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L'unione tra corporeita', emozioni e gioco: la Psicomotricita'

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

La psicomotricità è una disciplina a connotazione pedagogica-riabilitativa-terapeutica, che considerando l’individuo nella sua unità psicosomatica contribuisce al suo sviluppo integrale. Essa rappresenta un sistema di controllo e di feedback per il raggiungimento di una relativa stabilità interna, alienando la comunicazione tra attività motoria e processi cerebrali.

In breve la psicomotricità è il rapporto che si crea tra l’apparato neurologico e quello locomotore, quando l’uno ha bisogno dell’altro per attivare un movimento interno o esterno al corpo.

Un importante contributo in materia è giunto dal francese Ernest Duprè che pose l'accento sullo stretto rapporto esistente tra le anomalie neurologiche e quelle psicologiche e su quanto la motricità e lo psichismo siano due aspetti indissociabili. Lo psicologo francese, infatti, afferma che: “Certi disturbi mentali e disturbi motori corrispondenti sono fra loro in un rapporto così stretto e presentano tali somiglianze da

costituire delle vere coppie psicomotorie”.1

Da questa citazione si deduce che vi è uno stretto parallelismo tra sviluppo delle funzioni motorie, del movimento, dell’azione e lo sviluppo delle funzioni psichiche. Spesso pensiamo che la sfera mentale e quella motoria siano due mondi completamente separati, che viaggiano su due orbite diverse, in verità questo concetto non è corretto. Nel lavoro di Tesi che sto per proporvi, vorrei far capire come l’elemento motorio e quello psichico siano parte di un’unica cosa e come queste possano rafforzarsi e migliorarsi l’un con l’altra.

La Psicomotricità ha preso su di sé il compito di riunificare ciò che la scienza aveva frammentato e diviso, ponendosi l’obiettivo di connettere la corporeità, l’affettività, l’intelligenza e la socialità della persona; aspetti che erano e sono, domini separati di discipline diverse.

Il ventesimo secolo è stato caratterizzato da un rinnovato intervento interdisciplinare sul ruolo del corpo nei meccanismi di apprendimento.

Lo studio del movimento in ambito educativo ha contribuito a chiarire gli aspetti potenziali della corporeità nell’azione didattica, definendola cornice pedagogica dell’educazione della persona attraverso il corpo e le attività motorie.

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Si è costruita negli ultimi anni in modo graduale e progressivo, una struttura delle scienze motorie a carattere educativo, nella quale gli aspetti biologici, biomeccanici, sociologici e quelli psico-pedagogici potessero armonicamente migliorare la didattica. In questa Tesi le Scienze Motorie vengono viste con una prospettiva educativa, adattata e preventiva, rivolta alla persona intesa come essere umano, dove il corpo e le sue abilità sono protagonisti dei processi di apprendimento, evidenziando il potenziale cognitivo dell’esperienza corporea.

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Capitolo 1:

LA PSICOMOTRICITA’

1.1 La storia psicomotoria

“ La Psicomotricità è una scienza che studia l’attività motoria dal punto di vista psichico. Si può affermare che la psicomotricità è l’insieme delle attività motorie che contribuiscono all’equilibrio della vita psichica. La psicomotricità riprende integralmente il termine “motricità” ritenendo che ogni aspetto motorio non possa essere considerato estraneo all’influenza psichica, nel senso che ogni atto motorio, quand’è volontario, include una dimensione e una intenzionalità che fa parte dello

psichismo”.2

Storicamente parlando, la seconda metà degli anni Venti e la prima del decennio successivo, sono il periodo in cui ritroviamo in Francia le prime formulazioni in campo psicomotorio, sia di ordine teorico che applicativo, per merito di Wallon e Guilmain. Wallon, filosofo e medico, inserisce il metodo genetico nello studio della patologia infantile, metodo che lo conduce a fondare una concezione generale della maturazione del bambino, in un’unità psicobiologica e sociale.

Guilmain, insegnante nei corsi di perfezionamento a Parigi, si trova a lavorare con bambini e ragazzi caratteriali e inizia a formulare un protocollo d’indagine della motricità e una pratica rieducativa che ha come riferimento le teorie di Wallon. L’opera di Guilmain tende a individuare le corrispondenze tra i tratti della motricità e particolari tratti del carattere, per giungere a definire le correlazioni tra tipologia motoria e tipologia psichica. E’ nel 1935 che Guilmain crea un metodo di rieducazione psicomotoria riconosciuto come primo metodo rieducativo di psicomotricità, con lo scopo di ristabilire un controllo mentale sull’azione. Secondo Guilmain, infatti, l’atto motorio non è una funzione separata dalla psiche, ma profondamente integrata da essa, tanto da poterla modificare nel momento in cui è l’atto stesso a subire variazioni nel corso della rieducazione.

Dopo il conflitto mondiale, ritroviamo la psicomotricità con la figura di J. De Ajuriaguerra, psichiatra spagnolo, che lavorò a Parigi, durante la dittatura franchista nel suo paese. Gli studi di tale psichiatra sono rivolti sui diversi aspetti dell’evoluzione motoria. Da qui la ricerca sulla modificazione del tono muscolare nei primi anni di vita,

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sulla genesi delle scariche motorie, delle stereotipie, dei tic, dell’evoluzione fisiologica delle sincinesie fino all’adolescenza e sull’organizzazione prassica del bambino.3

Da qui prendono avvio le innumerevoli ricerche sullo sviluppo infantile, tra cui spiccano i lavori di psicologia genetica di Wallon e Piaget. Questi hanno riconosciuto che il tono e la motricità contengono nel loro sviluppo i primi lineamenti delle reazioni emotive e affettive, contribuendo all’organizzazione progressiva della conoscenza. Nel tempo, molto si discusse sul significato di corpo e molte furono le interpretazioni che ne diedero filosofi, teologi e scienziati. Si venne così a determinare un contrasto tra il corpo, con il suo modo di essere, e il mondo ideale rappresentato di volta in volta dalla mente, dall’anima o dalla psiche. L’idea più diffusa che è giunta fino a qualche decennio fa, è che il corpo viene visto come negoziazione dell’anima o come simbolo contrapposto all’ideale del provvisorio confronto con l’eterno. Sono molti i filosofi e le scuole di pensiero che hanno appoggiato questa tesi. Essi negavano un valore positivo al corpo, definendolo la tomba dell’anima o al massimo uno strumento al servizio dell’anima per raggiungere la perfezione e l’ideale. Cartesio distingueva la res cogitans (sede dell’anima) dalla res extensa (sede degli impulsi che si trovano nel corpo). Egli considerava la res extensa, ovvero il corpo, come prigione dell’anima e anche se ipotizzò che il luogo dove si sarebbero incontrate le due identità fosse l’epifisi, non spiegava in che modo i due universi avrebbero interagito.

Anche la filosofia idealistica e il periodo romantico negarono valore alla corporeità, classificandola come attributo esteriore dell’anima (Idealismo) oppure come elemento senza significato, essendo lo spirito e i sentimenti gli unici valori dell’uomo (Romanticismo).

La corrente materialistica dell’Ottocento, pensando di dare una dimensione più reale e storica dell’uomo e del corpo, sintetizzò il concetto nella celebre espressione di Feurbach: “ l’uomo è ciò che mangia”. Secondo Lombroso, era possibile determinare scientificamente i tratti caratteristici interiori dell’uomo, basandosi sullo studio dei tratti somatici, considerarti rivelatori delle peculiarità morali.

Più tardi Nietzsche, in “Così parlò Zarathustra”, in un tentativo esasperato di rivalutare la più profonda individualità dell’uomo, affermo: “Colui che è desto e cosciente dice: sono tutto corpo, e nulla al di fuori di esso”.

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Senza addentrarci in questioni filosofiche, si può tuttavia affermare che entrambe le posizioni estreme sembrano eccessivamente unilaterali: non si può pensare all’uomo come una sola idealità o sola corporeità.

La mente e il corpo si trovano sullo stesso piano. Il corpo agisce traducendo un’idea in un gesto, o un sentimento in un atteggiamento; le azioni e gli atteggiamenti possono far nascere sensazioni, sentimenti ed idee. Un soggetto in uno stato ansioso cammina, si agita, è irrequieto, e così facendo traduce il suo stato mentale in un’azione corporea. Al contrario, uno stato di benessere fisico rende più fluidi i movimenti e più lucida la nostra mente, rendendoci più operativi anche intellettualmente.

L’uomo non è una mente che ha un corpo, ma l’uomo è corpo e mente. Per arrivare a questo concetto è necessario giungere al ‘900.

Il superamento della dicotomia cartesiana ha aperto la strada verso lo studio della dimensione corporea, dimensione che ha spaziato dalla medicina alla filosofia, dalla psicologia alla pedagogia, fino ad arrivare alla biologia, offrendo a ciascuna scienza la possibilità, non di sottolineare l’importanza del corpo rispetto alla mente, ma di conciliare due aspetti che si manifestano in sincrono nella globalità del soggetto. Si conferisce, insomma, una nuova dignità al corpo che in passato gli era stata negata. Questo vuol dire che aspetto corporeo e mentale non sono solo complementari tra di loro, ma interdipendenti e indissociabili.

L’espressione motoria diventa perciò l’effetto di fenomeni biologici, psicologici, meccanici e cognitivi che si esprimono per manifestare un pensiero, realizzare un bisogno, mettersi in relazione con gli altri e intervenire in modo attivo sull’ambiente. Fin dalla nascita il neonato entra in relazione con gli altri, prima di tutti con la madre, attraverso i primi riflessi arcaici (suzione, pianto, respirazione, chiusura delle palpebre), movimenti primitivi che a partire dal primo anno di vita diventano sempre più finalizzati. Con la teoria dell’equilibrio, Piaget esprime l’importanza del rapporto tra il soggetto e l’ambiente. Lo sviluppo, se da un lato dipende da una base genetica, dall’altro dipende da come il soggetto si adatta all’ambiente esterno e dall’ambiente stesso.

In particolare il movimento gioca un ruolo fondamentale, in quanto permette al bambino di esprimersi e comunicare e di conoscere il mondo. Non a caso Piaget quando affronta i suoi studi sull’età evolutiva fa riferimento all’importanza del ruolo svolto dalla dimensione motoria per affinare il processo di apprendimento sia motorio che cognitivo.

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6 1.2 Evoluzione applicativa

Si parla di educazione psicomotoria nei primi anni del novecento come terapia per il “trattamento” dei problemi mentali attraverso il corpo. Tale pratica parte dal presupposto e dalla necessità di un approccio globale al trattamento, che non si limiti ai soli aspetti neurologici, ma che coinvolga tutte le aree della personalità, nella convinzione, ormai assunta, che l’uomo non è una mente con un corpo, bensì un corpo e una mente, due entità paritetiche che interagiscono tra loro influenzandosi a vicenda. Il corpo esprime stati d’animo, sentimenti, stati di benessere e malessere, emozioni; un linguaggio, quello corporeo, dal quale non si può prescindere per il recupero e lo sviluppo integrale della personalità dell’individuo.

L’espressione del corpo è un codice valido per trasmettere le emozioni e le sensazioni dei propri sentimenti.

L’essere umano, per la sua caratteristica di animale sociale sente la necessità di comunicare, di raccontarsi, di scambiare informazioni e di confrontarsi per trovare contrasti o conferme.

Probabilmente il linguaggio gestuale si è sviluppato prima di quello verbale.

Ancora oggi mentre comunichiamo, non possiamo fare a meno di gesticolare rivelando quasi inconsciamente sia il nostro stato d’animo che la nostra personalità.

L’essere umano porta dentro di sé la storia e l’evoluzione di se stesso, la porta nel proprio corredo ereditario, nel proprio atteggiamento di pensiero e dunque nel proprio codice espressivo.

E’ utile, applicare il concetto di psicomotricità anche nell’ambito scolastico con l’obiettivo di aumentare le percezioni degli alunni, sperimentando e ritrovando la gioia di muoversi attraverso il gioco, gli oggetti, la musica, armonizzando il rapporto con se stessi e con gli altri, ascoltando il proprio corpo, le proprie sensazioni ed emozioni. L’elemento significativo dell’educazione psicomotoria è l’utilizzo dell’azione motoria e del gioco.

In questo contesto J.Le Boulch (medico francese e fondatore della psicomotricità funzionale) concepisce la capacità di agire intenzionalmente, utilizzando risposte motorie personali come una delle funzioni nervose, e quindi psicomotorie, più importanti per lo sviluppo affettivo e cognitivo del soggetto. Sia Le Boulch che Winnicot (pediatra e psicanalista inglese) collegano lo sviluppo della creatività all’esperienza della libera iniziativa ludica.

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Nell’educazione psicomotoria, quindi, al positivo equilibrio psicoaffettivo, si unisce lo sviluppo delle potenzialità operativo-cognitive individuali e tra queste la creatività assume un significato particolare.

Winnicot afferma: “ vi è differenza tra il vivere creativamente e semplicemente vivere. Semplicemente vivere ha a che fare con quell’inerzia e quell’indifferenza che sono

nemiche prime dell’apprendimento”.4

Le attività motorie da proporre dovrebbero perciò considerare la globalità della persona, utilizzando il movimento come mezzo d’interazione sociale, come sviluppo della considerazione di sé e dei propri spazi, andando così ad estrapolare la personalità di ognuno favorendone il proprio equilibrio.

Così facendo, potrebbe cambiare il concetto di educazione fisica, come già affermato da Jean Le Boulch intorno agli anni Settanta, a scienza del movimento o Psicocinetica, dove l’apprendimento per condizionamento o addestramento vengono sostituiti da una pratica motoria improntata sul gioco.

Egli plaude una metodologia che incoraggia l’attività propria della persona, aiutandola a portare la sua attenzione sulle percezioni necessarie al controllo dei gesti, aprendosi all’interiorizzazione, secondo lui troppo dimenticata dalla società dove l’apparenza ne fa da regina.

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Capitolo 2:

NEUROSCIENZA E BIOPEDAGOGIA

2.1 Il cervello umano e lo sviluppo cerebrale

Il cervello umano è il risultato di una lunga evoluzione filogenetica. Secondo la teoria di Mac Lean5, questa filogenesi, partendo dal cervello primitivo (il cervello rettile), ha avuto origine da associazioni e sovrapposizioni successive di strutture dotate di nuove funzioni.

Le tappe filogenetiche che si possono individuare sono essenzialmente tre:

1. Il cervello rettile: costituito da strutture antiche che presiedono alle funzioni vegetative e alle funzioni vitali essenziali. La caratteristica del cervello rettile è la reazione immediata e quasi automatica agli stimoli esterni e viene definito anche cervello egocentrico, in quanto centrato a fornire risposte sui bisogni vitali dell’individuo.

2. Il cervello limbico (o paleo-mammifero): a differenza di quello rettile, è più aperto verso l’esterno e pone l’egocentrismo di quello rettile in rapporto con l’ambiente, mettendo un freno alle risposte istintuali immediate.

3. Il cervello dei primati (o neocorticale): si estende in tre starti sovrapposti corrispondenti alla filogenesi della corteccia: l’archeocorteccia, la paleocorteccia e la neocorteccia.

L’intero sistema nervoso si forma a partire dalla placca neuronale. Durante la terza settimana di vita embrionale, la placca forma due pieghe neurali, che si uniscono a costituire il tubo neurale e il canale neurale. L’unione delle due pieghe neurali ha inizio a livello della futura porzione del collo dell’embrione, da cui procede sia in senso rostrale sia in senso caudale.

Il processo di formazione del tubo neurale prende il nome di: neurulazione.6

Le cellule poste sul margine libero di ciascuna piega neurale escono dalla linea di unione e formano le creste neurali, poste lungo i lati del tubo neurale.

Le creste neurali danno origine a strutture assai diverse tra loro come:

5 (Cfr. P.D. MAC LEAN, una mente formata da tre menti: l’educazione del cervello tripartito, in cervello

e comportamento, a cura di a. Oliviero, Newton).

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(M.J. Turlough FitzGerald, Gregory Gruener, Estomih Mtui, Neuroanatomia con riferimenti funzionali e clinici – sesta edizione, Elsevier, Milano 2012).

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 Cellule dei gangli spinali e simpatici,  Cellule di Schwann dei nervi periferici,  Cellule endocrine.

La primitiva cavità del tubo neurale si riduce progressivamente, fino a formare un canale ristretto, mentre alla periferia i prolungamenti assonici degli elementi nervosi si organizzano andando a formare quella che sarà la sostanza bianca del midollo spinale. Intorno al 25° giorno, si genereranno le vescicole encefaliche primitive:

1. Proencefalica. 2. Mesencefalica. 3. Romboencefalica.

Al 32° giorno le vescicole primitive si divideranno ulteriormente in altre vescicole, andando a formare:

1. Vescicola telencefalica, che vedrà lo sviluppo del cervello e dei nuclei della base.

2. Vescicola diencefalica, da qui si genereranno il talamo, ipotalamo, subtalamo, epitalamo ed epifisi.

3. Vescicola metencefalica, dalla quale prenderanno origine ponte e cervelletto. 4. Vescicola mielencefalica, dalla quale nascerà il midollo allungato.

5. Vescicola mesencefalica, dalla quale si formerà il mesencefalo.

La tripartizione delle strutture cerebrali implica, inevitabilmente una “tripartizione corporea”:

1. Corpo rettile (spontaneo e brutale);

2. Corpo limbico (sensuale, affettivo e fragile); 3. Corpo corticale (abile, preciso e disciplinato).

L’organizzazione cerebrale appare, dunque, come una struttura gerarchizzata il cui vertice è rappresentato dalla corteccia frontale, deputata al controllo della maggior parte dei comportamenti, inibendo, modificando o lasciando esprimere le reazioni istintive del cervello rettile e di quello limbico.

Le potenzialità neurologiche dell’encefalo possono trovare un loro adeguato sviluppo se sollecitate da un’attività psicomotoria. La funzione non crea l’organo, ma lo modifica a suo modo e ciò diventa di fondamentale importanza, soprattutto nella prima infanzia. L’organizzazione dei circuiti sinaptici, infatti, è determinata dalle situazioni vissute ovvero dall’esperienza. Ne consegue che i circuiti in questione non sono solo geneticamente determinati, ma acquisiscono una determinata conformazione grazie

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anche all’adattamento che il soggetto genera in risposta agli input esterni. Ciò fa si che la struttura neuro-psichica di ogni persona sia differente.

Il bambino tra il terzo mese e il ventiquattresimo mese, costruisce e perfeziona i sui circuiti senso-motori che gli consentiranno azioni sempre più efficaci.

Il cosiddetto “vissuto” è essenzialmente affettivo ed emozionale, e viene registrato sotto forma inconscia tra la corteccia ed il sistema limbico.

Tal funzionamento è predominante, in linea di massima, fino all’età di due anni, in quanto il circuito somato-sensoriale non è ancora sufficientemente sviluppato: esso entrerà in azione solo tra i due e i tre anni, diventando completamente operativo alla pubertà.7

2.2 Il concetto di plasticità

I circuiti senso-motori che sono presenti nella corteccia cerebrale non rimangono sempre immutati, ovvero le sinapsi che legano tra loro i neuroni non rimangono sempre le solite fin dalla nascita, ma si modificano nel corso della crescita e dello sviluppo del soggetto.

Diventa doveroso allora inserire il concetto di plasticità neuronale.

Innanzitutto per plasticità intendiamo: capacità che una struttura ha di modificarsi morfologicamente e funzionalmente.

Tali modifiche, non sono altro che risposte che il SN fornisce in base alle esigenze esterne che possono avvenire durante:

1. SVILUPPO. 2. APPRENDIMENTO. 3. AMBIENTE ESTERNO. 4. TRAUMI. 5. PATOLOGIE. 6. ATTIVITA’ FISICA.

Come ogni organo che costituisce l’anatomia del corpo umano, anche le strutture che fanno parte del SN deputate al controllo motorio, hanno spiccate capacità adattive. Queste si verificano fisiologicamente in modo tale da rispondere alle variazioni delle condizioni esterne (es. un ambiente che esige atti motori protratti nel tempo, come

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grandi corse, per garantire la sopravvivenza). Il SN mette in atto una serie di risposte che consistono in modificazioni:

 Fisiologiche,  Metaboliche,  Biochimiche.

Queste si verificano a vari livelli e se protratte nel tempo, permettono una modificazione della struttura, della forma, delle dimensioni dei vari elementi nervosi.

Per PLASTICITÀ NEURONALE intendiamo quindi: Capacità del SN di rimodellare la sua morfologia e la sua attività in risposta ad eventi circostanti o a nuove esperienze in cui il soggetto si trova e alle quali deve dare risposta.

Tale proprietà è alla base delle sue capacità funzionali come l’apprendimento cognitivo/motorio e il suo sviluppo. E’ proprio nel 1° e 2° anno di vita che il SN si modifica e si sviluppa e dove è possibile individuare particolari processi che inducono al cambiamento, come:

1. Migrazione e differenziazione cellulare. 2. Crescita e sviluppo dell’assone.

3. Formazione di alberi dendritici.

4. Sintesi di neurotrasmettitori. Interazione tra le cellule nervose e quelle gliali. 5. Sinaptogenesi ovvero formazione delle sinapsi.

Fino a pochi decenni fa, si pensava che il SN fosse una struttura stabile e immodificabile, in realtà non è così. Studi recenti hanno portato alla luce che i cambiamenti nell’organizzazione morfologica e funzionale nell’ADULTO sono presenti, molto più limitati rispetto a quelli che avvengono durante la fase di sviluppo e conseguenti a particolari EVENTI come:

LA COMPETIZIONE SINAPTICA che segue il PRINCIPIO DI HEBB secondo il quale: quando una sinapsi è maggiormente utilizzata va incontro

ad un riassestamento e potenziamento a discapito delle altre. (La sinapsi per

poter funzionare di più deve andare incontro a modificazioni come un maggior rilascio di neurotrasmettitori).

La competizione sinaptica crea un rafforzamento e un potenziamento delle sinapsi già esistenti. Le molecole trasportate in modo retrogrado al corpo cellulare del neurone provocano variazioni strutturali e funzionali come:

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2. Aumento sintesi proteica.

Affinché nell’adulto possano formarsi nuovi siti sinaptici, in modo da regolare la comunicazione tra i neuroni, occorre:

1. L’amplificazione dell’ albero dendritico.

2. L’aumento o la diminuzione delle spine dendritiche in base alla loro utilità, attraverso un rimodellamento morfologico e funzionale. Modificazione del rilascio di neurotrasmettitori e della risposta post recettoriale.

Il consolidamento della forza che lega tra loro i neuroni e la crescita di nuovi legami creano circuiti sinaptici, all’interno dei quali circola l’informazione appresa: questo è il meccanismo cellulare alla base della memoria.

I neuroscienziati, oggi, definiscono potenziamento a lungo termine (LTP o long term potentiation) quelle modificazioni nella forza delle sinapsi che sono stabili e durature nel tempo. La regione cerebrale sulla quale vengono condotti gli esperimenti sulla LTP è l’ippocampo dei mammiferi, una struttura sottocorticale avvolta su se stessa e che ha la forma di un cavalluccio marino.

L’ippocampo è situato nella regione temporale mediale e la scelta di questa struttura è dovuta al fatto che le cellule ippocampali mostrano una notevole capacità di modificarsi fino ad autorigenerarsi.

La maggior parte delle ricerche sul potenziamento a lungo termine nell’ippocampo cominciarono intorno agli anni Settanta: il neurofisiologo Tim Bliss scoprì che, stimolando ripetutamente un neurone8 pre-sinaptico e un neurone post-sinaptico dell’ippocampo dei conigli per alcuni secondi e in veloce successione, la trasmissione dell’informazione tra le due cellule risultava facilitata.

In altre parole: se agli assoni di due neuroni comunicanti tra di loro si somministra una raffica di scariche elettriche in rapida successione (quella che viene definita scarica “tetanica”) la forza del legame sinaptico che li unisce aumenta.9

Nelle registrazioni elettrofisiologiche questo fenomeno si manifesta così: la stimolazione elettrica corrente iniettata fa sì che i neuroni generino dei potenziali che si accompagnano al rilascio di neurotrasmettitori; il neurone pre-sinaptico, stimolato elettricamente, invia la sua informazione al neurone post-sinaptico; anche quest’ultimo è così stimolato e quindi genera a sua volta potenziale.

8 (J.C. ECCLES, la conoscenza del cervello, Piccin, Padova 1976). 9 (G. MORUZZI, fisiologia della vita di relazione, UTETE, Torino 1975).

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L’effetto che si produce con la stimolazione tetanica è un aumento duraturo dell’ampiezza del potenziale postsinaptico, cioè è come se le cellule postsinaptiche continuino a emettere scariche elettriche anche dopo che la stimolazione è terminata, e l’effetto può durare anche per dei giorni. Questo è ciò che viene definito potenziamento della forza sinaptica a lungo termine.

Viene utilizzata anche un’altra stimolazione rispetto a quella tetanica per arrivare a generare LTP: il cosiddetto metodo dell’abbinamento.

Se si inietta una corrente elettrica nel neurone pre-sinaptico e contemporaneamente si induce una depolarizzazione del neurone post-sinaptico (per depolarizzazione si intende una variazione del potenziale di membrana che si associa alla scarica di un potenziale di azione e alla liberazione del neurotrasmettitore) e si ripete per molte volte questa procedura di abbinamento, la forza sinaptica che lega i due neuroni aumenta.

E’ necessario, però, che l’attività della cellula pre-sinaptica e l’attività della cellula post-sinaptica siano concomitanti, cioè che la depolarizzazione post-post-sinaptica si verifichi entro 100 msec dal momento della liberazione di neurotrasmettitori della terminazione pre-sinaptica. Se la depolarizzazione e la stimolazione elettrica sono lontani nel tempo, le due cellule non vanno incontro alle modificazioni metaboliche coinvolte nel potenziamento a lungo termine e il legame sinaptico che le unisce non viene rafforzato.

2.3 Apprendimento e memoria

L’apprendimento e la memorizzazione sono due processi fondamentali che interessano gli individui nel corso di tutta la loro vita, e che non riguardano solo le attività di studio e di lavoro. Tali concetti sono così strettamente correlati che spesso si confondono l’un con l’altro, ma gli specialisti che li studiano li considerano due fenomeni ben distinti.

Nella psicologia cognitiva si definisce apprendimento: un cambiamento relativamente permanente nel comportamento, a cui corrisponde un aumento delle conoscenze, delle abilità e della comprensione, grazie ai ricordi registrati. La memoria, invece, è il prodotto di questo processo d’apprendimento, cioè la traccia concreta che di esso rimane nelle reti neurali.

Seguendo questa logica che la memoria è essenziale per l’apprendimento, in quanto consente di archiviare e recuperare le informazioni che si imparano (ad esempio si impara a una nuova lingua attraverso lo studio, ma poi si riesce a parlarle grazie all’uso della memoria che consente di recuperare le parole imparate). Così, come la memoria

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dipende dall’apprendimento anche l’apprendimento dipende dalla memoria, perché la conoscenza immagazzinata in essa fornisce il quadro al quale si collegano nuove conoscenze per associazione.

L’apprendimento è un processo mediante il quale si acquisiscono nuove conoscenze e su cui influiscono diversi aspetti:

 Le esperienze individuali,  Le informazioni,

 Gli stimoli provenienti dall’ambiente esterno,

 L’influenza di condizionamenti sociali, culturali ed emotivi. L’apprendimento si compone di tre fasi:

1. L’incertezza dei primi passi quando si fa una cosa per la prima volta.

2. L’allenamento, mediante il quale si acquisisce familiarità con il compito da svolgere.

3. Raggiungimento dell’automatismo.

L’apprendimento si verifica quando una variazione significativa delle condizioni ambientali (stimolo) determina una modificazioni reale e permanente del comportamento (Risposta). Questa modificazione può comportare un miglior adattamento all’ambiente, ma può anche portare al conseguimento di un risultato non funzionale (ad esempio un alunno che impara bene una regola grammaticale sbagliata). Affinché un apprendimento si verifichi occorre una stimolazione dall’ambiente che sia caratterizzata da elementi di novità rispetto a quelle precedenti o solite.

Se le variazioni dell’ambiente non sono significative, si verifica il fenomeno dell’assuefazione, ciò che lo stimolo viene percepito come se non fosse uno stimolo, ma come un elemento di disturbo, al quale non va prestata attenzione.

Il fenomeno contrario è la sensibilizzazione, ad esempio se un bambino ha toccato un cavo elettrico ricevendone la scossa e subendo uno shock emotivo, può avere dopo quell’esperienza una reazione di panico alla semplice vista di un cavo.

Inoltre, affinché lo stimolo possa essere appreso è necessario che sia connesso, in qualche modo, alla soddisfazione di una motivazione presente nel soggetto che apprende.10

Anche se la storia dell’interesse filosofico verso l’apprendimento può essere fatta risalire all’antica Grecia, la moderna psicologia dell’apprendimento risale alla fine

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dell’Ottocento e all’inizio del XX secolo, William James, filosofo e medico americano, è comunemente considerato il pioniere dello studio dei processi mentali.

Per un inquadramento generale della situazione è necessario introdurre una presentazione sintetica dei due filoni che hanno portato all’evoluzione degli studi rivolti all’apprendimento.

A proposito del concetto di apprendimento, si possono identificare due distinti rami della psicologia:

1. Comportamentismo. (Pavlov e il condizionamento classico. Skinner e il condizionamento strumentale o operante).

2. Cognitivismo (Tolman).

Secondo il filone del comportamentismo gli intermediari cerebrali centrali non sono coinvolti nell’apprendimento, ma il processo di acquisizione avviene per “tentativi ed errori”, fino al raggiungimento della risposta “corretta” in risposta a una situazione esterna. L’elemento chiave in tali processi è il cosiddetto rinforzo positivo (premio) e comportamento adeguato. La punizione invece non sembra avere un effetto altrettanto efficace nell’eliminazione dei comportamenti indesiderati.

Per le teorie cognitiviste, l’apprendimento avviene grazie ai processi cerebrali centrali, come la memoria e le aspettative, che agiscono da integratori di un comportamento orientato ad uno scopo. L’apprendimento non avviene per tentativi, ma grazie ad una strutturazione percettiva del problema, che viene risolto per intuizione.

Secondo il comportamentismo, c’è apprendimento quando si stabilisce una connessione riconoscibile e prevedibile tra un segnale nell’ambiente (stimolo), un comportamento (risposta) e una conseguenza (rinforzo). Con l’esperienza e la ripetizione il legame si fa più forte e il tempo che intercorre tra stimolo e risposte diminuisce progressivamente.

STIMOLO (seganle nell'ambiente) RISPOSTA (comportamento) RINFORZO (conseguenza)

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Una delle condizioni, affinché l’apprendimento sia possibile è che il comportamento venga rinforzato dalle conseguenze. Questa idea deriva dalla convinzione che sia possibile estendere agli esseri umani alcuni risultati degli studi condotti su animali. Negli esperimenti di Skinner i processi d’insegnamento producono comportamenti desiderati attraverso stimoli opportuni. Questi poi devono essere rinforzati in modo opportuno.

Ivan Pavlov, psicologo di origini russe, studiò i riflessi condizionati negli animali. Iniziò le sue ricerche partendo dai processi digestivi nei cani, soffermandosi specialmente sull’interazione tra salivazione e azione dello stomaco. Egli si accorse che i due fenomeni erano strettamente interconnessi dai riflessi del sistema nervoso “autonomo”.

Pavlov voleva capire se stimoli esterni potessero interferire con questo processo, così cominciò a suonare un campanello (stimolo condizionante) ogni qualvolta offriva del cibo (stimolo incondizionato) ai cani sottoposti ad esperimento.

Dopo poco, i cani, che prima salivavano esclusivamente alla vista del cibo e quando lo consumavano (risposta incondizionata, innata, non appresa), cominciavano a salivare allo squillo del campanello anche in assenza di cibo (risposta condizionata allo stimolo condizionante).

Pvolov introdusse così il concetto di “riflesso condizionato” per designare questo fenomeno, diverso da una risposta istintiva (come il ritrarre una mano da una fiamma), nel senso che doveva essere appresa. Pavlov chiamò questo processo di apprendimento “condizionamento”.

Il condizionamento pavloviano prende anche il nome di condizionamento “classico”. Contemporaneo di Pavlov, ma operante nel contesto nordamericano, Edward L. Thorndike volle approfondire l’effetto che le "ricompense" potevano avere sul processo di apprendimento. Giunse alla conclusione che la forma caratteristica dell’apprendimento è quella per “tentativi ed errori”.

La teoria di Thorndike è basata su tre leggi fondamentali:

Legge dell’effetto: risposte a situazioni che siano seguite da ricompense saranno rinforzate e diverranno l’abituale comportamento di risposta a quella situazione;  Legge della prontezza: una serie di risposte possono essere connesse l’una

all’altra per raggiungere un prefissato obiettivo;

Legge dell’esercizio: la correlazione “S-R” viene rafforzata dall’esercizio e si

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Gli esperimenti di Thorndike sul comportamento di cani e gatti lo condussero alla conclusione che l’apprendimento migliora quando conduce a risultati gratificanti.

Gli studi di Thorndike si differenziano ulteriormente da quelli di Pavlov poiché, mentre nel condizionamento classico la risposta prodotta dall’animale è un’azione che l’organismo compie automaticamente in seguito ad uno stimolo, nel tipo di condizionamento studiato da Thorndike la risposta è un’operazione che l’organismo compie sull’ambiente in vista di uno scopo. Tale condizionamento fu definito da Thorndike “strumentale”, mentre Skinner gli diede il nome di condizionamento “operante”.

B. F. Skinner, ritenuto il più eminente comportamentista ha realizzato numerosi esperimenti sugli animali per sviluppare e supportare le sue teorie che si fondano principalmente sul concetto di “condizionamento operativo”. Tale condizionamento si verifica quando viene rinforzata una risposta ad uno stimolo. Fondamentalmente il condizionamento operativo si configura come un semplice sistema con feedback: se una ricompensa o un rinforzo segue la risposta ad uno stimolo allora la risposta avrà maggiore probabilità di verificarsi.

Il condizionamento skinneriano si distacca dalle tradizionali teorie Stimolo-Risposta in quanto distingue due differenti classi di risposte:

Le risposte suscitate da stimoli conosciuti sono classificate come rispondenti;

CONDIZIONAMENTO

CLASSICO (Pavlol) OPERANTE (Thornidike e Skinner)

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Le altre risposte, dette operanti, non hanno bisogno di essere messe in relazione con alcun particolare stimolo conosciuto.

Gran parte del comportamento umano ha, secondo Skinner, carattere operante come per esempio guidare, cucinare, disegnare, in quanto sono azioni innescate automaticamente, senza il bisogno di alcun stimolo.

I primi comportamentisti decisero di escludere gli “eventi mentali” nelle loro teorie dell’apprendimento, in quanto argomentarono che tali eventi sono impossibili da osservare e misurare e quindi non possono essere studiati oggettivamente.

Tuttavia molti psicologi erano insoddisfatti di un simile approccio “privo di pensiero”. Tra gli psicologi dell’apprendimento cominciò a crescere la convinzione che gli eventi mentali e cognitivi non potessero più essere ignorati.

Si entrò così nel campo della scienza cognitiva, in un momento in cui gli accademici delle discipline della psicologia, dell’intelligenza artificiale, della filosofia e delle neuroscienze si resero conto che stavano tutti cercando di risolvere problemi che riguardavano la mente e il cervello.

Il superamento del comportamentismo porta quindi in primo piano la mente, intesa non come magazzino nel quale si accatastano conoscenze e abilità, ma come struttura assai elaborata e connessa. Ne deriva che l’apprendimento è un processo conoscitivo che trae origine dal bisogno di costruzione e di strutturazione del reale, implicito nell’interazione del soggetto con l’ambiente e viene studiato analizzando i cambiamenti che avvengono nelle strutture cognitive dell’individuo e nella sua personalità.

Gli esponenti più importanti di questo paradigma psicologico, caratterizzato dalla particolare attenzione ai contesti del vissuto umano, sono: E. Tolman, J. Piaget e D. Ausubel. Secondo questi autori, la cognizione è un processo attivo, organizzato e in grado di autoregolarsi attraverso una continua interazione dei soggetti con l’ambiente. L’accento non si pone più sui comportamenti esterni del soggetto che apprende, ma sui suoi processi interni, sugli atteggiamenti e sugli stati mentali.

Jean Piaget, psicologo svizzero è considerato uno dei padri delle teorie contemporanee sullo sviluppo cognitivo. Nella sua teoria sono due i processi cognitivi cruciali per il progredire intellettivo: l’assimilazione ed il riordino.

La prima consiste nell’acquisizione di un evento o di un oggetto all’interno di uno schema comportamentale o cognitivo già raggiunto. Il secondo si fonda sulla modifica della struttura cognitiva o del modello comportamentale per poter incamerare nuovi

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oggetti o eventi. I due processi si avvicendano e tendono naturalmente al raggiungimento di una relativa stabilità interna attraverso il controllo del mondo esterno. Ciò che determina la formazione di strutture mentali sempre più complesse è, dunque, l’equilibrio.

Lo sviluppo ha quindi un’origine individuale, e fattori esterni come l’ambiente e le interazioni sociali possono favorire o meno lo sviluppo, ma non ne sono la causa. Secondo Piaget, perché l’apprendimento avvenga deve esistere una sovrapposizione tra nuove esperienze e conoscenze pregresse.

Il prodotto di un processo di apprendimento si definisce memoria e corrisponde alla traccia concreta lasciata nelle reti neuronali. La memoria consente di archiviare e di recuperare le informazioni che si imparano; senza memoria si è capaci solo di eseguire movimento stereotipati e riflessi.

La memoria umana ci permette di memorizzare informazioni per un uso successivo, e per fare questo si susseguono tre fasi:

1. LA CODIFICA: processo che permette di trasformare le informazioni in modo che possano essere memorizzate. Per l’essere umano significa trasformare dati in una forma significativa come un’associazione con una memoria già esistente, un’immagine o un suono.

2. IL DEPOSITO: il metodo tramite il quale viene conservata l’informazione. Nell’uomo la strategia più comune è la reiterazione.

3. IL RECUPERO: processo finale che inverte il processo di codifica. In altre parole, restituisce le informazioni in una forma simile a quanto memorizzato. Esistono vari tipi di memoria e possono essere classificati in modo diverso. Se prendiamo come criterio la durata, si possono distinguere almeno tre diversi tipi di memoria:

1. MEMORIA SENSORIALE.

2. MEMORIA A BREVE TERMINE.

3. MEMORIA A LUNGO TERMINE.

La memoria sensoriale prende le informazioni fornite dai sensi e le mantiene con precisione, ma molto brevemente. La memoria sensoriale dura un tempo così breve (da qualche centinaio di millisecondi fino ad uno o due secondi) che è spesso considerata

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parte del processo di percezione. Tuttavia, rappresenta un passo fondamentale per la memorizzazione di informazioni nella memoria a breve termine.

La memoria a breve termine registra temporaneamente la successione degli eventi della vita degli individui. Queste informazioni scompaiono velocemente, a meno che non s’intenda conservarle di proposito. La memoria a breve termine ha una capacità di soli sette elementi e dura solo qualche decina di secondi. Proprio come la memoria sensoriale è un passo necessario per la memoria a breve termine, la memoria a breve termine è un passo necessario verso la prossima fase di conservazione: la memoria a lungo termine.

Ma perché un’informazione passa alla memoria di lungo termine?. Quando dobbiamo elaborare le informazioni, diamo un significato ad esse e le informazioni ritenute importanti vengono allora trasferite alla nostra memoria a lungo termine. Ci sono altri motivi per cui vengono trasferite le informazioni. La ripetizione ha un ruolo essenziale in questo processo, in quanto si tende a ricordare le cose tanto più queste vengono sperimentate. La memoria a lungo termine, non solo memorizza tutti gli eventi significativi che segnano la vita delle persone, ma ci permette anche di registrare il significato delle parole e le abilità fisiche che sono state imparate. La sua capacità sembra illimitata, e può durare giorni, mesi, anni, o anche tutta la vita. Ma è tutt’altro che infallibile: a volte distorce i fatti, e tende a diventare meno affidabile con l’età.

Se ciascuno di questi tipi di memoria ha le proprie particolari modalità di funzionamento, tutti cooperano strettamente nel processo di memorizzazione.11

Perché ricordiamo ciò che ricordiamo?. Ci sono in genere sei motivi per cui sono archiviate le informazioni nella nostra memoria a breve termine:

Effetto primato. Le informazioni che si verificano per prime vengono ricordate più facilmente di quelle che si verificano in seguito.

Effetto attività recente. Spesso l'ultimo bit di informazione si ricorda meglio a causa del poco tempo trascorso.

Carattere distintivo. Tutte le informazioni distintive sono più facili da ricordare rispetto a ciò che è sempre simile al solito o banale.

Effetto frequenza. Le eventuali ripetizioni di un'informazione consentono una migliore memorizzazione.

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Associazioni. Quando si associano le informazioni ad altre diventa più facile ricordarle.

Ricostruzione. A volte dobbiamo "compilare" gli spazi vuoti nella nostra memoria. In altre parole, quando si cerca di ottenere un quadro completo nella nostra mente, ricostruiamo le parti mancanti, spesso senza rendersi conto che questo sta avvenendo.

La memoria a lungo termine viene suddivisa in due forme diverse:

1. Memoria dichiarativa o esplicita: memoria di tutte quelle cose che si è consapevoli di ricordare (cosciente) e che si possono descrivere a parole.

2. Memoria non dichiarativa o implicita: si esprime con mezzi diversi dalle parole. Si tratta di ricordi che sono stati memorizzati a causa di una pratica estesa, di condizionamento o abitudini (non richiede il ricordo cosciente).12

La memoria esplicita può essere suddivisa in due sottotipi: 1. La memoria episodica.

2. La memoria semantica.

La caratteristica distintiva della memoria episodica è che il soggetto si vede come attore negli eventi che ricorda. Dunque si memorizzano non solo gli eventi stessi, ma anche l’intero contesto che li circonda.

La memoria semantica, invece, è il sistema che si utilizza per memorizzare la conoscenza. Si tratta di una base di conoscenza che tutti gli individui hanno e alla quale si può accedere in modo rapido e senza sforzo. Essa comprende la memoria dei significati delle parole, permette di ricordare le abitudini, le funzioni delle cose e il loro colore e odore.

La memoria implicita invece vede la presenza di 4 sottotipi: 1. Memoria procedurale. 2. Riflesso condizionato. 3. Condizionamento emozionale.. 4. Priming effect. 12 (D. L. Svhater, 1987).

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Si è visto che la più conosciuta tra i vari tipi di memoria implicita è la memoria

procedurale, che permette alle persone di acquisire le abilità motorie e consente

gradualmente di migliorarle. La memoria procedurale è inconscia, perché è composta da comportamenti automatici profondamente radicati.

Il riflesso condizionato è la risposta che il soggetto dà alla presentazione di uno stimolo condizionante che attiva il riflesso condizionato.

Il condizionamento emozionale è influenzato dallo stato emozionale del soggetto. Lo stato emozionale ha due componenti: una “componente corporea” che è la caratteristica sensazione fisica che si prova durante un’emozione; l’altra è la “componente cosciente”, la consapevolezza di provare una determinata emozione. Gli anglosassoni usano, in effetti, due termini diversi per le due componenti: usano la parola emotion per la componente corporea, che è anche la responsabile della comunicazione agli altri del nostro stato emozionale; la parola feeling è invece usata per la sensazione consapevole. L’emozione è il risultato di entrambe le componenti. In questo tipo di memoria vengono immagazzinate le “esperienze sensoriali” che provengono dall’ambiente esterno e che l’individuo percepisce e memorizza.

Infine il priming, secondo Tulving e Schacter (1990), è definito come la maggiore capacità di pensare ad uno stimolo, come una parola o un oggetto, in conseguenza di un’esposizione recente allo stimolo stesso. Si tratta quindi di sfruttare l’effetto di facilitazione che le esperienze precedenti hanno sulle esperienze successive. Il priming può essere di ripetizione e semantico (o associativo). Nel primo caso la presentazione di un elemento facilita il suo successivo riconoscimento, mentre nel secondo la presentazione di un elemento facilita le risposte ad uno “stimolo bersaglio” se entrambi appartengono alla stessa categoria.

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Con l’apprendimento, l’individuo interpreta i segni giunti attraverso la percezione e li rielabora associandoli con ciò che è presente nella sua memoria. Questo provoca delle modifiche nei processi mentali e nel comportamento, andando a generare uno sviluppo psicofisico.

“E’ chiaro che l’apprendimento non approderebbe a niente senza la memoria e che la memoria non avrebbe di che nutrirsi senza l’apprendimento. Memoria ed apprendimento sono due facce delle stesso fenomeno. L’apprendimento contribuisce ad alimentare e consolidare la memoria che in questa ottica costituisce una sorta di

serbatoio di ricordi e di nozioni….”.13

2.4 Genetica e Ambiente

Il cervello è formato da miliardi di neuroni interconnessi tra di loro secondo dei meccanismi molto complessi; nel corso dei decenni ci sono stati innumerevoli dibattiti riguardo la possibilità che le caratteristiche comportamentali e mentali dell’uomo siano legate fattori genetici o ambientali.

Idee come quelle sostenute da J. Locke, (filosofo e medico britannico) le quali davano per certo che il cervello rappresentasse alla nascita una sorta di tabula rasa, attualmente

13 (E. BONCINELLI, il cervello, la mente e l’anima. Le straordinarie scoperte sull’intelligenza umana,

Ed. Oscar Saggi Mondadori, Milano, 2000 p.208). MEMORIA A LUNGO TEMRNE ESPLICITA (dichiarativa) EPISODICA SEMANTICA IMPLICITA (non dichiarativa) PROCEDURALE COND. EMOZIONALE RIFLESSO CONDIZIONATO PRIMING EFFECT

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risultano essere superate, così come quelle che ritengono che vi sia alla nascita una programmazione predeterminata che non può essere modificata.14

Per contraddire tali tesi, le neuroscienze hanno prodotto importanti risultati attraverso numerosi studi, dando notevole rilevanza alla funzione della rete sinaptica, la quale permette di poter trasmettere lo stimolo da un neurone ad un altro e consente quindi, in cooperazione con altre strutture organiche, di elaborare quel meccanismo di immagazzinamento delle esperienze che chiamiamo “memoria”.

Gerald Edelman15, riteneva che le sinapsi del cervello sono in competizione tra di loro, e che solo quelle utilizzate competono con successo e sopravvivano, mentre quelle non utilizzate muoiono. Questo concetto ricorda un po’ quello che avviene anche a livello muscolare. Il muscolo se allenato si sviluppa e va incontro ad ipertrofia, mentre se non viene utilizzato, questo va incontro a ipotrofia fino a perdere la sua funzionalità.

Diventa perciò necessario andare a stimolare i collegamenti neuronali, attraverso la proposizione di attività differenti, che permettono di attivare, con le diverse esperienze, differenti tipi di pattern.

Tale osservazione ha una notevole ricaduta nell’ambito dell’apprendimento, in quanto presume l’esistenza di stimoli che risultano essere più adeguati e più efficaci, rispetto ad altri che possono risultare meno indicati; infatti i primi possono essere definiti “stimoli forti”, capaci di arrivare all’obiettivo, mentre i secondi possono essere detti “stimoli deboli”, ossia meno intensi. Si può inoltre dedurre che tali stimoli viaggiano sulla stessa, rete sinaptica, ma con differente velocità.

Tradotto in termini pratici, s’intende che se un soggetto ha come stimolo forte l’intelligenza corporeo-cinestetica (Gardner, 2001), quest’ultima dovrà essere utilizzata per rafforzare quella o quelle in cui è più latente.

Recenti studi, affermano che il decremento della funzione sinaptica avviene in età successiva a quella puberale e non prima, quindi diventa importante la stimolazione attraverso l’invio di numerosi input, proprio nel segmento vitale antecedente la pubertà, in modo tale da avere dei risultati migliori.

Le attività ludico-motorie alla base della psicomotricità rappresentano un vasto campo d’indagine e d’azione dove è possibile stimolare più connessioni sinaptiche per offrire più modi di vivere ed interpretare il problema.

14

(Cfr. R. ROIAS, Neural Networks, A ssytemic Introduction, Springer, Berlino, 1991).

15

(Cfr. G.M. EDELMAN, Group selection as the basis for higher brain function in F:SCHMIT, a cura di, The organization of cerebral cortex, MIT Press, Cambridge 1981).

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Quindi è necessario stimolare in continuazione, attraverso un processo intenzionale, l’attività neuronale, per mezzo di concetti trasversali, che avviano un meccanismo di rigenerazione delle sinapsi. Nell’attività psicomotoria, questo pensiero è applicato in modo evidente, in quanto basti pensare che ogni movimento è il risultato complesso di numerosi collegamenti neurali che operano corporeamente, cerebralmente ed emotivamente.

Le neuroscienze hanno dato un notevole contributo, in quanto tramite alcuni studi, si è dimostrato che l’attività neurale può essere mantenuta sempre in continuo allenamento, per tutto l’arco della vita.

Stephen Jay Gould (biologo, zoologo, paletnologo statunitense) affermò che alcune capacità sono da attribuire a fattori genetici, ma accade anche che un soggetto nasca con determinate capacità e che successivamente, si trovi ad adoperarne altre, per cui si è in possesso di caratteristiche che potenziano le capacità adattive ma che non sono poi impegnate per realizzare ciò che per cui sono originariamente progettate. Tale affermazione deve essere tenuta in considerazione soprattutto quando cerca di standardizzare il processo di formazione. Alcuni allievi, infatti, vengono ingabbiato in schemi mentali che non permettono alla fantasia di ciascuno di poter costruire un proprio prodotto, frutto delle proprie capacità e del loro modo d’interpretare le situazioni della vita.

Detto questo, diventa opportuno far vivere numerose esperienze al soggetto in quanto la maggior parte delle strutture cerebrali apprende da queste ed inoltre si solidificano in nessi tra le diverse aree.

Sulla base di ciò che i soggetti apprendono, ricordano, sperimentano o di ciò che immaginano per conto loro, le cellule neuronali si dispongono e si orientano in modo diverso. L’organizzazione delle cellule cerebrali rende l’essere umano un individuo unico nel suo genere e diverso da tutti gli altri. Da non dimenticare, che le reti neuronali sono in continuo mutamento, vengono continuamente rimodellate e riorganizzate dai pensieri e dalle esperienze. Dal punto di vista biologico, l’essere l’uomo inteso come essere umano è ripetutamente modificato dagli infiniti stimoli offerti dal mondo circostante.

Per farsi un’idea chiara sulle cellule nervose, queste dovrebbero essere immaginate come delle configurazioni danzanti di delicate fibre elettriche in una rete animata, che si connettono e disconnettono continuamente e non come dei bastoncini rigidi e solidi assemblati per formare la materia grigia del cervello.

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Sono i nostri sensi, attraverso le nostre diverse esperienze che scrivono la storia di chi siamo sulle tavole della nostra mente.

Occorre ricordare che esistono dei tempi di apprendimento definiti: periodi critici o fasi sensibili. Sono periodi temporali dove il processo di acquisizione risulta facilitato. Tutto ciò è dovuto al fatto che, durante tale periodo, le sinapsi corticali non sono ancora del tutto stabilizzate e quindi presentano degli spazi aperti. Infatti, è facile notare come un bambino riesca ad acquisire in modo più veloce, rispetto ad un adulto, una lingua straniera.

In realtà però, come sosteneva Alison Gopnik16, l’apprendimento dura tutta la vita, ed ogni volta che si apprende qualcosa, il cervello apporta delle modifiche alle strutture che lo rendono capace di poter affrontare la volta successiva le diverse acquisizioni.

Ciò evidenzia che il cervello, regolatore delle funzioni vitali, non smette mai di lavorare e quindi di apprendere nuove rappresentazioni che a sua volta utilizzerà per potere affrontare diverse situazioni. E’ proprio il collegamento neurale, svolto dalle sinapsi a inviare e a ricevere, queste informazioni sotto forma elettrica, le quali in seguito, vengono tramutate in azioni fisiche e mentali.

Continuare a fare “esperienze” durante l’arco di tutta la vita permette all’individuo di poter ampliare il suo bagaglio di competenze nonché di rafforzare il suo sé corporeo, psichico, cognitivo, relazionale e sociale.

2.5 Intelligenza corporeo-cinestetica ed intelligenza emotiva

Le intelligenze interpersonali, così come afferma Thomas Hatch17 si suddividono in quattro macro aree:

1. Capacità di organizzare i gruppi: abilità essenziale del leader, che comporta la capacità di coordinare gli sforzi di una rete di individui. Tipico talento che si registra nei militari con mansioni di comando, registi, impresari teatrali ecc. 2. Capacità di negoziare soluzioni: talento del mediatore, capace di prevenire

conflitti, o di risolvere quelli già in atto. Gli individui dotati di questo talento eccellono nelle trattative, riescono a far bene da arbitri o da mediatori nelle controversie e potrebbero far carriera nella diplomazia.

3. Capacità di stabilire i legami personali: dote dell’empatia e del sapere entrare in connessione con gli altri. Essa facilita l’inizio di un’interazione, il

16 (A Scientist in the Crib, Williamo Morrow, 1999). 17

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riconoscimento dei sentimenti e delle preoccupazioni degli altri e stimola la risposta adeguata. E’ l’arte stessa della relazione. Le persone che ne sono dotate sono giocatori di squadra, buoni amici e partner d’affari ed eccellenti insegnanti. 4. Capacità d’analisi della situazione sociale: capacità di riconoscere e di comprenderei sentimenti, le motivazioni e le preoccupazioni altrui. Questa conoscenza del mondo in cui si sentono può facilitare l’intimità ed i rapporti. Nel caso migliore questa abilità porta ad essere terapeuta e consulenti competenti.

Howard Gardner, psicologo e studente statunitense definisce l’intelligenza corporeo-cinestetica18 in un Saggio, dove nasce il cosiddetto “corpo intelligente”, un corpo che non riflette più l’immagine guida, il modello di scultura estetica; ma un corpo che rispecchia “l’essere individuale”, spoglio della moda, ricco nell’anima, nel significante soggettivo della vita, nell’amore con cui si collega sinapticamente al cervello.

Numerose ricerche aprono la strada allo studio delle vie biologiche che rendono la mente, le emozioni e il corpo, entità non separate, ma intimamente interconnesse.19

18 (Cfr. H. GARDNER, op.cit). 19 (D. GOLEMAN op.cit, p.200). INTELLIGENZE INTERPERSONALI ANALISI DELLA SITUAZIONE SOCIALE STABILIRE LEGAMI PERSONALI NEGOZIARE SOLUZIONI STABILIRE I GRUPPI

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Basti pensare alla stretta connessione esitente tar le terminazioni nervose che entrano in contatto con le cellule immunitarie. Questi punti di giunzione neuro-immunitari consentono una trasmissione dei messaggi del sistema nervoso autonomo al sistema immunitario e sensitivo (dolore, piacere ecc.) determinando il condizionamento delle difese e delle sensazioni corporee da parte delle emozioni della vita. Ecco come si giustifica oggi il concetto di somatizzazione, il riportare cioè, attraverso manifestazioni generali o localizzate del corpo, i sentimenti vissuti in eccesso, positivo o negativo che sia. L’amigdala, come asserisce LeDoux20

è l’organo propulsore dell’emotività della vita: le sinapsi neuronali che collegano questa al corpo rappresentano una serie di filtri biochimici atti, attraverso i neurotrasmettitori e i neuromodulatori, al dosaggio dell’impulso e, di conseguenza, responsabili delle risposte sensitive e motorie del corpo. La consapevolezza del meccanismo di tali processi aiuta l’essere umano a intervenire costruttivamente nel complesso ambito dell’educazione.

La società di oggi, offre agli allievi una serie di stimoli che, poiché di breve durata e di esagerata frequenza, sono percepiti troppo superficialmente. Anche se la nostra mente ha modellato il suo sistema di ricezione, analisi elaborazione e sintesi operativa in relazioni agli input offerti dall’ambiente, non ha ricevuto sollecitazioni per far accreditare valore profondo all’aspetto umano, e motivo e spirituale della vita.

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Capitolo 3:

LA TEORIA DEL MOVIMENTO

3.1 La motricità

La motricità è una delle caratteristiche dell’essere umano, che è poi una delle forme del linguaggio non verbale, silenzioso nel bambino, più complesso nell’adulto. Gli antropologi che hanno studiato diverse modalità comunicative hanno notato come in alcune tribù africane, esista un elaborato sistema di linguaggio “tamburellato”, che non dipende dagli organi vocali, ma dai movimenti delle mani che percuotono la membrana del tamburo attraverso cadenze motorie che sono state apprese a partire dall’infanzia. I movimenti non sono un puro meccanismo o un mezzo per ottenere qualcosa, ma le azioni motorie esercitano un ruolo importante nella formazione della mente, condizionano l’apprendimento e sono alla base del linguaggio.

In genere, quando pensiamo alla mente ci soffermiamo sulle percezioni e le “idee”, non sul movimento: eppure le azioni motorie hanno un ruolo basilare nei processi di rappresentazione mentale a partire dalle fasi embrionali, ovvero quando l’embrione comincia a compiere una serie di movimenti che costituiscono i mattoni dei futuri comportamenti motori.

Questo modo di guardare alla realtà mentale può apparire insolito o paradossale, solitamente le funzioni motorie vengono considerate subordinate a tutte quelle strutture che sono alla base delle più elevate attività cognitive e della razionalità. In realtà il pensiero cosciente è strettamente correlato con l’attività delle aree della corteccia, responsabili di movimenti reali o immaginati. In altre parole, la stessa area del cervello entra in funzione quando immaginiamo un movimento e quando questo viene pianificato.

Esiste, insomma, uno stretto intreccio tra motricità e pensiero, sia dal punto di vista del modo con cui la nostra mente funziona. Ad esempio, concentrarsi su un problema, vale a dire pensare, implica un aumento della tensione muscolare del collo come d’altronde rilassare i muscoli facciali o atteggiare il volto a un sorriso può modificare le nostre sensazioni ed emozioni.

Il nostro cervello è un enorme archivio di reperti motori, complessi schemi che lo psicologo russo Alexander Lurija ha definito: “melodie cinetiche” per indicarne la

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complessa fluidità che ognuno di noi mette all’opera nei diversi atti della vita quotidiana.

Le tecniche di visualizzazione cerebrale (brain imagining) hanno contribuito alla conoscenza degli schemi motori: se chiediamo a una persona di pensare di muovere una mano, la sua corteccia premotoria, situata anteriormente a quella motoria, nel lobo frontale, si attiva. Il che dimostra come vi siano aree del cervello che predispongono il movimento e aree che lo realizzano. La corteccia premotoria ha quindi il compito di preparare all’azione, anche se la decisione di compiere il movimento dipende dalle aree anteriori della corteccia frontale, come l’Area 46, che si attiva qualche millesimo di secondo prima della corteccia premotoria. La decisione di un movimento comporta quindi, una serie di eventi a cascata che partono dall’area prefrontale per poi passare a quella premotoria, fino ad arrivare a quella motoria vera e propria.

L’autonomia dell’Io, però, non è totale, nel senso che la motricità occupa un posto talmente rilevante nella nostra mente e nelle strategie cognitive, che il nostro cervello reagisce in modo inconscio ai movimenti compiuti dagli atri. In altre parole la nostra corteccia premotoria si attiva anche quando osserviamo altre persone compiere un movimento, anche se non c’ alcuna intenzionalità alla base di muoverci, ma sono gli altri a farlo. Anche se non ce ne rendiamo conto, la corteccia cerebrale “fotocopia” i movimenti che vediamo effettuare intorno a noi, attraverso l’azione dei cosiddetti mirror neurons o neuroni specchio. Questi sono localizzati nella corteccia premotoria dei primati e si attivano quando un animale osserva un altro animale compiere un movimento. I mirror neurons stabiliscono quindi, una sorta di ponte tra l’osservatore e l’attore e sono al centro dei comportamenti imitativi, molto importanti nella fase infantile. Nessuna parola riuscirebbe a trasmettere al bambino l’informazione necessaria per descrivergli come compiere un particolare gesto motorio come potrebbe essere la capovolta. Il meccanismo dei neuroni a specchio è talmente potente, che tali cellule neuronali non si attivano solo quando osserviamo il movimento eseguito, ma è stato dimostrato da Jeannerod21 e da Crammond che i mirror neurons si attivano anche quando vediamo sullo schermo di un computer un braccio virtuale che compie lo stesso movimento o l’immagine schematizzata di un uomo che corre o cammina. In tutti questi casi i segnali visivi vengono inviati alla corteccia premotoria che attiva gruppi di neuroni che anticipano un’azione che non necessariamente si verificherà.

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La motricità dipende quindi da un complesso intreccio di predisposizioni ed esperienze, dalla suscettibilità del nostro cervello a registrare le azioni motorie percepite dall’occhio e dalla progressiva edificazione di movimenti che vengono corretti e affinati per prove ed errori per poi essere consegnati a una memoria che ne codifica gli schemi e ne consente la realizzazione in forma stereotipata e fluida.

Grazie al movimento gli esseri umani oltre che ad esprimere la propria interiorità interagiscono tra di loro, diventando un mezzo rivelatore di sentimenti e relazioni. Perciò è basilare conseguire una base motoria il più ampia possibile, ed è per questo che l’attività educativa non deve rimanere legata alla pura fisicità, ma offrire al soggetto l’opportunità di sentire, leggere e interpretare i segnali che derivano dal proprio corpo attraverso il movimento.

Il movimento si sviluppa come qualsiasi altra funzione della personalità, dunque il compito dell’insegnante sarà quello di promuovere in ogni fanciullo un progressivo e finalizzato controllo del comportamento psicomotorio. Movimento che diviene della vita psichica a livello più o meno profondo.

Proprio sotto questa luce, gli studiosi moderni hanno inquadrato nella motricità e nella psicomotricità i punti di riferimento per iniziare lo studio del bambino, per conoscerlo e per educarlo.

3.2 Educazione motoria e psicomotoria

Da qualche anno l’educazione scolastica ha riscoperto il valore dell’attività motoria per favorire lo sviluppo della personalità unendo all’esercizio fisico prettamente di natura biologica un aspetto più psichico, per arricchire il potenziale di ogni persona. L’educazione motoria dunque, punta sulla ricchezza individuale lasciando al singolo la possibilità di esprimere la propria originalità e il proprio potere creativo.

Soprattutto durante l’infanzia e nella fanciullezza coordinare i movimenti aiuta i bambini a scoprire il mondo e ad aprirsi verso altre materie, come la lettura, la scrittura, l’ordine e la ricerca.

L’educazione motoria contribuisce ad aiutare il bambino a identificarsi in modo più sicuro e libero con se stesso, aiutandolo a raggiungere più rapidamente la propria autonomia. Per questo occorre che egli senta il corpo, ne prenda coscienza e lo riconosca nel meccanismo delle relazioni con l’ambiente.

L’educazione motoria, soprattutto nell’infanzia, aiuta a coordinare meglio movimenti e atti autorizzando, così, l’avviamento alla lettura, alla scrittura, all’ordine, alla ricerca,

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