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Il fenomeno societario tra diritto romano e diritto moderno

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IL FENOMENO SOCIETARIO TRA

DIRITTO ROMANO E DIRITTO

MODERNO

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3

…per aspera sic itur ad astra…

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4

INDICE

pag.

INTRODUZIONE - I PROBLEMI E GLI

OBIETTIVI DELLA RICERCA 8

CAPITOLO I - LE FORME SOCIETARIE DAL BASSO MEDIOEVO AI CODICI MODERNI: I PUNTI FERMI 1.1 Il Diritto Commerciale nel diritto intermedio 12

1.2 Le forme di società nel basso Medioevo 16

1.2.1 La Commenda 16

1.2.2 La Compagnia 22

1.3 Alle origini della società per azioni 26

1.4 Dall’ Ordonnance du commerce alle codificazioni moderne 31 1.4.1 L’Ordonnance du commerce del 1673 31

1.4.2 La société anonyme e l’avvento della Codificazione civile e commerciale francese 34

1.4.3 La legge francese del 24 Luglio 1867: la liberalizzazione delle società anonime 39

1.4.4 Il Codice di commercio per gli Stati Sardi del 1842 ed i Codici di commercio italiani del 1865 e 1882 44

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5

pag.

CAPITOLO II - LA SOCIETAS IN DIRITTO ROMANO

2.1 Considerazioni generali e tipi di società nel diritto romano 47 2.2 Obbligazioni dei soci ed evoluzione nella disciplina

dei conferimenti e della ripartizione dei lucri et damni 54 2.3 Affectus societatis, actio pro socio e cause di estinzione della

società 62

CAPITOLO III - SPUNTI PER UN’ANALISI DIACRONICA TRA DIRITTO ROMANO E DIRITTO MODERNO

3.1 Capitalismo e formazione economico – sociale nel diritto

romano e nel diritto moderno 70 3.2 Esercizio collettivo dell’impresa e società a confronto 73 3.3 Analisi diacronica sulla regolamentazione della società e

sulle cause di estinzione 84 3.3.1 La regolamentazione generale della società. Dalla

rilevanza dell’oggetto a quella del modello

organizzativo 84 3.3.2 Evoluzione nelle cause di estinzione della società 91 3.4 La rilevanza esterna. Dalle eccezioni del diritto romano

ai codici moderni 95

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6

pag.

3.4.1 Regola ed eccezioni sulla rilevanza esterna del contratto di societas 95 3.4.2 Le eccezioni 97 3.4.3 La rilevanza esterna della società nel diritto commerciale moderno 105 3.5 La limitazione della responsabilità. Dal servus come

imprenditore nominale alla società occulta 111 3.6 Alle origini della Commenda? Spunti di riflessioni sul foenus

nauticum 122

CAPITOLO IV - UN PARTICOLARE TIPO DI SOCIETÀ: LA SOCIETÀ DEI PUBLICANI

4.1 Oggetto e personalità giuridica 129 4.2 Struttura ed organizzazione interna 135 4.3 La rilevanza esterna della società dei publicani 149 4.4 Il regime particolare della societas publicanorum in relazione ad alcune ipotesi di estinzione della società ordinaria: l’adscriptio e l’adscitio 152 4.5 La societas vectigalis nel Principato e suo successivo declino 157

(7)

7

pag.

CAPITOLO V - LA “RISCOPERTA” DEL PECULIO. ALL’ORIGINE DELLA TEORIA GENERALE

DELLE SOCIETÀ DI CAPITALI

5.1 Considerazioni introduttive sul concetto di peculium nel diritto romano: nozione, actio tributoria e sua scomparsa 164 5.2 Riflessioni della Pandettistica tedesca sul concetto di peculio

a confronto con il diritto moderno 169 5.2.1 La posizione di Dietzel: dal römisches Peculienverhältniss

alla moderna Commanditen – Gesellschaft 170 5.2.2 La dottrina dello Zweckvermögen di Bekker: all’origine

della teoria generale della società per azioni 173

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 186

INDICE DELLE FONTI 191

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8

INTRODUZIONE

I PROBLEMI E GLI OBIETTIVI DELLA RICERCA

Esisteva nella civiltà romana un diritto commerciale? È dunque corretto parlare di un diritto commerciale romano? Levin Goldschmidt nel 1891, nella sua nota opera

Universalgeschichte des Handelsrechts, affermava che il

diritto commerciale in senso proprio, come ramo distinto del diritto, è opera del Medioevo italiano inoltrato e delle codificazioni moderne1. Su questi cardini s’è sviluppato nella prevalente dottrina commercialistica il dogma secondo cui la specialità e la genesi del diritto commerciale risiederebbe nello ius mercatorum, che ha caratterizzato l’età medievale dei secoli XII e XIII. Ora, alla luce della revisione del predetto dogma, sviluppatasi a partire dagli ultimi due decenni del ventesimo secolo2, il presente elaborato mira, innanzitutto, a cogliere quella “zona d’ombra”, che è stata rappresentata dal diritto commerciale della civiltà romana, con particolare riferimento agli aspetti legati al fenomeno

1

L. GOLDSCHMIDT, Universalgeschichte des Handelsrechts, 1, Stuttgart, 1891,

trad. it. a cura di V. Pouchain e A. Scialoja, Torino, 1913, 31 ss.

2

Su tutti spiccano gli studi di A. DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo ‘manager’ in Roma antica (II sec. a.C. – II sec. d.C.), Milano, 1984; F. SERRAO, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa, 1989; A. PETRUCCI, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II sec. a.C. – metà del III sec. d.C.), Napoli, 1991; M. J. GARCÍA GARRIDO, El comercio, los negozios y las finanzas en el mundo Romano, Madrid, 2001.

(9)

9

societario, in una prospettiva comparatistica con le esperienze successive e, in particolare, con il diritto moderno.

Orbene, nelle pagine che seguono, si cercherà di chiarire e puntualizzare i caratteri che contraddistinsero i traffici commerciali nella Roma antica, cercando di valicare quei “punti fermi”, condivisi da gran parte della dottrina, da cui, tuttavia, sono inevitabilmente partito, che ravvisano la nascita del diritto commerciale nel basso Medioevo come ius

mercatorum3. Si cercherà dunque di dimostrare che l’esperienza economico - giuridica che ha preceduto il Medioevo non può certo considerarsi come una sorta di preistoria del diritto commerciale moderno, sollevando in tal modo obiezioni contro il comune e accettato pregiudizio, secondo cui, essendo il diritto commerciale sorto nell’ età medievale, l’estraneità alla storia giuridica ed economica di Roma di un diritto speciale del commercio sarebbe da ascrivere alla struttura potestativa su cui si strutturava la famiglia romana e, di conseguenza, ad un sistema economico fondato sulla conservazione e non sull’accumulazione della ricchezza.

Al contrario, concentrandoci sui soli fenomeni societari, vedremo come l’ordinamento giuridico romano comprenda momenti ed assetti eterogenei, riconducibili a modelli che possono essere proficuamente utilizzati nell’ottica di

3

Su tutti per i commercialisti: F. GALGANO, Diritto commerciale, in Digesto IV

Disc. Civ., sez. comm., Torino, 1989, 35 ss.; G. FERRI, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1993, 6; per gli storici del diritto italiano: G. CASSANDRO, Saggi di storia del diritto commerciale, Napoli, 1982, nt. 8; U. SANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti, Torino, 1998, 35 ss.

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10

un’analisi diacronica – comparatistica, al fine di cogliere, valutare ed esplicitare coincidenze, affinità e differenze con i tipi e modelli dell’età moderna, cercando di vedere ciò che è stato sfruttato dalle esperienze successive e ciò che non lo è stato.

Sulla base di queste premesse, nel primo capitolo sono partito proprio da quei punti fermi, cui poc’anzi facevo riferimento, ossia dal diritto commerciale dell’età medievale e dalle sue tipiche forme societarie, per poi passare ad analizzare l’evoluzione temporale dei secoli successivi, che ci condurrà sino alle forme societarie delle codificazioni moderne, dove una particolare attenzione è stata prestata verso il Codice civile Napoleonico del 1804 (Code civil des Français) e quello di commercio del 1807, che hanno indubbiamente condizionato la disciplina codicistica italiana (pensiamo ai Codici di commercio per gli Stati Sardi del 1842 e ai successivi Codici di commercio italiani del 1865 e 1882 o, ancora, al Codice civile post-unitario del 1865).

Nel secondo capitolo, addentrandoci nel terreno che ci è consono, abbiamo dato una sguardo generale ai caratteri del contratto di societas nel diritto romano, per poi passare nel capitolo successivo al fulcro della trattazione, dove s’è effettuata un’analisi diacronica tra istituti presenti nel diritto romano e nel diritto moderno cercando di coglierne affinità e divergenze.

Il quarto capitolo, è invece dedicato ad un particolare tipo di società (societas publicanorum), che ha fortemente

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condizionato i traffici commerciali dell’epoca romana e al tempo stesso presenta degli interessanti punti di contatto con istituti del diritto societario moderno. Infine, nel capitolo conclusivo verranno prese in esame le riflessioni di alcuni autori della Pandettistica tedesca, i quali partendo da concetti fondamentali della struttura economico – sociale romana (peculio e merx peculiaris) hanno posto le basi per la costruzione della teoria generale delle moderne società per azioni.

Dunque, in conclusione, questo sarà l’oggetto principale della mia ricerca, che attraverso un’analisi diacronica del fenomeno societario tra diritto romano e moderno, senza tuttavia tralasciare quei punti fermi che abbiamo preso come punto di partenza per una corretta e lucida indagine, estranea a qualsiasi impostazione preconcetta, cercherà, da un lato, di dimostrare che l’idea che non si possa parlare in ordine all’età romana di diritto commerciale appare “angusta” e certamente fallace e, dall’altro, di mettere in luce, con riferimento al solo fenomeno societario, ciò che di quel diritto così antico è rimasto nel diritto moderno a distanza di millenni.

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CAPITOLO I

LE FORME SOCIETARIE DAL BASSO MEDIOEVO AI CODICI MODERNI: I PUNTI FERMI

Sommario: 1.1 Il diritto commerciale nel diritto intermedio. – 1.2 Le forme di

società nel basso Medioevo. – 1.2.1 La Commenda. – 1.2.2 La Compagnia. – 1.3 Alle origini della società per azioni. – 1.4 Dall’Ordonnance du commerce alle codificazioni moderne. – 1.4.1 L’Ordonnance du commerce del 1673. – 1.4.2 La société anonyme e l’avvento della Codificazione civile e commerciale francese. – 1.4.3 La legge francese del 24 Luglio 1867: la liberalizzazione delle società anonime. – 1.4.4 Il Codice di commercio per gli Stati Sardi del 1842 ed i Codici di commercio italiani del 1865 e 1882.

1.1 Il Diritto Commerciale nel diritto intermedio

Per una corretta ricostruzione del fenomeno societario nell’ordinamento giuridico romano, funzionale alla ricerca di quelle “radici” che contraddistinguono il sistema delle società commerciali, tipico degli ordinamenti moderni, è necessario, prima di addentrarci nel terreno che ci è consono, prendere le mosse dall’esperienza giuridica basso – medievale, un’età cruciale, che ha senza dubbio condizionato e contribuito allo sviluppo delle strutture del sistema commerciale moderno. Nella società basso - medievale definita mercantile, la crisi del sistema feudale, contribuì non poco a demarcare il

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passaggio da una società “curtense”4, caratterizzata dall’autosufficienza e dalla presenza di scambi limitati, ad una società “urbana”, dove il nuovo soggetto attivo del sistema economico era il mercator, sinonimo moderno del commerciante. Nelle città comunali, le funzioni si specializzarono, con divisione del lavoro e la creazione di un mercato diveniva così componente essenziale e peculiare di tale società. Tuttavia, a fronte di una domanda sostenuta e differenziata, si contrapponeva un’offerta affidata ad una moltitudine di piccoli produttori artigianali, proprietari, almeno di regola, degli strumenti di produzione ed operanti nelle loro botteghe con un limitato numero di collaboratori, spesso familiari. Un artigiano medievale, che Galgano ha definito, in termini marxiani, come “un produttore diretto”5, fa proprio il prodotto del suo lavoro e lo cede dietro corrispettivo al mercante.

Il rischio concreto, da scongiurare, era quello del formarsi di una discontinuità tale, da rendere impossibile la creazione di un mercato potenziale. Se un tale pericolo fu scongiurato, lo si deve alla figura del mercante, la cui funzione di intermediazione si palesava nell’analizzare il mercato per accertarne la domanda, reperire i capitali necessari con operazioni di finanziamento, commissionare il prodotto agli artigiani dirigendo le varie fasi di lavorazione ed infine nel

4Per una visione d’insieme sulla società si rinvia a G. LUZZATO, Storia

economica d’Italia – Il Medioevo, Firenze, 1963, 88 ss.; M. BLOCH, La società feudale, trad. it., Torino, 1965, 82 ss.; G. CHERUBINI, Agricoltura e società rurale nel Medioevo, Firenze, 1972, 8 ss.; V. FUMAGALLI, Terra e società nell’Italia padana, Torino, 1976, 25 ss.

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provvedere ad immetterlo sui mercati, spesso anche lontanissimi. Di tali operazioni si addossava l’onere ed il rischio: un rischio che era solo e soltanto del mercante.

Dunque il diritto regolatore dei rapporti economici alle origini del diritto commerciale nella società basso - medievale era un diritto che faceva riferimento alla sola figura del mercante e tale diritto prese per l’appunto il nome di lex mercatoria o ius mercatorum non solo perché regolava l’attività dei mercatores, ma soprattutto perché era diritto creato dai mercatores, che nasceva dagli statuti delle corporazioni mercantili, dalla consuetudine mercantile e dalla giurisprudenza della curia dei mercanti.

È dunque ius mercatorum, cioè un diritto creato dalla classe mercantile, senza la mediazione di una classe politica. Un diritto, imposto nel nome di una classe, agli ecclesiastici, ai nobili, ai militari, agli stranieri: il suo presupposto di applicazione è, per chiunque, il solo fatto di essere entrato in rapporto con un mercante. Una tale portata della lex

mercatoria si ripercuoteva anche nella giurisdizione

mercantile, dove il tribunale mercantile è il solo a conoscere le controversie commerciali fra mercanti ed anche quelle insorte fra mercanti e non mercanti. In conclusione, questo particolare modo di creare diritto ha pertanto contraddistinto la regolazione normativa dei rapporti commerciali del tempo,

connotandola in maniera diversa rispetto alla

regolamentazione normativa di ogni altra specie di rapporto sociale.

(15)

15

S’è giustamente detto un diritto, che aveva nel mercante il suo punto di riferimento e che si delineava come uno ius

speciale mercatorum, trovando tale specialità fondamento

nella potestas statuendi delle stesse Corporazioni, con gli statuti mercantili medievali che costituirono un complesso normativo imponente, la cui applicazione fu compito di giudici propri delle stesse; peraltro tale prospettiva verrà infranta nel nostro ordinamento con il Codice di commercio del 1882, che riformò notevolmente la parte generale rispetto al precedente Codice del 1865, con una diversa collocazione dei primi tre titoli del primo libro. Questo, che si apriva con le norme relative gli “atti di commercio” e non più sui “commercianti”, rendeva chiaro come il criterio di individuazione quale parte autonoma dell’ordinamento del diritto commerciale non fosse perciò più offerto dalla figura del commerciante, ma dall’atto di commercio, cioè l’oggetto tipico che quelle norme miravano a disciplinare. Si passava cosi da uno ius mercatorum ad uno ius mercaturae, per poi giungere al Codice civile del 1942 dove scompare qualsivoglia riferimento al commerciante e agli atti di commercio, ma si parla di imprenditore definito dall’art. 2082 come colui che “esercita professionalmente un’attività

economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.

(16)

16

1.2 Le forme di società nel basso Medioevo

1.2.1 La Commenda

Il diritto commerciale di quest’età s’è sviluppato a partire da due forme originarie, commenda e compagnia, e la nascita di tali forme coincideva in larga parte con i bisogni della società mercantile medievale. Due forme che, come afferma Jean Hilaire6, sebbene diversificate dal punto di vista strutturale, finirono per subire un’influenza reciproca.

Orbene nella società medievale, per ragioni inerenti alla sua intrinseca struttura, emerse una chiara esigenza di collaborazione tra capacità mercantesca e disponibilità finanziaria. Santarelli parla di un foedus iniquum, di un accordo tra diversi che in tale diversità trovava il suo peculiare fondamento7. Un tale accordo, tuttavia, non poteva incontrare la sua naturale traduzione nel contratto di mutuum, che nella società basso medievale veniva ricondotto all’assoluto divieto delle usure di origine biblica contenuto nell’Antico Testamento e nel Vangelo di Luca8.

Dette invece vita alla commenda, apparsa in Italia a partire dalla fine del X secolo, per poi consolidarsi come singolare figura contrattuale in tutte le piazze d’Europa. Essa ebbe da

6

J. HILAIRE, Introduction historique au droit commercial, Paris, 1986, 179 ss.

7

SANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti, cit., 171 ss.

8Exodus, XXII, 24-26; Deuterenomio, XXIII, 19-20; Levitico, XXV, 35-37; Luca,

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17

subito un ruolo importante nel commercio mediterraneo, in particolare per coprire i rischi collegati al commercio marittimo.

La commenda consisteva essenzialmente nel fatto che un commerciante, designato con il termine tractator, riceveva da un capitalista, detto stans o commendator, una sovvenzione che poteva essere in denaro o merci e si obbligava ad impiegarla in speculazioni mercantili e a restituirla a condizione di un felice ritorno da un viaggio, insieme con un parte dei lucri ottenuti.

L’originalità di tale operazione risiedeva nella ripartizione dei profitti e dei rischi. Infatti, mentre la mercatura restava propria del tractator e con essa tutti i rischi che poteva comportare, lo stans, pur conoscendo preventivamente le attività per le quali prestava il proprio finanziamento, metteva a rischio solo i capitali conferiti. Perciò, lo stans poteva perdere solo questi, ma non aveva nessuna responsabilità nei confronti dei terzi, il tractator invece gestiva in proprio gli affari ed era obbligato ed illimitatamente responsabile nei confronti di chi concludeva contratti con lui.

Per quanto riguarda gli utili, se lo stans faceva il conferimento (commande unilatérale) e il tractator non apportava che la sua attività, quest’ultimo riceveva un quarto degli utili, mentre lo stans tre quarti; al contrario, se il

tractator apportava anche un conferimento (commande bilatérale), gli utili si ripartivano in due terzi per

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18

utili erano computati al netto delle spese, che il tractator aveva sostenuto nell’esercizio dell’impresa, e che era giuridicamente possibile che in una stessa operazione i capitali fossero conferiti da una pluralità di persone ovvero che vi fosse una pluralità di tractatores, per i quali vigeva un regime responsabilità solidale.

La commenda, cui corrispose una notevole varietà terminologica nei diversi luoghi in cui si sviluppò, rappresentò dunque un’operazione commerciale agile e

duttile; il capitale poteva essere apportato in vista di un’ iniziativa precisa, un viaggio di andata e ritorno, oppure

per una durata determinata, di solito breve, sebbene potesse estendersi eccezionalmente anche per diversi anni. Inoltre, lo stans poteva dare istruzione precise al tractator sull’utilizzazione del capitale, come poteva invece lasciare alla sua discrezionalità lo svolgimento dell’operazione. La commenda dunque rispondeva ad una vasta gamma di operazioni dove la fiducia giocava un ruolo determinante. Essa infatti era essenzialmente adattata agli enormi rischi del mare che contraddistinguevano la navigazione del tempo (le

grôs temps, la pirateria o le rappresaglie di guerra).

Se appare di facile comprensione il ruolo economico che la commenda venne ad assumere nell’età medievale la questione più a lungo dibattuta riguardava la sua natura come contratto di società, tant’è che nei caratteri peculiari dell’istituto certi storici hanno ravvisato un mandato e spesso

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un contratto di mutuo9. A dimostrazione della difficoltà di inquadrare la commenda nel terreno delle società commerciali, sta ad esempio il fatto che a Venezia le parti erano indicate non con il termine usuale di tractator e stans, ma come creditore e debitore, con un chiaro riferimento al contratto di mutuo. Fa notare Jean Hilaire, come anche a Marsiglia nel XIII secolo, il giurista Amalric distinguesse il caso in cui solo lo stans faceva il conferimento, impiegandosi per tale situazione il termine commenda, dal caso in cui i conferimenti provenivano anche dal tractator, parlandosi allora di societas, come se fossero due contratti differenti10. Sulla questione Hilaire definisce la commenda come “un

contract sui generis, produit très vraisemblablement d’une élaboration médiévale”11.

Orbene, la commenda si sviluppò in un’area geografica, dalla Liguria al Veneto, dove l’influenza del diritto romano si era meglio conservata, ma anche dove i rapporti commerciali con il Mediterraneo orientale era importanti. I giuristi della metà del XII secolo e successivamente il diritto statutario

9A. LATTES, Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle città

italiane, Milano, 1884, 155 ss.; L. GOLDSCHMIDT, Universalgeschichte, cit., 201 ss.; A. E. SAYOUS, Annales d’histoire économique et sociale, III, 1931, 188 ss.; W. SILBERSCHMIDT, Le droit commercial avant et après L. Goldschmidt, 1934, 643 ss.; G. ASTUTI, Ancora sulle origini e natura giuridica del contratto di commenda marittima, Napoli, 1935; M. A. BENEDETTO, voce Commenda (contratto di), in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959, 607 ss.; A. UDOVITCH, At the origins of the western commenda: Islam, Israel, Byzantium?, in Speculum (a journal of medieval studies), 1962, 198 ss.; J. PRYOR, The origins of commenda contracts, 1977, 5 ss.; Business contracts of medieval Provence: selected notulae from the cartulary of Giraud Amalric of Marseilles, 1248 (Toronto, Pontifical Institute of Medieval Studies, 1981), 17 ss.

10Cfr. HILAIRE, Introduction historique au droit commercial, cit.,171. 11

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hanno inteso la commenda come una società e con una mossa semplificatrice hanno identificato commenda e società; l’affermazione di tale identità comportava il grande vantaggio di porre la commenda dentro l’ombra protettrice di un’operazione di non sospetta usura, permettendo di eludere il divieto del prestito ad interesse.

Per Santarelli12, la qualificazione come società, con conseguente affrancamento dal divieto delle usure, avvenne tuttavia per gradi, dapprima con il ragionamento del teologo Tommaso d’Aquino (1225 ca – 1274) nella Summa

Theologiae13, monumento autorevole della scolastica medievale, poi raccolto dai giuristi successivi. Con tale scelta interpretativa si qualificò dunque un contratto di finanziamento dell’impresa altrui come società, dettando una disciplina che riconoscesse lecita l’onerosità, secondo le insopprimibili esigenze della mercatura medievale ed evitando così l’applicazione del divieto biblico delle usure, che avrebbe colpito la commenda, se ad essa fosse stata data la qualifica di mutuo.

Arrivati a questo punto, appare chiaro come la commenda abbia condizionato sul piano genetico il sistema delle società commerciali tipico degli ordinamenti moderni, e del nostro in specie.

L’art. 2313 del Codice civile del 1942, quando recita “i soci

accomandatari rispondono solidalmente ed illimitatamente

12 Cfr. SANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti, cit., 179 ss. 13 Summa Theologiae, IIa IIae, LXXVIII.

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21

per le obbligazioni sociali e gli accomandanti limitatamente alla quota conferita” […] ci offre una definizione espressa

della società in accomandita semplice (S.a.s.) nel nostro ordinamento che, forse, non capiremmo così agevolmente se non si tenesse conto degli strumenti commerciali che si svilupparono nell’età medievale.

Sulle incerte origini della commenda si è a lungo dibattuto in dottrina14.

Si possono osservare, a parere di chi scrive, degli interessanti punti di contatto con un istituto tipico del diritto romano, il prestito marittimo (foenus nauticum). Lo sviluppo di tale traccia, la cui analisi riserviamo alle pagine successive15, può dimostrarsi interessante nella ricostruzione delle forme societarie che si formarono nell’esperienza giuridica romana, che il presente lavoro mira a ricostruire.

14 Tra i lavori più rilevanti spiccano quelli di G. ASTUTI, Origini e svolgimento

storico della commenda fino al secolo XIII, Torino, 1933; G. ASTUTI, Ancora su le origini e la natura giuridica del contratto di commenda marittima, in: ASTUTI, Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli, 1984, vol. III, 1345 ss.; A. ARCANGELI, L’origine e i caratteri della società in accomandita semplice, Padova, 1935, 63 ss.; M. A. BENEDETTO, voce Commenda (contratto di), in Noviss. Dig. it., cit., 611.

(22)

22

1.2.2 La Compagnia

La Compagnia, la cui radice etimologica allude chiaramente alla vita domestica, nel linguaggio dei giuristi dell’epoca denominata come societas mercatorum, costituiva il prototipo di una società caratterizzata dalla gestione collettiva di un’ impresa di mercatura all’interno della famiglia.

Una famiglia, quella del mercante medievale, che aveva una sua fisionomia precisa, con elevatissime proporzioni numeriche, che ben rispondevano alle funzioni che la famiglia era chiamata ad assolvere: affermazione, difesa del prestigio e della potenza politica della casata o la gestione di attività economiche rilevanti. Appare dunque evidente, che le ragioni che imposero alla famiglia di configurarsi come unico soggetto collettivo a cui quell’esercizio dovesse essere imputato, si legavano in modo fisiologico alla portata che nel basso Medioevo assunse il commercio internazionale. Basti pensare al mercante, che avesse voluto operare su più piazze distanti tra loro, oppure alla sua necessità di reperire gli ingenti capitali da investire nell’attività di mercatura. Tutto ciò rendeva opportuna l’esigenza di una collaborazione la più larga possibile, tale da mantenere uniti i patrimoni familiari. Dal punto di vista organizzativo, era necessario che l’esercizio della mercatura fosse comune, ossia riferibile in ogni suo aspetto ad un unico soggetto: la famiglia stessa. Da qui pure la necessità che le capacità acquisite e le conoscenze fatte non fossero disperse, ma si conservassero

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nel tempo come ricchezza comune futura, come del resto ci dimostrano i copiosi libri di ricordanze presenti negli archivi delle famiglie dei mercatores.

La situazione che regnava tra i compagni ci viene peraltro offerta da un’espressione, che rimanda ad elevati archetipi religiosi, divulgata per secoli, secondo la quale sono compagni coloro dei quali si può dire “stant ad unum panem

et vinum”, traducendo quel consortium omnis vitae che era

la famiglia nel comune esercizio di un’ attività di mercatura. Un primo carattere particolarmente innovativo fu infatti la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci per le obbligazioni sociali, con la conseguenza che l’obbligazione assunta da uno dei soci, anche senza la conoscenza degli altri, era un’obbligazione della quale potevano essere chiamati a rispondere tutti coloro che erano soci di chi l’aveva assunta. In sintesi, ciascun compagno aveva potere di negoziare in nome di tutti obbligando tutti, con poteri di governo e rappresentanza proporzionali ai compiti di ciascuno nell’ambito dell’organizzazione mercantile. Ma c’è di più: infatti, rispondevano nei confronti dei terzi, una volta scoperti, anche quei soci dei quali i terzi ignoravano l’esistenza al momento della conclusione del contratto, nel linguaggio moderno denominati come soci occulti. Peraltro, un tale principio si estendeva anche in caso di fallimento: infatti, se si scopriva che il mercator fallito aveva dei soci, il fallimento veniva ipso iure esteso a costoro, a prescindere dall’accertamento della loro eventuale insolvenza. Dunque, la regola della responsabilità illimitata e solidale di tutti i

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24

soci mirava altresì a stabilire un’identità di rischio tra tutti i compagni, un rischio che la scienza economica avrebbe poi definito come coessenziale alla nozione stessa di imprenditore.

Gli storici del diritto moderni16 osservano come tale regola non fosse corrispondente alle risultanze delle fonti romane. Tuttavia, soltanto nelle società fra non commercianti, per l’obbligazione assunta dal singolo socio, rispondeva, nei confronti dei terzi, solo quel socio che l’aveva assunta. Una previsione, quest’ultima, che discendeva dalla rilevanza interna nei rapporti con i terzi, quale regola generale del contratto di societas tipico del diritto romano, sebbene temperata da vistose eccezioni, ma sul punto si tornerà ampiamente più avanti17.

Sul piano economico i conferimenti dei singoli compagni rappresentarono il compendio dei mezzi finanziari, di cui la compagnia poteva disporre, ed appare sufficientemente chiaro come l’interesse sotteso alla regola della responsabilità solidale dei compagni fosse rappresentato dall’interesse alla moltiplicazione degli affari.

Merita brevemente un accenno il regime sulle regole di amministrazione interna, nel quale valeva, come si direbbe in termini moderni, un sistema di amministrazione disgiuntiva. Pertanto l’obbligazione assunta da ciascun socio vincolava solidalmente gli altri soci, anche se essi non ne

16 Su tutti GALGANO, Lex mercatoria, cit., 50 ss. 17 Cfr. cap. III, § 4.

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25

conoscevano l’esistenza. Santarelli parla di una “simbiosi quasi perfetta”18, che si venne a creare tra famiglia e compagnia, confermata dal fatto che la storia di ogni singola compagnia non rappresenta nulla più che un capitolo di quella delle famiglie che la costituirono: dalle stesse presero infatti, il nome e mutuarono le regole di amministrazione, governo e responsabilità nei confronti dei terzi. Simbiosi che, come rimarca Santarelli, non fu mai assoluta identità. Da un lato, perché la circostanza che tali compagnie presero il nome delle famiglie non si configurava come un mero fatto esteriore e formale, ma significava spendere quel nome sulle più importanti piazze commerciali, ricavando credito e prestigio e creando nei terzi un legittimo affidamento, tutelato con la responsabilità solidale della compagnia; dall’altro, perché nelle compagnie entrarono accanto agli appartenenti alla famiglia, anche dei compagni estranei, che tuttavia restarono sempre in minoranza, sia per teste che per capitali conferiti19.

I connotati peculiari di tale paradigma societario, sorto nell’età medievale, ci consentono di comprendere con sufficiente chiarezza l’evoluzione successiva, che portò

l’antico patronimico comune, che caratterizzava la

compagnia, a trasformarsi lentamente in ragione sociale. L’art. 2292 del Codice civile del 1942 dispone testualmente: “La società in nome collettivo agisce sotto una ragione

sociale costituita dal nome di uno o più soci con

18 SANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti, cit., 138. 19 SANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti, cit., 140 ss.

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26

l’indicazione del rapporto sociale”. Appare del tutto evidente

come tale esempio tipico di gestione comune di un’impresa di mercatura abbia condizionato il processo storico che ha portato alla formazione delle norme codificate in materia di società.

1.3 Alle origini delle società per azioni

Alla fine del Medioevo, sorse sempre più forte l’esigenza di concentrare grandi somme di capitale, con la conseguente creazione di strutture sociali nuove, rispetto a quelle

dell’epoca passata. Nell’assolutismo monarchico la

convergenza degli interessi che la politica mercantile determinò fra le classi antagoniste, portò ad alleanze e collaborazioni, delle quali l’apice rappresentato dalle Compagnie delle Indie del Seicento e Settecento. Esse rappresentano gli archetipi di quello che diverrà, con le codificazioni ottocentesche, il paradigma societario tipico dell’impresa capitalistica, la società per azioni (S.p.a.).

In questo tipo di compagnia compaiono due elementi connotanti: la limitazione della responsabilità dei soci e la divisione del capitale sociale in azioni.

Per quanto riguarda il primo aspetto, non era certo una novità, in quanto si configurava come un tratto peculiare della società in accomandita che si sviluppò a partire dalla

(27)

27

commenda, sebbene in essa sia noto come tale limitazione riguardasse solo una categoria di soci, gli accomandanti. La novità dunque è rappresentata dall’estensione della responsabilità limitata a tutti i soci e non solo ad una parte di

essi, ma tale fatto nuovo assumeva i caratteri

dell’eccezionalità, nel senso che appare riconosciuto alle sole Compagnie coloniali, che, di volta in volta, vennero a costituirsi, prima, in Olanda ed Inghilterra, e poi su tale esempio, in Francia nel 1664. Del tutto peculiare risultavano anche le modalità di costituzione di tali Compagnie, dal momento che ciascuna di esse nasceva per il solo atto di concessione del sovrano, che rappresentava come lo definisce Galgano “fonte dello specifico privilegio”20.

Ebbene, le prime Compagnie nascono da una sorta di patto concluso da gruppi imprenditoriali con il sovrano, con il quale i primi si impegnavano ad intraprendere colossali iniziative economiche sopportando ingenti rischi, come la colonizzazione delle terre d’oltremare ed il sovrano, da parte sua, si aspettava l’accrescimento politico ed economico dello Stato. Quest’ultimo armava le flotte e muoveva gli eserciti, favorendo la strada alle Compagnie21.

Come scrive Karl Marx nell’ opera Il capitale, “una tal violenza fu determinante per fomentare artificiosamente il

20

GALGANO, Lex Mercatoria, cit., 83.

21 A tal proposito si legge nell’art. 40 della Déclaration du Roy Louis XIV portant

établissement d’une compagnie pour le commerce des Indes orientales: “promettiamo alla detta Compagnia di proteggerla e di difenderla verso e contro tutti e di impiegare la forza delle nostre armi in ogni occasione per mantenerla nella piena libertà del suo commercio e della sua navigazione”.

(28)

28

processo di trasformazione del modo di produzione feudale in un modo di produzione capitalistico”22.

Appare evidente la circostanza che, in tali Compagnie, il privilegio della responsabilità limitata era legato alle ingenti proporzioni dell’impresa, alla quale si legavano altrettanti ingenti rischi. In tal modo le eventuali perdite della società, pur se elevate, avrebbero pregiudicato solo il capitale conferito dal singolo socio.

Per quanto riguarda la divisione del capitale sociale in azioni, si consentiva al socio di disporre della propria quota come si dispone di un qualsiasi bene mobile, liberamente trasferibile e di cui si poteva facilmente realizzare il controvalore in denaro. In sintesi, la qualità di socio è incorporata in un titolo, l’azione, mediante la quale la partecipazione sociale diventa un valore di scambio e una nuova fonte di ricchezza. A ben vedere, come sottolinea Jean Hilaire, se, da un lato, lo sviluppo successivo delle società di capitali si snoda certamente per l’evoluzione della tecnica delle azioni, dall’altro, dal punto di vista giuridico, a metà del XVIII secolo, la concezione dell’azione era ancora molto incerta. L’autore francese riporta due tesi contrapposte: quella di Savary des Bruslons nel Dictionnaire du commerce del 1741 parla “d’une partie ou égale portion d’intérêt dont plusieurs

ensemble composent le fonds capital d’une compagnie de commerce”, e quella di Robinet, che la riconduce “à une obligation écrite que la compagnie donne à celui qui avance

(29)

29

un capital, laquelle obligation peut être vendue par ce créancier à gain ou à perte à qui bon lui semble”23. Anche la concezione di un capitale sociale distinto da quello dei soci non era, d’altronde, ancora chiara. Alcuni autori francesi, come Balthazard Marie Emerigon, ripresero la dottrina italiana, in particolare le decisioni della Rota di Genova e l’ opinione di Scaccia24, per affermare che “la société est une

personne civile”25, sebbene la giurisprudenza maggioritaria andasse in senso contrario.

Soffermiamoci ora, più da vicino, sul profilo organizzativo, che vennero ad assumere le più importanti Compagnie dell’epoca. Secondo Jean Hilaire26, la prima Compagnia Olandese delle Indie Orientali rappresentò un modello piuttosto avanzato per le sue attività e strutture. Infatti, l’atto di creazione prevedeva una durata di ventuno anni, nonostante l’usanza di costituire società di breve durata. L’obiettivo era quello di attirare un elevato numero di persone, tant’è vero che tutti i cittadini delle Province Unite potevano partecipare alla Compagnia, a prescindere dall’apporto che poteva essere più o meno consistente. Era inoltre attribuita a ciascun partecipante, alla fine del decimo anno, la facoltà di ritirarsi e riappropriarsi del suo denaro. A coloro che erano a capo della Compagnia venivano poi attribuiti poteri decisionali importanti, come l’invio di navi e

23

HILAIRE, Introduction historique au droit commercial, cit., 205.

24

S. SCACCIA, Tractatus de commerciis et cambio, Colonia, 1738, 48 ss.

25 B. M. EMERIGON, Traité des assurances et des contrats à la grosse, Marseille,

1783, t. I, 323.

26

(30)

30

le decisioni sulle questioni commerciali che si ponevano, accompagnate solitamente da garanzie, in particolare fideiussioni, giuramento di fedeltà per quanto riguarda la gestione e la chiusura generale dei conti ogni dieci anni. Dal 1603 la Compagnia aveva ammesso la cessione di quote, pubblicando peraltro un formulario speciale per questo genere d’operazione. Le quote, che dal 1606 presero il nome di “actions”, diventarono ben presto oggetto di un traffico commerciale, definito da Hilaire come “un nouveau

commerce”27.

Sulla scia dell’esperienza olandese ed inglese, la monarchia francese ha tentato di promuovere la nascita delle Compagnie di commercio, dapprima con gli infruttuosi tentativi di Sully e Richelieu e poi con i progetti di Jean Baptiste Colbert, che culminarono con la costituzione della Compagnia delle Indie Orientali nell’agosto del 1664. L’atto di costituzione, la “declaration” , stabiliva le regole della Compagnia, di cui il capitale di quindici milioni di lire diviso in azioni di mille lire, doveva essere apportato dai soci, tra i quali figurava il re

per un quinto come “le plus gros actionnaire”28. La compagnia era dotata di personalità giuridica, monopolio

commerciale e di prerogative di autorità pubblica sui territori che essa doveva controllare. La direzione della compagnia era affidata all’assemblea generale dei soci, che si riuniva annualmente, ed a cui spettava la nomina dei “directeurs”.

27 HILAIRE, Introduction historique au droit commecial, cit., 200. 28

(31)

31

Dal 1668 assistiamo poi alla creazione dei commissari di sorveglianza.

La fine della compagnia si lega, oltre che a difficoltà economiche testimoniate dai versamenti che a più riprese vennero effettuati prima nel 1684, 1701 e 1705, ad un mal funzionamento interno dei suoi organi, inefficienza organizzativa e disordine degli affari. L’ultima Compagnia delle Indie fu istituita nel aprile del 1785 per iniziativa di Charles Alexandre de Calonne, per poi essere soppressa nel 1793.

1.4 Dall’Ordonnance du commerce alle codificazioni moderne

1.4.1 L’Ordonnance du commerce del 1673

Al termine dell’età medievale, a dominare la scena politica sono gli Stati monarchici a grande base territoriale. In tale fase, la classe mercantile cessava di essere creatrice del proprio diritto, il quale, da un lato, diviene diritto dello Stato, come prodotto di leggi statali operanti entro i limiti dei confini nazionali e, dall’altro, diritto nazionale che perde così uno dei suoi caratteri peculiari, ossia l’universalità. Tuttavia, a fronte di questa perdita di potere del ceto dei

(32)

32

mercatores, non conseguì una diminuzione dei traffici

commerciali e di conseguenza dell’accumulazione di ricchezza e capitale.

Al riguardo, Jacques Savary de Bruslons, sotto Luigi XIV, affermava come i re traessero la più grande utilità dal commercio e come fosse lo stesso re Luigi XIV ad invitare il maggior numero di sudditi a dedicarvisi, accordando loro cospicui privilegi29.

Proprio in Francia, la Monarchia assoluta di Luigi XIV darà vita alla prima legislazione organica in materia di diritto commerciale, dapprima con l’Ordonnance du commerce del 1673, che riprendeva le disposizioni dell’Ordonnance de

Blois (1579), e poi nel 1681 con l’Ordonnance de la marine.

Per quanto riguarda la prima, la sua idea ispiratrice era data dal fatto che l’elemento cardine per la conquista dei mercati fosse riscuotere la “fiducia”30. Notiamo come l’esercizio del commercio restasse un privilegio concesso dal sovrano e condizione necessaria fosse rappresentata dall’iscrizione alla Corporazione. Un fattore di novità era invece rappresentato dall’obbligatorietà della regolare tenuta delle scritture contabili, prevista dal titolo III, precedentemente considerata come una mera regola tecnica di buona amministrazione. Per quanto riguarda il contratto di società, era imposta, sotto pena di nullità, la forma scritta e la registrazione, peraltro già a suo

29

J. SAVARY, Le parfait négociant, I, Paris, 1675, 2.

30

La centralità di tale elemento era testimoniata dalle parole dell’Editto che accompagnavano l’Ordonnance, che definiva quest’ultima come “regolamento capace di assicurare presso i mercanti la buona fede contro la frode e di prevenire gli ostacoli che li sviano dal loro ufficio”.

(33)

33

tempo prevista nell’Ordonnance de Blois del 1579. La registrazione riguardava solo l’estratto dell’atto

costitutivo, il quale doveva indicare i soci, la durata della società e “les clauses extraordinaires”, ed il mancato rispetto di tali adempimenti formali comportava la nullità dell’ente societario. Sotto il profilo disciplinare, il reato di bancarotta fraudolenta era punito con la morte e l’omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili rappresentava una presunzione di punibilità di tal reato31.

Dunque, come afferma Domat, il diritto commerciale diventa diritto pubblico che attiene al governo e alla politica generale dello Stato, in quanto la regolamentazione della materia da parte di quest’ultimo, mira ad accrescerne la potenza finanziaria e l’efficienza32. Nonostante i buoni propositi, l’Ordonnance non diede i risultati sperati. Jean Hilaire parla di “un échec” e ciò, da un lato, perché essa lasciò totalmente da parte le Compagnie Coloniali e “les usages”, dall’altro, a causa della pressante e dissuasiva fiscalità dell’epoca, che portava frequentemente i commercianti ad eludere gli obblighi di registrazione33. Tali problemi di funzionamento furono confermati, in primo luogo, dal fatto che nel 1681 il Parlamento di Parigi dichiarò che le società non registrate “n’étaient pas moins valables si leur existence était prouvée”

31

Appare degna di nota la testimonianza di P. Bornier nel commento

all’Ordonnance, dove l’autore si lamentava del fatto che la pena capitale non venisse applicata ai bancarottieri (in Conférences des ordonnances de Louis XIV, II, Paris, 1719, 685.)

32

Cfr. G. TARELLO, Sistemazione ed ideologia nelle “Loix civiles” di Jean

Domat, in Materiali per una storia di cultura giuridica, II, Bologna, 1972, 156.

33

(34)

34

e, successivamente, da una sentenza del tribunal de la

Conservation des foires de Lyon del 9 marzo 1729, che

affermò che la mancata registrazione di una società commerciale non fosse riconducibile ad una causa di nullità.

1.4.2 La société anonyme e l’avvento della Codificazione civile e commerciale francese

In Francia, tra il XVII e XVIII secolo, accanto alla société

générale, che copriva il maggior numero di imprese e la société en commandite, compare la société anonyme, la

moderna società per azioni, così chiamata in ragione del suo carattere occulto. Essa, infatti, non aveva una ragione sociale e nessun elemento ne rilevava all’esterno l’esistenza al pubblico.

Jean Baptiste Denisart, alla fine del XVIII secolo, la definì come “une espèce de société qui se fait sans aucun nom, mais

où tous le associés travaillent chacun sous leur nom particulier sans que le public soit informé de leur société, et se rendent ensuite compte les uns aux autres des profits et des pertes qu’ils ont faits dans leurs négociations”34. Durante la Rivoluzione Francese, in un primo momento, tutte le società per azioni esistenti furono sciolte, poiché considerate

34J. B. DENISART, Collection de décisions nouvelles et de notions relatives à la

(35)

35

residui dei privilegi concessi dal sovrano. Tuttavia, la soppressione di tali privilegi non comportò la definitiva abolizione di questo tipo societario, bensì la sua trasformazione in un ordinario modello, disciplinato dal Code

de Commerce del 1807, accanto alla société en nom collectif

e alla société en commandite.

L’avvento del Code de commerce, entrato in vigore in Francia il 1° gennaio 1808, apportò in materia di società, nel libro II, titolo III, una trentina di disposizioni, mentre nel

Code civile des Français del 1804 permaneva la distinzione,

cara al diritto romano, tra sociétés universelles e sociétés

particulières35. Il quadro che ne scaturiva – giova segnalarlo

– era, in ogni modo, innovativo rispetto al sistema dell’Ordonnance du commerce del 1673, la quale si occupava solo della società in nome collettivo e della società in accomandita semplice, tralasciando qualsivoglia riferimento alla società anonima, tant’è vero che i giuristi dell’epoca

35

Affermava l’art. 1835 del Code civil: “Les sociétés sont universelles ou

particulières”. Proseguiva l’art. 1836, a proposito delle società universali:“On distingue deux sortes des sociétés universelles, la société de tous biens présens, et la société universelle de gains”.

L’art. 1841 del Code civil recitava in riferimento alla società particolare: “La société particulière est celle qui ne s’applique qu’à certaines choses déterminées, ou à leur usage, ou aux fruits à en percevoirˮ. Il successivo art. 1842 proseguiva:

ʺLe contrat par lequel plusieurs personnes s’associent, soit pour une entreprise

désignée, soit pour l’exercice de quelque métier ou profession, est aussi une société particulièreˮ.

Il Codice civile italiano del 1865 riprese in tutto e per tutto quello francese. Recitava infatti l’art. 1699: “Le società sono universali o particolari ”.

Proseguiva l’art. 1700: “Si distinguono due specie di società universali: la società di tutti i beni presenti e la società universale dei guadagniˮ.

Infine gli artt. 1705 e 1706 disciplinavano la società particolare affermando: “La società particolare è quella, la quale non ha per oggetto se non certe determinate cose, o il loro uso, ovvero i frutti che se ne possono ritrarreˮ (art. 1705);

“È parimenti società particolare il contratto con cui più persone si associano per un’impresa determinata, o per l’esercizio di qualche mestiere o professioneˮ (art. 1706).

(36)

36

denunziarono sovente gli abusi, che furono commessi dietro l’apparenza di questo tipo societario. Ebbene, sotto le forti pressioni della classe imprenditoriale, che chiedeva a gran voce che la società per azioni diventasse un ordinario strumento giuridico e non si configurasse più come un mero privilegio, con il Code del 1807 essa, con la denominazione di société anonyme, si presentò come un comune tipo di società36. Dunque, il beneficio della responsabilità limitata e la divisione del capitale sociale in azioni non rappresentavano più la concessione di un privilegio, ma presupposti connotanti il tipo e disciplinati dagli artt. 33 e 34. Inoltre, si ammetteva che il capitale della accomandita potesse essere diviso in azioni37. In ogni caso, l’art. 47 prevedeva, oltre alle tre specie di società sopra enunciate, il riconoscimento delle “associazioni commerciali in partecipazione” e l’art. 50 aggiungeva che quest’ultime non erano soggette alle formalità ordinate per le altre società38.

L’ art. 37 del nuovo Codice, come osserva Galgano, segnò, senza alcun dubbio, la “transizione dall’antico al nuovo sistema”39. Recitava infatti nella versione italiana: “La

società anonima non può esistere se non con l’autorizzazione del Governo e con l’approvazione dell’atto che la costituisce.

36

Recitava l’art 19 del Code de commerce: “La loi reconnaît trois espèces des

sociétés commerciales: la société en nom collectif; - la société en commandite; - la société anonyme”.

37 Disponeva l’art. 38: “Le capital de sociétés en commandite pourra aussi être

divisé en actions, sans aucun dérogation aux règles établies pour ce genre de sociétés”.

38Parte della dottrina dell’epoca la considerava una quarta forma di società

commerciale: in tal senso J. M. PARDESSUS, Cours de droit commercial, III, Paris, 1857, 62 ss.; in senso contrario J. G. LOCRÉ, Spirito del Codice di commercio, Milano, 1811, 116 e139.

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37

Tale approvazione deve essere data nella forma stabilita dai regolamenti di pubblica amministrazione”. In questa nuova

prospettiva, il sistema era caratterizzato da una mediazione statuale tra le classi imprenditoriali, con il Governo che era chiamato, di volta in volta, ad accertare se una determinata iniziativa economica presentasse o meno un sufficiente grado di serietà, qualità ed utilità40. Osserviamo chiaramente come lo Stato borghese assunse un atteggiamento “nuovo” di fronte alle società per azioni; infatti, il Code de commerce mirava al coordinamento di interessi contrapposti, mediante la presenza di un’ impresa capitalistica, non più basata sull’autorità, bensì sull’elemento del consenso. Un’importante testimonianza di tale mutamento era costituita dall’art. 31, che introdusse il principio di sovranità dell’assemblea. Quest’ultima diveniva fonte di ogni potere di direzione della società, relegando gli amministratori al ruolo di meri mandatari, cui l’assemblea poteva imporre ordini e direttive41. Orbene, tale modello di società per azioni rendeva possibile, per lo meno in astratto, il dibattito tra tutti i soci, in modo che anche il socio di minoranza fosse messo in condizione di interloquire sulla gestione della società e, più da vicino, sul compimento di ciascun affare sociale. Dal punto di vista delle competenze, le

40

Un’istruzione del Ministro dell’Interno Joseph Fouché del 1808 precisava gli accertamenti dell’istruttoria preliminare: verificare la qualità e moralità degli autori e dei petizionari del progetto; redazione di un parere sull’utilità dell’affare e sulle sue probabilità di successo ed accertare che l’oggetto dell’impresa non fosse contrario al buon costume, alla buona fede del commercio ed al buon ordine degli affari.

41

L’art 31 del Code de commerce del 1807 stabiliva infatti: “Elle est administrée par des mandataires a temps révocables, associés ou non associés, salariés ou gratuits”.

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38

funzioni dell’assemblea erano numerose: infatti, oltre ad essere titolare del potere di direzione, sceglieva e procedeva all’elezione degli amministratori, di regola individuati tra i maggior azionisti, controllava il loro operato ed infine rispondeva della loro gestione. Inoltre, l’assemblea poteva revocare, nei casi di mala gestio, gli amministratori che aveva designato; tale potere di controllo fu tuttavia riconosciuto ed esteso anche ad organi speciali, quali ispettori, commissari e censori, cui la legge attribuiva specificamente tale funzione. Ciò nonostante, come afferma Jean Hilaire, la concezione delle società di capitali era ancora ben lontana dal riposare su solide basi e principi. In particolare, l’autore francese parla di due ordini di considerazioni basilari: da un lato, “ces sociétés exorbitantes

du droit commun étaient faites pour des entreprises extraordinaires ayant une vocation d’utilité publique”,

dall’altro, “les risques inhérents à cette forme de société

réclamaient une protection particulière du public”42. Ragion per cui ,in tale contesto, le Conseil d’Etat non solo aveva il compito di fissare un certo numero di norme suppletive al Codice, ma anche di limitare rigorosamente la creazione di tali società. Da qui la necessità di un controllo statale preliminare al rilascio dell’autorizzazione, al chiaro fine di ottenere il massimo rispetto dei principi legali in tema di costituzione e delle garanzie necessarie a tutela dei terzi. La fase più feconda di tale controllo si collocò tra il 1826 ed il 1840, in un periodo in cui la diffidenza iniziale, soprattutto

42

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39

dell’amministrazione e di certi uomini di affari, orientarono il Consiglio verso una posizione estremamente rigida e restrittiva. In tale prospettiva, una particolare attenzione assumeva il capitale sociale, dal momento che in mancanza di responsabilità personale dei soci, esso costituiva la sola garanzia dei creditori sociali. A tal proposito, il Consiglio di Stato prevedeva delle regole precise per la sua costituzione, al fine di assicurarne la massima veridicità.

In un primo momento, fu previsto il versamento di una sola frazione del capitale sociale, preliminarmente al rilascio

dell’autorizzazione, mentre, successivamente, si rese

obbligatoria la sottoscrizione per intero del capitale sociale ed il carattere nominativo delle azioni, fino alla loro completa liberazione. Infine, se, da un lato, l’autorizzazione era rilasciata in funzione dello statuto, dall’altro, rimaneva pur sempre legata al suo rispetto, con la conseguenza che la sua violazione, durante societate, potesse comportarne il ritiro.

1.4.3 La legge francese del 24 luglio 1867: la

liberalizzazione delle società anonime

Lo sviluppo economico della metà del XIX secolo mostrò come la société anonyme fosse lo strumento giuridico meglio adattabile ai bisogni del capitalismo moderno. Le difficoltà

(40)

40

dell’autorizzazione preventiva e dalla sua eccessiva lentezza, che non solo bloccava la creazione di nuove società anonime, ma impediva altresì la trasformazione di quelle esistenti in anonime.

Da tempo ormai economisti liberali, grandi industriali e

capitalisti chiedevano con insistenza una netta

semplificazione burocratica, con conseguente soppressione dell’autorizzazione, sebbene la posizione del Governo, in particolare del Consiglio di Stato, apparisse rigida e ferma nelle sue posizioni iniziali.

Un primo tentativo di cambiamento si ebbe con la legge del luglio 1856, la quale disciplinava da vicino les sociétés en

commandite par actions. Tale legge segnò la fine di un lungo

periodo di libertà che aveva caratterizzato tale tipo societario, tenendo conto degli orientamenti del Consiglio di Stato e della giurisprudenza maggioritaria, che spingevano per dare a questo genere di società una struttura più completa e sicura, al chiaro fine di evitare abusi ed elusioni. In realtà, come sottolinea Hilaire, essa comportò più inconvenienti che benefici. Da un lato, perché aveva lasciato insoluta la delicata questione dell’immistione della gestione e, dall’altro, per il fatto che le sanzioni civili e penali previste in caso di una sua violazione furono considerate eccessivamente pesanti43. In conclusione, la legge ebbe come risultato immediato un considerevole crollo per quanto riguarda la creazione des

sociétés en commandite par actions, con la conseguenza che

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41

il regime delle società anonime non fu modificato e che tutto il sistema delle società per azioni rimase bloccato. Perció, un nuovo intervento legislativo apparve inevitabile, in un periodo, tra l’altro, in cui il diritto inglese conobbe un profondo rinnovamento in materia di società per azioni con il

Companies act del 186244. Ragion per cui, di fronte a tali nuove condizioni di concorrenza, la domanda per una definitiva liberalizzazione dell’anonimato societario si fece sempre più pressante. Dapprima, si intervenì, con scarsi risultati, con due leggi del maggio 1863, mediante le quali si creò un nuovo tipo di società a responsabilità limitata sul modello inglese, senza più assoggettarla all’autorizzazione, ma lasciandola ugualmente circondata dalle stesse garanzie, quanto alla costituzione della società e del capitale, previste con la legge del 1856. Dal punto di vista organizzativo, il nuovo tipo si caratterizzava, oltre che per l’assenza di qualsivoglia ragione sociale, per la presenza dei medesimi organi delle società di capitali, assemblea generale, amministratori e commissari di vigilanza. Inoltre, malgrado gli emendamenti proposti, il Consiglio di Stato circoscrisse la costituzione di tale nuova società entro angusti limiti: un numero massimo di sette soci ed una soglia di capitale sociale non eccedente venti milioni di franchi. Ancora una volta,

44 Il Companies Act del 1862 prevedeva la possibilità di limitare la responsabilità

dei soci al conferimento ovvero di prevedere una responsabilità sussidiaria dei soci, facendo riferimento a una somma comunque predeterminata: si distingueva quindi tra companies limited by shares e companies limited by guarantee. Sul punto vedi U. MANARA, Delle società e delle associazioni commerciali, vol. I, Torino, 1902, 556 ss.; L. JONA, La società mineraria tedesca e la società a garanzia limitata, in Riv. Dir. Com., Milano, 1927, 49 ss.; A. CASICCIA, La società a responsabilità limitata nella legislazione comparata, Torino, 1927, 13 ss.

(42)

42

nulla era cambiato e la maggior parte delle società anonime restavano sottomesse all’autorizzazione preventiva. Si attendeva, come osserva Hilaire, “la seule solution

désormais possible: l’anonymat libre et sans limite”45.

Ormai, l’autorizzazione non veniva più considerata come una garanzia efficace contro la cattiva gestione e le frodi, ragion per cui lo stesso autore francese afferma: “elle n’est une

sauvegarde ni pour la fortune des actionnaires ni pour le crédit”46.

Fu così che nel 1865 Napoleone III annunciò un nuovo progetto destinato a “laisser une liberté plus grande aux

associations commerciales et dégager la responsabilité toujours illusoire de l’administration”. La svolta tanto attesa

si attuò con la legge del 24 luglio 1867: essa si applicava alle società per azioni, in accomandita o anonime e, solo per il regime di pubblicità, veniva estesa anche alle altre società commerciali. Da questo momento vigeva, dunque, il principio della libertà di costituzione per la société anonyme, a prescindere da qualsivoglia autorizzazione statale. Per quanto riguarda les sociétés anonymes esistenti alla data di entrare in vigore della presente legge, esse rimanevano sotto il regime delle società “autorizzate”, salvo la facoltà loro accordata di chiedere la conversione. La società a responsabilità limitata introdotta dalla legge del 1863, ormai divenuta inutile, fu soppressa. L’obiettivo che si perseguiva

45

HILAIRE, Introduction historique au droit commercial, cit., 229. 46

(43)

43

era, dunque, da un lato, la liberalizzazione dell’insieme delle società per azioni da tutte le autorizzazioni preliminari; dall’altro, il contenimento di queste libertà attraverso una regolamentazione preventiva e repressiva, finalizzata a ridurre gli abusi, in particolare “l’agiotage”. Ancora Hilaire, sottolinea come da questa severa regolamentazione, la dottrina francese forgiò l’etichetta di “liberté réglementéé”47. In conclusione, la maggior innovazione di questa legge fu la definitiva soppressione dell’autorizzazione per le società anonime, con la naturale conseguenza che tale paradigma societario perse il suo carattere eccezionale, per diventare uno strumento d’uso corrente del diritto delle società. Tale legge non fu esente da critiche, soprattutto da parte della dottrina e dei tribunali di commercio, che la videro come un testo di transizione, suscettibile di modifiche e di un’immediata riscrittura. Essa tuttavia raggiunse i risultati che si era proposta. Appare infatti il caso di evidenziare l’enorme sviluppo delle società nel periodo susseguente, aprendo la strada all’approvazione, dopo circa 50 anni, della legge del 7 marzo 1925, che introdusse il nuovo tipo della

société à responsabilité limitée (Sarl). Il nuovo quadro

normativo provocò, altresì, un rapido declino delle vecchie società di persone previste dal Code de commerce, con la conseguente attrazione di quest’ultime nella sfera delle società di capitali.

(44)

44

1.4.4 Il Codice di commercio per gli Stati Sardi del 1842 ed i Codici di commercio italiani del 1865 e 1882

Da ultimo, diamo brevemente una sguardo generale alla disciplina codicistica italiana, fortemente influenzata dalle codicificazioni napoleoniche precedentemente analizzate. Infatti, per quanto riguarda gli ordinamenti preunitari, notiamo come il Codice di commercio per gli Stati Sardi del 1842 (in vigore dal 1° luglio 1843) riprendesse in tutto e per tutto il Code de commerce del 1807, prevedendo, tra l’altro, nel titolo III, le stesse specie di società commerciali48 ed analoga soluzione fu intrapresa con il Codice di commercio successivo all’unità d’Italia del 186549. In occasione del Codice di commercio del 1882 si avanzò la proposta di introdurre accanto alla società anonima un diverso tipo di società ispirato alla private company inglese e che si sarebbe dovuto chiamare società a responsabilità limitata50. Tuttavia

48

Disponeva infatti l’art. 29: “La legge riconosce tre specie di società commerciali:

La società in nome collettivo; La società in accomandita; La società anonima”.

49

A conferma di ciònell’art. 106, comma 1, si prevedeva: “La legge riconosce tre specie di società commerciali: La società in nome collettivo; La società in accomandita semplice, o divisa per azioni; La società anonima”; il secondo comma aggiungeva: “La legge riconosce inoltre: L’associazione in partecipazione; L’associazione mutua”.

50 Per un approfondimento sul punto si veda U. MANARA, Delle società e delle

associazioni commerciali, cit., 555 ss.; U. NAVARRINI, Sulle società a responsabilità limitata, estratto dagli Studi in onore di Vittorio Scialoja, Prato, 1904, 7 ss.; T. ASCARELLI, Le società a responsabilità limitata e la loro introduzione in Italia, in Riv. Dir. Comm., Milano, 1924, 454; A. CASICCIA, La società a responsabilità limitata nella legislazione comparata, cit., 81 ss.; A. MARGHIERI, Delle società e delle associazioni commerciali, ne Il codice di commercio commentato, coordinato da Bolaffio e Vivante, Torino, 1929, 51 ss.; G. C. M. RIVOLTA, Sulla società a responsabilità limitata: precedenti storici ed orientamenti interpretativi, in Riv. dir. civ., 1980, 493 ss.; C. MONTAGNANI,

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