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Recensione di: Lorenzo Rustighi, Il governo della madre. Percorsi e alternative del potere in Rousseau, FrancoAngeli, Milano, coll. «Per la storia della filosofia politica», n. 31, 2017, 355 pp.

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Lorenzo Rustighi, Il governo della madre. Percorsi e alternative del potere in Rousseau, FrancoAngeli, Milano, coll. «Per la storia della filosofia politica», n. 31, 2017, 355 pp.

Il volume di Lorenzo Rustighi, ricercatore di filosofia politica presso l’Università di Buenos Aires, è costruito a partire dall’ambizioso intreccio di tre piani di lettura dell’opera di Rousseau. Il primo livello, che per certi aspetti è quello più convenzionale, è costituito dall’analisi di alcuni concetti chiave della riflessione politica del Ginevrino, in particolar modo quelli di legge e di sovranità. L’Autore ricostruisce infatti – muovendosi con salda competenza all’interno del vasto corpus rousseauiano – la complessa dialettica, solidale e conflittuale, che viene qui a instaurarsi tra il soggetto individuale e il soggetto collettivo, due poli tra cui esiste al contempo una costitutiva identificazione e uno scarto incolmabile.

Questo asse d’indagine storico-concettuale si intreccia, in modo tutt’altro che dissimulato, alla volontà – ricordata sin dalla quarta di copertina – di «prendere sul serio l’ipotesi foucaultiana secondo la quale lo Stato non sarebbe che una peripezia delle arti di governo». In altre parole, Rustighi si serve della «archeologia del sapere» di Foucault per mettere in luce come alcune strategie finalizzate alla creazione di specifici rapporti di potere finiscano con il «costruire» i soggetti stessi che vi sono implicati. Il processo formale (alla base dell’idea di volontà generale) attraverso cui il soggetto-individuo, dandosi la legge, si costituisce in soggetto-popolo provando ad eliminare ogni rapporto di assoggettamento tra gli uomini, sarebbe costantemente contraddetto dalla concreta produzione di rapporti di forza all’interno delle medesime procedure formali che avrebbero dovuto eliminarli. Un simile paradosso, costitutivo dell’intera riflessione politica moderna, troverebbe in Rousseau la sua formulazione più netta nella riflessione sulla femminilità.

Il terzo asse concettuale dell’analisi di Rustighi è infatti la questione del femminile e della produzione della soggettività di genere in Rousseau. Una simile problematica rende inevitabile il confronto con l’ambito disciplinare dei gender studies, che sta segnando con sempre più forza anche gli studi sul diciottesimo secolo. Mentre il pensiero femminista novecentesco (basti pensare a Sarah Kofman, Le respect des femmes. Rousseau et Kant, Paris, Galilée, 1982) aveva forgiato lo stereotipo del «Rousseau misogino», rappresentante di quel pensiero maschilista occidentale che esclude le donne dalla dimensione politica servendosi di un rigido modello di distinzione sessuale, la lettura in chiave gender ha completamente ribaltato la prospettiva. Invece di essere un teorico della differenza sessuale, Rousseau – per riprendere la provocatoria tesi di Rosanne Terese Kennedy (Rousseau in Drag: Deconstructing Gender, New York, Palgrave Macmillan, 2012) – sarebbe un pensatore dell’ambiguità o addirittura dell’indeterminatezza sessuale, che avrebbe messo in discussione i rapporti di genere etero-normativi, contribuendo di fatto al processo di emancipazione della donna.

Il governo della madre ha il merito di non rimanere impigliato nello spinoso (e spesso sterile) dibattito sulla presunta misoginia o meno di Rousseau, riuscendo al contrario a coniugare alcuni degli spunti di riflessione più interessanti degli studi di genere con un’analisi concettuale rigorosa, attenta a quella dimensione storiografica che troppo spesso le analisi della femminilità in Rousseau hanno sacrificato a premesse ideologiche.

I tre piani di lettura utilizzati da Rustighi convergono e si armonizzano nella questione del governo, inteso non tecnicamente come potere esecutivo, ossia come un’applicazione delle prescrizioni del diritto, bensì come processo di «costruzione» di quell’ideale di cittadino (figura del tutto anti-naturale) che dovrà obbedire a se stesso attraverso l’amore per la legge. Sovranità e governo non sono dunque banalmente l’uno l’esecuzione dell’altra, ma rappresentano due logiche complementari. In una simile prospettiva, la dimensione del governo s’identifica apertamente con la dimensione educativa (l’analogia tra il pedagogo e il legislatore è d’altronde una delle costanti del pensiero di Rousseau) e, più nello specifico, con quella della cura, appannaggio per eccellenza della figura femminile. Per questa ragione, «la maternità è per Rousseau la declinazione fondamentale, se non la destinazione stessa, della femminilità» (p. 228). A partire da un’esaustiva analisi delle «figure» della maternità (dalle celebri Julie e Sophie, sino alla meno nota Regina Fantasque) e della specificità della morale femminile, incentrata sul pudore, rispetto a quella maschile, l’Autore s’interroga sulla similitudine tra la casa e lo Stato e sulla differenza di genere – la «complementarietà tra i sessi» di cui si parla nel quinto libro dell’Émile – che caratterizza la famiglia.

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La conclusione a cui perviene l’analisi è che Rousseau – contrariamente a quanto sostenuto dalla filosofia politica tradizionale – non sarebbe solo o prevalentemente un pensatore della sovranità (maschile), ma anche e soprattutto del governo (femminile). Il «governo della madre» evocato nel titolo dell’opera – inteso nel duplice senso di governo operato dal femminile e di governo sul femminile – diviene così l’emblema della «aporia del governo democratico» (p. 257), che trasforma il corpo materno nel campo di battaglia in cui si decidono i conflitti tra differenti ragion di Stato in competizione tra di loro.

Il governo della madre appare in definitiva un saggio ben informato e formalmente elegante che offre una lettura originale e credibile della filosofia politica di Rousseau, osservandone la costitutiva tensione tra dispositivi di legittimazione politica e dispositivi di governabilità attraverso il prisma della femminilità, come suggeriva di fare lo stesso Rousseau nella Lettre à d’Alembert: «Volete conoscere gli uomini? Studiate le donne» [M. Me.]

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