protocollo del trattamento combinato/sequenziale diventa una buona scelta terapeutica per quei pazienti con DDM grave e/o in quei casi in cui non vi è una risposta alla sola IPT, e nonostante nei codesti casi siano necessari interventi farmacologici, diversi studi di meta-analisi hanno dimostrato il ruolo clinicamente rilevante che l’IPT detiene nel trattamento delle forme croniche di depressione (Picardi & Gaetano, 2014).

3.3 L’IPT nella depressione post-partum (IPT-PPD)

La depressione post-partum (IPT-PPD) è un disturbo comune con un’alta probabilità di comorbidità. Si stima che circa l’8% delle donne lo sviluppano durante la gravidanza; la percentuale sale al 12% dei casi nelle neomamme, entro il primo anno dopo il parto (Stuart, 2012). Il trattamento è di notevole importanza se si pensa alle conseguenze, talvolta drammatiche, che vi possono essere qualora il disturbo non venisse diagnosticato e trattato. Conseguenze che comprendono sia lo stile d’attaccamento che svilupperà il bambino, oltre che il funzionamento psicosociale (Stuart, 2012).

Nel ventaglio delle psicoterapie studiate per il trattamento della depressione post-partum l’IPT ha dimostrato una notevole efficacia sulla remissione dei sintomi, oltre che nell’empowerment delle relazioni sociali (Stuart, 2012). Il trattamento psicoterapico è di gran lunga preferito rispetto al trattamento farmacologico, sia per lo stigma associato all’assunzione di essi, che per gli effetti collaterali, tra cui la preoccupazione di non avvertire (?) il proprio bambino, perché sotto l’effetto del farmaco.

L’IPT-PPD, però, trova la sua maggiore efficacia nei casi di depressione post-partum di grado lieve-moderato, come alternativa al trattamento farmacologico, di gran lunga preferita soprattutto nei casi di allattamento (Grigoriadis, 2007). Ci sono risultati di alcuni studi sull’effetto degli interventi psicologici nella depressione post-partum che sostengono come l’IPT-PPD abbia un’efficacia maggiore rispetto agli interventi di tipo cognitivo (Sockel et al., 2011).

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Il modello è stato elaborato da Stuart e collaboratori (1995). Successivamente alla sua prima elaborazione ed applicazione nel campo, diversi sono gli studi fatti per testarne l’efficacia, tra cui le ricerche di O’Hara e collaboratori (2000). In questo studio sono state raggruppate 120 donne con depressione post-partum, secondo i criteri del passato DSM IV, di cui un gruppo di esse assegnate al trial clinico che prevedeva 12 settimane di psicoterapia interpersonale e l’altro gruppo, invece, fu inserito in una lista d’attesa. Trascorso il tempo del trattamento, alla valutazione del quadro clinico, solo le mamme sottoposte al trattamento hanno ottenuto una riduzione dei sintomi depressivi, oltre che un miglioramento delle abilità sociali. Così l’IPT-PPD iniziò a rappresentare una valida alternativa alla farmacoterapia, soprattutto durante l’allattamento (O’Hara et al., 2000).

L’IPT-PPD si basa sull’assunto che vi è una biunivocità tra depressione e disagio interpersonale. Gli obiettivi del trattamento sono triplici, ovvero la gestione dei conflitti interpersonali, il sostegno sociale e i sintomi psichiatrici. L’IPT-PPD è influenzata dal modello biopsicosociale di Engel (1977), con il quale si sostiene che lo sviluppo di una psicopatologia è determinata da fattori biologici, psicologici e sociali. Inevitabilmente inserita all’interno di questo insieme di psicopatologie determinata da una molteplicità di fattori è la depressione post-partum, in quanto entrano in gioco fattori ormonali, le transizioni di ruolo, il supporto di cui la neomamma può godere nell’affrontare una delle esperienze più importante nella vita.

In una ricerca di O’Hara e collaboratori (1994) è stato dimostrato che il grado di empatia dimostrata dal partner è un fattore predittivo di una buona relazione all’interno della coppia ed inoltre media l’adattamento psicologico da parte della mamma alla nuova condizione.

Come già anticipato, nel modello dell’IPT confluisce l’ideologia di Bowlby e quindi i principi della teoria dell’attaccamento, secondo la quale lo stile relazionale esperito dal bambino nel rapporto diadico con la madre, rappresenterà il modello relazionale adulto; in particolare, da qui discenderà la capacità da parte del nuovo

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adulto di saper chiedere aiuto soprattutto durante le fasi più critiche della vita (Bowlby, 1988).

Il modo in cui la nuova mamma vive il periodo post-parto dipende da fattori legati sia al periodo prenatale, come complicazioni durante la gravidanza, difficoltà nelle relazioni affettive, gravidanze indesiderate, difficoltà invece incontrate nel concepire; ognuno di questi elementi è importante che sia preso in considerazione nel setting terapeutico, poiché ognuno possiede un correlato emotivo e cognitivo che può avere ripercussioni sulla futura mamma (Grigoriadis, 2007)

La nascita di un figlio impone in tutte le mamme nuovi ritmi di vita, che possono essere vissuti in modo diverso da soggetto a soggetto. Il correlato affettivo di questi cambiamenti è influenzato anche dal supporto e grado di empatia da parte delle persone che circondano la neomamma. Infatti spesso le mamme riportano la discrepanza tra il supporto che vorrebbero e quelle realmente percepito (O’Hara, 1994). La neomamma infatti cerca il supporto dal partner, dalla famiglia ed amici. La relazione tra i due partner è più compromessa nelle donne con depressione post-partum rispetto alle neomamme che conducono la loro maternità in modo sereno. Tra i fenomeni comportamentali tipici del periodo post-partum vi è l’interruzione del sonno durante la notte e diminuzione delle energie, che di per sé rappresentano certamente una condizione fisiologica e correlata alla nuova circostanza. Nella fase di valutazione iniziale il terapeuta fa un excursus che comprende il periodo prenatale fino alla situazione attuale; in particolare, la difficoltà nel rimanere incinta, così come le gravidanze indesiderate rappresentano una variabile importante che determina il modo in cui viene vissuta la gravidanza e da qui l’impatto psicologico.

Da alcuni resoconti raccolti in merito ai sentimenti provati dalle madri nei confronti del proprio figlio è stata evidenziata una certa ambivalenza, in quanto da un lato esprimono l’amore che provano, ma dall’altro “denunciano” la perdita della libertà precedente la nascita del bambino (Stuart, 2012).

L’IPT-PPD non trascura la relazione tra i due partner poiché la nuova condizione genitoriale impatta su di essa, sulla loro intimità, così come sulla ricerca ed

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attenzione rivolta al proprio partner. Per tale ragione, infatti, risulta importante il coinvolgimento del partner nella relazione terapeutica, mediante interventi di psico-educazione, atti all’informazione in merito alle dinamiche che si innescano nella coppia alla nascita di un figlio.

Ad oggi l’IPT-PPD è tra gli interventi psicosociali più convalidati. Essa prende in carico la paziente ed il sistema familiare in cui è inserita, cercando di non trascurare alcun elemento possa caratterizzare le sue relazioni con le persone per lei significative (Stuart et al., 2012).

3.4 L’IPT-A: l’adattamento della psicoterapia interpersonale al disturbo depressivo negli adolescenti

La depressione adolescenziale è un problema alquanto diffuso, che compromette il processo di sviluppo interferendo con il funzionamento sociale e scolastico (Brunstein et al., 2007). I giovani adolescenti a cui viene diagnosticato il disturbo, se non opportunatamente trattati, sono maggiormente esposti a rischi quali l’isolamento sociale, l’abbandono scolastico, l’uso di sostanze e, nei casi più gravi, il suicidio.

L’IPT-A rappresenta l’adattamento dell’IPT tradizionale per la depressione in adolescenza, che ha come obiettivo la riduzione dei sintomi depressivi, il miglioramento delle capacità comunicative, quindi delle relazioni sociali (Mufson et al., 2004)

Adolescenti depressi trattati con IPT-A, a differenza dei controlli, mostrano al follow-up un miglior funzionamento sociale e globale (Mufson et al., 2004).

Inoltre, l’IPT-A ha una maggiore efficacia nei pazienti adolescenti con alti livelli di depressione ed importanti difficoltà nelle relazioni interpersonali, rispetto alle terapie di tipo cognitivo (Mufson et al., 2010).

Anche in questo caso, come per la depressione nell’adulto, le variabili che mediano la risposta all’IPT sono l’età, la gravità del disturbo e il livello di funzionamento sociale.

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Dallo studio di Mufson e collaboratori (2006) è emerso che rispondono meglio all’IPT-A i ragazzi adolescenti più grandi (16-18 anni) e con un livello di depressione più grave (Young, Mufson, & Davies, 2006).

Il disturbo depressivo nell’adolescenza impatta significativamente sul funzionamento del soggetto sia dal punto di vista psicologico (compromettendo anche il funzionamento scolastico) quanto quello sociale (nelle relazioni con la famiglia e il gruppo dei pari). Il quadro sintomatologico si può considerare quasi sovrapponibile a quello dell’adulto; ma rispetto agli studi sull’efficacia dell’IPT nella depressione sull’adulto, le ricerche nel campo adolescenziale sono più esigue (Restifo & Bogel, 2009).

La teorizzazione di Klerman ha fornito le indicazioni per l’adattamento dell’IPT nei pazienti adolescenti. L’efficacia dell’IPT nel trattamento della depressione negli adolescenti è empiricamente supportata al pari di altre psicoterapie di comprovata efficacia, come la psicoterapia cognitivo comportamentale (TCC) (Pirati & Gaetano, 2014).

Le difficoltà interpersonali che gli adolescenti incontrano si possono contestualizzare sia all’interno della famiglia, che nel gruppo dei pari, ed ancora, nella scuola, ed in generale all’interno dei contesti che frequenta maggiormente. I principali ostacoli al trattamento sono rappresentati, talvolta, dalla famiglia che spesso non riconosce il profondo disagio che affligge i propri figli (Mufson et al., 2007), dalle scarse capacità introspettive e dall’incostanza con la quale seguono l’iter terapeutico.

É un’età in cui il giovane adolescente è frequentemente attraversato da cambiamenti d’umore e turbamenti emotivi che si ripercuotono nelle relazioni di ogni genere, da quella familiare a quella amicale; questi aspetti nel caso di un disturbo depressivo sono enfatizzati al punto da compromettere anche l’eventuale relazione terapeutica. L’ostilità, la non accettazione di sé, l’insicurezza nelle relazioni sociali possono essere caratteristiche transitorie, così come invece indice di un quadro depressivo sottostante. L’intensità, il livello di funzionamento sociale e le difficoltà che ne comportano nella vita del paziente e del sistema familiare rappresentano gli

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elementi cui bisogna prestare attenzione, poiché possono segnare il passaggio da una condizione fisiologica ad una patologica.

L’IPT-A consiste in incontri raggruppati in dodici sedute, in cui è fondamentale chiarire le aspettative dell’adolescente rispetto alla terapia e focalizzare gli interventi, condividendone l’interesse.

Non possono essere presi in carico quei pazienti con tendenze suicidarie, abuso di alcol e sostanze e soggetti psicotici.

Nell’IPT-A viene incrementato l’uso del contatto telefonico nel caso di necessità, con lo scopo di infondere fiducia nella relazione, evidenziando non solo la disponibilità, quanto anche il coinvolgimento del terapeuta nei problemi del paziente.

Il setting terapeutico prevede il coinvolgimento di tutti quei contesti nei quali il giovane adolescente è inserito, quali la famiglia, la scuola ed il gruppo dei pari. I problemi di tipo interpersonale su cui si concentra l’IPT-A sono nel qui e ora e sulle preoccupazioni maggiormente importanti per l’adolescente.

L’IPT-A è stata messa a confronto con altri trattamenti terapeutici più usuali, tra cui la terapia cognitivo-comportamentale (TCC); in particolare, in uno studio di Mufson e collaboratori (2006) su giovani adolescenti, all’interno di una scuola di New York, sono stati comparati i risultati provenienti dall’applicazione dell’IPT e della TCC, dimostrando una differenza statisticamente significativa tra i due interventi, che va a favore dell’IPT; infatti, il quadro sintomatologico è migliorato nell’80% dei pazienti cui era stata somministrato il trattamento interpersonale, attestandosi al 50% dei pazienti sottoposti alla TCC.

L’IPT-A si è dimostrata essere molto efficacie nella riduzione dei sintomi, oltre che nel miglioramento delle funzioni interpersonali e sociali. Non si vuole, qui, ridimensionare l’importanza di altri modelli psicoterapici, che hanno una storia di comprovata efficacia, ma risulta utile sottolineare come vi sia la possibilità di spaziare oltre gli usuali trattamenti ed approdare a questo nuovo ed efficace approccio.

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CAPITOLO QUARTO

Gli adattamenti dell’IPT al disturbo bipolare e al disturbo distimico

L’IPT nasce come trattamento per il disturbo depressivo maggiore (Klerman, 1984), ma trova la sua applicazione anche per altri disturbi dell’umore quali il disturbo bipolare e il disturbo distimico, mediante specifici adattamenti.

4.1 L’IPT dei ritmi sociali (IPTSR): adattamento della terapia interpersonale ad disturbo bipolare

Il disturbo bipolare presenta diverse sfide per il trattamento, in quanto è caratterizzato da frequenti recidive, spesso legate ad una terapia poco conforme (Frank et al., 2007). Attualmente il tipo di intervento comunemente usato è quello farmacologico; il 60% dei casi, però, va incontro a recidive (Markowitz, 2008). Per questo motivo si pongono sempre nuove sfide, che comprendono anche l’utilizzo di approcci psicoterapici.

A questo proposito, studiosi come Frank e colleghi, (2007), modificando alcuni elementi della terapia interpersonale della depressione, elaborano la “terapia interpersonale e dei ritmi sociali” (Interpersonal social rhythms therapy- IPSRT). Si tratta di un intervento psicoterapico individuale, manualizzato e sviluppato dal gruppo dell’University Of Pittsbrugh a cavallo degli anni ’90, sull’onda del

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rinnovato interesse allo sviluppo di trattamenti psicosociali in grado d’integrarsi al trattamento farmacologico del disturbo bipolare.

L’IPSRT si basa sul presupposto che gli episodi acuti presenti in un paziente bipolare siano in gran parte determinati da fattori sociali; gli stimoli ambientali esterni segnano le nostre abitudini quotidiane. I segnali esterni come per esempio il sorgere del sole, porta con sé una risposta neuro-ormonale, che in questo caso è la maggiore secrezione di cortisolo, così come il buio aumenta quella di melatonina. Così come i fattori esterni naturali influenzano le nostre attività, anche i fattori sociali come gli orari dei pasti, orari di lavoro possono avere influenza sulle attività dell’individuo. Un esempio che può chiarire l’influenza dei fattori socio-ambientali è il fenomeno del jet-lag, il quale determina in qualsiasi persona dei cambiamenti sul piano fisico e cognitivo, ma in questo caso, si tratta di fenomenologie transitorie. È stato dimostrato che persone vulnerabili allo sviluppo di disturbi dell’umore si adattano con maggiore difficoltà ai nuovi ritmi sociali. In particolare, nel caso del disturbo bipolare la desincronizzazione dei ritmi aumenta la probabilità di sviluppare un nuovo episodio, il più delle volte maniacale. Pur non essendo chiaro il motivo, i pazienti con disturbi dell’umore sono particolarmente sensibili ai ritmi circadiani.

L’IPSRT nasce dall’ipotesi che vi è una relazione tra la regolarità del sistema circadiano e il disturbo bipolare, ed in questo caso ha dimostrato di allungare i tempi tra gli episodi acuti. In particolare agisce sulla sincronizzazione delle attività esterne, al fine di rafforzare, indirettamente, il sistema circadiano endogeno. Tra gli obiettivi si prefigge anche di migliorare il funzionamento sociale, mediante l’attenzione posta ai deficit interpersonali (Holberg et al., 2013)

L’IPSRT incorpora la teoria di Klerman sul trattamento della depressione unipolare e la teoria dei ritmi sociali.

In uno studio di Lolich e collaboratori (2012) è stato dimostrato che nei bipolari era solito individuare un’alterazione del ciclo sonno-veglia, il quale si presenta invertito, ovvero dormendo di giorno e vegliando la notte (Lolich et al., 2012).

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Anche nel periodo di remissione dei sintomi, i ritmi circadiani continuano a differire dai controlli sani, con una minore attività durante il giorno.

In quest’ottica i pazienti bipolari trattatati principalmente con psicofarmaci trovano una modalità aggiuntiva di trattamento, che mira a regolarizzare le routine e migliorare i rapporti sociali. I fattori che vulnerabilizzano il paziente alla ricomparsa dell’episodio acuto, sia esso depressivo o maniacale, sono la non aderenza alla terapia, la presenza di almeno un evento stressante e la disregolazione dei ritmi di vita. L’IPSRT è stato sviluppato per ciascuno di essi, il che lo rende un approccio conforme al tipo di disturbo.

Uno studio di Shen e collaboratori (2008) ha dimostrato che vi è una relazione tra la regolarità dei ritmi quotidiani e la frequenza tra un episodio acuto ed un altro. Infatti la distanza tra gli episodi è correlata alla regolarità dei ritmi circadiani. Tali risultati rafforzano le conclusioni di Frank e collaboratori (2005), in merito al fatto che l’IPSRT allunga i periodi che intercorrono tra un episodio ed un altro, aumentando il benessere del paziente (Holberg et al., 2013); al contrario, la perdita dei marcatori temporali e sociali può scatenare l’episodio di malattia.

Nello studio di Frank e collaboratori è stato utilizzato uno strumento, il metro dei ritmi sociali, il quale venne adoperato per segnare i momenti più importanti all’interno di una giornata, come andare a letto la sera, svegliarsi la mattina, l’orario dei pasti e così ancora i momenti in cui dà spazio alle relazioni sociali; poiché si evidenzia in tali pazienti una alterazione dei “normali” momenti in cui solitamente si svolgono tali attività, l’obiettivo è quello di stilare un calendario, dove il terapeuta insieme al paziente modificano gradualmente i ritmi circadiani. Questa fase della terapia permette anche di rendere consapevole il paziente del ruolo che hanno i ritmi circadiani nella genesi del malessere.

Nonostante le ricerche in merito siano ancora esigue, i risultati, che ad oggi si dispongono, sono sufficienti a sostenere l’efficacia dell’IPSRT.

Il fondamento teorico dell’IPSRT consiste nel riconoscimento che, sebbene il disturbo bipolare sia sotteso da una vulnerabilità genetica e da una disregolazione neurotrasmettitoriale, neuropeptidica e neuroendocrina, i fattori che scatenano gli

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