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I decreti di acquisizione del giudice delegato nel fallimento

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

I decreti di acquisizione del giudice delegato nel fallimento

Candidata Relatore

(2)
(3)

INDICE

Introduzione pag. 6

CAPITOLO I – IL REGIME PREVIGENTE

1. Origini pag. 8

2. Il decreto di acquisizione pag. 12

2.1 L’opinione della giurisprudenza di merito pag. 13

2.2 L’orientamento della giurisprudenza

di legittimità pag.17

2.3 Le conclusioni della dottrina pag. 19

3. L’uso distorto pag. 25

CAPITOLO II – LA RIFORMA

(4)

1.1 La nuova figura del giudice delegato pag.32

1.2 Il nuovo dettato dell’art. 25, n.2 pag. 34

2. La natura del decreto di acquisizione pag. 36

3. Riferimento genetico pag. 38

3.1 Rapporto con le operazioni di inventario pag. 39

3.2 Rapporto con l’apposizione di sigilli pag. 42

CAPITOLO III – IL PROCEDIMENTO

1. Classificazione dei poteri del giudice delegato pag. 47

2. Legittimazione attiva e passiva pag. 50

3. Effetti verso terzi pag. 51

4. Oggetto pag. 54

4.1. Acquisizione di beni sopravvenuti pag.55

4.2. Acquisizione di beni colpiti da revocatoria

(5)

4.3 Limiti all’acquisizione bancaria pag. 62

4.3.1 Acquisizione bancaria e misure cautelari pag.64

5. Condizioni pag. 66

6. Motivazione pag. 69

7. Legittimità pag. 70

8. Rapporto con la revocatoria fallimentare pag. 71

9. Rapporto con il processo cautelare uniforme pag. 73

CAPITOLO VI – IMPUGNAZIONE

1. Reclamo ex art. 26 l.fall. pag.83

1.1 Pre riforma pag. 84

1.2 Procedimento pag. 88

1.3 Specialità del gravame rispetto alla disciplina

comune pag. 93

(6)

2. Ricorso in Cassazione pag. 98

Conclusioni pag. 101

Ringraziamenti pag. 102

(7)

Introduzione

Il presente lavoro ha ad oggetto l’analisi del c.d. decreto di acquisizione, strumento di apprensione dei beni al patrimonio fallimentare da parte del giudice delegato ex art. 25, n. 2 legge fallimentare, che trova le sue origini nel lontano codice del commercio del 1882.

Inizialmente, vengono affrontate problematiche che si sono presentate precedentemente alla riforma del 2006, dato che il decreto in questione veniva utilizzato dai giudici delegati in modo improprio, al fine di acquisire un determinato bene alla massa fallimentare, eludendo un necessario giudizio di cognizione.

Segue l’analisi della riforma avvenuta nel 2006, nei suoi elementi principali riguardanti la nuova figura assunta dal giudice delegato all’interno del procedimento fallimentare e i suoi relativi poteri, ma soprattutto le modifiche apportate

(8)

all’art. 25, n. 2 l.fall., che hanno risolto le controversie in merito a tale dispositivo.

Successivamente, sono presentate tutte le caratteristiche procedimentali proprie del decreto di acquisizione e in particolare viene approfondito il rapporto tra questo e il processo cautelare uniforme, intervenuto con la legge 353/1990.

Il trattato termina con la disamina dell’impugnazione del decreto oggetto di esame mediante reclamo ex art. 26 l.fall. e viene affrontata la discussione in merito alla possibilità di procedere a ricorso in Cassazione ex art. 111 per tale decreto.

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Capitolo I

IL REGIME PREVIGENTE

SOMMARIO: 1. Origini. – 2. Il decreto di acquisizione. - 2.1 L’opinione della giurisprudenza di merito. - 2.2 L’orientamento della giurisprudenza di legittimità. - 2.3 Le conclusioni della dottrina. - 3. L’uso distorto.

1. Origini

Il regio decreto del 16 marzo 1942, n.267, definito “legge fallimentare”, aveva mantenuto in gran parte la struttura del fallimento proposta dal codice del commercio del 1882, che vedeva nel giudice delegato «il centro della gestione» del

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fallimento1. Infatti, mentre il curatore rivestiva la figura di un

mero esecutore di direttive provenienti dal giudice delegato2,

era riconosciuta proprio a quest’ultimo una vasta gamma di poteri di direzione e di controllo che lo rendevano l’organo propulsivo dell’intera procedura fallimentare.

Le sue attività e funzioni di carattere ordinatorio e amministrativo erano contenute nell’elenco presente all’interno dell’art. 25, al quale si aggiungevano anche altri provvedimenti previsti dalla legge, quali le autorizzazioni al curatore per il subingresso nei contratti pendenti (artt. 72 ss.) e le disposizioni relative al riconoscimento al fallito di mezzi di sussistenza (artt. 46 e 47)3. In particolare, il numero 2

dell’art. 25 della legge fallimentare trovava la sua origine nell’art.727 codice del commercio del 1882, laddove stabiliva che il giudice delegato «ordina i provvedimenti urgenti che

1 CASELLI G., Degli organi preposti al fallimento, in Commentario

alla legge fallimentare, a cura di F. Bricola, F. Galgano e G. Santini,

Bologna-Roma 1977, 27

2 Secondo l’orientamento di PROVINCIALI R., CANDIAN A. e

SATTA S.

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occorrono alla conservazione dei beni della massa»4, mutato

con la nuova disciplina in «[…] emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio». La disposizione normativa intendeva ricomprendere in tale categoria, oltre gli atti espressamente previsti da legge, quali apposizione di sigilli (art. 84) o vendita di cose deteriorabili (art. 105), tutti quegli atti di carattere urgente e imprevisto che non ammettevano dilazione. Così, ad esempio, era stato ritenuto5 essere nei

poteri discrezionali del giudice delegato la facoltà di ingiungere al fallito, il quale occupi illegittimamente un fondo di proprietà di terzi, che il fallimento si è obbligato per transazione a consegnare a costoro, di lasciare libero il fondo stesso, ordinando alla forza pubblica di procedere all’allontanamento del fallito, se questi non avesse ottemperato all’ingiunzione. Il potere del giudice delegato di

4 CASELLI G, Degli organi preposti al fallimento, in Commentario

Scialoja Branca, Zanichelli, 1977, 111

5 Trib. Parma, 31 ottobre 1931, Dotti e Fall. Dotti, in Riv. dir. comm.,

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provvedere d’urgenza si estendeva non solo alla conservazione materiale di singoli beni, ma anche alla preservazione di tutte le utilità economiche afferenti al patrimonio stesso6.

A tale previsione erano stati annessi ulteriori provvedimenti, come l’ordine al fallito di rilasciare locali facenti parte della massa fallimentare, l’ordine di consegnare cose del fallito e di eseguire pagamenti, e infine, decreti con i quali il giudice delegato apprendeva alla massa attiva beni che non erano precedentemente appresi mediate sigillazione e inventariazione, i cosiddetti “decreti di acquisizione”.

6 AZZOLINA U., Il fallimento e le altre procedure concorsuali,

(13)

2. Il decreto di acquisizione

Lo strumento del decreto di acquisizione, come precedentemente affermato, veniva utilizzato dal giudice delegato ogniqualvolta un bene o un’attività, per qualsiasi ragione, non avesse subito l’apposizione di sigilli e quindi non fosse stato ricompreso nell’inventario.

Il ricorso a tale decreto permetteva ai giudici delegati di assicurare immediatamente alla massa attiva fallimentare beni in possesso di terzi, sulla base della semplice presunzione di appartenenza al fallito, sottraendo il procedimento alla cognizione necessaria per l’accertamento del relativo diritto e privando il terzo dell’onere di esperire un’eventuale azione cautelare o possessoria. L’emanazione di tali decreti atteneva alla fase dell’attuazione iniziale del processo di esecuzione e si riferiva ad eventuali problemi connessi a tale fase e alle sue eventuali lacune: fase distinta da quella dell’amministrazione

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del patrimonio fallimentare e concettualmente, se non sempre di fatto, anteriore a questa7.

L’ampiezza interpretativa concessa dal dettato dell’art. 25, n.2 legge fallimentare, accese l’attenzione di dottrina e giurisprudenza in merito al campo di applicazione ed i limiti di utilizzo di tale decreto da parte del giudice delegato.

2.1 L’opinione della giurisprudenza di merito

In un primo momento, alcuni giudici affermarono che fosse possibile, mediante decreto di acquisizione, acquisire un bene uscito dal patrimonio del fallito con atto solo potenzialmente sottoponibile a revoca, indipendentemente sia da un effettivo esercizio della revocatoria fallimentare, sia dalla richiesta di

7 CASELLI G., Degli organi preposti al fallimento, in Commentario

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un sequestro giudiziario al giudice ordinario competente, ex. art. 24, per la revocatoria medesima.

I giudici di merito, con riferimento alla sentenza della Cassazione 13 febbraio 1980, n. 1050, giunsero perfino ad affermare la possibilità per tale decreto di essere emanato anche nei confronti del terzo locatore, per fini liquidatori e satisfattivi propri della procedura fallimentare, attribuendogli natura analoga al provvedimento cautelare adottato dal giudice nella fase preliminare di un giudizio ordinario, e di conseguenza ammettendo la piena esperibilità anche in assenza del pur apparente possesso dei beni da parte del debitore. Nel dettaglio di tale caso, era stato chiesto al giudice di legittimità di esprimersi in merito all’inefficacia, ex art. 167 l. fall., di un contratto di locazione stipulato dal debitore sottoposto ad amministrazione controllata senza la prescritta autorizzazione degli organi concorsuali.

In tale caso, la sentenza dichiarativa di fallimento esplicava nei confronti della massa dei creditori delle conseguenze

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stabilite dalla legge per tutti gli atti non autorizzati, sottoponendo i relativi beni all’esecuzione concorsuale e non tenendo di conto della posizione contrattuale che si voleva costruire a favore del terzo.

La menzionata decisione della Suprema Corte risulta non essere un deciso punto di riferimento per le tesi liberali, nonostante il tentativo di estendere l’ambito di applicabilità del decreto di acquisizione. La Suprema Corte, escludendo un legame con la materiale apprensione del bene, aveva configurato il decreto in esame come un provvedimento meramente ricognitivo di un’inefficacia risalente alla sentenza dichiarativa di fallimento.

In seguito, altri giudici di merito, sostenitori del più ampio utilizzo del decreto di acquisizione, ritennero acquisibili anche beni di proprietà del fallito sui quali i terzi vantavano un diritto di pegno escluso in sede di stato passivo, nonostante il creditore pignoratizio avesse tempestivamente proposto opposizione.

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Orientamento opposto escluse radicalmente l’acquisizione di beni del fallito in possesso di terzi, sull’assunto che, essendo il decreto strumentale alla procedura fallimentare, questo avrebbe potuto operare solo nei confronti dei beni nel possesso del fallito, dato che proprio il possesso era il criterio regolatore nel caso dubbio.

Non veniva dato rilievo neanche alla nullità o all’inefficacia degli atti da cui derivava il possesso, poiché era ritenuto comunque necessario che ogni relativa controversia si risolvesse in sede giurisdizionale.

In seguito tali opinioni hanno ricevuto conferma da varie decisioni: si stabilì, ad esempio, che la sentenza che revocava l’atto di cessione di certi beni su richiesta del curatore non potesse condannare il terzo, soggetto passivo della revocatoria fallimentare, alla consegna dei beni stessi, dovendo questi formare oggetto di un decreto di acquisizione del giudice delegato al fine della loro inserzione nell’attivo fallimentare. L’azione revocatoria tende generalmente ad un accertamento

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che si risolve in una pronuncia di inefficacia che, reintegrando il bene nel patrimonio del fallito, permette al creditore di esercitare su di esso l’ulteriore azione esecutiva. Quindi la sentenza di revoca, necessitando di un procedimento esecutivo ex novo, aveva natura essenzialmente preparatoria e non aveva capi suscettibili di immediata esecuzione.

Nel caso specifico della revocatoria fallimentare, la sentenza che dichiara eventualmente l’inefficacia dell’atto dispositivo, e il conseguente richiamo del bene nel patrimonio del fallito, si inseriva in un esecuzione già avviata, alla quale tale bene può essere ricompreso mediante decreto di acquisizione ex art. 25, n. 2 l.fall.

2.2 L’orientamento della giurisprudenza di legittimità

La giurisprudenza di legittimità si era sempre dimostrata favorevole alla tesi più restrittiva, con alcune eccezioni.

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Inizialmente la Cassazione riconobbe al giudice delegato un indiscriminato potere di acquisizione, indipendentemente da eventuali ragioni opponibili da parte dei terzi possessori.

Negli anni ’80 prevalse invece l’orientamento restrittivo, che considerava inammissibile qualsiasi provvedimento che incideva sui diritti, se non tassativamente previsti da legge fallimentare. A questo orientamento se ne contrappose uno minore che, volto ad una maggiore ampiezza dei poteri del giudice delegato, affermava la prevalenza delle richieste del fallimento nei confronti della tutela dei diritti soggettivi di terzi, meritevole solo nel caso ci fosse stato un titolo valido opponibile al fallimento.

Fu proprio in questo periodo che si delinearono i principi che i giudici di legittimità hanno tenuto fermi fino ad oggi. La Corte Suprema stabilì che occorreva prescindere dalla qualificazione giuridica, ciò che contava era delimitare il loro campo di applicazione: il relativo oggetto poteva essere costituito solo dal patrimonio «apparente» del fallito, cioè dai

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beni non ancora inventariati da lui posseduti, dai beni posseduti dalla moglie che si presumevano suoi8 e dai beni

posseduti dai terzi i quali ne facessero spontanea esibizione e non ne contestassero l’appartenenza all’asse fallimentare.

2.3 Le conclusioni della dottrina

Anche nella dottrina era presente, pur in modo minoritario, un indirizzo più liberale, che riconosceva il decreto come idoneo all’apprensione, oltre che dei beni del coniuge o i beni futuri o sopravvenuti, anche quelli dei quali il fallimento contesti la separazione o quelli di cui sia controversa l’acquisizione all’attivo fallimentare.

8 La presunzione muciana è stata abrogata a seguito della L. 19

maggio 1975, n. 151, perché non in armonia con i principi del nuovo diritto di famiglia.

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In tal modo però veniva fortemente minata l’efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento, dell’apposizione di sigilli e dell’inventario. Di conseguenza, in mancanza di un titolo opponibile al fallimento, che avrebbe permesso al terzo di opporsi al decreto nelle forme di legge, i beni che si trovavano nella detenzione di un terzo, in qualsiasi circostanza dovevano ricomprendersi nel patrimonio del fallito, e essere ritenuti nel patrimonio di questo, dall’emissione della sentenza dichiarativa di fallimento9.

Altri autori considerarono sufficiente che l’elemento dell’appartenenza del bene, che non era stato compreso dall’inventario nel patrimonio del fallito, inteso come asse dell’esecuzione, fosse anche solo potenziale, escludendo il possesso dall’insieme dei titoli validamente opponibili alla curatela10.

9 PROVINCIALI R., Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, II,

1951

10 COLAFRANCESCHI G., Il decreto di acquisizione, in Dir. Fall.,

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Una corrente contraria escluse che la sentenza dichiarativa potesse essere utilizzata come titolo esecutivo contro il terzo, negando, quindi, un uso indiscriminato dei provvedimenti ex art. 25, n. 2 l. fall.11.

Altri studiosi, sul presupposto che la normativa prevista dall’art. 25, n. 2 l. fall. fosse volta alla conservazione del patrimonio fallimentare, esclusero che vi potessero essere ricondotti legittimamente provvedimenti di natura acquisitiva, giacché l’individuazione e l’apprensione erano già state compiutamente regolate, e quindi non suscettibili di un’integrazione, dalle disposizioni in materia di sigillazione e di inventariato12.

In conclusione, non si riconobbe al decreto di acquisizione ogni valido fondamento normativo, escludendo sia, nel caso in cui fosse stata correttamente negata l’apposizione di sigilli

11 PAZZAGLIA A., Esecuzione sui beni oggetto di revoca

fallimentare, nota adesiva di Trib. Roma 17 marzo 1966, in Dir. Fall.,

1966, II, 677 ss.

12 AZZOLINA U., Il fallimento e le altre procedure concorsuali,

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su di un bene in possesso del terzo, la possibilità di emettere un decreto di acquisizione sia che il rimedio ex art. 103 l. fall. potesse essere utilizzato per fattispecie diverse rispetto alla sigillazione di cose altrui in possesso del fallito, quali gli effetti di una procedura di acquisizione invalida13.

Vi sono state tesi più restrittive che avevano sostenuto che il patrimonio a cui si riferisce l’art, 25, n.2 fosse costituito esclusivamente dal possesso di beni di cui il fallito è spossessato, sia nella gestione che nella disponibilità, in seguito ad un sentenza che ne dichiara il fallimento, la quale determina l’inviolabilità, almeno in casi acquisitivi urgenti, di tutti i rapporti confinati sul piano della semplice pretesa. Di conseguenza, soltanto nel caso in cui il terzo avesse esposto spontaneamente il bene o non avesse contestato l’appartenenza all’asse fallimentare, si sarebbe potuto

13 RAGUSA MAGGIORE G., Diritto Fallimentare, Napoli, 1974, I,

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considerare il decreto di acquisizione legittimamente emanato.

Per tutte le altre ipotesi, invece, agli organi della procedura non avrebbero potuto esperire altro che un’azione tendente alla demolizione o alla dichiarazione di inopponibilità del titolo su cui si fondava il possesso del terzo14.

Infine, sono state sollevate osservazioni anche riguardo alla collocazione sistematica dell’art. 25, n. 2 l. fall.

Si è fortemente contestato tale posizione, collocata in modo anticipato rispetto ad altre disposizioni contenute nella legge fallimentare, ad esempio quelle relative a sigillazione e inventariazione o quelle previste in materia di azione di responsabilità contro gli amministratori e di sequestro dei beni dei soci della cooperativa fallita (art. artt. 146, ult. c e 151, ult. c. l. fall.), e conferendogli in tal modo la finalità dell’indistinta acquisizione alla massa attiva di beni sfuggiti alle fasi di

14 SAMORì G., Misure urgenti e provvedimenti cautelari del giudice

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sigillazione e inventariazione, ampliandone a dismisura il campo di applicazione al di là della sola conservazione del patrimonio fallimentare.

È necessario tenere presente che la norma in questione si riferiva ad una fase che si trovava in una posizione di netta autonomia rispetto alle altre.

In conclusione, l’art. 25, n. 2 non poteva costituire un potere generale del giudice delegato di emettere un provvedimento di sequestro a tutela delle ragioni del fallimento, poiché sussistevano già gli artt. 146, ult. c e 151, ult. c. (che giustificavano già un’eccezionale e circoscritta potestà cautelare del giudice stesso), né rappresentare il sostrato normativo del decreto di acquisizione, che, riguardando la fase di attuazione iniziale del processo esecutivo, avrebbe dovuto essere collocato in un ambito diverso da quello della gestione del patrimonio del fallito15.

15 CASELLI G., Degli organi preposti al fallimento, in Commentario

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Tale ricostruzione, che richiamava la più specifica disciplina relativa all’attuazione della procedura esecutiva e non quella più generica della conservazione del patrimonio del fallito, comportava una notevole limitazione delle potenziali modalità di utilizzo e dei possibili obiettivi del decreto di acquisizione16.

3. L’uso distorto

La disposizione dell’art. 25, n. 2 è stata definita come una delle meno felici della legge fallimentare, per il suo significato oscuro e perché essa ha dato adito a interpretazioni estensive fuorvianti17.

16 ROSSI R., I decreti di acquisizione del giudice delegato: limiti

applicativi e finalità, in Corriere Giur., 1997, 5, 580 (nota alla sentenza

Cass. civ. Sez I, 02 settembre 1996, n. 8004)

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Nonostante il decreto di acquisizione fosse utilizzato generalmente sia per consentire un rapido recupero dei beni mobili appartenenti al debitore per qualsiasi motivo non ancora o non più disponibili, sia per acquisire in concreto alla massa stessa tutti gli elementi patrimoniali di cui il negozio traslativo era stato dichiarato inefficace, i giudici delegati fecero di tale decreto un uso distorto, utilizzandolo in modo assiduo allo scopo di assicurare per vie brevi alla massa attiva del fallimento i beni ritenuti di presunta appartenenza del fallito ma rinvenuti presso terzi, senza tener conto di un’eventuale contestazione da parte del terzo del diritto del fallimento all’acquisizione, aggirando in questo modo la necessaria cognizione per l’accertamento del relativo diritto o l’onere di esperire un’eventuale azione cautelare o possessoria18.

18 ROSSI R., I decreti di acquisizione del giudice delegato: limiti

applicativi e finalità, Corriere Giur., 1997, 5, 580 (nota a sentenza

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Tale disciplina creò serie problematiche relative sia alla tutela dei diritti dei terzi nell’ambito del procedimento di formazione dell’attivo fallimentare, che ai limiti dei poteri degli organi concorsuali.

L’utilizzo fu talmente spropositato che tutti i decreti emessi dal giudice delegato ai sensi dell’art. 25, diretti ad incidere su diritti soggettivi di terzi vennero definiti «abnormi». Fu così definito dalla Cassazione19 il decreto del giudice delegato con

il quale veniva autorizzato il curatore ad acquisire alla massa attiva un immobile costituito in patrimonio familiare dal debitore e dalla moglie, quando questo era stato preordinato allo scopo di assicurarne provvisoriamente il possesso ai creditori concorsuali.

Ne è altro esempio un decreto col quale il giudice delegato aveva ordinato ad un istituto di credito l’invio al fallimento

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di estratti conto e di documenti relativi ai pregressi rapporti tra banca e fallito20.

Nell’ultimo ventennio del secolo scorso, la giurisprudenza iniziò ad affermare la necessità di tutelare i terzi possessori dei beni e di operare un bilanciamento con i fini della procedura fallimentare.

A sostegno di tale indirizzo fu la sentenza della Cassazione del 5 maggio 1992, n. 5306, che considerò come condizione essenziale per la legittimità del decreto di acquisizione del giudice delegato l’assenza di ogni contestazione sulla spettanza di diritti esclusivi di terzi in relazione ai beni di cui fosse stata disposta l’acquisizione.

Anche la dottrina accolse questa nuova visione, sottolineando come l’eccessiva varietà dei casi in cui era stato concesso l’utilizzo di tale strumento dovesse essere il campanello d’allarme di una difficoltà ad individuare i confini della

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figura del decreto di acquisizione, legittimando, di conseguenza, una sproporzione fra poteri del giudice delegato e diritti dei terzi nei confronti del fallimento21; le conseguenze di tale tendenza costituirono un forte segnale della necessità di modificare la legge fallimentare in considerazione delle nuove esigenze del sistema.

I tempi erano maturi per la Riforma.

21 ROSSI R., I decreti di acquisizione del giudice delegato: limiti

applicativi e finalità, Corriere Giur., 1997, 5, 580 (nota a sentenza

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Capitolo II

LA RIFORMA

SOMMARIO: 1. Ratio della riforma. – 1.1 La nuova figura del giudice delegato. – 1.2 Il nuovo dettato dell’art. 25, n.2. – 2. La natura. – 3. Riferimento genetico. – 3.1. Rapporto con le operazioni di inventario. – 3.2. Rapporto con l’apposizione di sigilli.

1. Ratio della riforma

La legge fallimentare del 1942 aveva un’impostazione in base alla quale si riteneva essenziale la presenza dello Stato, attraverso un organo giurisdizionale, nel momento in cui il fallito era privato di tutti i suoi beni e di tutti i suoi rapporti

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giuridici patrimoniali allo scopo di tutelare la dignità e il patrimonio del fallito, la par condicio creditorum e di garantire l’attuazione dell’esecuzione in chiave giurisdizionale pubblicistica nel rispetto delle garanzie e delle norme di legge in genere22.

Ogni ipotesi di riforma avrebbe dovuto tener conto della portata degli interessi in gioco e della necessità della presenza di un organo pubblico imparziale nella gestione delle fasi che erano volte alla parità di trattamento tra tutti i creditori del fallito.

Con il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 ha preso forma il nuovo articolato della legge fallimentare volto a riformare l’intera disciplina fallimentare al fine di adeguare l’intero sistema alle nuove realtà socio-economiche e di uniformarsi ai sistemi normativi di molti altri paesi europei, prevedendo

22 FERRO M., La legge fallimentare, Commentario teorico pratico,

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sia procedure semplificate che un maggiore equilibrio fra tutela del fallito e creditori di quest’ultimo.

1.1 La nuova figura del giudice delegato

Il d. lgs. 5/06 ha operato una sorta di “rivoluzione copernicana”23 nella riorganizzazione di funzioni e poteri

degli organi della procedura: la figura del giudice delegato sembra aver perduto la posizione di rilevanza che aveva nel regime previgente.

Infatti, il precedente art. 25 l fall. stabiliva che «il giudice delegato dirige le operazioni del fallimento», riconoscendogli il ruolo di organo propulsore della procedura fallimentare, e il processo di fallimento si svolgeva grazie ad una continua

23 FERRO M., La legge fallimentare, Commentario teorico pratico,

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collaborazione tra giudice delegato e curatore, il quale era soggetto al potere direttivo e dispositivo, ma non gerarchico, del giudice delegato.

Con la riforma del 2006, l’attività di direzione del giudice delegato è stata sostituita con poteri di vigilanza e di controllo, che questo già svolgeva anche precedentemente alla riforma, ma che sono stati rafforzati in modo da evitare che la maggiore autonomia del curatore non si risolva in una gestione incontrollata.

Nel valutare complessivamente l’attività del giudice delegato a seguito della riforma, si può riconoscere un certo depotenziamento delle sue prerogative, poiché è rimasto privo di specifiche connotazioni di effettivo rinnovamento.

Come abbiamo detto, è venuta meno la funzione di direzione, non assumendo neppure l’iniziativa di programmazione e di

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indirizzo generale della gestione della procedura, che sono adesso riconducibili alla figura del curatore24.

È divenuto in questo modo proprio il curatore l’organo intorno al quale si svolge l’intera procedura fallimentare, controllato nel suo operato sia dal giudice delegato che dal comitato dei creditori.

1.2 Il nuovo dettato dell’art. 25, n. 2

L’art. 25 della nuova legge fallimentare ha mantenuto la medesima struttura di elenco sommario dei poteri attribuiti al giudice delegato, ma ne è stato modificato il contenuto.

In particolare, ricordiamo le problematiche che creò il numero 2 di tale articolo: a causa della scarsa chiarezza del dettato

24 LO CASCIO G., commento in Il nuovo diritto fallimentare, di

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normativo, che non delineava in modo esplicito i limiti concessi per l’emanazione dei decreti di acquisizione, si arrivò ad un uso distorto di tale strumento.

Il decreto di acquisizione divenne uno strumento per apprendere ed assicurare il prima possibile alla massa fallimentare i beni del fallito che erano in possesso di terzi, non dando rilevanza ad ogni eventuale rivendicazione posta in essere dal terzo.

A causa dell’abuso di tale decreto, nella nuova riforma si ritenne necessario modificare il dettato normativo, stabilendo che il giudice delegato «emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio, ad esclusione di quelli che incidono su diritti di terzi che rivendichino un proprio diritto incompatibile con l'acquisizione».

Così il legislatore ha deciso di porre fine a tutte le controversie riguardanti il numero 2 dell’articolo 25, delimitando i confini

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del giudice delegato nell’utilizzo dei decreti di acquisizione: questi possono comprendere i beni del fallito in possesso a terzi che non sono stati appresi nelle fase di apposizione di sigilli e di inventariazione e nei confronti del quale il terzo possessore non rivendichi un proprio diritto.

La nuova riforma altro non ha fatto che confermare l’indirizzo che era stato negli anni precedenti affermato da dottrina e da giurisprudenza in merito al dettato di tale articolo nella legge fallimentare del 1942, soddisfacendo la forte necessità che era emersa di limitare l’utilizzo di tale potere del giudice delegato e di tutelare maggiormente la posizione del terzo possessore del bene del fallito.

2. La natura

Circa la natura dei provvedimenti urgenti che il giudice può emettere al fine di conservare il patrimonio fallimentare, si è

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affermato che tali provvedimenti abbiano natura dubbiamente cautelare.

In seguito alle recenti modifiche alla disciplina generale dei provvedimenti cautelari introdotte dalla legge 80/2005, in particolare all’art. 669-octies c.p.c., si ritiene che il decreto di acquisizione debba essere compreso fra le misure cautelari «anticipatorie», in quanto tendenti ad essere definitive, indipendentemente da una successiva causa di merito e con il conseguente venir meno del nesso di strumentalità tra la misura cautelare e giudizio di cognizione ordinaria25.

È anche presente una parte della dottrina, seppur minoritaria, che sostiene la tesi della natura non cautelare del decreto di acquisizione, affermando che questo non ha funzione strumentale ed anticipatoria rispetto all’esito di una controversia di merito in accoglimento della domanda, nonché dell’efficacia, destinata a venire meno in caso di

25 SCHIANO DI PEPE L., Il diritto fallimentare riformato: commento

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mancata promozione in termini della causa di merito o di sua estinzione o comunque di rigetto26.

Suddetta corrente di pensiero, negando la natura cautelare del decreto di acquisizione, ne afferma la natura meramente esecutiva, sottolineando il carattere non decisorio di tale provvedimento27.

3. Riferimento genetico

Per comprendere meglio la natura cautelare del decreto di acquisizione è necessario analizzare i rapporti che questo ha con gli altri provvedimenti volti alla conservazione del patrimonio fallimentare che rientrano all’interno della

26FERRO M., La legge fallimentare: commentario teorico-pratico,

CEDAM, Padova, 2014, 390

27ROSSI R., I decreti di acquisizione del giudice delegato: limiti

applicativi e finalità, in Corriere Giur., 1997, 5, 580 (nota alla sentenza

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categoria dell’art. 25, n.2 l. fall., ovvero l’apposizione di sigilli e l’inventario, e le relative tesi che sono state elaborate in merito al genus principale dal quale discende tale decreto.

3.1 Rapporto con le operazioni di inventario

Precedentemente alla riforma del 2006, al giudice delegato, che aveva concesso l’autorizzazione per l’apprensione mediante inventario di un bene mobile depositato presso terzi, veniva chiesto da parte del curatore l’emissione, al fine della diretta esecuzione di tale provvedimento autorizzativo, di un decreto di acquisizione, che diveniva strumento per l’attuazione dell’inventario, secondo la Cassazione.

Il decreto di acquisizione fu direttamente ricondotto dal giudice di merito alle operazioni in inventariazione, con una conseguente pretesa di vis apprensiva dell’inventario, il quale

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in tale modo sarebbe diventato il genus principale, potendo trovare in tale strumento una forma di attuazione concreta attraverso l’effettivo trasferimento del possesso del bene mobile alla curatela.

Tale linea di pensiero emerse diffusamente, in modo più o meno esplicito, sia in dottrina che in giurisprudenza, talvolta con un rinvio al solo inventario, altre coinvolgendo anche tutte le attività conservative del patrimonio caratterizzate dalla sigillazione.

Riconoscendo l’origine di tale decreto nelle operazioni di inventariazione, si sottolineò la finalità recuperatoria di questo strumento in relazione a beni anche solo potenzialmente coerenti col patrimonio del fallito.

Questa convinzione fu uno degli elementi che contribuì a permettere una larga apertura ai limiti operativi del decreto di acquisizione; infatti, l’inventario non è circoscritto ai beni che si trovano nell’apparente disponibilità del debitore, ma si

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devono includere tutti i beni che si possono riferire al patrimonio del fallito.

L’inventario, caratterizzato dagli elementi di ricognizione, descrizione e presa in consegna dei beni da parte del curatore, rappresenta una fase di passaggio di responsabilità dall’ufficio fallimentare al curatore medesimo per quanto riguarda amministrazione e gestione del patrimonio.

Si tratta, quindi, di un trasferimento «ideale» del passaggio delle consegne: il curatore potrebbe legittimamente considerare nell’inventario anche tutti quei beni che ritenga fondatamente possibile il recupero alla liquidazione fallimentare, effettuando una completa descrizione del patrimonio e assumendosi ogni responsabilità presente e futura.

Alla luce di tali affermazioni, nel caso in cui il decreto di acquisizione, ammesso che abbia fondamento nelle operazioni inventariali, venisse utilizzato per trasferire

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materialmente un bene in possesso di terzi dissenzienti in capo al curatore solamente sulla base di una presunta, quindi non dimostrata, appartenenza all’asse fallimentare, non si potrebbe definire tale decreto come forma di attuazione dell’inventario, ma piuttosto un’illegittima anticipazione, a vantaggio della procedura fallimentare, di un incremento patrimoniale i cui presupposti giuridici devono ancora perfezionarsi, a prescindere dalla corretta legittimazione dell’inventariazione28.

3.2 Rapporto con l’apposizione di sigilli

Orientamenti sia dottrinali che giurisprudenziali riconoscono un più sicuro riferimento genetico dei decreti di acquisizione nella sigillazione.

28ROSSI R., I decreti di acquisizione del giudice delegato: limiti

applicativi e finalità, in Corriere Giur., 1997, 5, 580 (nota alla sentenza

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Alcuni studiosi hanno sostenuto un’assimilazione tra l’impossibilità di apprensione di beni che al momento della sentenza dichiarativa sono in possesso di terzi e sui quali il fallito vanti diritti reali mobiliari e immobiliari mediante «apposizione di sigilli» o «decreto del giudice delegato». Paragone maggiormente rafforzato dal fatto che nell’ipotesi in cui tali beni in futuro possano essere dichiarati del fallito, non consente la loro acquisizione alla massa tramite l’indifferente utilizzo di uno di questi istituti.

Escludendo l’utilizzo del provvedimento per le cose in possesso di terzi, gli stessi giudici hanno parallelamente circoscritto i limiti di ammissibilità della sigillazione, sottolineando come questa si rivolga a beni effettivamente detenuti dal fallito, anche se di terzi, perché è proprio la detenzione l’elemento in base al quale i beni vengono ricompresi nel patrimonio fallimentare.

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Anche gran parte della dottrina ha riconosciuto l’apparente disponibilità da parte del fallito come parametro di individuazione dei beni da sigillare.

Se l’accostamento fra i due provvedimenti risulta chiaro sul piano dei limiti di ammissibilità, diviene ancora più deciso per il profilo finalistico.

Infatti, una volta esclusa la sua strumentalità all’inventariazione, è possibile affermare che il decreto di acquisizione viene utilizzato ogniqualvolta vi è la mancanza di una situazione di palese possesso o di incondizionata disponibilità del bene da parte del fallito, la quale ha impedito l’apprensione del bene in via cautelare, mediante sigillazione.

L’apposizione dei sigilli è una misura cautelare immediatamente successiva alla sentenza che dichiara il fallimento ed ha il fine di assicurare istantaneamente il patrimonio alla procedura fallimentare, facendo cadere su tutti

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i beni che lo costituiscono il pignoramento e impedendo, di conseguenza, al debitore la sua gestione.

Nonostante al decreto di acquisizione sia stata precedentemente attribuita natura giurisdizionale esecutiva29,

in seguito è stata confermata anche per tale strumento la natura cautelare, che rende l’utilizzo dei due provvedimenti armonico fra loro.

L’apposizione di sigilli, in consequenziale rapporto diretto con la sentenza di fallimento, assicura l’intero patrimonio alla procedura, nei limiti dei beni destinati al soddisfacimento dei creditori ex art. 2740 c.c.

Esaurita la fase di apposizione dei sigilli, la necessità principale non sarà più quella di assicurare il patrimonio alla procedura, ma di immettere direttamente la curatela nel possesso di beni sopravvenuti, di beni colpiti dalla

29 RAGUSA MAGGIORE G., Istituzioni di diritto fallimentare,

Padova, 1994, 327; COLAFRANCESCHI G., Il decreto di

acquisizione, in Dir. Fall., 1959, I, 372; in giurisprudenza Cass. 13

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presunzione ex art. 70 l. fall, di beni il cui atto traslativo sia stato dichiarato inefficace e di beni nella disponibilità di terzi non dissenzienti circa la loro attribuzione all’asse fallimentare30.

Ed è in questo momento che subentra il decreto di acquisizione, che soddisfa tale esigenza, apprendendo tutti quei beni che sono rimasti esclusi dall’apposizione dei sigilli e completando l’intero iter di conservazione del patrimonio del fallito per procedere alla successiva fase della procedura fallimentare.

30 ROSSI R., I decreti di acquisizione del giudice delegato: limiti

applicativi e finalità, in Corriere Giur., 1997, 5, 580 (nota alla sentenza

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Capitolo III

IL PROCEDIMENTO

Sommario: 1. Classificazione dei poteri del giudice delegato. - 2. Legittimazione attiva e passiva. - 3. Effetti verso terzi. - 4. Oggetto. - 4.1. Acquisizione di beni sopravvenuti. - 4.2 Acquisizione di beni colpiti da azione revocatoria. - 4.3. Limiti all’acquisizione bancaria. - 4.3.1. Acquisizione bancaria e misure cautelari - 5. Condizioni. - 6. Motivazione. - 7. Legittimità. - 8. Rapporto con la revocatoria fallimentare - 9. Rapporto con il processo cautelare uniforme.

1. Classificazione dei poteri del giudice delegato

In merito ai molteplici poteri del giudice delegato, in passato la dottrina ha cercato di classificarli, ottenendo però dei

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risultati incompleti e non univoci31; tuttavia, esporre le varie

tesi addotte permette di comprendere meglio l’inquadramento del decreto di acquisizione.

Alcuni studiosi hanno sottolineato la duplicità del ruolo del giudice delegato finalizzato, da un lato, alla direzione della procedura, intesa come amministrazione e gestione del patrimonio e soluzione delle controversie, e dall’altro lato all’esercizio dell’attività giurisdizionale-contenziosa.

Altri studiosi hanno diviso i poteri del giudice delegato in processuali, tutori e cognitori: i primi riguardanti l’obbligo di relazione col tribunale e i casi da cui si emettono o provocano dalle competenti autorità i provvedimenti conservativi; i secondi riguardanti le autorizzazioni e i terzi attinenti agli obblighi previsti per la formazione dello stato passivo.

Infine, un’altra linea di pensiero ha distinto fra funzioni processuali, tutorie ed amministrative, ricomprendendo

31LO CASCIO G., commento in Il nuovo diritto fallimentare, di

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sempre fra le prime l’emissione di provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio, nelle seconde le funzioni di controllo e sorveglianza, e nel terzo gruppo quelle relative a nomina di avvocati, revoca di incaricati e liquidazioni di compensi.

Dalle teorie appena mostrate è possibile affermare che i provvedimenti volti alla conservazione del patrimonio ex art. 25, n. 2 l. fall. siano riconducibili alle attività processuali del giudice delegato.

Tali provvedimenti, inoltre, possono essere inseriti all’interno del gruppo di provvedimenti «non decisori» emessi dal giudice delegato, dato il loro carattere essenzialmente cautelare.

Da quanto sopra affermato è possibile asserire che il decreto di acquisizione è uno strumento processuale di carattere non decisorio, che può essere utilizzato successivamente alle fasi di apposizione di sigilli e di inventario dal giudice delegato.

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Analizzate la natura cautelare e il carattere non decisorio del decreto di acquisizione, conosciamo adesso le caratteristiche processuali di tale decreto.

2. Legittimazione attiva e passiva

Il provvedimento di acquisizione di ufficio o a richiesta del curatore e, se del caso, anche con l’intervento degli organi di polizia giudiziaria o di qualsiasi interessato e può essere emesso sia nei confronti del debitore, sia di qualsiasi terzo.

3. Riflessi su diritti di terzi

Per quanto riguarda i terzi, come abbiamo fino ad ora analizzato, precedentemente questi non venivano tutelati nel

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caso in cui avessero rivendicato diritti incompatibili con l’acquisizione del bene al patrimonio fallimentare.

Questi, infatti, avevano solo la possibilità di far valere il proprio diritto opponendosi a tale decreto immediatamente esecutivo mediante un processo ordinario

In seguito alla riforma, che ha voluto colmare la lacuna riguardo alla tutela di tali diritti, il decreto di acquisizione è esperibile in tutti quei casi in cui il terzo non si opponga all’acquisizione, ma riconosca l’appartenenza di questo al fallito; in caso contrario, il decreto sarà ritenuto inesistente.

Qualora il terzo vanti un diritto esclusivo, invece, gli organi fallimentare dovranno avvalersi delle azioni ordinarie, comprese quelle petitorie e cautelari esperite dal curatore.

È necessario individuare cosa si intende per “diritto esclusivo di terzo”.

I casi affrontati dalle pronunce giurisprudenziali fanno riferimento a diritti su, ad esempio, un immobile costituito in

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fondo patrimoniale32, o il saldo attivo di un conto corrente

bancario del fallito su cui la banca adduca in compensazione un corrispondente credito33 o il diritto di prelazione ex art. 38, legge n. 392 del 1978 rispetto all’aggiudicazione di un immobile34: in tali ipotesi è stata affermata l’esistenza di un

diritto esclusivo del terzo.

Il dissenso del terzo possessore del bene che si vuole acquisire assume rilevanza solo nel caso in cui sia presente un diritto esclusivo sul bene del terzo incompatibile con l’acquisizione; chiaramente non si presenteranno problematiche nel caso in cui il terzo sia un mero possessore del bene.

Uno dei primi autori che si era occupato della tematica, aveva delineato due ipotesi fra loro ben distinte: quelle in cui i beni da dover acquisire al fallimento sono di un terzo, in virtù di diritto esclusivo e non di proprietà del fallito e quelle in cui i

32 Cassazione, 9 aprile 1984, n.2258 33 Cassazione, 16 luglio 1985, n. 4180 34 Cassazione, 15 gennaio 1985, n. 71

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beni in questione spettino a terzi in virtù di particolari rapporti giuridici, quali locazione, deposito, comodato o affitto35.

Si sottolinea come le pronunce del supremo Collegio che riguardano le ipotesi in cui il terzo vanta un diritto esclusivo sul bene ritengano che sia necessaria una loro apprensione mediante azioni ordinarie, cautelari e petitorie; mentre quelle rientranti nella seconda ipotesi prevendono per l’acquisizione del bene una prima fase in cui gli organi fallimentari sciolgono il rapporto giuridico pendente, se vige un disposizione normativa che lo permette in ambito fallimentare, ed una seconda fase in cui si apprende il bene mediante decreto di acquisizione del giudice delegato, dato che è venuto meno il rapporto che legava il terzo al bene36.

35 COLAFRANCESCHI G., Il decreto di acquisizione, in Dir. Fall.,

1959, I, 372

36 LORENZINI E., L’acquisizione di beni mediante decreto del giudice

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4. Oggetto

Il decreto di acquisizione può essere applicato all’intero patrimonio del fallito in senso giuridico, cioè il complesso di beni materiali o immateriali che sono ad esso riconducibili e di tutti i diritti e rapporti patrimoniali di cui esso è titolare37.

Quindi è possibile accorpare alla massa fallimentare beni che sono sopravvenuti al fallimento, beni la cui disposizione si debba considerare inopponibile al fallimento e beni la cui alienazione è stata oggetto di revoca38.

37 SCHIANO DI PEPE L., Il diritto fallimentare riformato: commento

sistematico, CEDAM, Padova, 2007, 103

38 Prima dell’abolizione della presunzione muciana, il decreto di

acquisizione veniva utilizzato anche per i beni acquistati dal coniuge del fallito contro il quale operava tale presunzione.

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4.1 Acquisizione di beni sopravvenuti

È possibile affermare che non si pongono particolari problematiche per l’acquisizione dei beni del fallito che non sono stati compresi nell’inventario, poiché da lui occultati o sottratti, esistenti all’atto della dichiarazione di fallimento.

Sono esclusi, ovviamente, i beni che per legge non possono formare oggetto di espropriazione come indicati dall’art. 46 legge fallimentare.

Discusso, invece, è il meccanismo di acquisizione di beni che sono sopravvenuti al fallito nel corso della procedura fallimentare.

Un primo orientamento, sulla base che l’art. 42 l. fall. dispone che eventuali beni sopravvenuti «sono compresi nel fallimento», sostiene l’acquisizione automatica a tali beni, per cui non vi sarebbe la necessità di ricorrere ai decreti di

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acquisizione. In dottrina molti autori sono orientati in tal senso, anche se presentano fra loro alcuni elementi diversi.

Taluno afferma che l’acquisizione ipso iure non implica che il fallimento debba necessariamente acquisire il bene, ma che una volta manifestata la volontà la successiva attività necessaria sarebbe puramente esecutiva39.

Un altro autore, dopo aver affermato che l’acquisizione è automatica, aggiunge che essa si concreterà ordinariamente in un decreto di acquisizione40.

Ulteriore dottrina specifica che l’entrata del bene nel patrimonio fallimentare avviene ipso iure e che il provvedimento del giudice delegato serva o per far entrare nel patrimonio l’intero rapporto giuridico da cui il bene e le passività eventuali dipendono indivisibilmente, o per farvi rientrare le ulteriori passività non collegate con l’acquisto del

39 SATTA S., Diritto Fallimentare, Padova, 1990, 139 ss

40 PROVINCIALI R., Acquisizione di beni futuri, in Dir. Fall., 1950,

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bene da un rapporto ancora operante, le quali, altrimenti, sarebbero acquisite nei limiti del valore del bene41.

Per un secondo orientamento, l’apprensione del bene si può verificare solo in seguito a una deliberazione dell’ufficio, individuata nel decreto di acquisizione, e non automaticamente.

Alcuni autori affermano che i beni futuri sono vincolati ipso iure all’amministrazione fallimentare, a seguito della loro comparsa nel patrimonio del fallito, ma lo spossessamento effettivo sarebbe ritardato al momento in cui sia eseguita, in via extrafallimentare, la deduzione delle eventuali passività del bene42.

41 DE MARTINI A., Il patrimonio del debitore nelle procedure

concorsuali, Milano, 1956, 136

42 VERNARECCI DI FOSSOMBRONE G., Capacità commerciale del

fallito e fallimento plurimo, Milano, 1958, 113; PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986, 276

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Secondo l’interpretazione dominante, la manifestazione di volontà di apprensione del bene al fallimento consiste in un decreto di acquisizione del giudice delegato43.

Sembra più plausibile condividere la seconda impostazione, ammettendo la necessità di un decreto di acquisizione per comprendere nel fallimento i beni che pervengono al fallito nel corso della procedura, in quanto tale decreto rappresenterà una garanzia di legittimità dello svolgimento di tale operazione.

43 RAGUSA MAGGIORE G., Istituzioni di diritto fallimentare,

Padova, 1988, 225; COLAFRANCESCHI G., Il decreto di

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4.2 Acquisizione di beni colpiti da azione revocatoria

Anche in merito all’apprensione di beni oggetto di un atto revocato si presentano, in dottrina e in giurisprudenza, opposte interpretazioni.

Secondo il supremo Collegio, nel caso in cui l’oggetto dell’atto impugnato sia un bene determinato non è necessario che il curatore richieda la revoca dell’atto, né la condanna del terzo alla restituzione del bene44.

Secondo un orientamento, quindi, contro il terzo non sarebbe necessario né un titolo esecutivo, né il ricorso all’esecuzione singolare, poiché i mezzi per apprendere i beni oggetto della revoca sarebbero i medesimi di quelli utilizzati per acquisire i beni del fallito in seguito alla dichiarazione di fallimento.

Occorrerà, di conseguenza, che per i beni mobili si proceda all’apposizione di sigilli, alla loro inventariazione e alla loro

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presa in consegna, mentre per i beni immobili sarà necessaria la registrazione della sentenza di revocazione dell’atto nei pubblici registri, a margine dell’atto revocato medesimo.

Per questo, secondo tale pensiero, non sarebbe necessario un decreto di acquisizione da parte del giudice delegato fallimentare45.

Viceversa, la corrente opposta afferma la necessità di emanazione di un decreto di acquisizione per il materiale assoggettamento al fallimento del bene oggetto di atto revocato46.

Per l’apprensione di beni oggetto di atto revocato non sussiste la necessità di garanzia nei confronti di terzi, e forse l’assoggettamento potrebbe avvenire mediante inventario o

45 MAFFEI ALBERTI A., II anno nella revocatoria, Padova, 1970,

194; PROVINCIALI R., Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, II, 1014; FERRARA F., Il fallimento, Giuffrè, 1995, 371

46 Tribunale Roma, 17 marzo 1964, in Banca e borsa, 1967, II, 630;

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registrazione a seconda che siano beni mobili o immobili, anziché ricorrendo a decreto del giudice delegato.

In tal caso, il decreto di acquisizione sarebbe a sua volta impugnabile, e riaprirebbe un esame che ha ad oggetto il medesimo per il quale è stata esercitata azione revocatoria.

In questo senso, è più condivisibile il primo orientamento, secondo il quale per i beni determinati oggetto di atto revocato, si richiede l’acquisizione al fallimento con le stesse modalità previste per i beni del fallito, avvenuta la dichiarazione di fallimento.

Infine, nel caso in cui il bene sia invece non determinato, quale una somma di denaro, il curatore dovrà richiedere la condanna del terzo al pagamento del valore dei beni non individuabili, per ottenere un titolo esecutivo, al fine di assoggettare ad esecuzione il patrimonio del terzo47.

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4.3 Limiti acquisizione bancaria

Prima della riforma del 2006, nacque una controversia in merito al fatto se il giudice delegato, su istanza del curatore, potesse ordinare l’acquisizione della documentazione inerente al rapporto di conto corrente intrattenuto dal debitore prima dell’apertura del fallimento.

Tale dibattito, che merita di essere richiamato per i riflessi che può comportare anche nella nuova disciplina, ebbe molta rilevanza sia perché dinanzi alla necessità del curatore di ricostruire l’evoluzione del rapporto bancario, gli istituti di credito si erano opposti alla richiesta di esibizione, che avrebbe potuto individuare fatti e circostante utili ad azioni revocatorie, sia perché l’orientamento giurisprudenziale era molto disomogeneo.

Un primo orientamento sostenne l’ammissibilità di un provvedimento del giudice delegato che ordinasse alla banca

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di esibire la documentazione delle operazioni di conto corrente bancario del fallito avvenute nei cinque anni precedenti.

Successivamente si chiarì che la pretesa non poteva rientrare nel provvedimento ex art. 25, n. 2, l. fall. e che in tale caso il curatore avrebbe dovuto far ricorso ai procedimenti di cognizione e di urgenza nei limiti della giurisdizione italiana.

Sotto un diverso profilo è stato affermato in dottrina che la pretesa del curatore non possa tradursi in una lesione della sfera giuridica del fideiussore e del terzo.48

48 JORIO A., Il nuovo diritto fallimentare, Zanichelli, Torino, 2006,

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4.3.1 Acquisizione bancaria e misure cautelari

Come precedentemente affermato, se i terzi in possesso dei beni non sono consenzienti, all’ufficio fallimentare non resta che il ricorso ai normali strumenti di accertamento e tutela, ossia all’ordinario giudizio di cognizione; ma a causa dei tempi di tale giudizio, che non rispondono alle esigenze di celerità della procedura fallimentare, i curatori hanno tentato di ricercare quali strumenti fossero più rapidi ed efficaci per raggiungere lo scopo.

Per quanto riguarda l’acquisizione bancaria, ci si è chiesti anche se siano possibili mezzi processuali cautelari o di urgenza e va rilevato che sul classico provvedimento di urgenza di natura anticipatoria previsto dall’art. 700 c.p.c. non vi è opinione univoca dei giudici di merito.

Da parte delle banche è stato affermato che la tutela cautelare non è ammissibile quando esaurisce la materia del contendere:

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il provvedimento cautelare renderebbe del tutto inutile la pronuncia di merito, dato che gli effetti sono prodotti dallo stesso, per di più in modo irreversibile; quindi la situazione del resistente che riesce vittorioso nella successiva fase del merito sarebbe pregiudicata.

Al contrario, si è affermato che la pronuncia finale, anche se si sovrappone al provvedimento urgente, non è mai inutile in quanto lo rende stabile e definitivo.

Non appare praticabile il sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c.: visto che non sono beni che necessitano custodia o gestione temporanea nel corso del giudizio, è possibile continuare a custodirli in banca, in tutto il periodo del giudizio, senza alcun pregiudizio per l’altra parte.

Sicuramente è ammessa la tutela monitoria costituita dal ricorso del decreto ingiuntivo di consegna di cosa mobile ex art. 633 c.p.c.: in quanto in tale norma si prevede che sia necessaria la prova scritta del diritto fatto valere, si è ritenuto

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in tal caso possa bastare la produzione del contratto di conto corrente stipulato a suo tempo dal fallito49.

5. Condizioni

Affinché il decreto di acquisizione venga legittimamente emanato, è necessaria la presenza di un bene che rientra nella categoria di quelli che possono essere oggetto di tutela e che tale bene sia nell’attuale inerenza di pieno diritto del patrimonio del fallito, situazione che non si verifica qualora siano state esperite azioni di nullità, di annullamento, risoluzione di un contratto o azioni revocatorie che, se accolte, importino la condanna alla restituzione del bene stesso o ne compromettano l’acquisizione50.

49 DE VIRGILIIS G. C., Il fascino discreto del decreto di acquisizione,

in Dir. Fall., 2003, 3

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In generale, le misure ex art. 25, n. 2 l. fall. hanno il fine di prevenire il deterioramento di beni rientranti nel patrimonio del fallito o ad assicurarne la conservazione, ma anche di recuperare il possesso di un bene.

Tali misure vengono emesse quando sussiste il requisito dell’urgenza, che sembra lecito ritenere da intendersi nello stesso senso in cui viene richiesto per l’emissione dei provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., ossia che ricorra nel caso specifico un “pregiudizio imminente ed irreparabile”.

Per “imminente” si intende che vi sia fondato motivo di temere che il tempo occorrente all’ordinaria procedura possa sottoporre il diritto alla minaccia di un pregiudizio.

Per “irreparabilità” si intende l’impossibilità di poter, successivamente al pregiudizio, reinstaurare lo status quo ante; la valutazione di irreparabilità del danno viene diversamente effettuata: se si tratta di situazioni finali51, si

51 Per “situazione finale” si intende una situazione in cui la

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rivolgerà direttamente all’interesse protetto; nel caso in cui si sia in presenza di una situazione strumentale52, l’analisi si

concentrerà sull’interesse che la situazione strumentale è destinata a soddisfare.

6. Motivazione

Nonostante la legge niente disponga al riguardo, deve comunque ritenersi che i decreti di acquisizione debbano essere motivati ex art. 737 c.p.c.

Inoltre, la necessità della motivazione è rafforzata dal fatto che l’emanazione del decreto di acquisizione non presuppone

di essere titolari del diritto, senza la necessità dell’altrui cooperazione, e in cui i terzi devono limitarsi a non ostacolare l’esercizio dei poteri da parte del titolare (diritti assoluti, es. proprietà)

52 Per “situazione strumentale” si intende una situazione in cui

l’interesse tutelato necessita della cooperazione altrui (diritti relativi, es. diritto di credito)

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una previa instaurazione del contraddittorio, neppure col fallito53.

Per tale motivo è richiesto che il decreto di acquisizione sia dotato anche di motivazione: per permettere di utilizzare anche questa, nel caso in cui un soggetto interessato voglia opporsi al decreto mediante reclamo ex art. 26 l. fall.: in questo modo si tutela ugualmente il diritto di difesa previsto dall’art. 24 della Costituzione.

7. Legittimità

Affinché il decreto di acquisizione emesso dal giudice delegato sia ritenuto legittimo, è necessario che oggetto di questo sia un bene che può essere acquisito al fallimento

53 SCHIANO DI PEPE L., Il diritto fallimentare riformato: commento

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mediante tale strumento, ma soprattutto è necessario che il terzo non si opponga all’acquisizione del bene, confermando che questo è di proprietà del fallito.

Nel caso in cui sia emesso un decreto di acquisizione nei confronti di terzi che rivendichino un diritto incompatibile con l’apprensione del bene, la Cassazione ha ritenuto che tale decreto debba essere qualificato come giuridicamente inesistente, per carenza assoluta di potere, con la conseguenza che contro i medesimi, non suscettibili di acquisire autorità di giudicato, non è esperibile ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost., restando la possibilità per gli interessati di far valere, in ogni tempo e in ogni sede, la radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici.

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8. Rapporto con la revocatoria fallimentare

In passato, si è ipotizzato che attraverso l’esperimento di una misura cautelare atipica fosse possibile anticipare la decorrenza dei termini per l’esperimento delle azioni revocatorie da parte della curatela, per cui tale decorrenza è individuata dalla data di deposito della sentenza dichiarativa.

Risulta chiaro come tale linea di pensiero sia incompatibile con il sistema di calcolo dei periodi sospetti modificato con la riforma del 2006 e modifichi le disposizioni riguardanti prescrizioni e decadenze ex art. 69-bis l. fall. in modo ingiustificato.

Infatti, le misure cautelari anticipano gli effetti della sentenza dichiaratrice al fine di garantirne i risultati nel momento in cui si esplicheranno definitivamente alla dichiarazione di fallimento, ma non possono modificare regole che sono conseguenti solo alla sentenza stessa.

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Per tale motivo, il legislatore ha stabilito che il decreto di acquisizione è inammissibile ogniqualvolta sia destinato a produrre i medesimi effetti dell’accoglimento di un’azione revocatoria o di una qualsiasi altra azione da cui può derivare il diritto del curatore di immettersi nel possesso di un bene di cui un terzo rivendica un diritto incompatibile.

Tuttavia, sarà possibile assoggettare il bene ad un sequestro giudiziario con nomina di un custode nell’ipotesi in cui la detenzione o il possesso del bene da parte del terzo possa provocare un pregiudizio materiale o giuridico al bene.

In tale caso, il terzo sarà direttamente coinvolto nel procedimento, al fine di assicurargli il contraddittorio.

Al contrario, il terzo che, coinvolto nella misura cautelare, non è stato escluso dal contraddittorio, potrà intervenire volontariamente nel processo o, in caso di accoglimento della domanda cautelare, proporre reclamo contro questa, oppure intervenire in sede di attuazione della misura, facendo valere

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le proprie eccezioni e contestazioni sul piano formale e sostanziale, nel contesto particolare di un incidente di esecuzione con le modalità di cui all’art. 669-duodecies c.p.c.54

9. Rapporto con il processo cautelare uniforme

Una volta riconosciuta la natura cautelare dei decreti di acquisizione e a seguito della riforma del processo cautelare attuata con la legge 353 del 1990 che introdusse il processo cautelare uniforme, è necessario analizzare il rapporto fra questo e i poteri cautelari disposti dal giudice delegato fallimentare.

54CECCHELLA C., Diritto Fallimentare, CEDAM, Wolters Kluwer,

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L’esigenza di trattare tale rapporto nasce

dall’art.669-quaterdecies c.p.c., secondo cui le norme degli artt. 669-bis

ss. devono essere applicate, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali.

Maggior rilievo ha la questione di compatibilità degli artt. 669-bis, 669-ter e 669-sexies, che riguardano rispettivamente la promovibilità del provvedimento ad istanza di parte, l’individuazione del giudice competente ante causam e le condizioni di concessione del provvedimento inaudita altera parte.

La tesi dominante impone all’interprete di verificare di volta in volta quali disposizioni della legge 353/1990 possano trovare applicazione nelle varie ipotesi di misure cautelari definite “extravagantes”: ogni singola disposizione della nuova disciplina troverà applicazione solo se non si porrà in contrasto con la disciplina speciale, in base al principio per

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cui la legge posteriore generale non deroga una legge precedente speciale.

La tesi della compatibilità parziale ipotizza la possibilità di introdurre l’istituto del contraddittorio differito tramite la giustapposizione dello schema procedimentale del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.

Il dettato costituzionale non ha contribuito a chiarire la permanenza in capo al giudice delegato del potere officioso di disporre misure cautelari in assenza di una domanda di parte in senso tecnico.

Per quanto dispone l’art. 669-sexies c.p.c., alla pronuncia del provvedimento cautelare uniforme può giungersi con ordinanza all’esito del contraddittorio ritualmente instaurato fra le parti, ma anche attraverso l’emissione di un decreto inaudita altera parte contenente la contestuale fissazione dell’udienza di comparizione delle parti dinanzi lo stesso giudice.

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