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Il vedolizumab nella terapia delle malattie infiammatorie croniche intestinali: esperienza monocentrica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ di PISA Facoltà di Medicina e Chirurgia

Scuola di Specializzazione in Gastroenterologia

DIPARTIMENTO DI RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA

TESI DI SPECIALIZZAZIONE

Il vedolizumab nella terapia delle malattie

infiammatorie croniche intestinali: esperienza

monocentrica

RELATORI: CANDIDATO:

Chiar.mo Prof. Santino Marchi Dott.ssa Gabriella Laino

Dott. Francesco Costa

CORRELATORI

Dott.ssa Linda Ceccarelli

Dott. Nicola de Bortoli

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INDICE

RIASSUNTO ... 4

INTRODUZIONE ... 7

Obiettivi e strategie terapeutiche nelle malattie infiammatorie

croniche intestinali ... 7

Malattia di Crohn... 8

Rettocolite ulcerosa ... 18

Perdita di risposta agli Anti-TNFα ... 22

Nuovi targets molecolari ... 24

Vedolizumab: dalla patogenesi alla pratica clinica ... 26

Profilo di efficacia ... 29

Profilo farmacocinetico ... 36

Profilo farmacodinamico ... 37

Profilo di sicurezza ... 37

Status regolatorio ... 39

STUDIO ... 41

SCOPO DELLO STUDIO ... 41

MATERIALI E METODI ... 42

RISULTATI ... 44

DISCUSSIONE ... 52

CONCLUSIONI ... 58

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RIASSUNTO

Titolo: il vedolizumab nella terapia delle malattie infiammatorie croniche intestinali: esperienza monocentrica

Parole chiave: vedolizumab, efficacia, sicurezza

Introduzione: Le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI) sono state trattate per anni con terapie convenzionali (mesalazina, steroidi) e con farmaci immunomediati (immunosoppressori e antiTNFα). Una nuova opzione terapeutica in pazienti con MICI attiva è rappresentata dal Vedolizumab (VDZ), farmaco anti-integrina che ha mostrato efficacia nell’induzione e nel mantenimento della remissione della rettocolite ulcerosa (RCU) e della malattia di Crohn (MC), negli studi registrativi GEMINI e in recenti studi di real life. VDZ è un anticorpo umanizzato IgG1 monoclonale rivolto contro l’integrina α4β7, che inibisce l’adesione delle cellule T esclusivamente a livello della mucosa intestinale. La sua selettività intestinale è associata a un minor rischio di infezioni e questo conferisce al farmaco un alto profilo di sicurezza. VDZ è attualmente approvato in 48 paesi e in Italia è disponibile da Giugno 2016.

Scopo del nostro studio è stata la valutazione dell’efficacia, del profilo di sicurezza e dell’impatto sulla qualità di vita correlata alla salute (HRQOL, Health-Related Quality Of Life) del trattamento con VDZ in pazienti con MICI attiva, non responsivi alle terapie convenzionali e/o agli anti-TNFα.

Materiali e metodi: Nello studio sono stati arruolati pazienti affetti da RCU e MC afferenti all’U.O. di Gastroenterologia dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria Pisana (AOUP) da giugno 2016 ad aprile 2017. Sono stati esclusi dallo studio i pazienti con presenza di ascessi addominali o infezioni attive, con una storia attuale di neoplasia e i pazienti affetti da MC con un punteggio Harvey-Bradshaw Index (HBI) <8. Il trattamento con VDZ è stato praticato secondo il seguente schema: 300 mg mediante infusione endovenosa a zero, due e sei settimane e successivamente ogni otto settimane. I pazienti affetti da MC sono stati sottoposti a un’infusione aggiuntiva alla Settimana 10. Alla Settimana 0, 6, 14 e durante il mantenimento (ogni 8 settimane) abbiamo valutato: l’attività di malattia mediante il calcolo del punteggio HBI per i pazienti affetti da MC e del Partial Mayo Score

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(PMS) per i pazienti con RCU, il quadro biochimico mediante il dosaggio della PCR e della calprotectina fecale e la qualità di vita del paziente mediante l’utilizzo dell’ Inflammatory Bowel Disease Questionnaire (IBDQ). I pazienti affetti da RCU che hanno raggiunto la Settimana 22 sono stati sottoposti a rettosigmoidoscopia e valutati mediante l’Endoscopic Mayo Score. La risposta clinica è stata definita come riduzione del punteggio PMS ≥2 punti, con concomitante riduzione del sub-score per sanguinamento rettale ≥1 punto oppure un sub-sub-score assoluto per sanguinamento rettale ≤1punto per i pazienti affetti da RCU, mentre per i pazienti con MC è stata considerata una riduzione del punteggio HBI ≥3 punti. La remissione clinica è stata definita come un punteggio PMS ≤2 e un punteggio HBI ≤4. L’andamento della PCR, della calprotectina fecale e la qualità di vita dei pazienti sono stati analizzati con test statistico (T-Test per dati appaiati), i risultati sono stati considerati statisticamente significativi per un valore di p < 0,05.

Risultati: Tra Giugno 2016 e Aprile 2017 i pazienti trattati con VDZ che hanno eseguito almeno tre infusioni sono stati 30 di cui 20 affetti da RCU e 10 da MC (66.7% e 33.3% rispettivamente). A 6 settimane dall’inizio del trattamento abbiamo osservato una risposta clinica in 16 pazienti su 30 (53%), in particolare 9/20 (45%) con RCU e 7/10 (70%) con MC. Dei 16 pazienti con risposta clinica, 9 (30%) erano in terapia con corticosteroidi a scalare; la sospensione dello steroide (risposta clinica libera da steroide) alla Settimana 6 è stata osservata in 4 pazienti (13.3%) di cui 2 con RCU e 2 con MC. I primary non responders sono stati 4 pazienti (13.3%) di cui 2 con RCU, una paziente con RCU e portatrice di stomia temporanea e 1 con MC. I pazienti valutabili alla Settimana 14 sono stati 19, di cui 13 con RCU e 6 con MC. I dati di risposta sono stati i seguenti: 10 pazienti hanno presentato una risposta clinica ( 7 con RCU e 3 con MC), mentre la remissione clinica è stata osservata in 7 pazienti (5 con RCU e 2 con MC). Alla Settimana 6 e 14 il trend della PCR e della calprotectina fecale non hanno raggiunto la significatività statistica. Alla Settimana 22 la riduzione dell’Endoscopic Mayo Score di almeno un punto è stata osservata in 9 (69.2%) pazienti con RCU. Sia nei pazienti con MC che in quelli con RCU abbiamo osservato un miglioramento della qualità di vita raggiungendo la significatività statistica alla Settimana 6-14-22 (p=0,003; p=0.01; p=0.04) con valori di IBDQ normale (≥170) nel 53.6% dei pazienti alla Settimana 6, nel 44.4% alla Settimana 14, nel 53.3% alla Settimana

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22. Nessun effetto collaterale di rilievo è stato riscontrato nei pazienti trattati, ad eccezione di una reazione non grave correlata all’infusione.

Conclusioni: VDZ nei nostri pazienti si è dimostrato un farmaco sicuro e ben tollerato con buona risposta clinica confermandosi una valida opzione terapeutica in pazienti con MICI attiva non responsivi alla terapie convenzionali e/o agli anti-TNFα. Saranno, comunque, necessari studi su coorti più ampie, allo scopo di identificare fattori clinici e biochimici predittivi di risposta al VDZ e definire in tal modo una terapia patient-tailored. Un periodo di osservazione più lungo, inoltre, permetterà di valutare l’efficacia a lungo termine e l’eventuale comparsa di complicanze correlate alla terapia.

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INTRODUZIONE

Obiettivi e strategie terapeutiche nelle malattie

infiammatorie croniche intestinali

Le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI), sono patologie caratterizzate da un’infiammazione cronica del tratto gastrointestinale con andamento recidivante. Sono rappresentate dalla Rettocolite Ulcerosa (RCU), la Malattia di Crohn (MC) e la Colite indeterminata (CI). Negli ultimi dieci anni si è registrato un significativo incremento di incidenza di tali patologie, non solo nei Paesi industrializzati ma anche nei Paesi emergenti. Le MICI colpiscono con la stessa frequenza i due sessi, con un esordio clinico che in genere si colloca fra i 15 e i 45 anni, mentre il secondo picco si posiziona in età avanzata. L'insorgenza di queste malattie in giovane età, la loro cronicità e le limitazioni delle normali attività quotidiane nonché la possibile insorgenza di complicanze, determina una notevole riduzione della qualità di vita dei pazienti oltre ad avere un forte impatto sul sistema economico sanitario [1].

L’eziopatogenesi di tale patologie è multifattoriale e non ancora del tutto nota, la terapia si è basata per molti anni sull’utilizzo di farmaci sintomatici come la mesalazina e lo steroide. L’introduzione degli anti-TNFα, alla fine degli anni ’90, ha rivoluzionato la gestione terapeutica dei pazienti affetti da MICI. Sebbene i farmaci anti-TNFα siano efficaci in una rilevante porzione di pazienti compresa tra il 30-50%, vi è una percentuale di pazienti (circa il 40%) che non risponde agli inibitori del TNFά già in fase di induzione (primer non responders, PNR) e oltre il 50% perde la risposta nel tempo (secondary non responders, SNR). L’assenza di risposta terapeutica in una percentuale importante di pazienti probabilmente è da correlare ad un meccanismo fisiopatologico TNFα indipendente alla base dell’insorgenza e progressione della malattia. La perdita di risposta, invece, può essere associata in molti casi ad una clearance accelerata del farmaco prevalentemente a seguito della formazione di anticorpi contro il farmaco stesso. La terapia con farmaci anti-TNFα è inoltre gravata dalla possibile insorgenza di eventi avversi, quali le reazioni all’infusione del farmaco e un aumento del rischio di infezioni che, talvolta, impongono una sospensione della terapia stessa [2].

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Grazie al miglioramento della conoscenza dei complessi meccanismi alla base di tali malattie è stato possibile identificare nuovi targets molecolari e conseguentemente sviluppare nuovi farmaci. La più recente innovazione nel trattamento delle MICI è rappresentata dal Vedolizumab (VDZ), un anticorpo monoclonale umanizzato che si lega in modo specifico all’integrina α4β7, espressa in modo preferenziale sui linfociti gut-homing T helper. Il suo innovativo meccanismo d’azione, infatti, si basa sull’inibizione selettiva dei linfociti che transitano e vengono reclutati nell’intestino infiammato. Dagli studi registrativi emerge che il farmaco è efficace nell’induzione e nel mantenimento della remissione clinica, nonché nella guarigione mucosale [3-4].

La migliore comprensione dell’andamento di queste malattie e l’introduzione di farmaci sempre più efficaci ha fatto emergere la necessità di un cambiamento nella gestione delle MICI, mirato a modificarne la storia naturale. In passato, infatti, il principale outcome delle terapie mediche nella RCU e MC era la remissione clinica intesa esclusivamente come risoluzione dei sintomi. Attualmente gli obiettivi da porsi sono molto più articolati con alcune sfumature tra l’una e l’altra entità patologica, e nel complesso sono volti al possibile cambiamento della storia naturale di queste malattie.

Malattia di Crohn

La MC è una malattia infiammatoria cronica intestinale, con frequente interessamento sistemico, caratterizzata da una flogosi granulomatosa focale e transmurale che può interessare qualsiasi porzione del tratto gastrointestinale, dal cavo orale all’orifizio anale. Circa il 50% dei pazienti con MC presenta una localizzazione della flogosi all’ileo terminale con coinvolgimento del colon per un’estensione variabile. In un terzo dei casi la malattia coinvolge soltanto l’intestino tenue, nella maggior parte sottoforma di ileite terminale. Nel 10-15% dei casi è invece coinvolto solo il colon. La MC è una condizione cronica, che determina un danno intestinale progressivo, che può portare alla comparsa di complicanze quali stenosi, fistole ed ascessi, per le quali è necessario l’intervento chirurgico, con il conseguente instaurarsi di una situazione invalidante associata ad una scadente qualità di vita [5]. L’eziologia della malattia di Crohn è sconosciuta, ma numerose osservazioni suggeriscono che il processo patologico

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sia guidato da una risposta immunitaria diretta contro elementi presenti nel lume intestinale e alimentata da un difetto dei meccanismi di regolazione e contro-regolazione della flogosi. Vi sono ormai dati consistenti sulla rilevanza di una suscettibilità genetica, condizionata da loci diversi che sono in parte condivisi con altre patologie immunomediate come la psoriasi, ma anche con malattie da infezione batterica [6]. Il decorso della malattia nella fase sintomatica conclamata è più frequentemente di tipo cronico intermittente, ma in una non piccola proporzione di pazienti esso assume un andamento di tipo cronico continuo [5]. Le manifestazioni cliniche più frequenti sono la diarrea (spesso non ematica), il dolore addominale localizzato al quadrante addominale inferiore destro, talvolta con reperto in tale sede di massa palpabile (tipico della localizzazione ileo-colica) e calo ponderale. La MC, cosi’ come la RCU, in circa il 30% dei pazienti, può associarsi a manifestazioni extra-intestinali quali artriti periferiche, spondiloartrite anchilosante, sacroileite, eritema nodoso, uveite, sclerite, episclerite, colangite sclerosante primitiva. La fase sintomatica della malattia può essere seguita da una fase di malattia complicata in cui si rendono clinicamente evidenti le conseguenze del danno strutturale della parete intestinale (stenosi, fistole, ascessi).

L’approccio al paziente con MC deve quindi prevedere un’accurata valutazione dello stato di malattia che esplori, con i mezzi più idonei, le variabili anatomiche e cliniche attuali contestualizzandone la valutazione nell’ambito della storia clinica precedente [7]. Negli ultimi decenni gli obiettivi terapeutici si sono modificati includendo l’induzione della remissione senza steroidi, il mantenimento della remissione, la riduzione delle ospedalizzazioni e degli interventi chirurgici, il miglioramento della qualità di vita, la cicatrizzazione delle fistole fino ad arrivare alla guarigione mucosale (mucosal healing-MH). La presenza di una risposta clinica associata a una risposta in termini di profilo bioumorale e di danno lesionale visibile, correla con una più stabile e duratura fase di quiescenza della malattia. Inoltre, numerosi studi hanno dimostrato che l’assenza di correlazione tra attività clinica, endoscopica e biologica nella MC, e la persistenza di infiammazione subclinica sono associati ad un progressivo danno a livello intestinale con possibile sviluppo di complicanze nel lungo termine. Si è così maturato il concetto di “ deep remission” ovvero il concomitante raggiungimento della remissione clinica e della remissione endoscopica, associato a remissione prolungata nel tempo, minor necessità di ricorso alla chirurgia e miglioramento

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della qualità di vita dei pazienti [7]. Tale definizione è stata ampliata da altri autori con l’aggiunta del concetto di “remissione biologica”, intesa come normalizzazione dei marcatori sierologici (Proteina C reattiva) e/o fecali (calprotectina fecale) [9]. La guarigione mucosale, seppure con i limiti di un tipico coinvolgimento “trans-murale” della parete intestinale nella MC, è emersa pertanto come obiettivo terapeutico primario nei trial e nella pratica clinica in quanto associata ad una remissione prolungata nel tempo ed un decrescente bisogno di un trattamento attivo e di ospedalizzazioni [10]. Sebbene in numerosi trial clinici (prevalentemente quelli in cui sono stati testati i farmaci biologici), il MH, inteso come assenza di lesioni endoscopiche all’ileocolonscopia, sia annoverato tra gli endpoints primari, ad oggi non ne esiste ancora una definizione universale. È dibattuto infatti se considerare in remissione mucosale solo i pazienti che non abbiano alcuna attività endoscopica (completa) o anche coloro che presentino ancora una minima attività residua (parziale). Studi futuri saranno necessari per standardizzare precisi criteri di definizione di MH, attraverso i due scores endoscopici più utilizzati nei trials, ovvero il Crohn’s Disease Endoscopic Index (CDEIS) ed il Simple Endoscopic Score for Crohn’s Disease (SES-CD) [11]. È importante sottolineare che la guarigione mucosale potrebbe non riflettere a pieno l’effettiva risoluzione del danno parietale poiché la MC è caratterizzata da un processo infiammatorio che interessa la parete intestinale a tutto spessore. A partire da queste considerazioni, recenti studi hanno confrontato i dati endoscopici con la valutazione della guarigione transparietale attraverso metodiche di “imaging” quali entero-risonanza magnetica, entero-TAC ed ecografia (in particolare l’ecografia con mezzo di contrasto orale- SICUS: small intestine contrast ultrasonography) suggerendo che una completa guarigione transparietale è presente solo in una piccola percentuale di pazienti [12].

Uno studio di popolazione ha mostrato che la malattia ha un decorso più lieve ed indolente nel 43% dei pazienti mentre la maggior parte dei pazienti ha una malattia più aggressiva con tendenza alla progressione rapida verso le complicanze [13]. E’ quindi necessario individuare precocemente i pazienti a maggior rischio di progressione, attraverso un attento “profiling del paziente”. Beaugerie et al [14] hanno identificato alcuni fattori prognostici sfavorevoli che vanno a delineare il fenotipo del paziente, fornendo indicazioni per il corretto approccio terapeutico.

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I fattori di rischio predittivi di una malattia rapidamente progressiva includono: - l’esordio in giovane età

- il fumo

- la necessità di steroidi alla diagnosi - la presenza di malattia perianale

- l’estensione di malattia (digiuno-ileale o ileo-colica) - la presenza di ulcere profonde

- la presenza di manifestazioni extra-intestinali

La nuova gestione della MC prevede quindi lo sviluppo di percorsi di intervento personalizzato che tengano conto del profilo del singolo paziente, e questo implica una selezione individuale dei farmaci a disposizione, un differente timing per il follow-up del paziente nonchè la possibilità di adattare la terapia per ogni paziente in base al dosaggio del farmaco nel siero. I farmaci disponibili potranno ottenere un effetto ottimale soprattutto se utilizzati con la più corretta indicazione e nella più appropriata sottopopolazione di pazienti. Risulta pertanto necessario, per gestire al meglio i pazienti affetti da malattia di Crohn, la mappatura completa della malattia prima di iniziare la terapia [15]. L’ecografia intestinale (se eseguita da operatore esperto) e l’entero-risonanza magnetica (in aggiunta alla risonanza magnetica della pelvi per la malattia perianale) in associazione alla colonscopia con ileoscopia retrograda sono le metodiche di scelta per la valutazione della malattia e delle sue complicanze [5].

Una corretta stratificazione dei pazienti consente di diversificare gli obiettivi terapeutici in relazione alla fase della malattia, ovvero se si è in presenza di una malattia “early”, quindi priva di complicanze disabilitanti, o di una malattia “late”, in cui si sia già instaurato un danno cronico strutturale a carico dell’intestino. In caso di malattia “early” infatti, è importante approfittare della cosiddetta “finestra di opportunità”, ovvero di quella fase in cui ancora si può intervenire sulla storia naturale di malattia, prevenendo l’insorgenza di complicanze irreversibili. In questa categoria di pazienti è necessario ricorrere ad un approccio “treat-to-target”, ovvero ad uno stretto monitoraggio clinico, di laboratorio e strumentale, per ottenere un pieno controllo dei sintomi e del quadro infiammatorio sottostante, con normalizzazione dei parametri infiammatori e guarigione mucosale. In caso di pazienti con una malattia di lunga data e che abbiano già sviluppato delle complicanze irreversibili (malattia “late”), l’obiettivo terapeutico diventa la

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stabilizzazione del quadro e la prevenzione di una sua ulteriore progressione. In questa categoria di pazienti è possibile che non si raggiunga il pieno controllo dei sintomi e pertanto la “deep remission auspicabile” può consistere anche solo in un miglioramento clinico e di uno o più dei parametri infiammatori misurati (guarigione mucosale o marcatori infiammatori) [9;16].

La gestione delle forme lievi o lievi-moderate è prevalentemente ambulatoriale, mentre nella malattia attiva moderata-severa può essere indicato il ricovero ospedaliero. La pianificazione della strategia terapeutica deve essere sempre discussa col paziente e nello stesso tempo tenere in considerazione alcuni variabili relative alla malattia e alle caratteristiche del paziente. In particolare bisogna considerare:

- attività di malattia

- localizzazione ed estensione delle lesioni

- fenotipo della malattia (infiammatorio, stenosante, fistolazzante, presenza di malattia perianale)

- decorso della malattia

- precedente risposta ai farmaci/pregressa intolleranza o refrattarietà - profilo degli effetti collaterali dei farmaci

- età, sesso, abitudini di vita, fattori di rischio, status sociale, adesione al trattamento

La determinazione dell’attività di malattia talvolta può risultare complessa ed alla comparsa di sintomi suggestivi di riacutizzazione occorre sempre escludere altre possibili cause come gastroenteriti infettive, sovracrescita batterica, ascessi, malassorbimento dei sali biliari, sindrome dell’intestino irritabile, litiasi della colecisti [17].

Malattia Lieve

Nei pazienti con MC lieve ed in assenza di fattori prognostici negativi è indicato l’impiego dei farmaci tradizionali con un approccio “step up”, iniziando con i farmaci convenzionali (salicilati, corticosteroidi e antibiotici) per poi passare agli immunosoppressori (azatioprina, 6-mercaptopurina) o biologici in caso di parziale o mancata risposta. Bisogna infatti essere in grado di modificare la strategia terapeutica in caso di scarsa efficacia, tenendo in considerazione la farmacocinetica della molecola utilizzata. La rivalutazione della terapia richiede

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inevitabilmente uno stretto monitoraggio del quadro clinico. Nelle forme lievi di malattia ad interessamento ileo-cecale il trattamento di scelta per indurre la remissione è la budesonide, un cortisonico a bassa biodisponibilità che è stato dimostrato essere più efficace del placebo e della mesalazina nell’indurre la remissione. Somministrato per 8 settimane alla dose di 9mg/die con successivo tapering ha una efficacia lievemente inferiore a quella degli steroidi sistemici tradizionali con una netta riduzione degli effetti collaterali sistemici [17].

L’impiego dei salicilati nell’induzione della remissione delle forme ileo-cecali lieve-moderate è alquanto controverso. La mesalazina viene spesso utilizzata nella pratica clinica, sebbene la reale efficacia non venga confermata in letteratura: una metanalisi di Hanauer et al non ha dimostrato la superiorità della mesalazina rispetto al placebo nelle forme lievi a localizzazione ileo-cecale, sebbene sia stata osservata una riduzione del Crohn Activity Index (CDAI) nei pazienti trattati con mesalazina a rilascio modificato alla dose di 4 g/die [18]. Nella metanalisi di Ford et al è stato dimostrato come non vi sia una chiara superiorità della mesalazina rispetto al placebo nell’induzione della remissione della MC [19].

Sulla base del ruolo svolto dalla flora batterica intestinale nella patogenesi della MC, gli antibiotici sono frequentemente utilizzati nel trattamento della fase attiva, particolarmente nei pazienti con ascessi, febbre, pus nelle feci e segni tossici: tutti indici di una partecipazione batterica al processo infiammatorio, nonostante la maggior parte degli studi non abbia evidenziato una loro reale efficacia. L’uso degli antibiotici, infatti, nell’induzione delle forme lieve –moderate non viene raccomandato [17]. Oltre al metronidazolo, l’antibiotico maggiormente utilizzato nel trattamento della MC, spesso in associazione, è la ciprofloxacina. Appare interessante il recente impiego della rifaximina ad alti dosi, ma sono necessarie ulteriori evidenze a supporto della sua efficacia [20]. Nel complesso i dati derivanti dai pochi studi clinici presenti in letteratura sono controversi. Una recente metanalisi ha valutato 10 studi clinici controllati mostrando un’efficacia significativamente superiore degli antibiotici rispetto al placebo nell’indurre la remissione, sebbene vi sia una notevole eterogeneità dei pazienti coinvolti nello studio, della tipologia di antibiotici utilizzati (anti-tubercolari, macrolidi, fluorochinolonici, 5-nitroimidazolici e rifaximina), e della modalità di utilizzo, da soli o in combinazione [21].

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Malattia moderata-severa

Nei pazienti che non rispondono alla terapia di prima linea e nei pazienti con forme moderate-severe, la terapia di scelta è ancora oggi rappresentata dai corticosteroidi tradizionali; se usati alla dose appropriata (0,7 mg-1 mg/kg) gli steroidi producono risultati clinicamente significativi nel 60-90% dei casi [22]. La dose giornaliera deve essere ridotta gradualmente quando il quadro clinico lo permette fino alla sospensione. L’utilizzo degli steroidi come terapia di mantenimento non è raccomandato sia per i numerosi effetti collaterali ad essi correlati (incremento ponderale, acne, facies lunaris, cataratta, strie rubre, ipertensione arteriosa, iperglicemia, necrosi ossea, ritardo di crescita, alterazione del tono dell’umore, alterazione del ritmo sonno-veglia, osteoporosi, infezioni) sia perché non consente di raggiungere una remissione endoscopica duratura. Circa il 30% dei pazienti, inoltre, sviluppa cortico-dipendenza già dopo il primo ciclo di terapia corticosteroidea e dall’8 al 40% dei pazienti con attacco severo non risponde al cortisone (corticoresistenza) [23]. La corticodipendenza è definita come l’impossibilità di ridurre la dose dello steroide al di sotto dei 10 mg/die di prednisone, o equivalente, o come la recidiva di sintomi dopo meno di tre mesi dalla sospensione della terapia steroidea [17]; in tale caso è indicato procedere con uno step-up terapeutico mediante l’impiego di immunomodulatori. Le tiopurine, azatioprina (AZA) e 6-mercaptopurina (6MP) vengono utilizzate alla dose, rispettivamente, di 2-2,5 e 1-1,5 mg/kg/die. La review sistematica della Cochrane ha messo, infatti, in evidenza che le tiopurine non offrono vantaggi rispetto al placebo nell’induzione della remissione ma sono in grado di determinare un effetto steroid-sparing [24]. La terapia con tiopurine deve essere attentamente monitorata sia da un punto di vista clinico che laboratoristico in quanto può indurre tossicità con sintomi da intolleranza dose-dipendenti quali mielotossicità, infezioni, alterazioni della funzionalità epatica e aumentato rischio di tumori cutanei e linfomi, o da allergia come nausea, dolore addominale, diarrea, febbre, rash cutaneo, pancreatiti, ipertransaminasemia. In caso di intolleranza gastrica all’Azatioprina può essere tentato uno switch terapeutico verso la 6MP. Va ricordato che in Italia ad oggi non è stata registrata l’indicazione della 6MP per il trattamento della MC. In caso di intolleranza alla tiopurine un’alternativa può essere rappresentata dal metotrexate che si somministra per via intramuscolare o

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sottocute alla dose di 25mg/settimana per l’induzione della remissione e poi alla dose di 15 mg/settimana per il mantenimento [25].

In presenza di fattori di rischio, è necessario un approccio più aggressivo mediante l’introduzione dei farmaci biologici in monoterapia o in associazione alle tiopurine, utilizzando la strategia top-down. Ad oggi i biologici disponibili in Italia per il trattamento della MC sono gli anticorpi anti-TNFα quali Infliximab, anticorpo chimerico composto dalla regione costante IgG di origine umana che ne costituisce il 75% e dalla parte legata all'antigene di origine murina che ne costituisce il restante 25% somministrato per via endovenosa; Adalimumab, anticorpo di origine umana, somministrato per via sottocutanea; l’anticorpo anti-integrina α4β7 il Vedolizumab, disponibile in Italia da Giugno 2016. L’efficacia e il profilo di sicurezza degli anti-TNF sono sovrapponibili [5-17]. Entrambi i farmaci prevedono un periodo di induzione (infliximab 5mg/kg al tempo 0, settimana 2, settimana 6; Adalimumab: 160 mg al tempo 0, 80 mg alla settimana 2) ed un successivo schema di mantenimento (infliximab: 5mg/kg ogni 8 settimane; Adalimumab 40mg ogni 14 giorni. Nel caso di non risposta primaria è possibile passare all’altro TNFα (switch) o all’inti-integrina (switch out of class o swap) [17]. Va tuttavia sottolineato che i tassi di efficacia appaiono decisamente inferiori rispetto ai pazienti naive come dimostrato da numerosi trial. Nel caso di perdita di risposta secondaria è opportuno rivalutare l’attività della malattia ed escludere eventuali complicanze o sintomi causati da altre condizioni infiammatorie e non. E’ possibile nei casi di secondary – non responders ottimizzare la terapia (riducendo l’intervallo tra le somministrazioni o aumentando il dosaggio del farmaco nel caso dell’Infliximab). E’ stato descritto un recupero della risposta in circa il 50% dei casi [26]. In caso di inefficacia di questa strategia è possibile passare ad un’altra molecola della stessa classe o di un’altra classe (Vedolizumab) [17] e nel caso di ulteriore insuccesso, va considerata l’opzione chirurgica.

Prima di iniziare una terapia con anticorpi anti-TNFα occorre considerare la presenza di alcune condizioni in modo da mettere in atto le precauzioni e gli accorgimenti necessari. Tra queste condizioni, le più importanti sono rappresentate da:

- tubercolosi attiva o latente, visto il rischio indotto di una riattivazione della patologia che può essere fatale. I pazienti devono eseguire Rx torace,

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intradermoreazione di Mantoux o un test volto a quantificare il rilascio di interferon da parte di cellule T specifiche per Mycobacterium tuberculosis (Quantiferon) - infezione cronica da HBV, visto il rischio di riattivazione, anche fatale, nei carrier HBs-Ag e nei pazienti HBs-Ag negativi, anti-HBcAb positivi

- infezione da HIV , EBV, CMV

- grave insufficienza cardiaca (NYHA III-IV)

- storia oncologica pregressa; in particolare, il linfoma rappresenta una controindicazione assoluta.

I pazienti con tumori solidi non metastatizzati dovrebbero avere un intervallo libero da malattia di almeno 5 anni prima di prendere in considerazione un trattamento di questo tipo e nei pazienti con neoplasie dal decorso imprevedibile (es. melanoma, tumori ematologici) il trattamento con anti-TNFα andrebbe comunque possibilmente evitato.

Una volta ottenuta una remissione stabile senza steroidi, insieme con una stabile normalità degli esami di laboratorio e il MH, si può pensare alla possibilità di sospendere la terapia biologica. Nel 50% dei pazienti la sospensione non determina recidive della malattia, mentre nell’altra metà dei pazienti la malattia si riacutizza richiedendo il ripristino della terapia con recupero della risposta in buona parte dei pazienti [27]. Una volta indotta la remissione è necessaria una terapia di mantenimento. La scelta del tipo di terapia di mantenimento dovrebbe esser fatta valutando l’andamento della malattia (tipo di esordio, frequenza ed intensità delle recidive), della localizzazione ed estensione delle lesioni, del trattamento utilizzato per indurre la remissione e degli eventuali pregressi interventi chirurgici.

Terapia di mantenimento

La mesalazina a rilascio ileo colico e colico viene frequentemente utilizzata nella pratica come terapia di mantenimento, sebbene la sua reale efficacia non sia stata ancora dimostrata in studi clinici [28]. Nei pazienti in cui è stata introdotta la terapia con immunomodulatori tiopurinici questa andrebbe mantenuta per almeno 4-5 anni. Al termine di questo periodo è necessario rivalutare lo stato di malattia, e in caso di remissione stabile e “profonda” si può valutare la sospensione della stessa. Nei pazienti in cui è stato necessario introdurre la terapia biologica questa andrebbe continuata fino al raggiungimento dell’obiettivo prefissato e,

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successivamente, potrebbe essere tentato uno step-down therapy verso le tiopurine [17].

Recidiva post-chirurgica

Circa l’ 80% dei pazienti con MC necessita almeno di un intervento chirurgico nel corso della vita. La terapia purtroppo non è curativa, la recidiva post-chirurgica è infatti un evento frequente. In assenza di terapia il 65-90% dei pazienti presentano una recidiva endoscopica durante il primo anno, ed entro tre anni si osserva nell’80-100% dei pazienti [29]. La stratificazione del rischio di recidiva permette di identificare i pazienti in cui va intrapresa tempestivamente una terapia allo scopo di prevenire la recidiva. I fattori di rischio per una recidiva post-chirurgica precoce sono: il fumo, la malattia perianale, precedenti interventi chirurgici e resezione intestinale estesa, fenotipo penetrante. L’esecuzione di una ileo-colonscopia è’ raccomandata entro il primo anno. E’ consigliabile sottoporre i pazienti ad uno stretto follow up laboratoristico, clinico e strumentale volto ad individuare i segnali precoci di una ripresa di malattia; in particolare l’esame endoscopico può mettere in evidenza la presenza di una recidiva precoce, in modo da intraprendere la strategia terapeutica più appropriata. Gli immunomodulatori sono indicati nei pazienti ad alto rischio e nei pazienti sottoposti a terapia chirurgica conservativa (stritturoplastiche) benché in letteratura l’evidenza della superiorità delle tiopurine derivi solo da due piccoli studi [30]. L’impiego degli anti-TNFα nella MC post-chirurgica è indicato nella categoria dei pazienti ad alto rischio di recidiva come si evince dallo studio POCER (Post Operative Crohn’s Endoscopic Recurrence) [31] in cui è stato confrontato il profilo di efficacia di Adalimumab rispetto alle tiopurine. Gli autori concludono che Adalimumab è superiore rispetto alle tiopurine nella prevenzione della recidiva post-operatoria nei pazienti ad alto rischio. Più recentemente, e’ stato proposto nei pazienti ad alto rischio di recidiva, l’impiego precoce dopo l’intervento dell’IFX, in particolare lo studio PREVENT [32] suggerisce una non superiorità di questo approccio nel limitare la recidiva clinica alla settimana 76 rispetto al placebo, sebbene questo anti-TNF α sia in grado di ridurre in maniera statisticamente significativa il grado di recidiva endoscopica (secondo il sistema classificativo di Rutgeers).

Vi sono evidenze che nell’immediato periodo post-operatorio prima della comparsa delle lesioni endoscopiche la mucosa dell’ileo preanastomotico è sede

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di un elevato numero di linfociti T e macrofagi, elevati livelli di citochine Th1 relate e TNF α e un aumento lieve dell’espressione di IL-17A. La transizione dallo stadio prelesionale a quello con lesioni endoscopiche è caratterizzata da un marcata presenza di citochine Th1 indotte, da un incremento nell’espressione di IL17A, e nell’induzione di IL-6 e IL-23, due citochine coinvolte nel controllo della risposta cellulare Th17 mediata. In campioni di mucosa con lesioni definite è presente una risposta mista Th1/ Th17 con assenza di induzione TNF α mediata. L’analisi del profilo di citochine prodotte in differenti stadi della malattia di Crohn nell’immediato periodo post-operatorio potrebbe rendere ragione della diversa risposta alla terapia medica in questa fase di malattia e indica che con analisi di questo tipo si potrebbe contribuire a ottimizzare la terapia anche in assenza di lesioni o sintomi clinici [33]

Rettocolite ulcerosa

La RCU è una malattia infiammatoria cronica dell’intestino crasso, ad eziologia sconosciuta, con un’incidenza stimata di circa 1,2-20,3 casi per 100000 persone all’anno. Colpisce primariamente la popolazione di giovani-adulti compresa tra i 20 e i 40 anni di età, ma non è raro un esordio di malattia anche in età più avanzata (tra i 60 e gli 80 anni). Nella RCU il processo infiammatorio coinvolge la mucosa e la sottomucosa ed inizia tipicamente nel retto, con possibile differente estensione ai restanti tratti del colon. Si differenziano pertanto tre possibili localizzazioni: proctite, se vi è un coinvolgimento esclusivo della mucosa del retto; colite sinistra, se il processo infiammatorio si estende fino alla flessura splenica) e colite estesa (inclusa la pancolite), se vi è un’estensione oltre la flessura splenica. Il decorso clinico è molto variabile e caratterizzato dall’alternanza di periodi di acuzie e fasi di remissione. La diarrea muco-ematica, il tenesmo e i dolori addominali costituiscono la sintomatologia clinica più frequente, sia all’esordio di malattia che nelle fasi di recidiva. L’attività clinica della RCU viene generalmente classificata in remissione, lieve, moderata e grave, sulla base del numero di evacuazioni giornaliere, del grado di coinvolgimento sistemico (febbre, anemia, tachicardia) e dei parametri di laboratorio. In pazienti che presentano una sintomatologia tipica, per i quali siano state precedentemente escluse cause infettive, la diagnosi di RCU viene confermata dall’esecuzione di una colonscopia con biopsie multiple [34]. La gestione terapeutica della RCU si basa su tre caratteristiche principali di

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malattia: l’estensione, l’attività ed il comportamento. Con quest’ultimo concetto si intende il quadro clinico di ogni singolo paziente e quindi il decorso e la frequenza di recidive nel tempo, la risposta ai precedenti trattamenti, eventuali effetti collaterali sperimentati, la presenza di manifestazioni extra-intestinali associate e le comorbidità [35-36] Gli obiettivi terapeutici auspicabili in RCU, indipendenti da quale farmaco si utilizzi, sono simili a quelli descritti per la MC con alcune sfumature ed includono:

- l ’induzione e il mantenimento della remissione libera da steroidi, - la remissione endoscopica

- la guarigione mucosale (mucosal healing-MH)

- la prevenzione delle complicanze correlate alla malattia (tumori) e /o agli effetti avversi delle terapie

- la riduzione delle ospedalizzazioni e del ricorso alla chirurgia - il miglioramento della qualità di vita (QoL)

L’importanza di raggiungere la completa guarigione della mucosa colica è in relazione alle numerose evidenze che ne supportano l’associazione con una minore frequenza di recidive, ospedalizzazioni, colectomia e sviluppo di tumore del colon-retto [10].

Colite severa

Nell’approcciare un paziente affetto da RCU, è prioritario distinguere chi può essere gestito in ambito ambulatoriale e chi necessita di ospedalizzazione. Uno strumento utile di facile ricorso, è il sistema a punteggio di Truelove e Witts che permette di differenziare, sulla base di parametri clinici e di laboratorio, i pazienti affetti da colite lieve-moderata e i pazienti con colite grave, i quali devono essere sottoposti a trattamento medico intensivo in ambito ospedaliero [35-36].

I pazienti con RCU severa dovrebbero rivolgersi a centri di riferimento per il trattamento delle IBD e sin dall’ammissione del paziente dovrebbero essere allertati I chirurghi, in modo da escludere insieme all’equipe medica l’incombenza o la presenza di megacolon tossico. Durante la degenza si raccomanda sempre l’esecuzione di esami colturali delle feci e una rettoscopia con biopsia, allo scopo di escludere sovra-infezioni batteriche o da CMV . In questa categoria di pazienti i corticosteroidi (CS) ev rappresentano la terapia di primo livello. Il metilprednisolone (60 mg/die), è più utilizzato rispetto all’idrocortisone (100mg 4

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volte/die), per i minori effetti mineralcorticoidi. In associazione ai CS ev devono essere intraprese terapie di supporto idro-elettrolitico e nutrizionale, nonchè l’eparina a basso peso molecolare per via sottocutanea a dosaggio profilattico anti-trombotico. La terapia antibiotica dovrebbe essere considerata solo se si sospettano o sono state confermate infezioni batteriche (positività dell’esame colturale, primo attacco dei sintomi e di breve durata, recente ospedalizzazione o viaggio in zone endemiche) o immediatamente prima dell’intervento chirurgico in urgenza. Trials controllati sull’impiego orale o per via endovenosa di metronidazolo, tobramicina, ciprofloxacina o vancomicina nella terapia della Colite severa non hanno dimostrato aggiungere alcun benificio se associati alle terapie convenzionali [35]. I pazienti cosi’ trattati devono essere strettamente monitorati sia dal punto di vista clinico che biochimico, con un bilancio complessivo sulla risposta agli steroidi entro 3-5 giorni dall’inizio del trattamento con steroidi. In caso di refrattarietà agli steroidi ev, una terapia medica di salvataggio (“rescue therapy”) può essere appropriata. Le evidenze presenti in letteratura supportano ugualmente in questa categoria di pazienti, l’utilizzo di ciclosporina per via endovenosa (dose standard 2 mg/kg/die in infusione) o di Infliximab (dose standard 5mg/Kg). Una review sistematica, ha concluso che la percentuale di risposta entro la quinta giornata agli steroidi ev nei pazienti con RCU severa è pari al 67%, il 29% va incontro a colectomia e il tasso di mortalità è pari all’1%. Continuare la terapia oltre 7 giorni non aggiunge alcun beneficio [37]. Nei pazienti precedentemente esposti all’azatioprina, è preferibile usare l’IFX, dal momento che le tiopurine vengono generalmente embricate con la ciclosporina dopo 3-6 mesi di terapia. E’ infatti sconsigliato proseguire la terapia con ciclosporina oltre 6 mesi a causa degli effetti collaterali riportati. Se entro 5-7 giorni dall’inizio della rescue therapy il paziente non presenta sostanziale miglioramento clinico, deve essere sottoposto a colectomia. Una terapia medica di terza linea non è consigliata per via degli elevati effetti collaterali se non in casi strettamente selezionati ed in centri di riferimento [35-36].

Colite ulcerosa lieve-moderata

La terapia dei pazienti con RCU lieve-moderata varia in relazione all’estensione di malattia e al comportamento clinico. I salicilati nelle formulazioni orali e topiche

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costituiscono il trattamento di prima linea in tutte le forme lieve-moderate, sia come terapia di induzione che come terapia di mantenimento della remissione. In particolare nella proctite è raccomandata come prima scelta la mesalazina topica da preferire nella formulazione di supposte alla dose di 1g/die; nella colite sinistra e nella colite estesa la combinazione di mesalazina orale e topica (clismi a base di mesalazina a diversi volumi in base all’estensione di malattia). Ad oggi per quanto concerne la dose di mesalazina orale, non vi sono evidenze conclusive su una maggiore efficacia di dosi elevate, pertanto si consigliano dosi superiori ai 2g/die. Qualora i pazienti non abbiano un’adeguata risposta ai salicilati, si raccomanda l’utilizzo dei CS ad azione sistemica, generalmente alla dose iniziale di 0,75-1 mg/kg/die di prednisone a scalare per una durata complessiva di trattamento di 8 settimane. Nel caso in cui si sviluppi corticodipendenza definita come l’impossibilità di ridurre la dose dello steroide al di sotto dei 10 mg/die di prednisone, o equivalente, o come la recrudescenza dei sintomi dopo meno di tre mesi dalla sospensione della terapia steroidea [35-36], è indicato l’utilizzo delle tiopurine (Azatioprina alla dose di 2-2,5 mg/kg). Considerando che le tiopurine per raggiungere livelli terapeutici impiegano 3-4 mesi, è necessario proseguire la terapia con CS per periodi più prolungati. I pazienti invece che risultino refrattari agli steroidi orali (per definizione in caso di persistenza di attività clinica dopo 2 settimane di trattamento con dosi di prednisone o equivalenti di 0,75-1 mg/kg/die) sono candidati alla terapia con anti-TNF alfa o anti-integrina. Evidenze più recenti supporterebbero inoltre, sia per i pazienti steroido-refrattari che dipendenti, una terapia di combinazione con anti-TNF alfa e tiopurine che garantirebbe maggiori tassi di risposta clinica sia nel breve che nel lungo termine. I pazienti che hanno risposto agli steroidi devono essere trattati in mantenimento con mesalazina. I pazienti che presentano recidive sintomatologiche sotto mesalazina dovrebbero essere trattati con tiopurine. Tuttavia le evidenze in supporto dell’efficacia delle tiopurine in RCU sono inferiori rispetto a quelle per la MC e nella maggior parte provenienti da studi retrospettivi non controllati. Infine l’intervento chirurgico di proctocolectomiatotale, se mandatorio in caso di complicanze delle forme gravi (refrattarietà alla terapia medica, megacolontossico, emorragie profuse), può essere una valida opzione nelle forme moderate refrattarie alla terapia medica. L’intervento più frequentemente eseguito, in più tempi operatori, è la

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proctocolectomia restaurativa con pouch ileale, che garantisce la via anale per la defecazione, evitando pertanto ai pazienti la stomia permanente.

Secondo le linee guida ECCO, come sopra enunciato, nei pazienti con RCU moderata-severa non responsivi alla terapia di prima linea combinata (orale e topica) con mesalazina vi sarebbe indicazione al trattamento con steroide sistemico od in alternativa, ove fosse disponibile, a terapia con steroide a bassa biodisponibilità[35-36].

Perdita di risposta agli Anti-TNFα

La scoperta del ruolo centrale della citochina TNFα nella genesi del danno tissutale mediato dalla risposta immunoinfiammatoria, ha comportato un primo significativo progresso nella gestione terapeutica delle MICI.

Nell’agosto 1998 l’infliximab, anticorpo chimerico monoclonale anti-TNFα, è stato il primo trattamento biologico ad essere approvato nella terapia delle MICI. Negli anni sono stati introdotti trattamenti con anticorpi anti-TNFα totalmente umanizzati, che hanno consentito un miglioramento sia nella modalità di somministrazione (per via sottocutanea), sia una riduzione delle reazioni allergiche. Attualmente Infliximab, Adalimumab, e Golimumab sono stati tutti approvati in Europa per il trattamento delle MICI. Questi farmaci sono dotati di una buona efficacia terapeutica ma presentano una significativa perdita di risposta (13% per paziente/anno per IFX e 20% per ADA) che può essere in parte spiegata dalla formazione di anticorpi anti-farmaco e da un aumento della clearance dello stesso farmaco. In questi casi, la strategia attualmente consigliata è quella di intensificare la dose (es. infliximab 10 mg/Kg) o ridurre l’intervallo tra le somministrazioni (infliximab ogni 4 settimane, adalimumab tutte le settimane) in quanto è stato descritto un recupero della risposta in circa il 50% dei casi [38]. In caso di inefficacia di questa strategia è possibile passare ad un’altra molecola della stessa classe o a una di un’altra classe [36;39]. E’ stato osservato che bassi livelli sierici di anti-TNFα e/o la presenza di anticorpi anti-farmaco sono associati alla perdita di risposta e che la presenza di anticorpi può determinare la riduzione dei livelli sierici. Pertanto la determinazione di questi due parametri potrebbe aiutare a identificare quei pazienti in cui intensificare il trattamento in corso (nel caso di ridotti livelli) o viceversa passare ad un’altra molecola (nel caso siano presenti

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anticorpi). Tuttavia, anche per questo argomento, gli studi non forniscono risultati concordi [40].

L’utilizzo dei farmaci biologici in combinazione con i farmaci immunosoppressori, secondo alcuni studi, potrebbe contrastare la produzione di anticorpi contro l’anti-TNFα, risultando maggiormente efficace rispetto alla monoterapia. Colombel et al. hanno dimostrato che, nei pazienti affetti da MC, la terapia combinata per un anno è caratterizzata da una efficacia clinica ed endoscopica maggiore rispetto ai singoli trattamenti [41]. Dati simili sono stati riportati anche per i pazienti affetti da colite ulcerosa [42]. L’aumentata efficacia della terapia combinata sembra essere tuttavia una caratteristica delle tiopurine e non del methotrexate [43]. La durata del mantenimento della terapia combinata rimane un altro argomento dibattuto, in quanto gli studi non hanno fino ad ora considerato un trattamento superiore ai 12 mesi. Nel caso in cui un paziente non risponda ad un primo trattamento con agente anti-TNFα, è stato suggerito, come già precedentemente descritto, il passaggio ad un’altra molecola della stessa classe o ad una molecola di classe diversa. Va tuttavia sottolineato che i tassi di efficacia nei pazienti già esposti ad altri biologici appaiono inferiori rispetto ai pazienti naive [3-4;35-36;44]

Tra i limiti legati all’impiego degli anti-TNFα vi è il loro profilo di sicurezza. Se utilizzati con accortezza e con le necessarie precauzioni, gli agenti anti-TNFα presentano un profilo terapeutico più che accettabile. Gli effetti collaterali clinicamente rilevanti più frequenti sono quelli rappresentati dalle infezioni, talora severe. Se, da un lato, il rischio di gravi infezioni associato alla terapia singola con anti-TNFα non sembra essere significativamente aumentato, dall’altro lato occorre considerare che il trattamento concomitante con altri immunosoppressori aumenta esponenzialmente tale rischio [45]. E’ stato descritto un aumento significativo di casi di melanoma cutaneo e di linfoma non-Hodgkin, soprattutto quando questi agenti vengono utilizzati in terapia combinata con immunosoppressori. Gli effetti collaterali più frequentemente osservati sono invece rappresentati dalle reazioni di ipersensibilità, acute o ritardate.

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Nuovi targets molecolari

Dalla ricerca traslazionale finalizzata alla descrizione e alla comprensione dei meccanismi patogenetici della malattia può venire l’identificazione dei possibili e più rilevanti targets terapeutici nelle MICI, consentendo conseguentemente lo sviluppo di nuovi farmaci che siano caratterizzati da una migliore efficacia, da una maggiore selettività e da un migliore profilo di sicurezza.

Negli ultimi anni sono state identificate nuove terapie in grado di inibire altri meccanismi di infiammazione differenti da quelli riguardanti il TNFα.

La patogenesi della MC è associata all’attivazione delle cellule T helper di tipo 1 e 17 (Th1 e Th 17), a seguito del rilascio di interleuchina (IL-12, IL-18, IL-23) e del TGF-beta. Le cellule Th1 e Th 17 innescano il rilascio di citochine pro-infiammatorie quali IL-2, IL-17, interferone (IFN)-gamma e TNFα. La RCU è associata prevalentemente ad una risposta Th2, caratterizzata da alti livelli di IL-4, IL-5 e soprattutto IL-13. Il rilascio di citochine proinfiammatorie fa aumentare l’espressione di molecole di adesione (MAdCAM-1, ICAM-1 e VCAM-1) che promuovono il reclutamento dei leucociti sul sito di infiammazione [46]. Negli ultimi anni la ricerca si è concentrata sull’individuazione di nuove molecole in grado di interferire con questi complessi pathways molecolari.

Le più recenti innovazioni farmacologiche comprendono l’Ustekinemab (anti-IL 12/23) approvato dall’EMA a novembre 2016; Tofacitinib e filgotinib (anti-JAK) in fase III; le molecole anti-adesione quali Etrolizumab in fase III, anti-MadCAM1 (PF-00547659 in fase II); il Vedolizumab disponibile in Italia da giugno 2016.

Ustekinumab (anti IL 12/23)

L’ IL-12 e IL-23 svolgono un ruolo chiave nella differenziazione e nella proliferazione dei linfociti Th1 e Th17 rilasciate nella MC attiva in soggetti geneticamente predisposti. L’IL-12 è una citochina pro infiammatoria composta dalle sub unità p40 e p35 coinvolta nella differenziazione delle cellule T naive (cellule T CD4+) in cellule Th1. L’IL-23 è un eterodimero costituito dalla stessa subunità p40 e dalla sub unità p19 che consente l’espansione di cellule Th17 ed il rilascio di citochine pro infiammatorie. Ustekinemab è un anticorpo monoclonale interamente umano IgG1k che lega la sub unità p40 sia di IL-12 che di IL-23,

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inibendo il loro legame con il recettore sito sulle cellule T, le cellule natural killer e sulle cellule presentanti l’antigene. I risultati dei tre studi di fase III (UNIT I-II-III) che hanno portato all’approvazione del farmaco hanno coinvolto 1.400 pazienti affetti da MC attiva, da moderata a grave. Dopo un anno di terapia gli studi hanno dimostrato che il trattamento con Ustekinumab ha indotto una risposta e una remissione clinica mantenendo tali risultati nel tempo in proporzione significativamente maggiore nei pazienti adulti affetti da MC attiva da moderata a grave, rispetto al gruppo trattato con placebo. Oltre al diverso meccanismo d’azione, l’elemento differenziante di Ustekinumab consiste nella possibilità di ‘demedicalizzare’ il paziente con una frequenza di somministrazione peculiare, che consente, dopo una dose di carico iniziale per via endovenosa, il successivo mantenimento per via sottocutanea ogni due o tre mesi. Il farmaco ha dimostrato efficacia non solo sulla malattia intestinale ma anche sulle manifestazioni extra-intestinali. Ustekinumab è stato generalmente ben tollerato, sia nella fase di induzione, sia in quella di mantenimento in tutti e tre gli studi, e il profilo di sicurezza del farmaco nel programma di sviluppo clinico della MC, è rimasto coerente nei cinque anni di dati acquisiti nei pazienti affetti da psoriasi (con iniezioni sottocutanee fino a 90 mg), e nei due anni di dati di sicurezza, relativi a pazienti affetti da artrite psoriasica [47].

Inibitori della Janus chinasi

La Janus chinasi è una famiglia di proteine tirosin chinasi intracellulari non recettoriali che convertono gli stimoli extracellulari in un'ampia gamma di processi cellulari attraverso il rilascio di numerose citochine proinfiammatorie. L'inibizione dei segnali intracellulari citochine mediato, tipicamente modulato dalla via Janus chinasi (Jak)-Stat, può bloccare la funzione proinfiammatoria delle citochine. La famiglia delle Jak consiste di 4 membri (JAK 1, JAK2, JAK 3 e tirosin chinasi TYK2), ognuno dei quali trasduce il segnale di uno specifico set di citochine che sono coinvolte nella risposta infiammatoria. Diverse piccole molecole con somministrazione orale sono state sviluppate. Alcune di queste (tofacitinib e filgotinib) hanno mostrato efficacia in studi preclinici e sono attualmente testati in studi di fase 3 [48]. Il tofacitinib è un inibitore orale di tutte le Jak che preferenzialmente legano Jak1 e 3 (e Jak2 ad alte dosi), diminuendo gli effetti successivi di numerose citochine prodotte nelle malattie infiammatorie croniche

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intestinali. Il trial di fase II nella MC ha dato risultati meno soddisfacenti rispetto a quello eseguito nella RCU o in altre malattie immunomediate a seguito di un’elevata risposta al placebo. Il profilo di sicurezza degli inibitori delle Jak, soprattutto nel mantenimento, deve essere ben caratterizzato [49]. Sia il tofacitinib che il filgotinib, infatti, ad alte dosi potrebbero determinare un blocco dell’eritropoiesi attraverso la via Jak2 mediata, inducendo anemia e peggiorando un possibile quadro legato alla patologia intestinale.

Vedolizumab: dalla patogenesi alla pratica clinica

Dalla caratterizzazione dei meccanismi immunoinfiammatori alla base dell’insorgenza delle MICI, è emerso che il processo di migrazione dei leucociti dal torrente circolatorio al tratto gastrointestinale rappresenta uno dei momenti cruciali nella fisiopatologia di queste malattie. Sulla base di queste conoscenze, in alternativa al blocco delle citochine pro-infiammatorie, sono stati sviluppati farmaci, quali natalizumab, vedolizumab e, più recentemente, l’anti-MadCAM1 (fase II), e l'etrolizumab, in grado di bloccare la migrazione dei linfociti T dal circolo sanguigno al comparto della parete enterica, impedendo di conseguenza il reclutamento di cellule immunitarie attivate, a livello di tessuti intestinali infiammati. Il processo di migrazione dei leucociti dal torrente circolatorio al sito di infiammazione è caratterizzato da una sequenza coordinata di fasi comprendenti la cattura, la laminazione, l’attivazione, l’adesione e la migrazione delle cellule immunitarie attraverso la parete vascolare [50].

[50] Fiorino G, et al. Leukocyte traffic control: a novel therapeutic strategy for inflammatory bowel disease. Expert Rev Clin Immunol. 2010;6(4):567-572

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Chemochine, selectine ed integrine, e altri fattori molecolari appartenenti alla famiglia delle immunoglobuline, partecipano alla regolazione delle diverse fasi di questo processo. Le selectine, espresse sui leucociti (selectina-L), sulle cellule endoteliali (selectina-E) e sulle piastrine attivate (selectina-P), sono fattori molecolari fondamentali per l’inizio del processo di adesione. Nelle condizioni di flogosi, la liberazione massiva di citochine pro-infiammatorie determina un aumento dell’espressione di questi fattori. Le selectine interagiscono con la P-selectin glycoprotein ligand-1 (PSGL-1), con oligosaccaridi sialilati o fucosilati, denominati sialyl-Lewis x (sLex) e sialyl-Lewis a (sLea), espressi sulle cellule infiammatorie. Tuttavia, tale interazione risulta debole e transitoria, permettendo ai leucociti di rallentare la loro velocità e di rotolare sulla parete vascolare, ma non di arrestarsi e migrare attraverso l’endotelio [51]. Per interrompere il rotolamento e iniziare il processo di migrazione attraverso la parete dei vasi, i leucociti utilizzano molecole di adesione secondarie appartenenti alla famiglia delle integrine. Sulla superficie dei leucociti sono state identificate 13 tipi di integrine. Tuttavia, solo 5 di queste, appartenenti alle sottofamiglie β1, β2 e β7 (αLβ2, αMβ2, αDβ2, α4β1 e α4β7), sono coinvolte nei processi di adesione dei leucociti all’endotelio. Le integrine sono glicoproteine eterodimeriche transmembrana costituite da due subunità, α e β [50] e sono responsabili di un’adesione stabile dei leucociti all’endotelio. Le molecole di adesione espresse sulle cellule endoteliali sono ICAM-1, VCAM-1 e MadCAM-1. L'integrina α4β7 è la principale componente di questa famiglia. Il suo ligando principale è il MadCAM-1 e tale interazione avviene in maniera specifica nell'intestino. Al contrario il legame di ICAM-1 e VCAM-1 richiedono rispettivamente l'integrazione con l'integrina α4β1/α4β7 e α4β1. L’interazione tra α4β1 e VCAM-1 determina la migrazione dei linfociti in tutti gli organi compreso il sistema nervoso centrale. Buthcer et al hanno dimostrato che i linfociti in grado di migrare selettivamente verso i tessuti intestinali esprimono livelli elevati di integrina α4β7 [52], e che la selettività di tale migrazione dipende dal complesso molecolare α4β7 nel suo insieme e non dalle singole subunità. La prima dimostrazione del fatto che l’integrina α4β7 è in grado di legare in maniera selettiva la molecola di adesione MAdCAM-1 è stata ottenuta in seguito allo studio condotto da Berlin et al [53]. Questi autori hanno osservato che anticorpi specifici diretti contro la subunità α4 o β7 del complesso molecolare α4β7 impediscono il legame dei linfociti che esprimono l’integrina α4β7 con MAdCAM-1

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in vitro. Essi hanno inoltre dimostrato la specificità di questa interazione, dal momento che nei loro esperimenti l’integrina α4β1 non è risultata in grado di legarsi a MAdCAM-1. Durante gli anni ‘90, diversi studi hanno evidenziato che specifici sottogruppi di linfociti umani circolanti esprimono l’integrina α4β7 e sono dotati della capacità di traslocare in maniera selettiva nel tessuto intestinale attraverso l’interazione specifica con MAdCAM-1, la cui espressione selettiva a livello enterico è stata dimostrata per la prima volta da Briskin et al. [54]. Questi autori hanno, infatti, dimostrato l’espressione costitutiva di MAdCAM-1 nell’endotelio vascolare dell’intestino tenue e del colon, ma non in altri distretti extra-intestinali, quali polmone, fegato, rene, pancreas, cuore e cervello. I dati generati di questi studi, insieme alle evidenze ottenute nei modelli animali, hanno quindi costituito le basi molecolari per la comprensione dei meccanismi fisiologici che regolano la migrazione linfocitaria selettiva a livello dell’intestino, contribuendo in maniera significativa alla caratterizzazione di nuovi bersagli farmacologici per la terapia delle MICI caratterizzate da una migrazione linfocitaria incontrollata verso i tessuti del tratto gastrointestinale.

Alcuni studi hanno esaminato l’espressione dell’integrina α4β7 nei linfociti circolanti e nel tessuto intestinale di pazienti affetti da RCU e MC, al fine di determinare il ruolo specifico di questo fattore molecolare nella fisiopatologia delle MICI. Alcuni autori hanno valutato i livelli di linfociti circolanti che esprimono l’integrina α4β7 in pazienti con MC e RCU ed hanno evidenziato che, rispetto a soggetti sani di controllo, nei pazienti con MC la quota di linfociti α4β7+ risulta significativamente aumentata, mentre nei pazienti con RCU si osserva un aumento che tuttavia non raggiunge la significatività statistica [55]. E’ stato inoltre osservato un incremento della densità di cellule che esprimono l’integrina α4β7 nella lamina propria del colon di pazienti con MICI, rispetto a quanto evidenziato nei tessuti prelevati da soggetti di controllo affetti da sindrome dell’intestino irritabile [56].

Le evidenze pre-cliniche e cliniche ottenute nel corso degli anni hanno promosso lo sviluppo di anticorpi monoclonali specifici anti-integrina, in grado di bloccare la migrazione dei linfociti attivati verso i tessuti intestinali infiammati, che sono stati valutati come trattamenti innovativi delle MICI.

Il primo di questi anticorpi, bloccante selettivo della subunità α4, è stato natalizumab. Si tratta di un anticorpo IgG4 anti-integrina α4 non selettivo per

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l’intestino che ha mostrato efficacia nell’induzione e mantenimento della remissione nella MC. Oggi l’uso di questo farmaco è significativamente limitato a causa del rischio di provocare una leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML), ma la ricerca in questa classe di molecole ha portato allo sviluppo di farmaci di seconda generazione che presentano una maggiore selettività e un migliore profilo di sicurezza.

Sono stati quindi identificati anticorpi diretti contro la sola subunità β7 (Etrolizumab) in fase 3 e l'anticorpo IgG1 umanizzato anti-integrina α4β7, il Vedolizumab (VDZ), già disponibile in commercio.

Il VDZ è in grado di esercitare un blocco selettivo del processo di migrazione dei linfociti attivati dal compartimento circolatorio verso i tessuti intestinali infiammati. Il profilo di efficacia e di sicurezza del VDZ è stato valutato in quattro studi di fase III, denominati GEMINI I, GEMINI II, GEMINI III e GEMINI LTS (Long Term Safety) [3-4;57-58]. Gli studi GEMINI I e GEMINI II sono stati disegnati in modo da comprendere la capacità di VDZ di indurre la remissione della malattia attiva e di mantenere lo stato di remissione della malattia rispettivamente nella RCU e MC. Lo studio GEMINI III ha valutato la risposta alla terapia dopo fase di induzione in pazienti con MC precedentemente trattati con anti-TNFα. Lo studio GEMINI LTS, ancora in corso, ha come obiettivo la valutazione dell’efficacia e del profilo di sicurezza del farmaco a lungo termine. Gli studi fase III sono stati incoraggiati dai risultati favorevoli ottenuti in precedenti studi clinici di fase I su volontari sani e fase II su malati.

Profilo di efficacia

Studio di fase I

Uno studio clinico di fase I, controllato con placebo e in doppio cieco, è stato condotto da Feagan et al. [59] su 29 pazienti con RCU attiva moderata. I pazienti ammessi a partecipare avevano evidenza endoscopica di malattia con un interessamento di almeno 25 cm dall’orifizio anale, punteggio di Baron modificato pari a 2, e punteggio Partial Mayo uguale o superiore a 5, con almeno 3 evacuazioni/die. Il valore mediano del punteggio Partial Mayo per tutti i pazienti è risultato pari a 10. Alla maggior parte dei pazienti è stato consentito di proseguire l’assunzione orale di mesalazina (86%) a dosi stabili; analogamente, al 34% dei

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pazienti è stato consentito di proseguire la terapia con prednisolone per tutta la durata dello studio. I partecipanti sono stati trattati con singole somministrazioni di VDZ a dosi crescenti: 0,15 mg/kg per via sottocutanea; 0,15 mg/kg per via endovenosa (e.v.); 0,5 mg/kg e.v.; 3 mg/kg e.v. In questo studio la dose di 0,5 mg/kg è stata identificata come quella minima sufficiente a saturare in maniera completa i siti recettoriali del VDZ (integrina α4β7) e ad indurre una risposta endoscopica al giorno 30 (miglioramento di 2 punti secondo la scala modificata di Baron). In due pazienti trattati con VDZ 0,5 mg/kg è stata ottenuta una remissione completa sia endoscopica che clinica.

Studi di fase II

Il primo studio di fase II su VDZ è stato svolto in pazienti con RCU che in precedenza non erano stati sottoposti a terapia con farmaci biotecnologici. Questo studio, randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo, è stato condotto su 181 pazienti con RCU lieve-moderata [60]. I pazienti sono stati assegnati in maniera randomizzata a tre gruppi di trattamento: 0,5 mg/kg; 2 mg/kg; placebo. I trattamenti sono stati somministrati per mezzo di infusioni endovenose ai giorni 1 e 29, e i pazienti sono poi stati seguiti fino a 6 settimane. Essi sono stati inoltre sottoposti ad esame sigmoidoscopico sia prima di iniziare il trattamento (basale) che alle settimane 4 e 6 dall’inizio del trattamento. Ai pazienti è stata consentita l’eventuale assunzione concomitante di mesalazina per via orale. In questo studio, l’endpoint primario era la remissione clinica al termine della sesta settimana (punteggio valutato con la scala Ulcerative Colitis Clinical Score uguale a zero o 1, punteggio di Baron modificato uguale a zero o 1, e nessuna evidenza di sanguinamento rettale). Con riferimento a tale parametro, i tassi di remissione clinica ottenuti dopo trattamento con VDZ 0,5 e 2 mg/kg sono risultati significativamente superiori a quelli ottenuti con placebo (rispettivamente: 33%, 32% e 14%; P=0,03). Inoltre, le percentuali di pazienti che avevano ottenuto la remissione endoscopica alla sesta settimana sono risultate 12%, 28% e 8%, rispettivamente per i gruppi trattati con VDZ 0,5 mg/kg, 2 mg/kg e placebo (P=0,007). Un successivo studio di fase II, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, è stato condotto su 185 pazienti con MC attiva che in precedenza non erano mai stati trattati con terapie a base di farmaci biotecnologici [61]. Anche in questo studio i pazienti sono stati randomizzati in tre gruppi di

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