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Riprendersi la città. Pratiche di autorecupero nella città storica di Venezia come risposta all'emergenza abitativa

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Academic year: 2021

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Pratiche di autorecuPero nella città storica di

Venezia come risPosta all’emergenza abitatiVa

cristina Peraino

RIPRENDERSI

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CITTà

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DipartimentoDi ingegneria Civile eDilee ambientale Dottoratoin ingegneriaDell’arChitetturaeDell’urbanistiCa

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riPrendersi la città

Pratiche di autorecupero nella città storica di Venezia come risposta

all’emergenza abitativa

candidata cristina Peraino tutors roberto de angelis michelangelo savino

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indice

introduzione, p. 7

Capitolo i - Politiche abitative pubbliche e movimenti per la casa

1.1. evoluzione storica delle politiche abitative pubbliche in italia, p. 13 1.2. la casa come servizio sociale e la rivoluzione abitativa, p. 23

1.3. movimenti e nuove forme di democrazia, p. 30

1.4. il welfare dal basso del nuovo antagonismo sociale, p. 36

Capitolo ii - la questione della casa a Venezia 2.1. il ritorno dell’emergenza abitativa, p. 39 2.2. l’esodo dei veneziani, p. 43

2.3. Struttura e dinamiche demografiche, p. 46 2.4. un patrimonio abitativo sottoutilizzato, p. 58 2.5. l’impatto del turismo sulla residenzialità, p. 64

2.6. interventi di edilizia residenziale pubblica nella città storica, p. 75 2.7. il Progetto giudecca e la nuova urbanistica veneziana, p. 82 2.8. le risposte istituzionali alla nuova emergenza abitativa, p. 102

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capitolo iii - la risposta dal basso alla nuova emergenza abitativa

3.1. le occupazioni abitative nella città storica come atto politico per il dirit-to all’abitare, p. 107

3.2. la criminalizzazione delle occupazioni a scopo abitativo e gli effetti delle politiche securitarie, p. 119

3.3. nota metodologica alla ricerca empirica, p. 124

3.4. l’asc e il recupero del patrimonio abitativo pubblico, p. 127

3.5. Pratiche di autorecupero: dall’occupazione all’impresa sociale, p. 144 3.6. l’occupazione delle case minime alla giudecca: come ripopolare un quartiere, p. 150

conclusioni, p. 171

Appendice iconografica, p. 189

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Introduzione

la tesi tratta della questione della casa a Venezia, dove a fronte della costante di-minuzione della popolazione residente è presente un nuovo bisogno abitativo che interessa le fasce di popolazione con reddito medio e medio basso e in particolare le componenti più giovani della popolazione. negli ultimi decenni, l’assenza di ef-ficaci politiche pubbliche per la casa, il sottoutilizzo dello stock abitativo pubblico e la consistente erosione del patrimonio abitativo da parte del mercato turistico hanno contribuito all’insorgere di una risposta dal basso al problema della residenzialità nella città storica.

in particolare, la tesi è centrata sulle pratiche di autorecupero del patrimonio di edilizia residenziale pubblica in disuso adottate dagli attivisti dell’asc (assemblea sociale per la casa) come risposta all’emergenza abitativa della città. attraverso l’osservazione di tali pratiche ci si interroga su come le capacità organizzative e gestionali nate dal basso risolvano situazioni di degrado e di esclusione abitativa e siano in grado di riattivare risorse sociali nei quartieri pubblici.

la scelta di indagare le pratiche di autorecupero è motivata dalla necessità di ripen-sare le politiche per l’abitare e adottare nuove ed efficaci strategie per affrontare la questione abitativa. se da una parte le pratiche di autorecupero portano alla luce i limiti dell’intervento pubblico e la complessità della questione abitativa, dall’altra indicano nuovi possibili terreni di azione per le politiche abitative.

mentre in passato la disponibilità delle risorse e la decifrabilità del problema abita-tivo hanno guidato le politiche abitative pubbliche verso soluzioni di tipo tecnico-quantitativo, oggi la scarsità di risorse e la presenza di una domanda differenziata richiedono, invece, la ridistribuzione della socialità delle politiche e la costruzione di politiche differenziate in funzione dei diversi livelli di disagio abitativo.

Le profonde modificazioni sociali e i cambiamenti del sistema economico-finan-ziario hanno contribuito alla formazione di una nuova emergenza abitativa che in-teressa non più esclusivamente le fasce sociali più deboli, ma include anche altre categorie di popolazione. il progressivo cambiamento sociale, determinato dai pro-cessi demografici di invecchiamento della popolazione, dalla nuova articolazione

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e frammentazione della struttura familiare, dai flussi migratori e dalla mobilità del mercato del lavoro, contribuisce allo sviluppo di nuove esigenze abitative più com-plesse e articolate rispetto al passato. La crisi economica e finanziaria ha, inoltre, indebolito le condizioni di vita delle famiglie, evidenziando la relazione tra povertà economica e disagio abitativo. alla crescita dei prezzi delle abitazioni non corri-sponde una crescita dei redditi delle famiglie, per le quali la spesa abitativa incide in maniera significativa sui bilanci familiari. Secondo il recente studio di Housing europe, la percentuale di popolazione europea gravata dai costi abitativi è pari al 39,3%, e le principali categorie interessate sono i giovani, i disoccupati, i lavoratori precari, gli immigrati, i disabili e gli anziani. (housing europe, 2017) in italia il 48% delle famiglie che vivono in un alloggio in affitto pagano un canone che supera il 30% del reddito familiare, trovandosi così esposte al rischio di morosità e di pos-sibile marginalizzazione sociale. (nomisma, 2016) la percentuale di famiglie che vivono in un alloggio di proprietà è elevata rispetto agli altri paesi europei1, ma il

ti-tolo di godimento non è indicatore di benessere abitativo, e in particolare per quanto riguarda la proprietà occorre distinguere tra le famiglie con disponibilità di risorse economiche adeguate che hanno scelto di acquistare un alloggio e le famiglie che in assenza di alternative nel settore dell’affitto sono state indotte a orientarsi, indebi-tandosi, verso la proprietà. (Poggio, 2009, cit. in torri, 2017) secondo un’indagine istat il 40,7% delle famiglie in condizioni di povertà assoluta abita in un alloggio di proprietà e tra queste una su cinque paga un mutuo2.

Il settore dell’affitto, tradizionalmente residuale in Italia, è rivolto principalmente alle famiglie che non hanno né garanzie né un reddito sufficiente per accedere alla proprietà, ma solamente il 3,7% del totale delle famiglie abita in un alloggio a canone sociale, mentre il 14,8% si rivolge al libero mercato in cui si registra, per

1 la percentuale di famiglie che vivono in un alloggio di proprietà è 71,9%, mentre è minima la percentuale di famiglie che abitano in un alloggio in affitto nel libero mercato (14,8%) e a canone sociale (3,7%); il rimanente 9,6% riguarda la percentuale di famiglie che abitano in un alloggio in comodato. i dati sono aggiornati al 2014. (housing europe, 2017)

2 audizione istat per la conversione del decreto-legge n. 4 del 2019 recante disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni. il testo è consultabile alla pagina web <https://www. istat.it/it/files/2019/02/Audizione-reddito-cittadinanza.pdf>.

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altro, un rialzo dei canoni di locazione3. a fronte di un disagio abitativo nel settore

dell’affitto che coinvolge 1 milione e 708 mila famiglie, sono soltanto 758 mila gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, di cui il 14% risulta, oltretutto, non asse-gnato. (nomisma 2016) sebbene si registri una debole diminuzione delle richieste di esecuzione di sfratto e degli sfratti eseguiti, è rilevante che circa l’88% delle sentenze di sfratto emesse nel 2017 siano per morosità4.

i dati ci restituiscono, quindi, il quadro di un disagio abitativo diffuso che continua a crescere e che interressa diverse categorie sociali. sebbene il disagio abitativo risenta delle recenti dinamiche relative alla recessione economica e ai cambiamenti sociali, esso è anche il risultato delle politiche abitative pubbliche adottate nel tem-po e di un modo specifico di affrontare la questione abitativa.

alla ricostruzione del processo storico attraverso cui si genera l’emergenza abitati-va contemporanea è dedicata la prima parte della tesi, in cui si esaminano le politi-che pubblipoliti-che in tema casa adottate in Italia dal dopoguerra fino agli anni novanta in relazione alle azioni dei movimenti per il diritto alla casa. ai provvedimenti adottati negli anni cinquanta e sessanta che favoriscono la cessione delle case in proprietà rispetto all’assegnazione in affitto, corrisponde la reazione dei movimenti per il diritto la casa, che attraverso una serie di mobilitazioni rivendicano la casa come servizio sociale piuttosto che come bene capitale. sebbene le azioni dei movimenti abbiano inaugurato quella che è definita la stagione riformista delle politiche abita-tive pubbliche, che ha inizio con la nuova legge per la casa del 1971 e prosegue con la legge per l’equo canone e il piano nazionale decennale per l’edilizia residenziale pubblica del 1978, non sono riuscite a modificare l’assetto economico-sociale del settore casa e l’obiettivo della casa come servizio sociale è disatteso.

3 sono in aumento del 3% i canoni di locazione, in seguito all’aumento della domanda soprattutto da parte di giovani coppie e lavoratori in trasferta. gli incrementi riguardano soprattutto le grandi città e in particolare bologna, milano, roma, Venezia, Firenze e torino. e. sg. (2018, 23 novembre) “solo Affitti: i canoni in rialzo del 3% si avvicinano a quelli pre-crisi”, Il Sole 24 ore, in: <https://www.il- sole24ore.com/art/casa/2018-11-23/solo-affitti-i-canoni-rialzo-3percento-si-avvicinano-livelli-pre-crisi--155603.shtml?uuid=AE1m7GmG>.

4 nel 2017 sono 59.609 i provvedimenti di sfratto emessi di cui 52.500 per morosità, 132.107 le richieste di esecuzione, 32.069 gli sfratti eseguiti. nel 2016 sono 61.718 i provvedimenti di sfratto emessi, 158.720 le richieste di esecuzione, 35.336 gli sfratti eseguiti. i dati sono incompleti per al-cune città. Fonte: ministero dell’interno.

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il boom economico ed edilizio degli anni settanta e ottanta e la progressiva crescita del patrimonio abitativo in proprietà portano alla convinzione che l’emergenza abi-tativa sia ormai superata e alla scomparsa del tema della casa dalle agende di gover-no nazionale. Alla fine degli anni gover-novanta con la liberalizzazione, privatizzazione e decentralizzazione delle politiche si esaurisce l’impegno dello stato nel risolvere il problema della casa.

la dismissione di parte del patrimonio abitativo pubblico, avviata con la legge del 1993, conferma la direzione intrapresa verso la dissoluzione del welfare abitativo e la consegna della gestione della domanda di abitazioni al libero mercato.

L’offerta esclusiva del libero mercato di alloggi in affitto favorisce l’aumento dei canoni e la propensione verso l’acquisto della casa, creando un forte squilibrio tra proprietà e affitto. Tale sproporzione genera fenomeni estesi di disagio, di precarietà e di esclusione abitativa che richiedono un cambio di paradigma, uno spostamento delle politiche abitative dalla proprietà all’affitto, dal valore di scambio al valo-re d’uso. (lamanna, 2017) la tendenza a consideravalo-re l’abitazione come un bene capitale, un’occasione d’investimento privato per accedere a posizioni di rendita piuttosto che come un bene di consumo, favorisce la produzione di diseguaglianze e ostacola la socializzazione della casa.

Venezia è la prima città in italia per gli investimenti immobiliari, ma solo un quarto delle abitazioni acquistate è destinata a prima casa, mentre prevale la destinazione come seconda casa o come investimento. Per quanto riguarda il mercato delle loca-zioni, invece, a fronte della crescita della domanda, i contratti sono nella maggioran-za dei casi transitori e sotto i tre mesi, in particolare nella città storica. (nomisma, 2017) le dinamiche dei mercati immobiliari innescate dal turismo e la diffusione della cosiddetta economia della condivisione tendono a produrre uno sbilanciamen-to della distribuzione di reddisbilanciamen-to e ricchezza a favore di posizioni di rendita. l’uso di piattaforme digitali per gli affitti temporanei contribuisce, inoltre, alla riduzione dell’offerta di locazione a lungo termine esponendo la città storica al rischio di svuotarsi della propria cultura civile e di vedere falcidiata la popolazione residente. nel rapporto tra l’aumento del numero di sfratti per cessata locazione e la crescita delle attività ricettive extra alberghiere si coglie l’impatto che il fenomeno del

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turi-smo ha sulla residenzialità nella città storica. lo sviluppo del settore turistico non è tuttavia la causa esclusiva che compromette la permanenza dei residenti nella città storica, ma dipende da dinamiche socio-economiche complesse che la tesi nella se-conda parte restituisce attraverso l’interpretazione di processi storici e la lettura di dati quantitativi. si esaminano gli effetti prodotti dalle politiche abitative comunali nel corso del novecento e le responsabilità dell’intervento pubblico nel produrre fenomeni di espulsione dalla città storica. si restituisce una lettura delle politiche abitative comunali degli anni novanta che sono al centro di una nuova governance che vede nella riqualificazione urbana la possibilità di adottare strategie per con-trastare il disagio abitativo soprattutto dei ceti medi. in particolare, nell’isola della giudecca l’amministrazione comunale programma numerosi interventi di riquali-ficazione e trasformazione urbana attraverso le risorse economiche e imprendito-riali dei privati. Si riportano, inoltre, i recenti dati demografici, che evidenziano la grave compromissione delle capacità rigenerative della città, e i dati del patrimonio abitativo, che restituiscono la consistente presenza di situazioni di sottoutilizzo del patrimonio abitativo sia pubblico sia privato. la coesistenza di processi di impo-verimento demografico e condizioni di sottoutilizzo del patrimonio abitativo nella città storica potrebbe indurre a considerare incoerente l’uso del termine “emergenza abitativa”, eppure l’attinenza di tale termine si riscontra nella presenza di numerose iniziative per il diritto alla casa che provengono da una varietà di movimenti e grup-pi di ogrup-pinione formatisi a Venezia negli ultimi anni.

tra le iniziative promosse per il diritto alla casa nella città storica, la pratica di occupazione e di autorecupero degli alloggi pubblici in disuso è certamente la più radicale, e quella che fornisce, almeno in parte, una risposta concreta all’emergenza abitativa. le occupazioni a scopo abitativo nella città storica interessano non sol-tanto il patrimonio abitativo pubblico e coinvolgono anche nuclei familiari e singoli individui che decidono di occupare senza il sostegno di organizzazioni; tuttavia questo lavoro considera esclusivamente le occupazioni collettive a scopo abitativo che esprimono una rivendicazione politica legata a tale pratica.

nella terza e ultima parte della tesi si affrontano il ruolo e le attività dell’asc, il più attivo tra i movimenti nella città storica in tema di diritto alla casa, autorecupero e

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autogestione. gli attivisti dell’asc sono a maggioranza giovani precari, intermit-tenti del lavoro e liberi professionisti che attraverso la pratica di occupazione e autorecupero rivendicano la casa come diritto negato dalla dissoluzione del welfare e dalla svolta neoliberale delle politiche abitative. si tratta prevalentemente di sog-getti cresciuti in ambienti di classe media e che hanno avuto accesso al sistema di istruzione acquisendo capacità, competenze e conoscenze che tuttavia non hanno garantito loro un lavoro stabile. la rivendicazione dei propri diritti passa per la consapevolezza di essere espulsi dalle condizioni di vita cui aspirano, e avviene a cominciare da quello primario della casa, attraverso l’appropriazione di una parte del patrimonio abitativo pubblico abbandonato dalle istituzioni.

la tesi restituisce i risultati prodotti dalle pratiche di autorecupero dell’asc attra-verso i racconti dei protagonisti, dai quali emerge non solo la capacità di trovare soluzioni creative e sostenibili per il recupero degli alloggi pubblici in disuso, ma anche la capacità di sviluppare forme di socialità e coesione quotidiana tra gli abi-tanti. la presenza di una rete di alleanza e solidarietà tra occupanti e residenti rivela il carattere politico di tali pratiche, che si configurano come innesco di forme di ap-prendimento e responsabilizzazione degli abitanti rispetto alla propria condizione e al proprio territorio. il carattere pubblico delle pratiche di autorecupero dell’asc si riscontra nella capacità che esse hanno di valorizzare un patrimonio “morto” resti-tuendogli attraverso l’uso la propria funzione residenziale.

Si è analizzata la costruzione di quello che possiamo definire quindi un “welfare parallelo”: un modo per progettare e gestire risorse e servizi attraverso l’autorganiz-zazione. se da una parte le pratiche di autorecupero evidenziano la debolezza delle politiche pubbliche per la casa, dall’altra rappresentano, invece, un’occasione per le istituzioni di imparare dal protagonismo sociale.

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Capitoloprimo

Politiche abitative pubbliche e movimenti per la casa

1.1. Evoluzione storica delle politiche abitative pubbliche in Italia

la lettura della nuova questione abitativa non può prescindere dall’analisi delle politiche abitative e dei provvedimenti adottati nel corso del tempo. si ritiene es-senziale, quindi, rileggere le tappe fondamentali delle politiche per la casa in italia per descriverne le caratteristiche principali e interpretarne i risultati prodotti. la storia delle politiche abitative sociali in italia dal dopoguerra a oggi può essere suddivisa in tre fasi (Padovani, 2017; bronzini, 2014) in cui secondo differenti mo-dalità si affronta il problema della casa.

la prima fase copre un arco di tempo che va dagli anni cinquanta agli anni sessanta ed è la fase in cui l’azione pubblica è orientata alla produzione quantitativa di abi-tazioni che interessa principalmente le aree in espansione delle città. l’obiettivo è favorire l’accesso alla casa di proprietà.

la seconda fase, dagli anni settanta agli anni ottanta, è la fase contrassegnata da una serie di riforme che determinano una svolta pubblicistica nelle politiche abitative. (bronzini, 2014) l’azione pubblica è mirata non solo a soddisfare il fabbisogno abitativo dei cittadini a basso reddito, ma anche a recuperare il patrimonio pubblico preesistente e i tessuti urbani degradati.

la terza fase, dagli anni novanta, segna la conclusione della fase riformista con la sospensione dei finanziamenti pubblici, la decentralizzazione delle politiche abitati-ve e l’alienazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica. la regionalizza-zione delle politiche abitative con la riforma del titolo V della costituregionalizza-zione contri-buisce, inoltre, alla formazione di disomogeneità territoriale delle politiche rispetto a una programmazione nazionale che si presenta disorganica e frammentaria. il piano ina-casa è uno tra gli interventi più consistenti con cui è stato possibile migliorare le condizioni economiche e abitative di migliaia di famiglie nel secondo dopoguerra. l’obiettivo del piano ina-casa non è però principalmente quello di

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fornire nuovi alloggi sani e moderni, bensì quello di affrontare il problema della disoccupazione mediante lo sviluppo del settore edilizio. la priorità di risolvere la questione della disoccupazione rispetto alla costruzione di nuove case è evidente già nel titolo della legge 43/1949 “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori” approvata dal parlamento italiano. amintore Fanfani, all’epoca ministro del lavoro e della Previdenza socia-le, nonché promotore del piano ina-casa, dichiara apertamente questa priorità, rico-noscendo che la costruzione di case è solo la conseguenza di un’attività produttiva. nell’estate del 1948 in occasione del discorso pronunciato alla camera dei deputati, il ministro Fanfani afferma:

le case sono una conseguenza di un’attivita produttiva, alla quale non potevamo sfuggire, a meno che non ci fossimo messi in testa (cosa che il governo ha escluso) di raccogliere il risparmio obbligatorio per pagare i disoccupati, per far fare ad essi la ginnastica sulla piazza, per far portare ad essi la terra dal bordo destro della strada a quello sinistro (Fanfani, 1948, cit. in nicoloso, 2001, p. 46)

Il piano si configura quindi come un progetto di emergenza per affrontare la condi-zione economica e sociale in cui versa il paese dopo le distruzioni edilizie e urba-nistiche causate dalla guerra. la novità del piano rispetto alle realizzazioni di case popolari realizzate in passato consiste nel coinvolgere i lavoratori come protagoni-sti e nel configurarsi come un progetto non più di tipo assistenziale ma improntato su un solidarismo moderno e concreto. (de rosa, 2002)

sebbene una buona parte della cultura architettonica consideri l’esperienza del pia-no ina-casa un’occasione che ha portato gli architetti a confrontarsi di nuovo con il tema della casa popolare giungendo talvolta a soluzioni architettoniche di valore, non mancano le critiche ai fondamenti del piano e al suo ruolo nella progettazione delle città e nella pianificazione dei territori.

sin dalla consultazione in sede parlamentare del disegno di legge, emergono delle perplessità da parte dell’opposizione riguardo alle forme di finanziamento del

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pia-no1, ai criteri di assegnazione degli alloggi e alla cessione degli alloggi in proprietà.

L’opposizione ritiene, infatti, si debbano cercare altre forme di finanziamento alter-native al prelievo sulle retribuzioni dei lavoratori e nel 1950, quando ormai il piano Fanfani è già avviato, la cgil con il Piano del lavoro propone di istituire un organo centrale organizzativo finanziatore per coordinare gli interventi di edilizia residen-ziale pubblica da realizzarsi con capitali ricavati da aliquote sul reddito delle grandi proprietà agrarie, sull’incremento del reddito, sui fondi previdenziali e assicurati-vi2. l’opposizione critica, inoltre, la cessione degli alloggi in proprietà e propone

piuttosto la proprietà pubblica delle nuove abitazioni in accordo con la proposta La

casa a chi lavora3 di Piero bottoni. l’idea presentata dall’architetto milanese anni

prima del disegno di legge promosso dal ministro Fanfani contiene alcune indica-zioni per avviare un intervento di nazionalizzazione delle abitaindica-zioni:

[...] la situazione del lavoratore nei confronti della sua abitazione deve oggi evolversi nello stesso senso in cui si va evolvendo la condizione del suo salario nei confronti dell’organismo del lavoro. ma come i lavoratori tendono a diventare compartecipi degli utili, ma non comproprietari delle aziende nazionalizzate, così essi devono divenire utenti, ma non proprietari delle case socializzate [...] (bottoni, 1945, cit. in bottini, 2001, p. 64)

in contrasto con questa posizione, il ministro Fanfani riconosce all’abitazione in proprietà la possibilità di garantire la stabilità sociale, la libertà dalla miseria e la «libertà dalla violenza dei ricchi prepotenti e dello stato illiberale». (Fanfani, 1957, cit. in bottini, 2000) l’opposizione per contro ottiene il 50% degli alloggi assegnato in locazione, quota che diminuisce nel corso del secondo settennio di re-alizzazione del piano. un altro punto particolarmente discusso del progetto Fanfani 1 Il finanziamento del piano Ina-casa prevede la trattenuta dello 0,6% dello stipendio mensile dei lavoratori dipendenti.

2 ceccucci, c., diotallevi, i., marescotti, F., (1950). «relazione sui problemi dell’edilizia», in c.g.i.l., Conferenza economica nazionale per il Piano del Lavoro, 18-19-20 febbraio 1950, roma, cit. in bottini (2000).

3 con La casa a chi lavora, nel 1945 Piero bottoni propone di realizzare le case per i lavoratori mediante la nascita di un istituto assicurativo sociale per la casa il cui capitale sia composto al 25 % di contribuiti dei lavoratori attraverso la stipulazione di un’assicurazione obbligatoria, al 25% di contributi degli imprenditori, al 50% di contributi versati dallo stato.

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riguarda la discriminazione dei beneficiari e l’insufficienza dell’intervento rispetto alla domanda di abitazioni sociali. gli alloggi sono destinati, infatti, ai lavoratori dipendenti a basso reddito escludendo in questo modo la parte più povera e margi-nale della popolazione.

la critica al progetto Fanfani non si limita a esprimere perplessità riguardo alle ca-ratteristiche del piano e ai modi con cui esso è attuato, ma più in generale riguarda il modello stesso di società che esso propone. scrive Fabrizio bottini: «è corretto l’uso di risorse pubbliche per alimentare, ufficialmente, un costituendo mercato privato di alloggi, aree di futura urbanizzazione, privilegiando una middle class in formazione anziché provvedere in primo luogo ai più urgenti bisogni pregressi?». (bottini, 2000)

i risultati dell’intervento visibili già dopo qualche mese dall’approvazione della legge e l’efficienza del piano in termini di programmazione e attuazione mettono in ombra anche le critiche più sottili che definiscono il piano Ina-Casa un intervento pericoloso e demagogico, volto alla ricerca di consenso su più livelli, dai lavoratori dipendenti ai professionisti. Il piano si rivela in realtà insufficiente non solo come strumento di programmazione dell’offerta pubblica perché limita i benefici dell’in-tervento solo ad alcune componenti della popolazione, ma è insufficiente anche come strumento in grado di controllare l’espansione urbana e la dislocazione dei nuovi insediamenti urbanistici. Perché il piano non prevede, ad esempio, un pro-gramma di riqualificazione del patrimonio abitativo esistente?

agli urbanisti si chiedeva di non toccare la città e di collaborare invece alla integra-zione e al filtraggio sociale nel chiuso del recinto dei quartieri periferici […] lavoro, alloggi, allargamento degli sbocchi di mercato per tutti i beni legati direttamente o indirettamente all’edilizia (cemento, ferro, mattoni, calce, tubi, ma anche arreda-mento, e in futuro frigoriferi, vespe e lambrette e poi automobili; ce n’è per tutti, imprenditori grandi e piccoli), immissione nel mondo urbano, con juicio. (Fabbri, 1983, p. 84)

i nuovi quartieri sorgono in aree periferiche e sono progettati come organismi au-tosufficienti, ibridi, a metà strada tra il borgo rurale e l’ambiente urbano. Da una

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parte questo isolamento è visto dagli urbanisti come una scelta sana che apporta qualità al progetto attraverso una maggiore autonomia del disegno dell’impianto planimetrico e una più ampia libertà di articolazione dello spazio costruito e dello spazio pubblico (astengo, 1951), dall’altra la relazione tra i nuovi quartieri e la città esistente assume caratteristiche ambigue e contraddittorie poiché è inevitabile che i nuovi quartieri si configurino come strumenti che orientano nel futuro immediato lo sviluppo della città. (di biagi, 2001)

la cultura architettonica guarda tuttavia alla stagione del piano ina-casa con no-stalgia:

Perché oggi guardando dal finestrino del nostro aereo oltre che riconoscere quelle parti di città, ci pervade un senso di nostalgia? Quegli esperimenti ebbero ingenuità […] l’idea, ad esempio, che bastasse simulare un ambiente […] per ricreare una so-cialità. la nostalgia nasce dal percepire che la forma urbana si realizza se lo spazio è pensato come bene comune, che il progetto funziona se ha basi condivise, che la città esiste se vi è un progetto di spazio pubblico. ed è una nostalgia che ha molte, buone ragioni di turbarci.4

L’esperienza Ina-Casa si conclude definitivamente con l’approvazione della legge 60/19635, mentre l’approvazione della legge 167/19626 consente ai comuni di

pro-grammare gli interventi di edilizia economica e popolare attraverso l’adozione dei cosiddetti Peep (Piani di edilizia economica e popolare).

Per avviare la dismissione del patrimonio immobiliare dell’ina-casa e program-mare il finanziamento per nuove abitazioni sociali, la legge 60/1963 introduce due nuove strutture organizzative: il comitato centrale che si occupa della

predisposi-4 Olmo, C. (2013, 20 febbraio). “Ina-Casa, quando l’utopia divenne (quasi) realtà”, La stampa

Cul-tura, in

<http://www.lastampa.it/2013/02/20/cultura/ina-case-quando-l-utopia-divenne-quasi-realta-YxtBWN9CX9i39RTSKpI62L/pagina.html> (consultato il 29 settembre 2018).

5 legge n. 60 del 14 febbraio 1963 “liquidazione del patrimonio edilizio e della gestione i.n.a. Casa e istituzione di un programma decennale di costruzione di alloggi per lavoratori”.

6 la legge 167 del 18 aprile 1962 “disposizioni per favorire l’acquisizione di aree per l’edilizia economica e popolare”consente ai comuni di programmare gli interventi di edilizia economica e po-polare attraverso l’adozione dei cosiddetti Peep (Piani di edilizia economica e popo-polare) obbligatori per i comuni con più di 50 mila abitanti o capoluogo di provincia e facoltativi per i restanti.

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zione del programma decennale di costruzione di case per lavoratori e la gescal7

che ha il compito di attuare il programma8.

come il piano ina-casa anche il piano gescal prevede la cessione a riscatto degli alloggi, favorendo ancora una volta i ceti medio e medio basso. gli introiti derivati dalle vendite avrebbero dovuto consentire al paese il reinvestimento delle risorse in nuovi interventi di edilizia pubblica, ma la cessione a un prezzo inferiore a quello di mercato non consente di avviare né nuove costruzioni né di consolidare lo stock residenziale destinato alla locazione, con evidenti risvolti sotto il profilo dell’equi-tà. (bronzini, 2014)

le principali differenze tra la nuova gestione per l’edilizia pubblica e la gestione ina-casa consistono in: demandare ai comuni la scelta della dislocazione dei nuovi interventi di edilizia pubblica attraverso il loro inquadramento nei piani particola-reggiati; affidare agli istituti autonomi case popolari il ruolo di organi esecutivi del programma a livello provinciale e quindi demandare loro la gestione della realizza-zione degli alloggi (approvarealizza-zione dei progetti, condurealizza-zione degli appalti e controllo sulle stazioni appaltanti, controllo sui cantieri e pagamento dei salari); istituire i comitati provinciali per favorire una maggiore articolazione territoriale mediante raggruppamenti comunali; stabilire un canone di locazione e di riscatto dell’allog-gio in base al costo effettivo degli alloggi e per gruppi di località; affidare gli alloggi in locazione per il 50% e il restante in proprietà. (beguinot, 2002)

l’esperienza della gescal si interrompe prematuramente nel 1971 senza portare a 7 la gescal (gestione case per lavoratori) si occupa in particolare di: gestire i fondi destinati all’ese-cuzione del programma; controllare la realizzazione dei progetti affidati agli istituti autonomi case popolari; provvedere in accordo con i comuni ai progetti relativi ai servizi pubblici e alle attrezzature dei quartieri; liquidare il patrimonio della gestione ina-casa (art. 23 della legge 60/1963).

8 Le risorse economiche per il finanziamento del programma decennale del piano Gescal provengono principalmente dal contributo di solidarietà versato dai lavoratori dipendenti pari allo 0,35% della loro retribuzione mensile, dal contributo versato dalle imprese pari allo 0,70% delle retribuzioni mensili corrisposte ai propri dipendenti, e dai contributi a carico dello stato pari al 4,30% del plesso dei suddetti contributi e un ulteriore contributo del 3,20 del costo per ciascun alloggio com-pletato entro il mese di marzo del 1973. si aggiungono, inoltre, i fondi derivati dai riscatti anticipati, dei canoni relativi agli alloggi assegnati in proprietà agli istituti autonomi case popolari, all’istituto nazionale case impiegati dello stato e altri enti e istituti. la novità introdotta dalla legge 60/1963 consiste nella creazione di un fondo che consente anticipazioni agli istituti bancari e agli enti auto-rizzati per legge per la stipulazione di mutui e per la costruzione di case economiche e popolari, e prestiti ai lavoratori che intendano acquistare un’abitazione o restaurare il proprio alloggio (art. 10 della legge 60/1963).

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compimento il programma decennale previsto e con la legge per la casa 865/19719

l’ente è soppresso insieme ad altri enti operanti nel settore dell’edilizia pubblica con la sola eccezione dello iacp (istituto autonomi case popolari). le giacenze piuttosto consistenti del fondo gescal sono trasferite in appositi conti correnti istituiti presso la cassa depositi e prestiti, così come i contributi che i datori di lavoro e i lavoratori dipendenti continueranno a versare fino agli anni novanta. L’edilizia “economica e popolare” diventa “edilizia residenziale pubblica” ed è distinta in due tipologie: l’edilizia sovvenzionata realizzata tramite gli istituti autonomi case popolari con le risorse statali, e l’edilizia convenzionata realizzata attraverso la concessione di contributi statali per i pagamenti dei mutui contratti dai privati e dalle cooperative. con la legge quadro di riforma sulla casa s’includono anche coloro che hanno un reddito familiare modesto purché non proprietari di alloggio né assegnatari di allog-gio pubblico, garantendo comunque il 60% degli alloggi ai lavoratori dipendenti10.

il cambiamento nominale implica l’articolazione di diverse tipologie d’intervento relative allo sviluppo urbanistico del territorio e non solo finalizzate alla tutela delle esigenze abitative del ceto popolare. (corte dei conti, 2007)

in questo periodo si affrontano il tema del recupero delle aree urbane degradate e una serie di problemi connessi alle modalità di sviluppo tra cui: l’elevato consu-mo di suolo che comporta l’aumento dei costi di gestione per i servizi urbani; la residualizzazione del patrimonio di edilizia pubblica indotto dai processi di priva-tizzazione; l’aumento del numero degli sfratti e la concentrazione del patrimonio edilizio privato destinato alla locazione. (Padovani, 2017)

9 con la legge n. 865 del 22 ottobre 1971 “Programmi e coordinamento per l’edilizia residenziale pubblica” cosiddetta l”egge quadro di riforma sulla casa”, l’organizzazione nazionale delle risorse è affidata a due enti: il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) che è un organo di governo che svolge funzioni di coordinamento in materia di programmazione economica e finanziaria e che determina le linee d’intervento nel settore dell’edilizia residenziale, quantifica le risorse finanziarie e indica i criteri per la loro ripartizione; il Comitato per l’edilizia residenziale (cer) che è un organo amministrativo che predispone il piano decennale, provvede alla ripartizione dei fondi tra le regioni e verifica l’attuazione dei programmi.

10 i programmi pubblici di edilizia residenziale prevedono la costruzione di alloggi destinati alla generalità dei lavoratori e a chi occupa abitazioni improprie, malsane e fatiscenti da demolire; la costruzione di alloggi destinati a soddisfare i bisogni abitativi di zone colpite da calamità naturali; la costruzione di case-albergo per studenti, lavoratori, lavoratori immigrati e persone anziane, nonché di alloggi destinati ai cittadini più bisognosi, anche riuniti in cooperative edilizie; la costruzione di alloggi in favore di lavoratori dipendenti emigrati all’estero e di profughi, anche se riuniti in coope-rative edilizie (art. 48).

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in particolare per quanto riguarda la regolamentazione del regime dei suoli, con le leggi 865/1971 e 10/197711 si vuole facilitare l’acquisizione delle aree da parte

dei comuni attraverso la disciplina degli indici per la formazione delle indennità di esproprio. tale disciplina è messa in discussione da una serie di sentenze della corte costituzionale che bloccano le riforme e gli interventi e riportano i suoli al loro prezzo di mercato confermando «l’espressione di un certo modo ormai acqui-sito, stabile, di accettazione dell’istituto proprietario da parte della nostra società». (berti, 1988, p. 46)

Il mercato privato dell’affitto è regolamentato, invece, dalla legge 392/1978, nota come legge per l’equo canone, che stabilisce per tutti gli immobili un canone defini-to sulla base della percentuale del valore dell’immobile12 e che da una parte

garan-tisce agli inquilini un affitto stabile e proporzionato al reddito, dall’altra comporta la contrazione dell’offerta di abitazioni in locazione e lo sviluppo di un mercato parallelo e sommerso.

con la legge 457/197813 si predispone il piano nazionale decennale per l’edilizia

residenziale pubblica orientato oltre che alla produzione di nuova edilizia anche al recupero del patrimonio edilizio esistente attraverso una serie di programmi inte-grati di rigenerazione urbana. Abrogata la prescrizione della quota fissa di alloggi ai lavoratori dipendenti, lo Stato si fa carico inizialmente di finanziare il gettito Gescal con ulteriori risorse economiche, ma interrompe in seguito ogni stanziamento ordi-nario con il risultato che il finanziamento di un pubblico servizio con finalità sociale generale è affidato al solo lavoro dipendente. (Tosi, 1994a)

gli anni novanta segnano il passaggio dalla stagione riformista a quella neoliberale 11 La legge n. 10 del 28 gennaio 1977 nota come legge Bucalossi “Norme per l’edificabilità dei suoli” prefigura una sorta di separazione della proprietà del suolo dal diritto di costruire attribuendo al comune la facoltà della concessione onerosa per la fabbricazione e stabilisce che l’indennità di espropriazione dei suoli a vocazione edificatoria è commisurata al valore agricolo. In seguito alla sentenza della corte costituzionale n. 5 del 1980, il sistema di valore agricolo è giudicato un inden-nizzo non commisurato alle caratteristiche essenziali del bene e alla propria potenziale utilizzazione economica. la corte considera, infatti, lo ius aedificandi una caratteristica intrinseca del bene e non una qualità a esso staccata come sostenuto, invece, dalla legge 10/1977.

12 La legge n. 392 del 27 luglio 1978 “Disciplina delle locazioni d’immobili urbani” stabilisce che il canone di locazione sia fissato al 3,85% del valore locativo attribuito all’immobile, calcolato come il prodotto tra la sua superficie e un costo unitario convenzionale dipendente dal tipo di alloggio, dalla dimensione del comune, dall’ubicazione e dallo stato di conservazione.

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con la liberalizzazione, privatizzazione e decentralizzazione delle politiche abitati-ve. (bronzini, 2014)

si riduce la produzione di edilizia residenziale pubblica e si procede con la legge 560/199314 all’alienazione del patrimonio esistente al fine di incamerare risorse da

investire nella produzione e acquisizione di nuove unità abitative. la sproporzione tra i ricavati delle vendite e i costi di realizzazione di nuovi alloggi non consente in realtà la costruzione di nuova edilizia pubblica15. il limite della legge consiste

proprio nella vendita generalizzata del patrimonio pubblico che determina un’ulte-riore parcellizzazione del patrimonio e di conseguenza l’aggravarsi delle difficoltà di gestione. il piano di dismissione non considera la possibilità di migliorare e ra-zionalizzare la gestione pubblica del patrimonio alienando le quote residue dalle precedenti vendite e conservando e riqualificando, invece, i complessi più vecchi e degradati dislocati, però, in aree urbane pregiate e appetibili. (tosi 1994a)

il successivo dirottamento di tali risorse in interventi diversi rispetto a quelli co-struttivi o di recupero evidenzia, inoltre, il carattere economico di tale manovra, rivolta principalmente a ridurre il deficit di finanza pubblica mediante i risparmi di spesa e reperimento di nuove entrate. (corte dei conti, 2007). come sottolinea Antonio Tosi, i finanziamenti che affluiscono al comparto dell’edilizia pubblica e il patrimonio realizzato non sono risorse statali e non dovrebbero rientrare nel bilan-cio dello stato, né essere impiegate per scopi diversi da quelli legittimi. il compito dello stato nell’uso di tali risorse dovrebbe limitarsi alla programmazione orientata all’interesse pubblico e nello specifico ad assicurare il diritto fondamentale alla casa. (tosi, 1994a)

Negli anni novanta diventa centrale il tema della riqualificazione delle aree urbane degradate e alla realizzazione di nuove abitazioni si aggiungono investimenti di ri-sanamento e recupero del patrimonio esistente che s’inseriscono all’interno di

pro-14 la legge n. 560 del 24 dicembre 1993 “norme in materia di alienazione degli alloggi di edilizia re-sidenziale pubblica” stabilisce le norme per l’alienazione del patrimonio Erp attraverso piani di ven-dita regionali volti al finanziamento per la produzione e acquisizione di nuova edilizia pubblica. 15 il rapporto tra i ricavi ottenuti dalle vendite e i costi delle nuove acquisizioni è mediamente di uno a tre, con uno scollamento tra i costi di acquisizione e/o costruzione e i ricavi da alienazione tale da rendere sostanzialmente irrealizzabile il suddetto progetto. (corte dei conti, 2007)

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getti integrati di riqualificazione urbana cosiddetti programmi complessi16. «il focus

sulla riqualificazione ha fatto sì che quest’ultima costituisse un prius logico rispetto alle problematiche abitative in sé e, alla prova dei fatti, ha dato scarsi risultati sotto il profilo degli esiti sociali, soprattutto con riferimento ai gruppi più vulnerabili». (bronzini, 2014)

Sebbene i programmi di riqualificazione rappresentino un’opportunità sia per ridi-segnare la fisionomia urbana sia per contribuire alla soluzione dei problemi abitati-vi, «la riduzione dell’housing a programmi urbani, l’idea che il problema abitativo sociale possa assorbirsi nelle politiche di riqualificazione urbana – oltre ad essere insostenibile in generale – è evidentemente inadeguata per componenti sociali della domanda» (cremaschi, 2007)

l’edilizia abitativa prodotta attraverso l’adozione di tali programmi accoglie, infat-ti, la domanda abitativa delle componenti medio basse della popolazione piuttosto che di quelle più deboli.

Alla fine degli anni novanta lo Stato trasferisce compiti e funzioni alle regioni17 e

ad altri enti, e gli iacp sono trasformati da enti pubblici a enti pubblici economici. il comitato per l’edilizia residenziale pubblica (cer) del ministero dei lavori pub-blici è soppresso e il flusso di finanziamenti pubpub-blici per l’edilizia residenziale è interrotto con la soppressione definitiva delle trattenute Gescal18. la legge sull’equo

canone19 è, inoltre, abolita e si delega al libero mercato il compito di assorbire la

domanda in affitto con il risultato di un costante aumento del numero di famiglie in condizione di disagio abitativo da locazione.

16 I programmi complessi sono orientati alla riqualificazione urbana e al recupero del patrimonio edilizio e comprendono: i programmi integrati d’intervento (art. 16 della legge n. 179 del 17 febbra-io 1992) dichiarati in seguito illegittimi dalla corte costituzfebbra-ionale; i programmi di recupero urbano (legge n. 493 del 4 dicembre 1993) cui seguono i contratti di quartiere (d.m. n. 106500 del 22 otto-bre 1997); i programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio (D.M. n. 1169 dell’8 ottobre 1998); i programmi innovativi in ambito urbano istitutivi dei contratti di quartiere ii (d.m. n. 24050 del 27 dicembre 2001).

17 il conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni e agli altri enti locali è sancito dalla legge n. 59 del 15 marzo 1997 e il d.l. n. 112 del 31 marzo 1998 che assegna la piena potestà legislativa alle regioni.

18 secondo quanto previsto dalla legge n. 335 dell’8 agosto 1995.

19 con la legge n. 431 del 9 dicembre 1998 “disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo” è possibile stipulare contratti a canoni liberamente concordati tra le parti (contatti liberi) e a canoni concordati tra associazioni di inquilini e di proprietari (contratti a canone concordato).

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con la riforma del titolo V della costituzione20 la gestione del patrimonio

immobi-liare erp è demandata alle regioni così come la potestà legislativa sul governo del territorio e sulla programmazione degli insediamenti di edilizia residenziale pub-blica e sociale, sebbene siano soggette, però, ai principi fondamentali determinati dallo Stato. Lo Stato definisce, infatti, le politiche abitative nazionali attraverso i principi generali contenuti nei piani casa che vengono declinati nelle normative regionali. si è venuto così a creare un «processo di localizzazione/territorializza-zione del problema casa» nella misura in cui ciascuna regione si trova a legiferare sul tema predisponendo specifici piani casa «con il rischio di creare sistemi di pro-tezione diseguali e accrescendo a dismisura le tradizionali differenze territoriali». (cremaschi, 2007)

1.2. La casa come servizio sociale e la rivoluzione abitativa

il problema della casa riguarda oggi non solo le fasce marginali della popolazione che si trovano in condizioni di estrema povertà, ma anche quelle classi che nella tra-dizione delle politiche abitative sono state destinatarie principali dei provvedimenti adottati al fine di contenere il disagio abitativo. La crescita della povertà da una parte e l’avvento delle politiche neoliberali dall’altra hanno favorito l’estensione del disagio abitativo anche alle classi lavoratrici destinatarie dell’edilizia sociale e ai ceti medi il cui benessere abitativo è stato costantemente promosso dalle po-litiche abitative. (tosi, 2008) i modelli della tradizione e le pratiche consolidate ostacolano i tentativi d’innovazione ed è interrogandoci su questa tradizione che è possibile trovare, come sostiene antonio tosi (2008), le nuove ragioni nella crisi del welfare state.

Il primo intervento nazionale significativo con ricadute sull’intero paese è il piano ina-casa con il quale, si è detto, s’intende incentivare l’occupazione di migliaia di lavoratori attraverso la realizzazione di nuovi alloggi di edilizia pubblica.

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A distanza di quasi settant’anni, al piano Ina-Casa si riconosce l’efficacia nell’orga-nizzazione e nell’attuazione dei programmi21, ma si riconoscono anche i limiti del

progetto, tra cui il disinteresse per il recupero del patrimonio edilizio esistente e per la forma che la città avrebbe assunto rispetto alla dislocazione dei nuovi quartieri, e l’accoglimento parziale della domanda sociale di abitazioni che esclude le classi più povere a favore della classe dei lavoratori. È, inoltre, la prevalenza della ces-sione delle case in proprietà rispetto all’assegnazione delle case in affitto a essere messa in discussione, poiché l’investimento pubblico in questa direzione congela le risorse piuttosto che metterle a disposizione di chi è effettivamente bisognoso. (alberti, 1948, cit. in bottini, 2000) cedendo in proprietà gli alloggi s’interrompe, infatti, quel meccanismo virtuoso che consente l’accesso e il ricambio degli asse-gnatari secondo il loro stato di bisogno.

il nodo irrisolto riguarda la tendenza a considerare la casa come bene capitale piut-tosto che come servizio sociale. la casa intesa come servizio sociale è una delle istanze che nel corso del cosiddetto autunno caldo è rivendicata attraverso consi-stenti mobilitazioni sociali contro le logiche economiche, sociali e politiche domi-nanti. scrive, Valentino Parlato (1970):

[...] una soluzione sociale del problema delle abitazioni non è possibile fino a quan-do la famiglia imporrà un certo uso della casa. la famiglia è ancora un centro di rapporti di riproduzione, storicamente determinati, e di produzione di servizi; è un centro di consumi individuali; un rifugio di fronte alle difficoltà e alle durezze della vita nella società. Queste funzioni famigliari si rispecchiano nettamente nelle forme assunte dal bisogno (in origine naturale) di abitare […] Come la famiglia non si è ancora liberata del tutto da funzioni di produzione e di accumulazione, così la casa non è ancora soltanto un bene di consumo, resta ancora un bene capitale, occasione di investimento privato (anche forzato o poco conveniente come per gli acquisti a riscatto) che continua a mantenere sostenuto il mercato, salda la difesa della rendita, tenace la resistenza alla socializzazione della casa [...] (p. 195)

alle azioni dei movimenti sociali per la casa attivi dai primi anni sessanta segue 21 nel dicembre 1949, a soli sei mesi dall’approvazione della legge, all’aumentare del numero dei cantieri cala il numero dei disoccupati (da 2.226.290 a 2.055.606). cfr. bottini, F. (2000).

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una serie di contrattazioni tra sindacati e governo che portano all’approvazione della legge 865/1971 nella quale però l’obiettivo della casa come servizio sociale non trova alcun riferimento. sebbene con la legge sulla casa del 1971 le misure di edilizia pubblica adottate si estendano anche alle categorie di popolazione più disagiate (poveri, anziani, immigrati, profughi) le mobilitazioni non sono riuscite a intaccare la struttura generale del sistema abitativo. a questo proposito andreina daolio (1974) scrive:

il settore pubblico nazionale non ha mutato la sua logica di intervento (vedi le vicen-de vicen-della legge 865) connotata da un ritardo ormai cronico nel promulgare una nuova disciplina urbanistica, da una politica di facilitazioni fiscali e creditizie ai privati, e quindi di incentivazione della speculazione edilizia responsabile della crisi degli alloggi e di insignificanti interventi nel settore delle abitazioni economico-popolari. (p. 23)

secondo andreina daolio le ragioni del fallimento sono da attribuire al fraziona-mento dei vari gruppi rivendicazionisti, partecipazionisti e contestativi che non sono stati capaci di formare un’organizzazione identificabile come movimento di massa sul territorio, capace di agganciarsi alla classe operaia e portare «le lotte urbane all’interno dei luoghi di produzione con interlocutori politici organizzati: consigli di fabbrica, comitati di base, assemblee autonome, consigli di zona inter-categoriali». (Ivi, p. 25) i limiti del mancato risultato sono attribuiti, quindi, a un isolazionismo dei movimenti nell’organizzazione alla lotta, ma anche alla mancan-za di un obiettivo comune.

l’organizzazione della lotta per la casa, la creazione di contropoteri al sistema, sol-lecitano una ricerca rigorosa per individuare obiettivi socialmente unificanti; sug-geriscono di passare dall’intervento sulle contraddizioni della città classista a un discorso strategico che saldi il circuito fabbrica-scuola-città. di passare, cioè, dalla fase settoriale e solidaristica, alla fase della lotta comune, articolata all’interno del fronte anticapitalistico e tradotta in nuove forme di organizzazione. (caprara, 1972, p. 227)

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nella lotta per la casa, in quella operaia e in quella per l’occupazione si ricono-sce una matrice comune che è quella dell’opposizione alla società capitalistica, ma l’assenza di un fronte aniticapitalistico unificato e articolato in nuove forme di or-ganizzazione impedisce di passare dalla fase settoriale e solidaristica alla fase della lotta comune.

si tratta di creare organismi che anziché ripetere i caratteri e le forme di intervento degli istituti rappresentativi siano espressione diretta dei bisogni di gruppi sociali omogenei, costruzione di un potere che consenta di investire immediatamente – at-traverso la contrattazione collettiva – la controparte pubblica e privata. Questo è possibile solo se il comitato di quartiere, espressione dei delegati di strada, raccoglie anche i delegati di cantiere, di azienda, i collettivi di scuola, se, in una parola, riesce a diventare uno strumento unificante che agisce nella vertenza collettiva sul fitto, sui trasporti, sui servizi, sulla scuola, nel momento in cui utilizza la metodologia della lotta operaia per far valere piattaforme politiche generali che ricostituiscano l’unità di tutti i momenti di vita del lavoratore, che rendano meno casuali le convergenze con strati intermedi. (Ivi, pp. 227-228)

ai comitati di quartiere, in particolare, si riconoscono le potenzialità per condurre una lotta anticapitalista, possibile solo attraverso una loro unificazione in un blocco sociale alternativo e consapevole che l’obiettivo non è quello di ottenere soluzioni all’interno del sistema esistente ma è quello di sovvertirlo progressivamente. la legge 865 e il successivo piano decennale per la casa adottato con la legge 457/1978 sono gli ultimi interventi significativi attuati dallo Stato nell’ambito dell’edilizia pubblica, e dagli anni ottanta fino alla prima metà degli anni Duemila la politica della casa non fa più parte dei programmi di governo e segue un percorso incerto e contradditorio in cui il problema della casa è affrontato in modi diversi. (Padovani, 2011)

all’interno di questo percorso incerto si rintracciano alcuni interventi che hanno messo in discussione il concetto di casa come bene di servizio e in particolare la svendita di buona parte del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, l’elimi-nazione del fondo destinato all’edilizia pubblica e la liberalizzazione del mercato

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dell’affitto. Con la legge 431/1998 si abolisce l’equo canone, il canone di locazione sottoposto a controllo pubblico e definito secondo specifici parametri riguardanti le caratteristiche dell’immobile e la sua ubicazione, e si rimanda la definizione del canone di locazione al libero mercato.

la dinamica della condizione abitativa delle famiglie per titolo di godimento ripor-ta un brusco calo del numero di famiglie residenti in affitto in corrispondenza all’in-troduzione dell’equo canone. Se fino ai primi anni Duemila le famiglie residenti in affitto continuano a diminuire, successivamente si registra un indice stabile di poco superiore al 20%22. Al calare degli affitti corrisponde, inoltre, un incremento della

quota delle famiglie in proprietà, spiegabile non solo dalla ricerca di valorizzazione dei risparmi nel mattone ma anche dalle condizioni poco sicure e poco sostenibili economicamente dell’offerta in affitto23.

Con la liberalizzazione del mercato dell’affitto, avviata attraverso l‘introduzione della legge 359/1992 sui patti in deroga, si registrano, oltretutto, cospicui aumenti dei canoni di locazione che se da un lato regolarizzano la condizione della po-polazione benestante, dall’altra penalizzano quella della popo-polazione con reddito modesto. secondo il rapporto di nomisma del 2016 la quota di famiglie in stato di disagio abitativo è pari al 41,8% sul totale delle famiglie in locazione sul libero mercato. (nomisma, 2016)

a conferma del completo disinteresse per le politiche abitative è la considerevole riduzione del finanziamento per il fondo sociale per l’affitto24, istituito nel 1998 per

controbilanciare l’impatto della liberalizzazione degli affitti. Il finanziamento del fondo sociale per l’affitto prevede 440 milioni di euro nel 2000 e si riduce a soli 10 milioni di euro previsti dalla legge di bilancio del 2018.

Il canone di locazione degli alloggi in affitto nel settore privato incide con una per-centuale di circa il 30% sul reddito dei nuclei familiari, ed è un dato che evidenzia la presenza di uno squilibrio tra i beneficiari degli alloggi di edilizia residenziale 22 Fonte: banca d’italia.

23 Il controllo pubblico sul mercato degli affitti ha disincentivato i proprietari a immettere i propri immobili sul mercato della locazione e ha favorito, inoltre, lo sviluppo di contratti illegali. cfr. Fre-golent, l. & torri, r. (2017).

24 Il fondo sociale per l’affitto è istituito con la legge 431/1998 ed è alimentato da risorse nazionali integrate con contributi regionali e comunali e gestito a livello locale.

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pubblica e chi è costretto, invece, a rivolgersi al mercato privato. a parità di con-dizione e ubicazione il canone medio degli alloggi di edilizia residenziale pubblica corrisponde, infatti, al 28% del canone medio degli alloggi del settore privato, e tale sproporzione favorisce la permanenza nelle abitazioni sociali anche di nuclei fami-liari le cui condizioni non corrispondono più ai criteri per ottenerne l’assegnazione. (torri, 2017)

sulla base delle interpretazioni dei dati statistici, una fra le indicazioni contenute nel rapporto di nomisma (2016), riguarda proprio la necessità di utilizzare il patri-monio abitativo pubblico in modo più equo ridefinendo i parametri che disciplinano l’accesso agli alloggi pubblici e intervenendo sulla ridefinizione del canone sociale in base alla condizione reddituale degli assegnatari. a fronte di un fabbisogno abita-tivo che emerge dal numero delle domande presentate per ottenere un’abitazione so-ciale, le misure prioritarie da impiegare sono, secondo Nomisma, il rifinanziamento del comparto dell’edilizia pubblica e la ridefinizione delle politiche adottate. con la crisi economica e abitativa sono aumentate, inoltre, le procedure di sfratto legate a situazioni di marginalità e di povertà. oltre all’incremento del numero di nuclei familiari in condizione di disagio abitativo acuto occorre considerare anche la crescente consistenza dei nuclei familiari in condizioni di disagio potenziale, il cosiddetto ceto medio che in seguito alla contrazione dei redditi disponibili affronta con difficoltà il pagamento delle rate dei mutui o dei canoni di locazione.

A distanza di anni, parallelamente al sopraggiungere della crisi alla fine degli anni duemila, rinascono i movimenti per la casa che con una serie di azioni e di occu-pazioni d’immobili pubblici e privati rivendicano non solo il diritto alla casa ma anche il diritto ai servizi e agli spazi di socialità della vita cittadina. le azioni dei movimenti sono rivolte al soddisfacimento non soltanto del bisogno primario della casa ma anche del bisogno di tipo culturale e relazionale, e delineano i tratti di una diversa idea di città rispetto al modello neoliberale che caratterizza ormai le città europee.

la crescente domanda di alloggi pubblici non soddisfatta dalle politiche abitative e la presenza di molti alloggi pubblici vuoti, a fronte di un’emergenza abitativa conclamata, determina la ripresa delle occupazioni e lo sviluppo nuove pratiche

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abitative informali.

i risultati prodotti dalle esperienze dei nuovi movimenti rivelano una serie di ca-pacità organizzative e gestionali in grado di riattivare risorse sociali e di risolvere concretamente situazioni di degrado e di esclusione; eppure la reazione da parte delle istituzioni nei confronti di tali pratiche è il più delle volte repressiva quando non indifferente. agli sfratti, oltretutto, solitamente non fa seguito una soluzione abitativa alternativa per coloro che per necessità occupano abusivamente un al-loggio, con il risultato di aggravare la loro condizione di disagio e di marginalità. Per soluzione abitativa s’intende una condizione con la quale sono correttamente interpretati i bisogni e sono garantiti i valori abitativi. tali bisogni, quando accol-ti, sono spesso interpretati attraverso un trattamento di tipo assistenziale e regola-tivo che propone soluzioni alloggiative temporanee che negano i valori abitativi quali l’intimità domestica, l’associabilità, il controllo del proprio spazio abitativo. l’abitare, come scrive antonio tosi (2008), non è una condizione relativa al pos-sesso dell’oggetto-casa ma è un processo, un’attività, una relazione. Questa inter-pretazione dell’abitare non è recente e fa riferimento ai movimenti sociali contro l’esclusione abitativa che negli anni settanta mettono in discussione i principi delle politiche abitative tradizionali e che sono accorpati nella più generale definizione di “rivoluzione abitativa”. La rivoluzione abitativa mette in discussione i criteri con cui le politiche convenzionali definiscono la qualità abitativa e le forme di con-trollo centralistico con cui esse operano. Per le politiche convenzionali la qualità abitativa è relativa a una serie di modelli derivati dalla modernità: separazione delle funzioni, definizione di standard e servizi, processi di produzione specializzati. Con la rivoluzione abitativa è, invece, demandata agli abitanti la facoltà di determina-re la soluzione abitativa in funzione dei propri bisogni e stili di vita, assegnando alla qualità dell’abitare valori particolari e relativi piuttosto che generalizzanti. ne consegue la negazione del controllo centralistico delle politiche tradizionali nella definizione delle caratteristiche dell’abitare e nei modi di produzione specializzata sino ad allora adottati. (tosi, 1994b) l’accento è posto sul «carattere processuale dell’abitare – non un oggetto ma atto e processo; non attività specializzata ma re-lazione complessa con un ambiente – implicando, da tutti i punti di vista, un ruolo

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attivo dell’abitante nel risolvere i propri problemi abitativi e nella produzione del proprio ambiente abitativo». (tosi, 2008, p.153)

si sviluppano da allora nei paesi industrializzati, diversi modi di autoproduzione il cui l’obiettivo non è quello di rispondere ai criteri estetici e funzionali emanati dalla modernità, ma è quello di risolvere l’esclusione abitativa attraverso il coin-volgimento diretto degli abitanti facendo affidamento sulla loro capacità di trovare soluzioni efficaci ai propri bisogni.

La capacità di queste pratiche spontanee nella configurazione di un modello alter-nativo che oltre a ridefinire il processo di produzione abitativa contribuisce concre-tamente al sostegno dei bisogni abitativi, è ormai largamente riconosciuta. sarebbe vantaggioso anche per le istituzioni accogliere queste pratiche sperimentali ricon-figurando in risorsa ciò che è individuato come problema e ridefininendo il proprio ruolo all’interno delle politiche sociali abitative. Ridefinire il proprio ruolo non significa sottrarsi alla propria responsabilità pubblica di assicurare a tutti e in parti-colare ai più bisognosi l’accesso a un’esigenza primaria come quella della casa, ma significa recuperare un ruolo attivo e centrale nella programmazione delle politiche abitative sociali adottando un atteggiamento di ascolto e di coordinamento delle capacità di protagonismo sociale. (cellamare, 2015)

1.3. Movimenti e nuove forme di democrazia

in seguito alla caduta dei regimi comunisti viene a mancare la forza attrattiva delle ideologie e anche la popolazione che gravita intorno ai centri sociali è orientata a fruire di servizi piuttosto che a identificarsi come corpo politico militante. (Becucci, 2003a)

I centri sociali occupati e autogestiti nascono quando avvengono profonde modifica-zioni della struttura produttiva; distrutte le grandi concentramodifica-zioni operaie, distrutti i luoghi tradizionali di formazione dell’esperienza – famiglia, scuola, partito, fabbrica – il territorio diventa luogo delle nuove relazioni produttive.

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aaster, centro sociale cox18, centro sociale leoncavallo, Primo moroni, 1996, p. 93)

in questo contesto l’azione dei movimenti mira più al soddisfacimento di bisogni immediati piuttosto che al rilancio di grandi utopie e restituisce «un soggetto i cui “universi vitali” sono pervasi da una ricerca quasi drammatica di “senso” del fare e dell’agire incrociati con il bisogno di beni relazionali». (Ivi, p. 143)

il mutare del bacino di utenza che segna il passaggio del riconoscimento del centro sociale da “centro d’iniziativa politica” a “gruppo d’impegno sociale” genera una sorta di spaesamento nei collettivi di gestione, che intravedono il rischio concreto di una separazione tra le aspettative politiche dei collettivi e la massa dei frequen-tatori. Questa consapevolezza fa vacillare le sicurezze riguardo al futuro e al ruolo dei centri sociali e mette in crisi la produzione d’identità dei centri stessi. l’accetta-zione che «una certa epoca “eroica” dei centri sociali» è ormai entrata in crisi e con essa anche «il bagaglio di orgogliosa rivendicazione della marginalità o, secondo altri, di fedeli, generosi e intelligenti custodi della memoria delle pratiche degli anni settanta» (Ivi, p. 7) muove l’esigenza di avviare e realizzare un percorso di autotra-sformazione dei centri sociali.

La riflessione interna ai centri sociali in cui maturano posizioni diverse e contra-stanti rispetto all’identità, ai progetti e ai rapporti con le istituzioni, porta insieme al profondo modificarsi dell’utenza a una profonda frattura all’interno dei centri stessi. la divergenza di posizioni è da riferire principalmente al tipo di relazio-ne da stabilire con le istituzioni, e mette in evidenza la contrapposiziorelazio-ne tra due orientamenti differenti: uno “occupazionista” che si oppone a qualsiasi forma di collaborazione con le istituzioni locali e rivendica la salvaguardia dello spazio oc-cupato; l’altro “trattativista” che si pone a favore di un’apertura nei confronti delle istituzioni locali e di una risoluzione sotto il profilo legale del problema dell’occu-pazione attraverso la formalizzazione di convenzioni con le amministrazioni. la crisi d’identità che investe i centri sociali trova le sue ragioni, quindi, nella perdita di importanza dell’ideologia, nel cambiamento del bacino di utenza e nella diver-genza di posizione rispetto al rapporto con le istituzioni. tale crisi determina una

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spaccatura del movimento antagonista da cui emerge un nuovo soggetto collettivo che in fasi successive prende forma attraverso il movimento dei disobbedienti25.

tale frattura si formalizza attraverso La Carta di Milano26, un programma stilato nel

settembre del 1998 in occasione dell’assemblea nazionale riunitasi al leoncavallo di Milano, che definisce gli obiettivi27 che quella nuova parte dei centri sociali ha

scelto di darsi, tra cui l’uscita dei centri sociali dalla dimensione di precarietà con il riconoscimento da un punto di vista legislativo della loro indipendenza e autonomia politica, gestionale e amministrativa. in quell’occasione si riconosce formalmente la necessità di costruire progetti che possano favorire l’allargamento della sfera dei diritti, senza escludere a priori l’apertura a forme di collaborazione con le istituzio-ni locali e con i partiti più viciistituzio-ni ai centri sociali. come sostiene stefano becucci (2003a), il processo di riflessione interna ai centri sociali porta a privilegiare stra-tegie e opzioni politiche più orientate al pragmatismo e alla ricerca di potenziali 25 il movimento che si distacca dal patrimonio ideologico degli anni settanta assume nel 1998 la denominazione di “tute bianche”. Già dal 1994 le tute bianche sono indossate a Milano durante una manifestazione in opposizione allo sgombero del centro sociale leoncavallo. il movimento nasce successivamente a roma e fa riferimento alle lotte dei disoccupati francesi. a differenza delle tute blu, simbolo della classe operaia, le tute bianche sono il simbolo di una forza-lavoro giovanile prevalentemente precaria, priva di diritti e garanzie, esclusa dal patto sociale fordista (contratto di lavoro a tempo indeterminato/ferie/malattia/gravidanza pagate, previdenza). con la rivolta di seattle nel 1999, la pratica della disobbedienza civile riguarda i grandi summit dei poteri transnazionali (ocse, banca mondiale, Fondo monetario internazionale) che impongono agli stati politiche eco-nomiche che comprimono welfare e diritti sociali. in seguito alla repressione subita nel corso della mobilitazione contro il G8, il movimento decide di dislocare le forme del conflitto sul terreno so-ciale (precarietà, migrazioni, cittadinanza, beni comuni) oltre la contestazione dei summit di potere transnazionale e nasce il movimento dei disobbedienti. cfr. raparelli, F. (2011). Dalle Tute bianche

al Book bloc: il movimento italiano e l’insurrezione europea che viene, disponibile in <https://

www.globalproject.info/it/in_movimento/dalle-tute-bianche-al-book-bloc-il-movimento-italiano-e-linsurrezione-europea-che-viene/7555> (consultato il 5 ottobre 2018).

26 aderiscono alla Carta di Milano i centri sociali del nord est gravitanti attorno al Pedro di Padova, il leoncavallo di milano e altri centri sociali di roma.

27 le linee programmatiche stabilite dalla Carta di Milano sono tre: la prima “repressione, depe-nalizzazione e carcere” riguarda la depedepe-nalizzazione dei reati legati alle lotte sociali e all’uso di sostanze stupefacenti, la libera circolazione dei cittadini e la chiusura dei centri di detenzione tem-poranea per gli immigrati, la scarcerazione dei malati gravi e di aids, l’amnistia per gli attivisti e per le vicende degli anni settanta; la seconda “reddito di cittadinanza” individua in tale misura “l’idea-forza” per la creazione di un movimento di massa, aprire una nuova fase di conflitti sociali e mobilitazioni capaci di unire concretamente soggetti e società reale e formare la rete organizzativa per il movimento (gruppi di lavoro, collettivi, associazioni) utile per il confronto tra percorsi e speri-mentazioni; la terza “centri sociali e aree dismesse” riguarda il passaggio dalla dinamica “conflitto – repressione - lotta alla repressione” alla dinamica “conflitto – progetti – allargamento della sfera dei diritti” e prefigura l’apertura alla risoluzione della questione delle occupazioni intervenendo anche sulla dimensione legislativa per il riconoscimento dell’autogestione. il testo de La Carta di Milano è disponibile alla pagina: <http://www.ecn.org/leoncavallo/26set98/> (consultato il 5 ottobre 2018).

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“alleanze” con altri attori che alla preservazione della propria identità ideologica. l’allontanamento dai riferimenti ideologici e simbolici degli anni settanta porta a una maggiore apertura dei centri sociali alla “società esterna”; passaggio che ge-nera pratiche di lotta non più basate sulla violenza ma caratterizzate da azioni di boicottaggio e disobbedienza non violenta finalizzate a riscuotere consenso da parte dell’opinione pubblica. (becucci, 2003a)

la galassia dell’antagonismo sociale comprende così una serie di reti di centri so-ciali differenti per tipologia di azione, campagne e scopi che possono essere soso-ciali politici e culturali28. la rete che aderisce ai disobbedienti si distingue nel mettere

in atto processi di movimento conflittuale parallelamente a processi organizzativi consensuali e quindi orientati alla produzione di beni e servizi. (montagna, 2007) sebbene alcune tematiche come l’antifascismo militante, la lotta al precariato, la di-fesa dei militanti che subiscono arresti e vessazioni da parte delle forze dell’ordine siano comuni all’intera galassia dell’antagonismo sociale, le tematiche di riferimen-to dei disobbedienti riguardano principalmente il salario garantiriferimen-to a tutti attraverso la misura del reddito di cittadinanza, la libera circolazione dei saperi e l’opposizio-ne all’istituto giuridico del diritto d’autore, il municipalismo, il diritto alla cittadi-nanza e la politica dei migranti. l’attenzione verso queste aree d’intervento investe due temi: la concezione di cittadinanza e le nuove forme di democrazia. l’idea di cittadinanza sostenuta dai disobbedienti contempla l’uscita da qualsiasi forma di precariato sociale attraverso il diritto all’alloggio, il libero accesso all’istruzione, l’apporto di garanzie sociali e previdenziali, il reddito di cittadinanza e l’abolizione della regolamentazione dei processi migratori.

le nuove forme di democrazia emergono dall’adesione alla Carta del Nuovo

Mu-nicipio, dove per nuovo municipio s’intende un laboratorio di democrazia

parteci-pativa che promuove lo sviluppo delle società locali in opposizione alla globaliz-28 la distinzione tra i centri sociali autogestiti in base alla tipologia di azione è riferita alla clas-sificazione operata da Diani e Bison (2004) che distinguono l’azione degli stessi in conflittuale e consensuale. in relazione alla tipologia di azione, alle campagne e agli scopi, le reti dei centri sociali autogestiti si possono distinguere in disobbedienti, antagonisti (che includono gli autonomi e gli antimperialisti), i non-allineati (che includono sia i centri sociali con un orientamento più politico sia quelli contro culturali), e gli anarchico-libertari (che a loro volta costituiscono reti molto eterogenee tra loro). cfr. montagna, n. (2007).

Figura

Figura 2.1 Andamento della popolazione residente nel Comune di Venezia, 1951-2017. elaborazione  dati del servizio statistica e ricerca del comune di Venezia.
tabella 2.1 Popolazione residente nel Comune e nei quartieri di Venezia, 2002-2017 (V.a
tabella 2.2 Popolazione residente al 2017 per classi d’età nel Comune di Venezia (V.a.)
tabella 2.3 Popolazione residente al 2017 per classi d’età nel Comune di Venezia, (%)
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