UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari Agro-ambientali
Corso di Laurea Magistrale in Produzioni Agroalimentari e Gestione degli agroecosistemi
Tesi di Laurea Magistrale
“Produttività e valore nutritivo di due prati monofiti
di Panicum virgatum L. coltivati in ambiente Mediterraneo”
RELATORE CANDIDATO
Prof. Marcello Mele Angelo Campo
CORRELATORE Prof. Enrico Bonari
Indice
1) Introduzione 5
1.1) L’agricoltura sostenibile tra passato e presente 5
1.2) Futuro dell’agricoltura sostenibile 9
1.2.1) Intensificazione sostenibile 9
1.3) L’agricoltura Toscana 12
1.3) La zootecnia Toscana 14
1.3.1) I dati del VI° censimento ISTAT (2010) 17
1.4) I Sistemi foraggeri 19
1.4.1) I fattori limitanti della foraggicoltura in ambiente Mediterraneo 29
1.5) Parametri qualitativi del foraggio 32
1.5.1) Contenuto in fibra 33
1.5.2) Contenuto proteico 35
1.5.3) Contenuto in lipidi o estratto etereo 37
1.5.4) Fattori antinutrizionali 38
1.6) Il Panico (Panicum virgatum L.) 40
1.6.1) Tassonomia e morfologia di Panico (Panicum virgatum L.) 41
1.6.2) Ecotipi, caratteri genetici e varietà del Panico (Panicum virgatum L.) 40
1.6.3) Ciclo biologico e fenologia del Panico (Panicum virgatum L.) 42
1.6.4) Importanza del Panico
(Panicum virgatum L.) 43
2) Scopo del lavoro 46
3) Materiali e metodi 47
3.1) Sito della prova, disegno sperimentale e varietà Impiegate 47
3.2) Analisi chimiche 50
3.3) Analisi statistica dei dati 64
4) Risultati e discussione 65
4.1) Dati metereologici a Pisa 65
4.2) Produttività e dinamica di accumulo della Biomassa 66
4.2) Caratteristiche nutritive del Panico 68
4.2.1) Varietà “Alamo” 68
4.2.2) Varietà “Blackwell” 69
4.3) Variazione stagionale della qualità del foraggio prodotto da prati di Panico nell’anno 2015 70
4.4) Andamento dell’energia netta contenuta nella biomassa di panico (Panicum virgatum L.) varietà Alamo e Blackwell 77
5) Conclusioni 78
6) Ringraziamenti 80
7) Bibliografia 81
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Introduzione
1.1) L’agricoltura sostenibile tra passato e presente
L’agricoltura come la conosciamo oggi è il risultato di profondi mutamenti avvenuti durante il XVIII e XIX secolo. Fino a quel momento per migliaia di anni, dalla rivoluzione neolitica alle rivoluzioni industriali, l’agricoltura si era caratterizzata per una certa stasi nell’innovazione delle tecniche. (Pretty & Barucha, 2014). Durante la prima rivoluzione industriale, infatti, numerosi furono i cambiamenti in ambito agricolo: (i) introduzione di nuove rotazioni colturali (ii) introduzione di nuove razze di bestiame maggiormente produttive (iii) miglioramento dei sistemi irrigui esistenti. L’innovazione tecnologica richiese aumento degli investimenti causando anche un aumento delle dimensioni aziendali: nacquero così i latifondi. Nonostante ciò, era nelle piccole aziende che veniva prodotto la maggior parte del cibo (Grain, 2014).
Oltre alla rivoluzione industriale del diciottesimo secolo, il cambiamento dell'agricoltura è da attribuirsi anche alla Rivoluzione Verde che ha interessato prima i paesi industrializzati e, successivamente, durante la metà del ventesimo secolo, anche i paesi tropicali (Pretty & Barucha, 2014). I sistemi di produzione agricola subirono una forte mutazione, indotta dall’utilizzo dei fertilizzanti minerali, dall’impiego di nuove varietà e specie derivanti da programmi di miglioramento genetico e dall'uso di pesticidi di sintesi, molto più efficaci rispetto al passato. Il risultato di questi cambiamenti è stato un’ "intensificazione" dei processi in agricoltura che ha garantito una quantità di cibo per persona decisamente
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superiore rispetto a pochi anni precedenti. Attualmente, nei paesi sviluppati, ogni persona dispone del 25% in più di cibo rispetto al 1960 (Pretty & Barucha, 2014).
Al giorno d’oggi, circa un terzo delle 3000 kCal pro-capite prodotte giornalmente, nei paesi sviluppati e industrializzati, viene sprecato (letteralmente buttato) (FAO, 2013), generando una perdita enorme di risorse. Oltre a questo, a causa di problemi di natura politica o sociale il cibo prodotto non è equamente distribuito (Rockstrom, 2009) generando così, contemporaneamente tre grandi "piaghe" alimentari a livello globale: la sottonutrizione, la malnutrizione e la sovranutrizione (Pretty & Barucha, 2014).
Circa due miliardi di persone soffrono di malnutrizione (FAO, 2013), ovvero la carenza di micronutrienti nella dieta (West, 2002; West & Darnton-Hill, 2008). Oltre un miliardo di persone sono invece sovranutrite (CMO, 2013).
L'intensificazione delle pratiche colturali, legato all’incremento degli input in agricoltura ha portato con se anche numerosi problemi di natura ambientale ed ecologica (Pretty & Barucha, 2014). Inoltre, l’industrializzazione di tutte le attività antropiche ha portato ad un aumento della quantità di gas clima-alteranti in atmosfera, riscaldando il pianeta e inducendo cambiamenti nel clima riconducibili a un incremento dei fenomeni di grande intensità come temporali, grandi periodi di siccità e raffiche di vento estreme.
La più grande quantità di carbonio sulla terra è racchiuso nel suolo, sotto forma per lo più di sostanza organica, che si è drasticamente ridotta a causa di numerosi fattori come deforestazione, erosione e pratiche
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agricole insostenibili (Jose & Bardhan, 2012).
Purtroppo, oltre al suolo, anche altri fattori chiave per l’agricoltura hanno subito delle forti pressioni antropiche; la FAO (2011) scrive appunto come negli ultimi decenni sia cresciuta in maniera esponenziale la domanda di acqua da parte dell’agricoltura e dell’industria innescando una sorta di competizione tra i due settori, provocando soprattutto nei paesi in via di sviluppo come Cina, India, Brasile e Sud Africa la crescita del divario tra offerta e domanda di acqua. Anche la biodiversità è oggetto di una forte pressione antropica; l’intensificazione dell’agricoltura ha provocato lo squilibrio tra diverse interazioni naturali come preda-predatore, una drastica riduzione degli insetti impollinatori e la perdita di un inestimabile patrimonio genetico di piante (Monfreda et al., 2008). L’agricoltura moderna è perciò ben lontana da essere il modello virtuoso di settore produttivo descritto in antichità. Infatti già al tempo degli antichi Romani, alcuni scrittori dell'epoca come Catone, Varrone e Columella, la descrivevano ricordando che il termine agricoltura è l’insieme di due parole: "agri" cioè il campo e tutte le sue pratiche di coltivazione, e "cultura" ovvero tutta la conoscenza che i contadini devono possedere affinché possano produrre cibo per tutti, senza alterare e danneggiare l'ambiente, quella che oggi definiremmo “sostenibilità”. Nonostante l’origine antica, il termine “sostenibilità” è stato introdotto per la prima volta solo nel 1972 alla prima conferenza ONU sull’ambiente e chiaramente definita nel 1987 con il rapporto Brundtland.
In questo trattato la sostenibilità assume il significato di “uno sviluppo che
soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Ovvero una compatibilità fra
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sviluppo e gestione delle risorse, rispettosa di un’equilibrata distribuzione tra le esigenze del presente e quelle delle generazioni future (Enciclopedia della scienza e della tecnica, 2008). Viene perciò introdotto un principio etico: la responsabilità da parte delle generazioni d'oggi nei confronti delle generazioni future. Per assolvere a ciò la sostenibilità ruota attorno a tre componenti fondamentali:
Sostenibilità economica: intesa come capacità di generare reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione;
Sostenibilità sociale: capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione, democrazia, partecipazione, giustizia) equamente distribuite per classi e genere;
Sostenibilità ambientale: capacità di mantenere qualità e riproducibilità delle risorse naturali.
L’agricoltura moderna perciò deve necessariamente trovare un nuovo equilibrio in grado di rendere nuovamente i processi sostenibili (Pretty & Barucha, 2014), attraverso l’adozione di nuovi sistemi agricoli alternativi (Pingali & Roger, 1995; Dobbs & Pretty, 2004) che permetteranno, come espressamente detto al IV° congresso Mondiale di agricoltura conservativa nel 2009, di produrre il cibo necessario per una popolazione mondiale in costante aumento e rispondere alle sfide del cambiamento climatico oramai evidente.
9 1.2) Futuro dell’agricoltura sostenibile
1.2.1) Intensificazione sostenibile
I processi produttivi in agricoltura sono attualmente caratterizzati da una elevata “intensificazione”, che li rende più dipendenti da input esterni e più vulnerabili a patogeni e ad avversità. Inoltre, questo processo porta alla perdita delle caratteristich di multifunzionalità che creavano esternalità positive (Bonaudo et al., 2013).
Al fine di recuperare sostenibilità senza perdere capacità produttiva, l’agricoltura dovrebbe percorrere la strada dell’ “intensificazione sostenibile” (Pretty & Barucha, 2014). Questo concetto racchiude in se numerose definizioni di agricoltura sostenibile: “intensificazione agroecologica” (Milder et al., 2012), “intensificazione verde dell’agricoltura” (DEFRA, 2012), “agricoltura sempreverde” (Snapp et al., 2011), “agricoltura alternativa” (NRC, 1989) sono per esempio alcune definizioni proposte in letteratura e che poggiano le basi sul medesimo intento, ovvero incrementare le produzioni agroalimentari senza causare danni all’ambiente (Royal Society, 2009).
Si delineano così alcuni attributi chiave per produrre equamente in maniera sostenibile (Pretty, 2008; Royal Society, 2009; Bonaudo et al., 2013):
Implementare e preservare la funzionalità degli agroecosistemi; Ottimizzare la disponibilità di nutrienti per animali e colture;
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di input utilizzati;
Evitare l’uso di input esterni non necessari e favorire l’uso di fonte energetiche rinnovabili;
Evitare di utilizzare processi agricoli con un forte impatto negativo sull’ambiente;
Potenziare le condizioni favorevoli per incrementare fenomeni naturali come fissazione dell’azoto, ciclo dei nutrienti, allelopatia, predazione e parassitismo;
Favorire processi agricoli che riducano al minino le emissioni di gas serra, l’inquinamento delle acque di falda, aumentare il sequestramento del carbonio nel suolo ed infine favorire la biodiversità.
I sistemi agricoli che adottano il principio dell’intensificazione sostenibile tendono a mostrare una serie di caratteristiche generali positive che li distinguono dagli altri sistemi produttivi convenzionali (Dobbs & Pretty, 2004; MEA, 2005; IAASTD, 2009). Primo, questi sistemi tornano ad essere multifunzionali e cioè, oltre a fornire abbastanza cibo per tutti, sono in grado di produrre altri numerosi servizi per la collettività, come la tutela del paesaggio e delle risorse agrarie e favorire il turismo (NRC, 2010). Secondo, l’intensificazione sostenibile rende l’agricoltura flessibile, in quanto la gestione di tutti i fattori connessi alla produzione devono essere applicati alle circostanze che caratterizzano il luogo specifico (Elliot et
al.,2013; De Schutter & Vanloqueren, 2011). Terzo, sono richieste delle
conoscenze approfondite da parte degli agricoltori, in maniera da essere in grado di gestire al meglio tutti i fattori produttivi che intervengono
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(Settle & Hama Garba, 2011; Royal Society, 2009).
Infine, l’intensificazione sostenibile deve fondare la sua base su strette relazioni sociali tra i vari produttori di uno stesso luogo, in quanto è stato dimostrato che sistemi agricoli con un tessuto sociale ben articolato e solido, sono in grado di migliorare la produttività media delle singole aziende (Pretty & Ward, 2001; Wennink & Heemskerk, 2004; Hall & Pretty, 2008).
In termini pratici l’intensificazione sostenibile prevede due approcci e altrettante pratiche (Tabella 1.1), attraverso le quali il principio dell’intensificazione sostenibile può essere realizzato nel contesto produttivo specifico (Fisher et al., 2014):
Tabella 1.1 - Approcci e pratiche dell’intensificazione sostenibile, (Fisher et al., 2014)
Approccio Pratica
Specializzazione dei sistemi agricoli Land Sparing Integrazione dei sistemi agricoli Land Sharing
Il “Land sharing” prevede che la superficie aziendale venga divisa in più appezzamenti; alcuni di essi sono esclusi dalla produzione per favorire la conservazione del suolo e della biodiversità, mentre altri appezzamenti vengono coltivati con essenze foraggere, con seminativi e anche utilizzati a pascolo: sostanzialmente quindi il “Land sharing” prevede un ciclo chiuso aziendale con una integrazione dei vari fattori produttivi che intervengono (Fischer et al., 2014). Nel caso del “Land sparing” l’organizzazione aziendale prevede sempre una suddivisione dei terreni, ma a differenza del “land sharing” i terreni coltivati subiscono una coltivazione intensiva, ottenendo perciò una specializzazione produttiva (Fischer et al., 2014). Le
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due pratiche inoltre, non sono considerate mutualmente divise, ma bensì possono essere inserite nello stesso contesto (Fischer et al., 2008; Scariot
et al., 2013).
L’intensificazione sostenibile evolve perciò in “pratiche agro - ecologiche multiple” che devono adattarsi inevitabilmente al luogo produttivo specifico (Pretty & Barucha, 2014); nei casi generali il land sparing è adatto per aziende di elevata estensione e con terreni omogenei, il land
sharing invece si adatta meglio a realtà aziendali con estensioni più ridotte
(Fischer et al., 2014). Fondamentalmente quindi l’intensificazione sostenibile, per essere applicata, deve necessariamente essere affiancata da una corretta gestione dell’agroecosistema.
1.2) L’agricoltura Toscana
Il censimento ISTAT dell’agricoltura del 2010 ha individuato sul territorio toscano un numero di imprese agricole di circa 72.690, ovvero il 4,5% del totale nazionale. Le aziende sono perlopiù di dimensione medio-piccola (tabella 1.2), occupano circa 1.300.000 ettari di superficie regionale (ISTAT, 2010) e si distribuiscono per la maggior parte nelle province di Grosseto, Arezzo e Firenze, comprendendo il 52% di superficie agricola totale e di SAU a livello regionale (ISTAT, 2010).
Le aziende Toscane sono perlopiù dedite alla coltivazione di specie legnose e seminativi, mentre i pascoli e prati permanenti e le foraggere avvicendate, interessate per l’allevamento zootecnico, ricoprono rispettivamente il 13% e 20% (ISTAT, 2010), localizzandosi prevalentemente nelle provincie di Grosseto, Firenze, Siena e Arezzo (Tabella 1.3).
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Tabella 1.2- Consistenza aziende per classe di superficie agricola utilizzata (SAU) in
Toscana (ISTAT, 2010) Fino a 0,99 1 - 1,99 2 - 4,99 5 -9,99 10 - 19,99 20 - 49,99 50 - 99,99 100< Totale Massa Carrara 709 541 871 564 373 189 28 14 3.293 Lucca 1.652 1.382 1.748 881 487 294 62 31 6.543 Pistoia 1.738 1.761 1.923 816 394 189 37 37 6.897 Firenze 1.407 1.691 2.590 1.812 1.222 1.006 414 366 10.523 Prato 140 171 248 170 90 58 26 26 929 Livorno 570 636 1.000 633 412 268 106 69 3.696 Pisa 1.121 1.180 1.641 958 678 687 351 286 6.912 Arezzo 2.151 2.210 3.340 2.150 1.501 1.118 396 277 13.146 Siena 1.041 1.036 1.741 1.269 1.046 1.158 556 602 8.461 Grosseto 895 1.348 2.266 2.092 2.408 2.166 689 418 12.286 Toscana 11.424 11.956 17.368 11.345 8.611 7.133 2.665 2.126 72.686
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Tabella 1.3- Consistenza in ettari in Toscana investite a pascolo, prato e foraggere
avvicendate (ISTAT, 2010) Pascoli e prati permanenti Foraggere avvicendate Massa Carrara 5.681,59 390,22 Lucca 8.202,09 902,89 Pistoia 2.661,09 821,92 Firenze 17.122,09 12.564,22 Prato 925,72 824,85 Livorno 1.737,26 4.874,92 Pisa 8.088,83 22.678,43 Arezzo 14.321,20 13.952,77 Siena 15.627,40 33.870,80 Grosseto 20.531,32 60.913,35 Toscana 94.898,59 151.794,37 1.3) La zootecnia Toscana
L’allevamento di bestiame ha sempre caratterizzato il nostro paese, infatti ogni regione d’Italia possiede sicuramente un’eccellenza produttiva. In Toscana, infatti, come è emerso dall’ultimo censimento ISTAT dell’agricoltura del 2010, sono presenti numerosi prodotti pregiati, quale la carne bovina ed i formaggi di pecora. Negli ultimi venticinque anni però il settore zootecnico Italiano ha subito dei forti cambiamenti accompagnati da una profonda crisi. A tal proposito, infatti, se si analizzano i dati del V° censimento ISTAT (2000) relativi alla regione Toscana, riportati in Tabella 1.4, 1.5 e Fig. 1.1, è possibile notare chiaramente come l’allevamento animale abbia subito una forte contrazione negativa:
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Tabella 1.4 - Consistenze e variazioni capi allevati, decennio 1990-2000 (ISTAT, 2000) BOVINI SUINI OVI-CAPRINI AVICUNICOLI EQUINI Totale in Toscana 103.008 171.641 571.837 4.028.915 18.589
Var. assolute 1990-2000
-46.701 -121.144 -179.008 -2.683.691 -4.475
Var. % 1990-2000 -31,2% -41,4% -23,8% -40% -19,4%
Tabella 1.5 - Consistenza aziende DECENNIO 1990-2000 (ISTAT, 2000)
BOVINI SUINI OVINI AVICOLI TOTALE Totale in Toscana 4.964 5.471 4.635 42.057 49.805
Var. % 1990-2000 -46,0% -54,0% -38,7% -33,0% -30,9%
Fig. 1.1 - Andamento numero aziende per classi di ampiezza, decennio 1990-2000
(ISTAT, 2000)
Fra le cause principali della crisi della zootecnia Italiana e quindi anche di quella Toscana, si possono individuare i seguenti fattori (Piano zootecnico della Regione Toscana, 2004):
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1. Evoluzione della produzione e dei mercati:
Forti eccedenze produttive a livello comunitario in diversi settori agroalimentari (latte e carne bovina), ereditate da periodi precedenti caratterizzati da elevate produzioni. Conseguentemente le politiche di settore erano tese essenzialmente a salvaguardare i prezzi dei prodotti, con evidenti squilibri dei mercati e crescente concorrenza dovuta alla globalizzazione dei mercati stessi;
2. Politiche di settore:
- politiche comunitarie non sempre complete, soprattutto nei confronti di settori tradizionalmente più poveri e meno competitivi (es. ovi-caprino);
- strategie di sviluppo rurale integrato non sufficientemente organiche;
- obbligo di adeguare gli allevamenti e le produzioni a normative di tipo igienico-sanitario con conseguenti necessità di forti investimenti non sostenibili dai piccoli allevatori.
3. Emergenze sanitarie:
Casi di BSE, Blue Tongue, influenza aviaria; problemi di rintracciabilità del prodotto lungo la filiera; ne è derivata una sfiducia sempre crescente del consumatore nei confronti dei prodotti animali ed un progressivo declino della loro immagine e dei prezzi;
4. Aspetti socio-culturali:
Elevata età media dei conduttori e scarso ricambio generazionale negli allevamenti a conduzione familiare con il conseguente abbandono da
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parte dei giovani dell’attività;
Abbandono di alcune attività zootecniche a favore di altre attività agricole che comportano un miglioramento della qualità della vita dell’operatore;
Maggiori costi derivanti dal giusto impegno rivolto alla tutela dell’ambiente e alla protezione del benessere degli animali da reddito.
1.3.1) I dati del VI° censimento ISTAT (2010)
Le aziende zootecniche in Toscana sono in totale 10.932 (tabella. 1.6), senza considerare le aziende che allevano struzzi, conigli, avicoli e api. In Toscana le aziende zootecniche rappresentano il 13,5% delle aziende agricole totali e la maggior parte di esse possiedono il centro aziendale nella provincia di Grosseto, dove ricade il 22% (ISTAT, 2010).
In Toscana il 34,5% delle aziende alleva bovini, il 32% ovi-caprini e il 31% di equini; i suini sono allevati dal 17% delle aziende (ISTAT, 2010). Considerando il numero totale di capi, le provincie con la consistenza maggiore sono quella di Grosseto, Arezzo e Siena (tabella. 1.8). Dividendo gli allevamenti per tipologia, le provincie con il più alto numero di capi bovini sono Grosseto, Firenze, Siena e Arezzo. Nel caso degli ovini è sempre la provincia di Grosseto, seguita da quella di Siena. Nel caso dei Suini la maggior parte dei capi sono allevati nella provincia di Arezzo, mentre i capi equini e caprini sono ripartiti più omogeneamente in tutta la superficie regionale (tabella 1.7). Particolarmente interessante è lo sviluppo quasi interamente nella provincia di Grosseto di allevamenti bufalini, i quali erano inesistenti fino agli inizi degli anni duemila (ISTAT,
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2010).
Tabella 1.6 - Consistenza allevamenti in Toscana (ISTAT, 2010)
Bovini Bufalini Ovini Caprini Suini Equini Totale Massa Carrara 497 3 130 51 61 317 1.059 Lucca 494 0 146 136 143 247 1.166 Pistoia 127 0 53 45 51 175 451 Firenze 395 1 226 133 149 478 1.382 Livorno 121 1 36 36 43 153 390 Pisa 281 0 202 90 146 273 992 Arezzo 477 2 274 115 296 351 1.515 Siena 281 0 302 61 176 358 1.178 Grosseto 692 11 964 84 204 664 2.619 Prato 50 0 26 23 24 57 180 TOTALE: 3.415 18 2.359 774 1.293 3.073 10.932
Tabella 1.7 - Consistenza capi allevati in Toscana (ISTAT, 2010):
Bovini Bufalini Ovini Caprini Suini Equini Totale Massa Carrara 2.607 19 6.442 956 1.216 1215 12.455 Lucca 4.863 0 8.584 2.670 1.822 805 18.744 Pistoia 4.628 0 3.854 648 2.238 745 12.113 Firenze 12.034 2 24.550 1.650 10.118 2301 50.655 Livorno 3.057 332 6.796 635 802 805 12.427 Pisa 7.719 0 48.259 1.022 9.415 1.524 67.939 Arezzo 13.887 41 20.715 1.320 62.730 1.434 100.127 Siena 10.951 0 121.391 1.237 14.773 2.200 150.552 Grosseto 25.128 1.275 229.602 1.552 15.911 3.303 276.771 Prato 497 0 871 307 205 287 2.167 Totale: 85.371 1.669 471.064 11.997 119.230 14.619 703.950
In conclusione, favorire e sostenere lo sviluppo della zootecnia è necessario, in quanto l’allevamento nel nostro paese e nella regione Toscana, gioca un ruolo chiave nello sviluppo del territorio e dell’economia di un’intera nazione (Idda, 1978).
19 1.4) I sistemi foraggeri
Con il termine “foraggio” si intende l’intera parte vegetativa di una pianta, costituito da elementi ad alto valore nutritivo, proteine e zuccheri, unitamente a nutrienti più complessi, come i carboidrati strutturali (cellulosa, emicellulosa, pectine, lignina), destinati all’alimentazione del bestiame. Di conseguenza, si definiscono come “piante foraggere” quelle essenze vegetali spontanee o coltivate che, in una determinata fase del loro sviluppo, possono essere utilizzate per produrre foraggio. In questo senso, la parte riproduttiva di un vegetale (frutti e semi), non rientra nella definizione di foraggio, perché caratterizzata da un’elevata concentrazione calorica ed un basso contenuto in fibra grezza, e viene in genere indicata come “concentrato”. Le singole essenze foraggere comunque, devono essere considerate all’interno di una realtà ben più complessa: il sistema foraggero. Per definizione un “sistema” è: “un insieme di elementi in
interazione dinamica, organizzato in funzione di uno scopo “(De Rosnay,
1978).
Per i sistemi foraggeri la definizione può essere meglio circostanziata considerandoli come: “associazione di produzioni e tecniche in interazione
dinamica, inserite in un determinato contesto ambientale e socio-economico, con le quali si cerca il massimo soddisfacimento delle esigenze alimentari dell’allevamento” (Cereti & Talamucci, 1991). I sistemi foraggeri
sono estremamente variegati e complessi, a seconda del contesto ambientale e socio economico nel quale l’imprenditore deve operare. La scelta del sistema foraggero che meglio sposa la situazione aziendale propria appare quindi di notevole complessità, dovuta principalmente ad
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alcune considerazioni di natura tecnico-gestionale ed organizzativa:
Esigenze alimentari del bestiame allevato: il sistema foraggero deve necessariamente soddisfare le esigenze nutrizionali dei capi allevati; tali fabbisogni sono ovviamente in stretta relazione con alcuni aspetti, come specie, razza e consistenza dei capi animali allevati, indirizzo produttivo, livello di selezione genetica e tipologia di allevamento (Rynieri & Bergoglio, 1998);
Scelta delle colture foraggere adatte: le colture foraggere si dividono in specie macroterme e specie microterme, dipendendo dalle caratteristiche ambientali richieste per germinare, accrescersi, riprodursi e tipo di metabolismo fotosintetico (C3 e C4) (Ludlow, 1985; Winslow et al., 2003). Entrambe le tipologie crescono dall’equatore fino alle alte latitudini, e la separazione tra specie macroterme e specie microterme, è dovuta principalmente alla capacità di sopravvivere alle alte o basse temperature rispettivamente, e in misura minore per il loro diverso optimum di temperatura per la crescita e la fotosintesi (Gherbin et al., 2007). Le specie foraggere C3 crescono principalmente durante i mesi primaverili e in buona parte dell’autunno, mentre per le specie C4 lo sviluppo è principalmente nei mesi più caldi (Gherbin et al., 2007). L’adozione di essenze foraggere adatte alla situazione aziendale e alle esigenze alimentari dei capi allevati, gioca un ruolo determinante nella riuscita dell’impresa. Nei casi più generali, un’essenza foraggera deve presentare una buona elasticità produttiva, una buona stabilità nel tempo (nel caso di foraggere pluriennali) e assicurare il più possibile una continuità produttiva nel
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corso dell’anno. Una specie foraggera, inoltre, deve anche assicurare alcune esternalità positive, come ad esempio aumentare la copertura del suolo per ridurre i rischi di erosione e ed essere in grado di conservare la sostanza organica nei suoli.
Caratterizzazione della produzione: nello studio di un sistema foraggero è importante conoscere non solo la produzione areica delle colture, ma anche gli aspetti qualitativi del foraggio, in termini di valore nutritivo e digeribilità;
Modalità di utilizzazione e conservazione del foraggio: l’utilizzazione e la conservazione del foraggio sono conseguenti al tipo di foraggera adottata nel sistema colturale, alla specie e razza allevata e all’andamento della produzione nel corso della stagione vegetativa.
I sistemi foraggeri vengono definiti in base alle modalità di utilizzo delle risorse foraggere (Cereti & Talamucci, 1990): pascoli, prati ed erbai.
Pascoli
Il pascolo è una formazione vegetale, naturale o naturalizzata, composta essenzialmente da piante erbacee, perenni, vivaci o autoriseminanti, che producono foraggio consumato dagli animali sul posto. Il pascolo può essere una formazione foraggera permanente (di solito su appezzamenti non adatti alla coltivazione per eccessiva pendenza, scarso profilo, rocce affioranti) oppure temporanea, cioè preceduta e/o seguita da colture diverse da quelle pascolive ed inserita in una rotazione colturale.
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quale risorsa foraggera va valutata in base ad alcuni fattori (Cerreti & Talamucci, 1990):
1) Composizione floristica: in un pascolo convivono molte specie;
erbacee, arbustive e anche (talvolta) arboree, appartenenti a diverse famiglie botaniche. Di tutte le specie botaniche che compongono il pascolo, una caratteristica fondamentale è la pabularità, vale a dire la sua attitudine ad essere consumata dal bestiame al pascolo (ovini, caprini e bovini), in condizioni normali di alimentazione. È bene chiarire che la pabularità di una specie vegetale non è una caratteristica assoluta, ma varia con la fase fenologica della pianta e/o con la parte della pianta consumata dagli animali al pascolo. L’insieme di tutte le essenze vegetali che compongono il pascolo, prende il nome di composizione floristica. Tale composizione, in un pascolo di buona qualità, dovrebbe prevedere la presenza abbondante di specie pabulari, una scarsa presenza di specie senza interesse pabulare e l’assenza di specie velenose. E’ tuttavia evidente che la composizione botanica di un pascolo è una caratteristica dinamica, strettamente collegata con l’ambiente pedo-climatico e con la tipologia di utilizzazione. Infatti nei casi più generali le essenze di un pascolo variano in base al clima (altitudine e latitudine), alla natura del terreno (pH, tessitura), all’età del pascolo, alla pressione di pascolamento e ad eventuali interventi colturali attuati dall’imprenditore agricolo (rinnovo cotico erboso, concimazione, diserbo selettivo). La composizione floristica di un pascolo è una caratteristica molto importante, per cui da tenere sempre in considerazione per una corretta gestione agronomica del pascolo stesso. Infatti la gestione ottimale del pascolo, oltre ad assicurare una corretta alimentazione del bestiame, permette anche di
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salvaguardare l’ambiente stesso dal degrado. Infatti è proprio il cotico erboso a garantire un’efficiente protezione contro l’erosione del suolo, soprattutto quando la pendenza è rilevante e nel caso di pendici orientate a sud, dove la copertura vegetale è soggetta a maggior stress, a causa di sbalzi termici più accentuati.
2) Stagione vegetativa: La distribuzione stagionale della crescita
dell’erba è un elemento di grandissima importanza perché determina la stagione di pascolamento, che dovrebbe essere la più lunga possibile. In genere, i pascoli italiani sono caratterizzati da periodi di stasi di crescita alquanto prolungati ed in genere coincidenti con la stagione estiva (per carenza idrica) e con la stagione invernale (per carenza termica).
3) Produzione totale annua del pascolo; 4) Intensità di crescita;
5) Capacità di carico di un pascolo: Il carico del bestiame è un dato
fondamentale da prendere in considerazione per una corretta gestione del pascolo.
Tale valore viene determinato empiricamente attraverso una formula (Cereti & Talamucci, 1991): CB = P / CA*K dove:
CB: Carico del bestiame espresso in numero capi / HA di pascolo P = Produzione di foraggio disponibile;
CA = coefficiente di ingestione degli animali al pascolo; K = Coefficiente di utilizzazione del foraggio;
Riguardo infine alle diverse tecniche di pascolamento è possibile elencarne almeno tre (Vargiu et al., 1998):
Pascolamento libero: Il pascolamento libero è un sistema estensivo che prevede la presenza continua di animali liberi nel pascolo. Nella
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zootecnia estensiva, in particolare nelle zone dove è presente anche della macchia mediterranea, il pascolamento libero può essere inoltre accoppiato con le foreste; si delinea così una tecnica ad alto valore ecologico: la “wood – pastures” (Plieninger et al., 2015) definito in Italiano come sistema “silvo - pastorale”. In questa tecnica gli animali hanno a disposizione un pascolo dove alimentarsi e un ricovero naturale come la macchia mediterranea. Numerosi sono i benefici derivanti, sia di ordine ambientale (miglior sequestro di carbonio e macro e micro nutrienti) sia di ordine di benessere animale. Il pascolamento libero, in termini economici, ha anche il pregio di avere bassi costi di investimento e manodopera ed è quindi applicabile in ambienti caratterizzati da condizioni climatiche che permettono una crescita continua e regolare dell’erba, oppure in situazioni caratterizzate da una potenzialità produttiva troppo limitata, tale da rendere antieconomico qualsiasi intervento di intensificazione colturale. Per contro, numerosi sono gli svantaggi; elevato calpestio, scarsa ed irregolare utilizzazione del cotico erboso che porta ad una diffusione eccessiva delle specie poco pabulari rispetto a quelle molto appetite, difficoltà nell’effettuare controlli sulla qualità e sulla quantità dell’alimentazione dei singoli soggetti e un razionamento irregolare, con periodi di sovralimentazione e periodi di sottoalimentazione;
Pascolamento turnato: Il pascolamento turnato (o a rotazione) è un sistema più intensivo e razionale del precedente, che prevede la suddivisione del pascolo in più sezioni, mediante recinzioni fisse. Gli animali vengono liberati in una sezione, nella quale rimangono per
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tutto il tempo necessario a consumare completamente la vegetazione presente (massimo 7 giorni). Subito dopo gli animali vengono spostati nella sezione successiva. Uno dei vantaggi del pascolamento turnato è la possibilità di scegliere l’epoca ottimale per il consumo delle specie vegetali presenti ma anche un miglior coefficiente di utilizzazione del pascolo. Gli elevati costi per la creazione delle recinzioni di suddivisione del pascolo, è uno dei maggior svantaggi di questo tipo di pascolamento;
Pascolamento razionato: Il pascolamento razionato è simile al pascolamento turnato, solo che le sezioni divise con recinzioni fisse vengono ulteriormente suddivise con recinzioni mobili in diverse sub-sezioni, caratterizzate ciascuna da una produzione di foraggio coincidente con la razione giornaliera di un ben definito gruppo di animali, che stazionano quindi in questa sezione solo per un giorno e vengono poi spostati nella sezione successiva. Rispetto al pascolamento libero e a quello turnato, il pascolamento razionato è ancora più costoso (per via delle recinzioni mobili) e richiede una gestione aziendale particolarmente impegnativa, ma consente notevoli vantaggi, tra cui un elevato rispetto per la vegetazione pascoliva, che viene completamente consumata in un giorno ed ha poi un periodo di riposo molto ampio, durante il quale viene evitata ogni forma di calpestio.
Prato
I prati sono colture foraggere poliennali (durata media da 2 a 5 anni) che vengono impiantate per produrre foraggio, da utilizzare previa raccolta
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(sfalcio). In genere i prati sono inseriti all’interno di specifiche rotazioni colturali, cioè seguono e precedono un’altra coltura, rientrando perciò nei sistemi produttivi integrati.
In termini di composizione floristica, i prati possono essere classificati in: 1) Prati monofiti (composti da una sola specie in purezza);
2) Prati oligofiti (composti da poche specie, in genere 2 o 3 massimo);
3) Prati polifiti (composti da molte specie).
La scelta delle essenze da prato viene fatta in base alle condizioni ambientali del luogo e alle caratteristiche del suolo (Betti et al., 1992). Le principali famiglie adottate sono essenzialmente due: graminacee e leguminose (Tabella 1.8) e (Tabella 1.9). Le caratteristiche peculiari che le graminacee e leguminose devono possedere sono (i) durata del ciclo (ii) epoca di fioritura (iii) taglia e portamento (iv) resistenza alla siccità (Bozzo
et al., 1996). Una particolarità assai interessante che le leguminose
possiedono è la simbiosi con batteri del genere Rhizobium presenti, nella maggior parte dei casi, nel terreno. Questi batteri penetrano nelle radici della leguminosa subito dopo l’affrancamento delle piantine e formano, sulle radici stesse, dei caratteristici tubercoli. I batteri svolgono un’importante azione di azoto fissazione, che porta alla trasformazione dell’azoto atmosferico in azoto ammoniacale, utilizzato successivamente dalla pianta per le proprie esigenze nutritive (Scotti et al., 1987). Le essenze da prato sono utilizzate quasi esclusivamente attraverso la fienagione (Reynieri & Bergoglio, 1998) e in particolare per le leguminose è molto importante evitare la perdita delle foglie, che oltre ad essere la parte più delicata del foraggio è anche la più nutriente.
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Il pascolamento e l’insilamento sono meno praticate (Basso et al., 1996). Il pascolo e il prato infine possono talvolta essere riunite insieme nel prato– pascolo (Cereti & Talamucci, 1991).
La definizione di tale sistema foraggero può essere definita come coltura foraggera utilizzata con uno sfalcio (in genere primaverile) e successivamente tramite pascolamento.
Tabella 1.8 - Le graminacee da prato (Tabaglio et al., 2000) Nome scientifico Nome volgare
Dactylis glomerata L. Erba mazzolina Festuca arundinacea Schreb. Festuca arundinacea Phleum pratense L. Fleolo o Coda di topo
Lolium perenne L. Loietto
Tabella 1.9 – Le leguminose da prato, (Tabaglio et al., 2000)
Nome scientifico Nome comune
Medicago sativa L. Erba medica
Trifolium pratense L. Trifoglio pratense o Trifoglio violetto Trifolium repens L. Trifoglio bianco
Hedysarum coronarium L. Sulla Onobrychis viciifolia Scop. Lupinella Lotus corniculatus L. Ginestrino
Erbai
Gli erbai sono colture foraggere a ciclo breve, della durata massima di un anno e particolarmente diffuse nei sistemi agricoli intensiva, in modo da sfruttare al massimo gli intervalli di tempo climaticamente più favorevoli per ottenere le produzioni più abbondanti e qualitativamente migliori. Rispetto ai prati, gli erbai presentano alcuni vantaggi: (i) elevata potenzialità produttiva (elevati contenuti energetici) (ii) semplicità organizzativa (breve durata della coltura) (iii) intercalarità tra due colture
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principali. Negli ultimi decenni le numerose caratteristiche positive degli erbai ne hanno infatti comportato una netta diffusione rispetto ad altri sistemi foraggeri (Pardini et al., 1996).
La classificazione degli erbai è basata sul periodo di crescita delle essenze vegetali adottate:
Erbai autunno-vernini: gli erbai autunno-vernini sono caratterizzati da un ciclo biologico che si svolge nel corso della stagione autunno - invernale e si conclude in primavera (più o meno avanzata). Il principale interesse legato alla coltivazione di questi erbai è legato al fatto che vengono praticati in una stagione normalmente piovosa e e nel bacino del Mediterraneo e quindi non necessitano di alcun apporto irriguo. Le specie foraggere utilizzabili per gli erbai autunno-primaverili appartengono alle famiglie delle graminacee e delle leguminose (Tabella 1.10).
Erbai primaverili-estivi: sono caratterizzati invece da un ciclo primaverile estivo. Quindi tra le essenze vegetali proposte, ritroviamo tutte le specie con semina in fine inverno - inizio primavera e con la raccolta nel corso della stagione estiva. Si tratta in genere di specie macroterme, di notevole produttività, ma anche con elevate esigenze idriche, che ne limita fortemente la diffusione nelle zone centrali e meridionali d’Italia (Pardini et al., 1996). Le specie più interessanti come foraggere da erbaio primaverile - estivo sono mais e sorgo, considerate come foraggere solo quando impiegate per produrre biomassa e non granella.
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Tabella 1.10 - Principali essenze per prati autunno-vernini, (Tabaglio et al., 2000)
Ordine Nome scientifico Nome comune
Graminaceae Triticum aestivum L. Grano tenero
Graminaceae Hordeum vulgare L. Orzo
Graminaceae Avena sativa L. Avena
Graminaceae Secale cereale L. Segale
Graminaceae Lolium multiflorum Lam. Loiessa
Leguminosae Vicia sativa L Veccia comune
Leguminosae Vicia faba L. var. minor Beck Favino
Leguminosae Vicia faba L. var. equina Pers. Favetta
Leguminosae Pisum arvense L. Pisello da foraggio
La classica utilizzazione degli erbai è l’insilamento, mentre il pascolamento e la fienagione sono poco praticate (Ciotti, 1992).
1.4.1) I fattori limitanti della foraggicoltura in ambiente mediterraneo
Nel continente Europeo sono presenti numerose differenze in ambito climatico che delinenao quattro diversi ambienti climatici (Tabella 1.11).
Tabella 1.11 – Le zone climatiche in Europa Tipo di clima Zona interessata
Subartico Nord Europa
Continentale Europa sud-occidentale e sud-orientale
Atlantico Isole Britanniche, Svezia, Norvegia, Germania, Portogallo, Belgio e Danimarca
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Il termine “clima mediterraneo” è oramai accettato all’unanimità per indicare quelle particolari condizioni di clima caratterizzate da inverni miti e piovosi ed estati calde e siccitose (Rivoria, 1976). Una classificazione più dettagliata ed esauriente, ai fini agronomici, è stata proposta da Aschmann (1973). Nella sua classificazione vengono tenuto in considerazione le l’incidenza delle precipitazioni del periodo che va da novembre ad aprile rispetto al totale annuo e il numero di ore con temperatura inferiore a 0°C. Secondo tale definizione un’area è caratterizzata pertanto, da clima mediterraneo, quando oltre il 65% delle precipitazioni annue si verifica nei mesi da novembre ad aprile e quando la permanenza della temperatura al di sotto degli 0°C non supera il 3% del totale annuo (Aschmann, 1973; Rivoira, 1976).
Per cui, in considerazione delle mappe climatiche mondiali, il clima mediterraneo è presente in cinque zone del pianeta (nell’emisfero nord si estendono da 30° a 44° di latitudine, nell’emisfero sud da 28° a 38° di latitudine) e ricopre appena l’1% del totale delle emerse (Aschmann, 1973; Rivoira, 1976). Se ne deduce che la maggior parte delle coste dei paesi del mediterraneo, compresa ovviamente anche il centro – sud dell’Italia, sono assoggettate al clima mediterraneo (Gherbin et al., 2007). L’andamento pluviometrico, igrometrico, anemometrico e termico di questo regime climatico, delinea una fisionomia assai particolare alla foraggicoltura nelle zone mediterranee, che la associa spesso alla foraggicoltura delle zone aride dei sub - tropici (Rivoria, 1976).
Infatti, tenendo in considerazione che nel clima mediterraneo circa il 35% delle precipitazioni avvenga in primavera inoltrata e ottobre, ne consegue che nei mesi estivi (giugno, luglio, agosto e settembre) le precipitazioni
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siano assenti o agronomicamente trascurabili. Le specie foraggere in assenza di interventi irrigui o di piogge agronomicamente utili, nel periodo estivo, entrano inevitabilmente in stasi vegetativa con produzione nulla di foraggio (Rivoira, 1976). La siccità estiva, nelle regioni mediterranee, è quindi il principale fattore limitante della foraggicoltura (Gherbin et al., 2007) e quindi anche della zootecnia, specie se di tipo estensivo (Tsiplakou
et al., 2013). Effettivamente in questi ambienti la presenza di pascoli e
prati, in grado di fornire il foraggio al bestiame, è caratterizzata da una spiccata stagionalità, con una vigorosa ripresa vegetativa in primavera, un arresto vegetativo nei mesi estivi e una limitata ripresa vegetativa in autunno (Rivoira, 1976; Corleto, 1968; Pardini et al., 1987; Pazzi et al., 1990; Duranti et al., 1990).
La discontinuità delle produzioni incide negativamente soprattutto sotto l’aspetto economico. Ad esempio, aziende zootecniche che non sono in grado di soddisfare autonomamente il proprio fabbisogno di foraggio, poste quindi in uno stato di insufficienza, sono obbligate ad un esborso economico medio annuale piuttosto elevato per l’acquisto di foraggio sul mercato nazionale ed internazionale (Francesia et al., 2008). Una scelta adottata in passato è stata l’introduzione di interventi irrigui volti a sostenere la produzione nei periodi più caldi dell'anno, con numerosi problemi di carattere tecnico e problematiche legate all’utilizzo di risorse irrigue in ambito zootecnico (Gherbin et al., 2007). Considerando l’intervento irriguo come una pioggia, è doveroso, se non necessario, considerare degli aspetti molto importanti riguardo l’efficacia dell’intervento.
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fare riferimento all’entità degli apporti idrici, ma è indispensabile considerare altri elementi quali intensità oraria, tenore di umidità del terreno preesistenti e la situazione climatica che si instaura dopo l’intervento irriguo o una pioggia naturale. Anche un altro fattore, che spesso non viene considerato a dovere, ma che influisce sull’umidità del terreno e sulla evapotraspirazione del sistema “pianta – terreno” è il vento (Rivoira, 1975); esso può quindi rendere del tutto inefficace una pioggia o intervento irriguo in ambiente mediterraneo (Gherbin, et al., 2007). In termini di sostenibilità gli interventi irrigui, soprattutto in ambienti con elevati tassi di evapotraspirazione, rendono l’agricoltura non più sostenibile; sono a tutti noti i fenomeni di salinizzazione delle falde, dovuti ad uno sfruttamento troppo spinto, come per esempio nelle zone a clima mediterraneo dell’Australia (Turner, 2003). Razionalizzare una serie di strategie appropriate per rendere l’agricoltura e nello specifico la foraggicoltura nuovamente sostenibile è necessario (Tsiplakou et al., 2013).
1.5) Parametri qualitativi del foraggio
La determinazione delle caratteristiche di un foraggio è un valido strumento per mantenere e incrementare la qualità delle produzioni zootecniche in quanto il foraggio, per i ruminanti, è la base sulla quale si costruisce una razione bilanciata. Per poter sfruttare al meglio i foraggi prodotti in azienda è quindi necessario conoscerne la qualità attraverso l’analisi chimica dei principali componenti: contenuto e qualità della fibra, proteina grezza, estratto etereo e fattori antinutrizionali (C.V.A, 1980).
33 1.5.1) Contenuto in fibra
I carboidrati sono sostanze organiche formate da carbonio, idrogeno e ossigeno (Cappelli & Vannucchi, 2016). Dal punto di vista della distribuzione nella cellula vegetale, e quindi a seconda della composizione chimica e della degradabilità ruminale, sono suddivisi in due macro tipologie:
- Carboidrati non strutturali: tra questi sono compresi i carboidrati
del contenuto cellulare, gli amidi e gli zuccheri semplici. Sono presenti anche alcuni componenti della parete cellulare che risultano solubili, come le pectine.
- Carboidrati strutturali o fibra: I carboidrati strutturali sono invece gli
zuccheri che originano le componenti fibrose e strutturali della parete cellulare dei vegetali cellulosa, emicellulose e lignina.
Nello specifico la cellulosa (polisaccaride formato da numerose molecole di glucosio), attraverso l’enzima cellulasi prodotto dalla flora microbica ruminale, viene scissa prima in cellobiosio (disaccaride formato da due molecole di glucosio) e successivamente in molecole semplici di glucosio. La formazione di zuccheri semplici è comunque a carico anche della emicellulosa; questa è incorporata allo stato amorfo nella parete cellulare insieme alla cellulosa ed è composta non solo da glucosio ma anche da zuccheri pentosi come xilosio, galattosio e arabinosio, anche se la sua composizione varia considerevolmente da pianta a pianta.
La degradazione ruminale della emicellulosa produce pertanto numerosi zuccheri semplici oltre al glucosio. La lignina, che è un pesante e complesso polimero organico, rimane indigerita.
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Anche l’amido (polimero del glucosio) è attaccato dalla flora microbica, venendo difatti scisso in molecole di glucosio. Gli zuccheri semplici così ottenuti, sommati a quelli già presenti nel succo cellulare, costituiranno il substrato fermentativo per la flora microbica ruminale.
Nei microbi gli zuccheri semplici, isomerizzati a glucosio, entrano nella respirazione cellulare producendo piruvato. Il piruvato, in condizioni riducenti come nel caso dell’ambiente ruminale, viene fermentato con produzione di energia, metano, anidride carbonica e una importante classe di metaboliti finali quali gli acidi grassi volatili (AGV). Gli AGV così liberati dai microbi nel lumen del rumine, vengono assorbiti dalla parete ruminale e attraverso il circolo sanguigno sfruttati nei diversi tessuti dell’animale stesso. La fermentazione ruminale dei carboidrati strutturali, è la via principale mediante la quale il foraggio fornisce energia alla flora microbica ruminale e successivamente, tramite gli AGV prodotti dalla stessa flora microbica, al ruminante stesso (Balasini, 2010).
Le metodiche proposte in letteratura per la determinazione del contenuto in fibra nei foraggi sono due:
Schema Weende o della fibra grezza;
Schema Van Soest o delle componenti fibrose.
Lo schema Van Soest prevede la determinazione della componente NDF (Cellulosa, emicellulosa, lignina e silice), della ADF (Cellulosa, lignina e silice) e infine della ADL (Lignina e silice) (Van Soest, 1967).
La determinazione delle tre componenti fibrose è effettuata con trattamenti idrolitici a valori di pH differenti:
- Trattamento con detergente neutro: solubilizza i carboidrati non strutturali contenuti nel succo cellulare, lasciando inalterati invece i
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glucidi strutturali: emicellulosa, cellulosa, lignina e silice: NDF.
- Trattamento con detergente acido della NDF, che provoca la solubilizzazione delle emicellulose, determinando la componente ADF.
- Trattamento con acido solforico al 72% della ADF, provocando la solubilizzazione delle cellulose. Il residuo, contenente lignina e silice, viene incenerito per determinare il valore finale della ADL. Ne consegue quindi:
NDF – ADF= Emicellulosa ADF – ADL= Cellulosa ADL= Lignina
I carboidrati non strutturali (NSC), su campione essiccato, vengono determinati attraverso questa formula empirica:
NSC= 100 – (NDF + PG + EE + Ceneri)
1.5.2) Contenuto Proteico
Le proteine dal punto di vista chimico sono costituite da una o più catene peptidiche: eteropolimeri lineari formati da amminoacidi legati uno di seguito all’altro. L’unità fondamentale della proteina è l’amminoacido, che è a sua volta costituito da almeno un gruppo funzionale amminico (-NH2) ed uno carbossilico (-COOH) legati ad un carbonio centrale. All’atomo di carbonio centrale si trovano anche un idrogeno e un residuo “R” (Cappelli & Vannucchi, 2016). Il ruolo biologico delle proteine è di fondamentale importanza, in quanto durante la digestione queste vengono scisse nei diversi amminoacidi, che l’organismo utilizza a sua volta per i propri scopi metabolici.
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Generalmente per sintetizzare le proprie proteine. Anche nel ruminante il principio appena citato è valido, anche se devono essere fatte alcune considerazioni aggiuntive. Nel rumine è presente una flora microbica che, oltre a fermentare i glucidi pervenuti dalla dieta per i propri scopi metabolici, attacca e scinde anche le proteine con le proprie proteasi. Da tale attività batterica si forma perciò in ultimo ammoniaca (NH3) utilizzata dalla flora microbica ruminale per la sintesi delle proprie proteine, definite proteine microbiche. Il ruminante quindi non utilizza direttamente le proteine ottenute dalla dieta, ma bensì scompone le proteine microbiche quando i microbi vengono digeriti nello stomaco ghiandolare (Balasini 2010). La quota proteica di una dieta per un ruminante è comunque composta anche da una quota detta “proteine bypass” ovvero inattaccabile dai microbi del rumine e direttamente digerita dal ruminante nel proprio stomaco ghiandolare. Le proteine in ultimo quindi sono anch’esse un elemento fondamentale della dieta di un ruminante. Il contenuto proteico viene determinato attraverso la quantificazione dell’azoto totale, attraverso il metodo analitico ufficiale (D.M. n. 248 del 13/09/1999): il metodo Kjeldhal.
Il principio del metodo si basa sulla trasformazione dell’azoto organico, presente nel campione, in azoto minerale (solfato ammonico) attraverso l’attacco a caldo dell’acido solforico concentrato. Il principio quindi è una mineralizzazione. L’azoto mineralizzato sarà poi distillato ed infine titolato.
1.5.3) Contenuto lipidico o estratto etereo
I lipidi comprendono numerose sostanze con caratteristiche e proprietà diverse, insolubili in acqua e solubili invece in solventi apolari.
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Dal punto di vista funzionale i lipidi possiedono generalmente tre funzioni (Cappelli & Vannucchi, 2016):
1. Deposito (funzione di riserva energetica); 2. Lipidi cellulari (funzione strutturale);
3. Lipidi con specifiche attività biologiche (ormoni e messaggeri intracellulari).
Dal punto di vista strutturale, i lipidi sono costituiti prevalentemente da atomi di carbonio e di idrogeno uniti tra loro con legami covalenti scarsamente polari (caratteristica che conferisce il comportamento idrofobo) e disposti simmetricamente. In ambito zootecnico la quantità di lipidi nella dieta è assai basso, 2 – 3% sulla SS; nonostante ciò i lipidi nella dieta sono fondamentali, in quanto incrementano la concentrazione energetica della razione.
Nel rumine i lipidi pervenuti con la dieta sono principalmente sotto forma di gliceridi (monogliceridi, digliceridi e trigliceridi) e acidi grassi insaturi. La flora microbica ruminale perciò è in grado, attraverso la lipolisi, di scindere i gliceridi in glicerolo (fermentato a propionato) e acidi grassi insaturi. Gli acidi grassi insaturi (PUFA) vengono così idrogenati dai microrganismi ruminali (acidi grassi saturi). L’ultimo passaggio infine è l’assorbimento nell’intestino tenue.
La determinazione del contenuto in lipidi prevede la determinazione della quantità totale di sostanze solubili in etere di petrolio (da qua il nome estratto etereo), vale a dire i lipidi ma anche altri composti, come per esempio pigmenti, olii eterei, fosfolipidi, cere, steroli, resine, vitamine liposolubili.
38 1.5.4) Fattori antinutrizionali: saponine
Il nome “Saponina” deriva dalla Saponaria officinalis la quale possiede un elevato tenore di glicosidi terpenici nella sua sostanza secca; le saponine sono il secondo metabolita ad essere ampiamente presente nelle piante (Augustin et al., 2011). Le saponine sono delle molecole prodotte dalle piante come mezzo di difesa contro erbivori e patogeni, come funghi, batteri e insetti (Wina et al., 2005). Infatti negli animali erbivori, se ingerite, oltre a provocare il fenomeno della fotosensibilizzazione della cute, possono provocare numerosi e gravi problemi a livello ematico, fino alla morte. Inoltre, queste molecole sono in grado di abbassare la tensione superficiale in soluzioni acquose e possono provocare la formazione di soluzioni colloidali schiumeggianti che, se originate all’interno del rumine, possono indurre il rigonfiamento del rumine stesso e quindi la morte dell’animale. Strutturalmente le saponine sono formate dall'unione di residui zuccherini (glucosio, fruttosio, galattosio) con una molecola non zuccherina, detta aglicone chiamata nello specifico sapogenina.
I residui zuccherini sono presenti in numero variabile da una a sei unità unite in diverse posizioni, mentre le sapogenine hanno, invece, una struttura più complessa, riconducibile a due gruppi:
Triterpenico: struttura pentaciclica a 30 atomi di carbonio; Steroideo: struttura pentaciclica a 27 atomi di carbonio.
La determinazione delle saponine in un campione vegetale prevede due fasi: estrazione del materiale vegetale e quantificazione.
1) Estrazione
In generale le tecniche impiegate per l’estrazione delle saponine in un campione vegetale sono classificabili in due macro tipologie (Lee et al.,
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2009):
- Estrazione convenzionale
- Estrazione con tecnologia verde o “sostenibile”.
Nei metodi convenzionali rientrano le tecniche per macerazione, per riflusso e attraverso l’estrattore “Soxhlet”. Nelle tecniche a “tecnologia verde” invece vi sono quella a ultrasuoni (UAE), a microonde (MAE) e quella per solvente accelerato (ASE). La differenza sostanziale tra le due modalità estrattive è che la tecnologia “verde” prevede un uso più blando di sostanze chimiche spesso molto pericolose, temperature estrattive meno elevate e tempi più corti. Nei casi più generali quindi le tecniche estrattive “green” coinvolgono l’uso di materiali rinnovabili, reagenti meno pericolosi e più in generale una miglior prevenzione contro l’inquinamento ambientale, dovuto ovviamente a tutti i rifiuti prodotti con le analisi (Azmir et al., 2013; Cheok et al., 2014).
2) Quantificazione
La quantificazione delle saponine può essere eseguita attraverso due strumenti da laboratorio: lo spettrofotometro e il gas-cromatografo. L’uso dello spettrofotometro è una tecnica molto utilizzata, perché è agevole, poco costosa e veloce. Come è noto lo spettrofotometro è uno strumento che basa il suo meccanismo operativo sulla lettura dell’assorbanza di radiazione da parte del campione oggetto di analisi ad una certa lunghezza d’onda, in quanto l'assorbanza è in relazione lineare con la concentrazione di un campione. Nello specifico delle saponine quindi il principio base è la reazione di ossidazione della saponina con la vanillina con viraggio di colorazione mediante aggiunta di acido solforico (reazione colorimetrica)
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(Lee et al., 2010).
La tecnica del gas-cromatografo invece è un metodo usato specificatamente per isolare e quantificare specifiche saponine; effettivamente questo metodo è usato spesso nel campo della farmaceutica giustappunto per isolare e indentificare particolari saponine con caratteristiche interessanti per quel campo (Gupta et al., 2010; He et
al., 2012; Zheng et al., 2012).
1.6) Il Panico (Panicum virgatum L.)
Il Panico (Panicum virgatum L.), noto anche con altri nomi come
Switchgrass, erba wobsqua, panico alto, blackbent, agrostis selvatico ed
erba paglia, è una poacea C4, perenne e rizomatosa, nativa dell’America del Nord. Essa cresce in un ampio range di latitudine, a partire da 15° fino a 55° nord e si adatta anche a terreni marginali con diverse condizioni ambientali (Moser e Vogel 1995; Vogel et Al., 2002; Di Virgilio et al., 2006; Alexpoulou et al., 2008; Wang et al. 2010; Sadeghpour et al., 2015).
1.6.1) Tassonomia e morfologia del Panico (Panicum virgatum L.) Divisione: Angiosperme o Magnoliophyta
Classe: Monocotiledoni Ordine: Glumiflorae Famiglia: Graminaceae Genere: Panicum
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1.6.2) Ecotipi, caratteri genetici e varietà del Panico (Panicum virgatum
L.)
Attualmente si conoscono due ecotipi diversi del Panico (Panicum
virgatum L.), (Moser et al., 1995); l’ecotipo di pianura e l’ecotipo di
montagna (Elbersen et al., 2001), di cui sono state identificate alcune varietà (Tabella 1.12). Le varietà di pianura, in termini anglosassoni “Lowland”, si presentano di taglia maggiore rispetto a quelle collinari, e hanno area fogliare e diametro del fusto più ampio. Presentano un portamento più accestito ed infine tendono a crescere più rapidamente. Le varietà collinari, in Inglese “highland”, si presentano invece con stelo più fine e meno accestite (Porter, 1966; Moser & Vogel, 1995). I due ecotipi inoltre non sono geneticamente compatibili, infatti ibridazioni artificiali tra varietà “lowland” e “highland” sono state quasi sempre un insuccesso, così come l’autofecondazione (Nielsen, 1944; Taliaferro & Hopkins, 1997; Talbert et al., 1983). Il numero base cromosomico dello
switchgrass è X = 9, ma il livello di ploidia spazia da varietà diploidi (2N =
18) fino a varietà duodecaploidi (2N = 108) (Hulquist et al., 1996).
Tabella 1.12 - Principali varietà del Panico, (Elbersen et al., 2001) Varietà Ecotipo Livello di ploidia Origine Alamo Pianura Tetraploide Sud del Texas
Blackwell Collina Ottoploide Nord Oklahoma
Caddo Collina Ottoploide Grandi pianure del sud
Dacotah Collina Tetraploide? Nord Dacotah
Forestburg Collina Tetraploide? Sud Dacotah
Kanlow Pianura Tetraploide Oklahoma centrale
Pangburn Pianura Tetraploide Arkansas
Pathfinder Collina Ottoploide Nebraska/Kansas
Summer Collina Tetraploide Sud Nebraska
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1.6.3) Ciclo biologico e fenologia del Panico (Panicum virgatum L.)
Lo switchgrass è una graminacea perenne e macroterma, che, nelle condizioni climatiche mediterranee, entra in attività vegetativa nei primi giorni del mese di Aprile.
Come tutte le Poacee presenta le seguenti fasi fenologiche:
Germinazione ed emergenza: Nel caso del primo anno di impianto del Panico, si deve fare riferimento alla classica germinazione del seme, mentre dal secondo anno la ripresa vegetativa è a carico dei numerosi rizomi formatisi nell’annata precedente. Essendo infine una specie macroterma l’epoca ottimale di semina è intorno all’ultima decade di marzo e la ripresa vegetativa dei rizomi, è nei primi giorni di aprile. Il Panico è sensibile al freddo e ai ristagni idrici. Al termine della germinazione o dello sviluppo dei germogli dal rizoma, questi emergono dal terreno (emergenza).
Accestimento: Le piantine del Panico così germogliate iniziano il loro sviluppo vegetativo, e grazie alla capacità di accestire sviluppano una rosetta di foglie derivante da numerosi culmi secondari;
Viraggio e levata: Sotto la spinta di stimoli fotoperiodici e della temperatura, l'apice vegetativo delle graminacee smette di differenziare nuove foglie e inizia a produrre gli abbozzi dell'infiorescenza. Successivamente, all’inizio dell’estate, si entra nella fase di levata: i nodi dei culmi che formano la rosetta si distendono, con un notevole accrescimento in altezza della pianta; Botticella e spigatura: Quando tutti gli internodi sono allungati e la
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pannocchia del Panico è completamente formata, questa viene spinta entro l’ultima foglia (foglia a bandiera) del culmo. Pochi giorni dopo avviene la spigatura. Nel caso dello Panico la fase di botticella e spigatura varia in base all’ecotipo e alla varietà (Elbersen et Al., 2001).
Fioritura e impollinazione: La fioritura avviene in modo scalare e l’impollinazione è di tipo autogama.
Maturazione: La maturazione completa della pannocchia è scalare e di poca importanza in quanto il Panico è coltivato per la produzione di biomassa o per produrre foraggio. Al termine della maturazione delle cariossidi, il ciclo vegetativo si arresta all’inizio dell’autunno, lasciando in campo numerosi rizomi pronti per l’annata successiva (George & Reigh, 1987).
1.6.4) Importanza del Panico (Panicum virgatum L.)
Il Panico ha suscitato oramai dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso numerosi interessi, in quanto combina in se numerose caratteristiche apprezzabili. La validità agronomica del Panico fonda le sue basi, in primis, sulle numerose caratteristiche generali positive della famiglia delle Graminacee:
Le Poacee occupano praticamente tutti i tipi di habitat, ritrovandole nei boschi, nei luoghi umidi paludosi, nelle dune sabbiose e in ambienti aridi; sono pressoché ubiquitarie a tutte le latitudini e si adattano bene anche a notevoli escursioni altimetriche;
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in associazione ad altre essenze vegetali, interi ecosistemi come nel caso delle praterie, delle savane e delle steppe. Sono perciò fondamentali anche per lo sviluppo di interi gruppi animali (es. ungulati);
Particolare importanza assumono anche nella storia e nell'economia umana, in quanto i cereali rappresentano il gruppo più importante nell'economia mondiale e costituiscono direttamente o indirettamente la base alimentare per gran parte dell'umanità: oltre la metà delle terre arabili del pianeta è destinata alla coltivazione di cereali (circa 675 milioni di ettari su di una superficie arabile complessiva di circa 1.382 milioni di ettari).
Il Panico nello specifico presenta elevata efficienza nell’uso dell’acqua, alto potenziale di accumulo di carbonio, buon adattamento in ambienti con terreni marginali, basse esigenze nutrizionali e bassi costi produttivi (Samson & Omielann, 1992; Sanderson et al., 1999). Partendo da queste ed altre caratteristiche positive, fin dai primi anni novanta del secolo scorso, il Dipartimento per l’energia Americano (DOE) e quello per le risorse efficienti in agricoltura (REAP) in Canada, hanno iniziato programmi di studio e di sviluppo volti a rendere lo Panico un modello erbaceo per la produzione di bioenergia, in particolare di calore, etanolo ed elettricità (Elbersen et Al., 2001). L’uso del Panico non è comunque limitato esclusivamente al campo delle bioenergie. Infatti gioca un ruolo interessante anche in ambito prettamente agronomico come coltura