• Non ci sono risultati.

Le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mar Mediterraneo: tra crisi europea ed emergenza umanitaria.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mar Mediterraneo: tra crisi europea ed emergenza umanitaria."

Copied!
141
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

LE OPERAZIONI DI RICERCA E SALVATAGGIO

NEL MAR MEDITERRANEO: TRA CRISI

EUROPEA ED EMERGENZA UMANITARIA

Relatore:

Chiar.mo Prof. Antonio Marcello Calamia

Candidato:

Ivana Senka

(2)
(3)

2

INDICE

INTRODUZIONE 5

CAPITOLO I: CHI E’ IL MIGRANTE?

1.1.La migrazione internazionale: non solo push and pull factors 6 1.2.Focus sul Mediterraneo, le rotte dei migranti 10 1.3 Le migrazioni sono davvero un’emergenza? 14

CAPITOLO II: ATTIVITA’ DI RICERCA E SOCCORSO NEL DIRITTO INTERNAZIONALE MARITTIMO 18

2.1 I poteri degli Stati in mare 21 2.2. L’obbligo di salvare la vita umana in mare nel diritto internazionale pattizio e consuetudinario 26 2.3. L’obbligo di prestare soccorso in mare nel quadro della

Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare 28 2.4. La Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare

(SOLAS) e la Convenzione sulla ricerca e il soccorso marittimi (SAR) 36

CAPITOLO III: MEDITERRANEO, IL MARE AD OBIETTIVI CONFLIGGENTI

3.1. La gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri: il ruolo di Frontex 45 3.2. Operazione Mare Nostrum 69 3.3. Operazioni ENP Triton e Themis 71 3.4. EUNAVFOR MED operazione Sophia, il lato militare dell’Unione Europea 77

(4)

3 3.4.1. Il diritto di visita ex art. 110 CNUDM e lo sforzo di rispettare i

diritti umani 83

3.5. Il ruolo delle ONG e il Codice di condotta 91

CAPITOLO IV: I METODI DI GESTIONE DEI FLUSSI MIGRATORI NELL’AMBITO DELLE POLITICHE EUROPEE 107 4.1. La cooperazione dell’Unione Europea con la Turchia 111

4.2. Memorandum Italia-Libia 115

4.3. Profili di una possibile responsabilità dell’Unione Europea e degli Stati membri per le violazioni commesse in applicazione di accordi per il controllo extraterritoriale della migrazione 120

CONCLUSIONE 124

BIBLIOGRAFIA 127

(5)
(6)

5

INTRODUZIONE

Il fenomeno delle migrazioni degli ultimi anni è stato al centro dell’interesse dell’opinione pubblica e della politica europea, in particolare il transito via mare ha suscitato divisioni e perplessità nei vari schieramenti della società civile. Le opinioni oscillano tra coloro che ritengono che il fenomeno sia una grave minaccia alla stabilità e pace europea e chi invece ne sottolinea la drammaticità, tenendo a mente che si parla di esseri umani e non numeri. I numeri sono quelli dei naufragi, delle persone disperse, che hanno trasformato il Mar Mediterraneo da crocevia di popoli a cimitero di tanti, troppi sconosciuti. L’Unione Europea e l’Italia si trovano di fronte ad un dramma collettivo di cui però non sembrano cogliere a pieno la portata, che va ben oltre la semplice constatazione dei flussi ingenti. È piuttosto il banco di prova in cui effettivamente si potrà verificare quali sono i valori alla base delle società europee, costruite abbattendo i muri: quei stessi muri che oggi i novelli nazionalismi stanno contribuendo a ricostruire. Lo scopo di questo elaborato è far comprendere innanzitutto chi è il migrante, seguendo il suo percorso da quando decide di partire e perché, con il dovuto riferimento alle varie teorie delle migrazioni, passando per le varie rotte che segue per giungere in Europa e l’impatto del suo arrivo nel Paese di destinazione. A seguito di questo capitolo introduttivo, segue la trattazione più propriamente giuridica, che si occuperà della normativa concernente le operazioni di ricerca e salvataggio alla luce del diritto internazionale marittimo, evidenziando come si articoli attraverso l’analisi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, la Convenzione Solas e la Convenzione Sar. Il terzo capitolo si occupa in particolare delle operazioni che si sono succedute nel Mar Mediterraneo, a partire da Mare Nostrum, Triton e Sophia, dedicando una sezione in particolare al ruolo di Frontex e alla sua evoluzione. Non si può tacere la partecipazione delle ONG, attori controversi, le cui attività sono state oggetto di regolamentazione da parte del Governo italiano con il Codice di condotta dell’estate 2017. Infine, l’ultimo capitolo è dedicato alla comprensione del sistema dell’Unione Europa nella gestione dei flussi migratori, sempre più orientato verso un contenimento ab origine dei migranti, secondo una esternalizzazione dei controlli dei confini europei: ne sono prova l’accordo con la Turchia del 2016 e il successivo Memorandum Italia-Libia del 2017, i quali potrebbero presentare dei profili atti a fondare una responsabilità europea ed italiana nella commissione di illeciti riguardanti la violazione dei diritti umani dei migranti.

(7)

6

CAPITOLO I CHI E’ IL MIGRANTE?

1.1. La migrazione internazionale: non solo push and pull factors

Mamadou Barry è di etnia Peul, contrapposta a quella dei Malinké, e questo è il motivo per cui ha dovuto abbandonare la Guinea; nel 2015 aveva 18 anni quando partecipava alle manifestazioni a favore di Cellou Dailen Diallo, l’oppositore dell’allora presidente uscente Alpha Condé. I suoi amici sono stati arrestati ed ancora oggi sono in carcere, ma Mamadou è riuscito a scappare, prima in Mali, dove ha lavorato per qualche mese e da lì si è recato in Algeria. Da qui la tappa successiva è stata la Libia, di cui non vuole parlare, perché “è un posto pericoloso, in Libia un nero è un diamante”; ha passato due mesi in carcere, esperienza di cui porta ancora i segni ma alla fine è riuscito a scappare insieme ad altre 20 persone. A quel punto l’unica soluzione è stata una piccola imbarcazione per arrivare in Italia, il che per alcuni rappresenta una scelta che avrebbe dovuto evitare, perché ha pagato dei trafficanti, perché ha alimentato l’orribile mercato dei “viaggi della speranza”, perché ha rischiato la vita, perché “non è che l’Europa possa accogliere tutta l’Africa”. Al di là dell’ipocrisia, chi al suo posto non avrebbe fatto lo stesso?

Mamadou è uno dei 258 milioni di migranti1 presenti al giorno d’oggi nel mondo: è un gruppo eterogeneo, che nell’immaginario collettivo spesso rappresenta solo la quintessenza dell’altro, ma che in realtà accomuna soggetti dalle caratteristiche più disparate. Sono migranti irregolari, migranti regolari, lavoratori altamente qualificati, lavoratori non qualificati, lavoratori stagionali, rifugiati, richiedenti asilo,

1 ONU, International Migration Report 2017, consultato da ultimo il 31 marzo 2018 su http://www.un.org/en/development/desa/population/migration/publications/migration report/docs/MigrationReport2017_Highlights.pdf.

(8)

7 profughi, minori non accompagnati, studenti internazionali, vittime di traffico, persone che si ricongiungono con la propria famiglia: è un elenco che accomuna individui che volontariamente (o meno) hanno attraversato una frontiera politica o amministrativa con l’intento di stabilirsi in un luogo diverso da quello di origine, per un lasso di tempo indefinito oppure temporaneamente. Ovviamente un fenomeno di tale portata ha generato l’esigenza (e nei giorni nostri si potrebbe dire “l’ansia”) di delimitare con precisione le cause che vi sono alla base, ambito in cui un primo contributo fu dato dal cartografo George Ravenstein, il quale alla fine del XXIX secolo teorizzò come il numero di immigrati in un determinato luogo tenda a “crescere in proporzione inversa alla distanza e proporzionalmente alla popolazione del luogo di origine”2. Così come sono diverse le ragioni che stanno alla base delle

migrazioni, così sono molteplici i tipi di approccio utilizzati nella individuazione e spiegazione di tali ragioni: approcci che sono stati economici, sociologici, politici e sistemici. Nella teoria economica neoclassica Harris e Todaro hanno identificato come motore principale della migrazione le differenze salariali e le diverse condizioni di lavoro tra i paesi, quindi secondo questa visione si assiste ad una scelta individuale e soprattutto razionale del migrante. In contrasto con questa teoria si pone invece la “nuova economia della migrazione”, nata a metà degli anni Ottanta del Novecento (Stark, Levhari), per la quale punto di partenza sono le condizioni di vari mercati del lavoro, non solo quella del paese di origine, dando risalto inoltre non solo al fattore monetario ma anche al ruolo del nucleo familiare, perché la decisione non riguarda solo la singola monade migrante ma coinvolge un insieme più ampio di persone che valutano i pro e contro della scelta migratoria, quali ad esempio rimesse o l’allontanamento di un membro della famiglia. Del 1979, eppure straordinariamente attuale, la teoria di Piore, il quale con

2 S. MONNI, F. ZACCAGNINI, Una rivisitazione critica delle teorie della migrazione: da Marx al paradigma dello sviluppo umano, Parolechiave, Vol. 46, 2/2011, pp. 31-45.

(9)

8 la sua teoria del mercato segmentato del lavoro mise in risalto come le economie delle società avanzate abbiano un bisogno incessante di manodopera immigrata, destinata tuttavia ad essere incanalata nel “mercato secondario del lavoro”; è facile intuire come sia più allettante affidare i lavori di più basso status e salario ad immigrati “con basse pretese”3, cui sono affidate mansioni di basso profilo professionale,

scarsamente retribuite e quindi poco allettanti. A detta di Wallerstein invece non dobbiamo dimenticare gli effetti della globalizzazione economica: la teoria del sistema mondo vede le migrazioni come risultato dell’influenza della penetrazione delle relazioni capitalistiche nelle società periferiche non capitaliste, con strutture economiche non globalizzate: un soggetto è più o meno incline a migrare a seconda della posizione del suo paese nel sistema capitalistico mondiale. Nell’ambito della visione sociologica si ha modo di incontrare la teoria dei fattori di spinta ed attrazione (push and pull factors); sono individuati come fattori di spinta la mancanza o la ricerca di migliori opportunità, la povertà, una forte crescita demografica nel paese di origine, la discriminazione e la diseguaglianza tra gruppi sociali, le emergenze, le guerre, i conflitti, le persecuzioni, la violazione dei diritti umani, le calamità ambientali. D’altra parte, rappresentano un richiamo le disparità economiche tra regioni e paesi, la globalizzazione e liberazione del commercio, diminuzione e invecchiamento della popolazione, richiesta di mano d’opera specializzata e no, la presenza di comunità di migranti. Questo approccio rappresenta dinamiche analoghe a quelle dei vasi comunicanti tra paese di origine e paese di destinazione, però pecca di mancata considerazione del paese di transito. Nel 1988 Douglas Massey definì il concetto di reti migratorie, che riguardano complessi legami interpersonali che collegano migranti e potenziali migranti nelle aree di origine e destinazione attraverso i vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origini: sono proprio queste reti che istituiscono dei

(10)

9 “ponti sociali”4 (Portes, 1995), che attraversano le frontiere e

permettono di ampliare lo sguardo del migrante alla ricerca di migliori opportunità di vita e lavoro. Da canto suo Zolberg affermò che le frontiere rappresentavano il discrimine tra il mondo sviluppato e la periferia, subordinata, economicamente più debole, sottolineando quindi non solo la capacità di adattamento dei soggetti ma collegando lo studio sulle immigrazioni a questioni di economia politica. In tempi più recenti l’Agenzia dello sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) nel 20095 comprese che la migrazione non è soltanto inevitabile ma rappresenta anche un’importante dimensione dello sviluppo umano, può aumentare le prospettive di reddito, salute e istruzione di una persona e, cosa ancor più importante, consentire ai singoli individui di essere in grado di decidere dove vivere e come, aspetto strettamente connesso al concetto stesso di libertà umana. In seguito, Castles e Miller6 hanno delineato le

tendenze generali delle migrazioni, rappresentate in primo luogo dalla globalizzazione, cioè dal fatto che sempre più regioni sono interessante da diversi movimenti migratori, che si possono dividere in emigrazione, immigrazione e transito; accelerazione, perché il volume dei movimenti internazionali è in aumento, e differenziazione, dal momento che non esiste un solo tipo di migrazione. Elementi di novità nella visione dei due studiosi sono la femminilizzazione, in quanto un ruolo importante è svolto dalle donne, e più politicizzazione, poiché le migrazioni internazionali incidono sulle politiche interne, sui rapporti bilaterali e regionali, sulle politiche di sicurezza nazionale in tutto il mondo; da ultimo si parla di proliferazione della transizione migratori, perché si assiste ad un cambiamento della natura di alcuni paesi, passati dall’essere aree di emigrazione a diventare aree di transito o di

4 M. AMBROSINI, E. ABBATECOLA (a cura di), Migrazioni e società. Una

rassegna di studi internazionali, Franco Angeli, 2009, pg 19.

5 UNDP, Human Development Report. Overcoming Barriers: Human Mobility and Development, 2009, consultato da ultimo il 3 aprile 2018 su http://hdr.undp.org/sites/default/files/reports/269/hdr_2009_en_complete.pdf. 6 CASTLES, MILLER, L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo

(11)

10 immigrazione (può essere considerato emblematico in tal senso l’esempio italiano).

1.2. Focus sul Mediterraneo, le rotte dei migranti.

Negli ultimi anni il numero di migranti che ha cercato l’Eldorado nell’Unione Europea è aumentato drasticamente, fenomeno di cui si può cercare una delle motivazioni principali nell’ondata senza precedenti di rivoluzioni e proteste che hanno attraversato il Nord Africa ed il Medio Oriente dal 2011. Il 17 dicembre 2010 l’ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco a Tunisi, per protestare contro il sequestro della sua merce da parte della polizia: il suo gesto innescò una serie di rivolte che interessarono dapprima l’Egitto, poi Libia, Bahrein, Yemen, Marocco, Algeria, Giordania e Siria. La “primavera araba”, termine coniato dai giornalisti all’epoca, comportò la dimissione, la fuga e la morte di quattro capi di Stato: in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali; in Egitto Hosni Mubarak; in Libia Muhammar Gheddafi; in Yemen Ali Abdullah Saleh. Tali sconvolgimenti politici hanno dato luogo ad un lungo processo di transizione, che oggi non può dirsi terminato: è sufficiente osservare la guerra ancora in corso in Siria, lo Yemen massacrato da quattro anni di guerra civile, o il fatto che la Libia sia divisa in due aree rappresentate rispettivamente dal governo di Tobruk con a capo il comandante militare Khalifa Haftar, e dal Governo di Accordo Nazionale, capeggiato da Fayez al-Serraj, con sede a Tripoli. A tutto ciò va aggiunto il fatto che nel continente africano è in atto una esponenziale crescita demografica, si calcola infatti che entro il 2050 la popolazione sarà raddoppiata7; questa crescita non incontra tuttavia un adeguato substrato sociale, economico e politico, il che comporta una perpetua incapacità da parte dei soggetti di coprire i loro bisogni essenziali e

7 R. GURSCH-ADAM, L. BENKOVA’, The impact of demographic developments in Africa on Europe, European View, Vol. 15(2), 2016, pp. 291-304.

(12)

11 disporre di mezzi di sussistenza. Tutto ciò comporta un circolo vizioso, che è ulteriormente esacerbato dai numerosi conflitti e disordini presenti (basti pensare alla Nigeria, alla Somalia o al Sudan), costringendo a migrare chi desidera realizzare le proprie aspettative di vita o semplicemente sopravvivere. In ultima analisi non si deve dimenticare come informazioni ricevute dai media o clichès riguardanti l’alto standard di vita dei Paesi occidentali, costituiscano fattori di attrazione e incentivi sicuramente incisivi nei confronti di persone che ogni giorno hanno a che fare con fame, disoccupazione e morte. Di conseguenza il Mediterraneo è diventato una regione a flussi misti, che comprende sia migranti economici che richiedenti asilo: nel 2014 gli Stati membri Ue hanno ricevuto circa 650.000 domande di asilo; nel 2015 –“annus horribilis”, l’anno che ha segnato un prima e un dopo nelle politiche migratorie europee-, il numero di domande è aumentato fino ad arrivare a 1.255.600, domane le cui prime tre nazionalità sono state rappresentate da siriani, afghani ed iracheni. E’ proprio da questo dato che si può dimostrare l’interesse nei confronti di Stati che nell’immaginario collettivo sono simbolo di benessere e stabilità: la Germania è stata il primo Paese per numero di domande d’asilo, seguita dall’Ungheria e dalla Svezia8: se per l’Ungheria la motivazione del grande numero di domande è probabilmente dovuto alla sua posizione strategica nelle rotte via terra verso il Nord Europa, la Germania e la Svezia rappresentano sicuramente esempi di Stati con un welfare sviluppato ed una economia forte. Tali arrivi e quelli degli anni successivi sono caratterizzati da due tipi di rotte principali, ovvero via terra e via mare: le prime sono individuabili nell’entroterra del continente africano e possono essere suddivise come segue9:

8 EUROSTAT, Record number of over 1.2 million first time asylum seekers registered in 2015, 4 marzo 2016.

(13)

12 • Rotta Occidentale-Ovest, riguardante i migranti provenienti dall’Africa Occidentale e Centrale, che dopo aver raggiunto il Mali e il Niger, si dirigono verso l’Algeria e da lì in Libia; • Rotta Occidentale-Est, in cui i migranti da Senegal, Gambia,

Guinea e Costa d'Avorio si spostano inizialmente a Bamako, in Mali per poi passare per Ouagadougou in Burkina Faso e raggiungere il Niger. Dalla città di Agadez in Niger fino a Sabah in Libia inizia un tratto di rotta nel deserto chiamato “la strada verso l’inferno”;

• Rotta Orientale-Ovest, percorsa da coloro che provengono dal Corno d’Africa e intraprendono la rotta che attraversa il Sudan e il Ciad per raggiungere la Libia;

• Rotta Orientale-Centro, alternativa a quella Orientale-Ovest, ugualmente percorsa da chi proviene da Eritrea, Etiopia, Somalia, composta da un primo transito nel Sudan via Khartoum e un viaggio nel deserto alla volta del nord della Libia;

• Rotta Orientale-Est, utilizzata da chi evita la tradizionale rotta “libica”, in cui i migranti provenienti dal Corno d'Africa passano attraverso l'Egitto. Alcuni dopo aver raggiunto Khartoum, si dirigono verso l'Egitto passando per Assuan e il Cairo, per poi raggiungere Alessandria e tentare la traversata via mare. Quest’ultima dal 2017 è stata virtualmente chiusa dato l’incremento dei controlli da parte delle autorità egiziane; come risultato l’Egitto è diventato zona di transito per raggiungere il confine con la Libia.

Le rotte via mare sono quelle che negli ultimi anni hanno maggiormente attratto l’attenzione pubblica e dei media, sia per l’alto numero di migranti, sia per l’ecatombe che si sono rivelate essere. Per quanto riguarda le rotte che attraversano il Mediterraneo, il referente è l’Agenzia europea della guarda di frontiera e costiera, meglio conosciuta come Frontex, che con il regolamento (UE) n. 2016/1624 ha sostituito

(14)

13 la precedente Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea; l’Agenzia ha individuato tre rotte principali10: la prima è quella del

Mediterraneo occidentale, che interessa coloro che passano dal Marocco alla Spagna; quella del Mediterraneo centrale, tristemente famosa per il numero di morti che vi sono stati, circa 15.000 dal 2014 al 201711; infine la rotta orientale, che riguarda l’area delle isole del Mar Egeo ed in particolare l’isola di Lesbo: da quest’ultima i migranti hanno cercato di raggiungere il nord Europa attraversando Macedonia, Serbia e Ungheria, dando vita alla cosiddetta “rotta dei Balcani”. Tuttavia, il governo Orban il 15 settembre 2015 ha ultimato una barriera lunga 175 chilometri, che chiude il confine con la Serbia e ha comportato il dirottamento dei flussi verso la Croazia. Lungo tale percorso quella dell’Ungheria non è l’unica resistenza che si sia registrata, infatti nell’estate 2015 anche la Bulgaria chiuse il lato turco del suo confine; pochi mesi dopo la Slovenia concluse una barriera lungo il suo confine con la Croazia12. Nel 2017 attraverso queste rotte sono arrivate 171.332 migranti, di cui 119.247 solo in Italia 13; ciò che è interessante rilevare è che gli sforzi profusi dall’Unione Europea nel contenere i numeri e quindi bloccando le varie rotte, non stanno dando risultati effettivi. Se è vero che l’accordo con la Turchia stipulato nel 2016 ha fatto sì che ci fosse una chiusura della rotta balcanica, UNHCR denuncia una nuova rotta nel Mar Nero, percorsa da chi dalle coste turche cerca di raggiungere la Romania14; ad ottobre 2017 Europol ha dichiarato di aver fermato circa 160 imbarcazioni partite dalla Turchia e dirette verso

10 www.frontex.europa.eu/along-eu-borders/migratory-map/, accesso 30 marzo 2018. 11 MISSING MIGRANTS PROJECT (OIM), The Central Mediterranean route: Migrant Fatalities January 2014 - July 2017.

12 C. MORSUT, B.I. KRUKE, Crisis governance of the refugee and migrant influx into Europe in 2015: a tale of disintegration, Journal of European Integration, Vol. 40(2), 2018, pp. 145-159.

13 CIR, Scheda dati asilo e immigrazione. Elaborazione delle statistiche su asilo e immigrazione, 2017.

(15)

14 Apulia, in Calabria, o a Siracusa15. Il direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggeri ha esposto al Parlamento europeo i dati degli arrivi del 2017, precisando però che nel 2018 il 20% dei migranti è giunto dalla Tunisia e che si sta assistendo “ad una crescita vertiginosa di arrivi in Spagna” da Marocco e Algeria16. Tutto questo denota come la chiusura

delle frontiere e le politiche di esternalizzazione dei confini abbiano un impatto che nel breve termine sembra portare a dei risultati effettivi, ma che nel lungo termine mostrano tutta la loro vulnerabilità, perché la migrazione può essere immaginata come un corso d’acqua: può essere bloccato uno dei suoi percorsi, ma troverà sempre il modo di scorrere da un’altra parte.

1.3 Le migrazioni sono davvero un’emergenza?

I flussi di migranti degli ultimi anni hanno generato nel paese o territorio di destinazione una serie di tensioni e di ansie sia da parte della percezione pubblica di questi arrivi, sia a livello di apparato statale; il Mediterraneo è diventato teatro di una tensione crescente che ha interessato i vari Stati europei, dividendoli tra quelli che hanno dovuto affrontare in prima persona la pressione migratoria e tra quelli che hanno criticato i primi o deciso piuttosto di mettere a serio rischio la libertà di movimento dentro l’area Schengen. Non si può negare che la migrazione sia un tipo di mobilità problematica, tuttavia essa è diventata sinonimo di “minaccia”, “disordine”, “terrorismo”, ed è stata strumentalizzata nel corso delle campagne politiche dai nuovi partiti populisti, nazionalisti ed euroscettici: si può fare riferimento al Front National, Lega, Alternative für Deutschland (AfD), Fidesz - Unione Civica Ungherese, Partito della Libertà austriaco (FPÖ), Partito per la Libertà (Pvv) di

15 EUOBSERVER, New trend of migrant “yachts” heading to Italy, says Europol, 13 ottobre 2017.

16 RAINEWS, Migranti dalla Tunisia, Frontex lancia l’allarme terrorismo, 28 marzo 2018.

(16)

15 Geert Wilders in Olanda, il movimento populista Ano 2011 (Alleanza del cittadino scontento) di Andrej Babis in Repubblica Ceca. Tutti questi partiti sono accomunati dalla visione apocalittica dello scontro tra civiltà, per cui essi si considerano portatori della più pura radice culturale, paladini e difensori dell’autentica anima del Paese di appartenenza. In questa visione i migranti sono considerati indifferentemente come “clandestini”, soggetti che non vengono distinti per provenienza, vita, cultura, esperienze personali, religione ma semplicemente rappresentano “il diverso” da cui difendersi (e possibilmente far allontanare in fretta). Tra i cittadini invece, la crisi economica e la disoccupazione sono fattori che hanno esacerbato ulteriormente il clima di insofferenza ed intolleranza, perché la visione che si ha è quella di soggetti che affaticano le strutture previdenziali dello Stato e che non contribuiscono in alcun modo al miglioramento della società in generale: anzi, i continui attacchi terroristici degli anni scorsi hanno aumentato a dismisura la paura che ogni società, nell’accogliere i migranti, nutra una serpe in seno. Per fare un esempio della percezione che c’è in Italia riguardo al numero di migranti effettivamente presenti, si può riferimento al rapporto Eurispes 2018: esso evidenzia come solo il 28,9% dei cittadini sappia che l’incidenza degli stranieri sulla popolazione sia all’8%, per il 35% si tratterebbe del 16%, per il 25,4% addirittura del 24%17. L’invasione dei migranti è palesemente una fake news, come pure lo è quella della relazione tra aumento della criminalità e loro presenza, infatti secondo Eurostat, il tasso di criminalità per 100mila abitanti è più basso tra gli stranieri che tra gli italiani (500,26 per i primi e 1.076,50 per i secondi).18 Inoltre la presenza degli immigrati e dei profughi non comporta solo problemi. Presentando il bilancio 2016, il presidente dell’Inps Tito Boeri ha sottolineato che senza immigrati l’Italia nei prossimi 22 anni potrebbe

17 ANSA, Quanti sono gli immigrati in Italia? La percezione è distorta, 3 febbraio 2018. 18 IDOS, Dossier statistico immigrazione 2017.

(17)

16 risparmiare 35 miliardi di euro di prestazioni a loro destinate (la cui incidenza più elevata riguarda le integrazioni salariali, le prestazioni di disoccupazione, quelle per i nuclei familiari e gli assegni assistenziali, mentre sono minimali gli esborsi per prestazioni pensionistiche su base contributiva), ma così facendo rinuncerebbe a 73 miliardi di entrate contributive, con una perdita netta di 38 miliardi di euro. Nonostante tutto ciò i discorsi di odio si diffondono e la rete brulica di messaggi razzisti, che esprimono preconcetti e pregiudizi, i quali possono essere analizzati secondo una serie di parole chiave19:

• Condizioni strutturali: gli uomini tendono a mostrare una maggiore propensione verso i pregiudizi di natura economica, mentre le donne sono più propense a temere minacce di tipo culturale (e quest’ultimo effetto si registra soprattutto nelle aree multiculturali);

• Fiducia: l’atteggiamento pro-sociale aumenta il rischio di intolleranza, creando dinamiche di distinzione tra gruppi di cittadini e gruppi di migranti. Questo aspetto tende ulteriormente a distinguersi aree in cui è più presente il pregiudizio economico ed aree dove invece si percepisce maggiormente la minaccia di un “degrado”;

• Soddisfazione: la soddisfazione per le istituzioni democratiche riduce il pregiudizio di natura economica ovunque tranne che nei Paesi mediterranei;

• Contatto: i legami di amicizia con soggetti di etnia diversa proteggono dal rischio di pregiudizio ma solo rispetto alla percezione del degrado;

• Effetto cumulativo: chi tende a nutrire un pregiudizio di solito mostra una percezione negativa che sottintende diversi tipi di discriminazioni parallele, riferite ad ogni tipo di migrante, che

19 S. GOZZO, Quale integrazione? Politiche per l’accoglienza e percezione dell’immigrato in Europa, Autonomie locali e servizi sociali, n. 1, 2017, pp. 17-38.

(18)

17 sia economico o forzato, e con una propensione ad un maggior rifiuto nei confronti di immigrati di diversa etnia e verso gli extra-comunitari.

Ampliando l’orizzonte si può constatare come emergenze migratorie effettivamente insostenibili siano quella in Uganda, che ha accolto circa un milione di migranti sud-sudanesi solo nel 2017; il solo campo di Dadaab in Kenya è popolato da circa 300.000 persone o, ancora, dall’inizio della guerra in Siria, la Giordania ha accolto quasi 1,4 milioni di migranti: alla fine del 2016 la maggior parte dei rifugiati – l’84% – si trovava in Paesi a basso o medio reddito, con una persona su tre (per un totale di 4,9 milioni) ospitata nei Paesi meno sviluppati20. Paragonare

questi “numeri” (ricordandosi che non sono solo cifre, ma persone) con quelli europei, si nota come la pressione migratoria sia notevolmente inferiore. Se di emergenza si può parlare, è una emergenza umanitaria quella in corso, perché coloro che sono morti nel deserto o annegati nel Mediterraneo non sono insignificanti: una società evoluta, una società che davvero può dirsi civile, non risponde al paradigma orwelliano per cui “tutti siamo uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”.

La paura degli stranieri, considerati un pericolo per la pace sociale, è ormai al centro di ogni tipo di riflessione e contesto, quindi forse ha ragione il linguista statunitense George Larkoff, che nel suo saggio “Non pensare all’elefante!” propone l’esercizio di non pensare al citato animale. In apparenza ridicolo, mostra come un pensiero di solito raro, astruso, possa diventare ossessivo, in quanto attraverso tale comando l’attenzione viene deviata verso la particolarità di un determinato elemento. Il nostro elefante oggi è l’immigrazione.21

20 UNHCR, Global trends 2016.

(19)

18

CAPITOLO II

ATTIVITA’ DI RICERCA E SOCCORSO NEL DIRITTO INTERNAZIONALE MARITTIMO

Le migrazioni sono un fenomeno che portano con sé un cambiamento e ciò si può evincere osservando le conseguenze riscontrabili sia nel Paese di origine, sia nel Paese di destinazione. Nel primo caso c’è un’interruzione di legami affettivi, l’allontanamento di un soggetto che è sia portatore dell’identità nazionale, sia – in una prospettiva meno sentimentale- un membro della società di partenza e come tale incorporato in meccanismi economici: dal punto di vista del mercato del lavoro se tale flusso è caratterizzato da un basso livello di competenze, si avrà una riduzione della manodopera e, come effetto, un aumento dei salari medi e una riduzione dello sviluppo; se invece il flusso uscente è caratterizzato da individui con un alto livello di competenze gli effetti saranno duplici. Da un lato, se l’elevato grado di qualificazione è costato allo Stato in termini educativi, sociali e sanitari, allora il frutto di questi investimenti viene perso e goduto dai Paesi di arrivo; dall’altro, si ha una perdita di competenze che può ridurre il tasso di crescita del Paese. Esempio concreto di ciò può essere considerata la “fuga dei cervelli” nella dimensione italiana, giovani che esportano il proprio capitale intellettuale alla ricerca di migliori possibilità lavorative e di vita, rappresentando una dispersione di potenzialità, per non menzionare il costo di circa un punto nel Pil (cioè una perdita di 14 miliardi l’anno)22. Se si guarda invece nel Paese di destinazione, il migrante si

inserisce in un nuovo tessuto sociale, benvoluto o meno a seconda della percezione che si ha di esso, entra a fare parte dell’economia nel mercato

22 AGI, Quanto costa allo Stato e alle famiglie italiane la fuga dei cervelli. Una stima, 20 gennaio 2018.

(20)

19 del lavoro, sul piano demografico può incidere positivamente sul tasso di fecondità/natalità. Quindi al riguardo possono essere individuati quattro filoni principali di effetti: il primo si sostanzia nel ruolo degli stranieri sul mercato del lavoro, il secondo riguarda il processo di integrazione salariale e occupazionale, il terzo è basato sul contributo alla crescita economica del Paese di destinazione e, infine, il quarto si concentra sull’impatto degli stranieri sulla spesa sociale23. Il cambiamento è di per sé un elemento che modifica la “normalità” della vita quotidiana dello Stato ospitante, tuttavia essa rientra nel punto di vista dei cittadini, che hanno contatto con “l’altro diverso da sé”. In una prospettiva statale invece, soprattutto le immigrazioni irregolari vanno a toccare una corda sensibile, cioè la sovranità, il controllo del proprio territorio, ed inoltre le modalità con cui uno Stato gestisce l’immigrazione, possono avere ripercussioni a livello internazionale24.

E ora si combinino l’immigrazione irregolare, flusso incessante e apparentemente incontrollabile, e il mare, da sempre simbolo nell’immaginario collettivo di libertà: ne discende che l’immigrazione via mare è la forma che più di tutte mette in serio dubbio la sovranità statale; essa per di più si pone quasi in un rapporto di ossimoro con i termini “confini” e “controllo”, che rimandano a ben definite suddivisioni della materialità. Oggi i sistemi di controllo dell’immigrazione irregolare sono frequentemente caratterizzati da strategie extraterritoriali, che passano dal richiedere un documento di viaggio, a controlli precedenti l’imbarco (a loro volta distinguibili secondo uno schema che preveda una decisione precedente all’imbarco, e un altro che pone obbligazioni in capo ai vettori dei passeggeri che non sono ammessi in uno Stato), ed infine l’interdizione via mare. Quest’ultima riguarda soprattutto la migrazione che avviene via canali

23 S. VERGALLI, Aspetti sociali ed economici delle migrazioni, fascicolo 1, Equilibri, 2017, pp. 112-122.

24 S. TREVISANUT, Immigrazione irregolare via mare diritto internazionale e diritto

(21)

20 irregolari, di conseguenza il ruolo dello Stato di destinazione non è tanto di decidere se un individuo può essere ammesso o meno nel suo territorio, quanto prevenire il raggiungimento dello stesso da parte dei migranti25. Nell’Unione Europea tale scopo può essere ravvisato nel passaggio di prospettiva cui si è assistito nel corso del 2015. Nel maggio di quell’anno la Commissione ha individuato nell’Agenda europea sulla migrazione quattro pilastri per il futuro, finalizzati a “ridurre gli incentivi all’immigrazione irregolare”, “gestire le frontiere salvando vite umane e garantendo la sicurezza”, “sviluppare una politica comune forte in materia di asio” e “attuare una nuova politica in materia di migrazione legale”26. In essa tuttavia si fa riferimento non tanto ad una

operazione umanitaria permanente di soccorso in mare sulla scia di Mare Nostrum, così come era stato auspicato precedentemente dal Parlamento europeo27, ma piuttosto ad un’operazione a carattere militare

nel Mediterraneo, finalizzata a “demolire” le reti di trafficanti di esseri umani e a contrastare il traffico di migranti. Facendo un paragone rispetto al Global Approach on migration and mobility del 201128, si nota una militarizzazione delle frontiere, funzionale alla riduzione della migrazione irregolare e l’utilizzo di termini quali “root causes”, i quali mostrano l’implicito giudizio dato su push factors e sull’intenzione di arginare all’origine i flussi. Nel GAMM viceversa la visione era maggiormente progressista, in quanto si è consapevoli della necessità di gestire l’impatto sociale delle migrazioni, vi è il riferimento alle migrazioni ambientali, è presente lo sforzo di creare canali legali di immigrazione oltre alla cooperazione e sviluppo con Paesi partner: si

25 B. RYAN, Extraterritorial immigration control: what role for legal guarantees?, in B. RYAN e V.MITSILEGAS (a cura di), Extraterritorial immigration control – Legal challenges, Leiden-Boston, 2010.

26 A European Agenda on Migration, COM(2015) 285 final, 13.05.2015.

27 Migration: Parliament calls for urgent measures to save lives, 29.04.2015, disponibile su www.europarl.europa.eu/news/en/press- room/20150424IPR45723/migration-parliament-calls-for-urgent-measures-to-save-lives.

(22)

21 può concludere che esso fosse maggiormente “migrant-centred”. Tutto questo sulla carta, ma in verità è la dimensione fisica quella che conta maggiormente: oggi nel Mediterraneo sono presenti tre tipi di soggetti, che nelle operazioni di salvataggio possono essere considerati come attivi o passivi, cioè gli individui, gli Stati e le ONG.

2.1 I poteri degli Stati in mare.

Il diritto internazionale marittimo è parte del diritto internazionale ed ai fini di questa trattazione ci consente di evidenziare come siano ancora aperte e problematiche tre ordini di questioni29: in primo luogo le obbligazioni che richiedono di rendere assistenza a chi si trovi in mare non possono considerarsi ben delineate e soffrono di una difficile attuazione pratica; le obbligazioni che impongono di salvare la vita umana in mare non trovano un corrispettivo dovere di permettere lo sbarco nei propri porti da parte dello Stato; infine sussiste un problema di inconciliabilità politica tra regole vincolanti riguardo la migrazione e la sovranità statale. Quando uno Stato si trova ad affrontare la migrazione irregolare via mare deve considerare innanzitutto la portata geografica delle obbligazioni che nascono dalla Convezione di Ginevra sullo status di rifugiati del 1951 (la più importante delle quali è il principio del non-refoulement di cui all’articolo 33 della Convezione) e combinare queste con la sua giurisdizione in specifiche aree marittime. Si pone quindi come necessario un inquadramento di quali siano le acque territoriali, nelle quali possono essere inquadrati tutti e tre gli aspetti in cui la giurisdizione dello Stato si declina30: giurisdizione normativa, che consiste nel potere di regolare condotte; giurisdizione attuativa, ossia il potere dello Stato di attuare coercitivamente le proprie

29 R. BARNES, The International Law of the Sea and Migration Control, op. cit. 30 I. PAPANICOLOPULU, Immigrazione irregolare via mare ed esercizio della giurisdizione, in A. ANTONUCCI, I. PAPANICOLOPULU, T. SCOVAZZI (a cura di), L’immigrazione irregolare via mare nella giurisprudenza italiana e nell’esperienza europea, Giappichelli Editore – Torino, 2016.

(23)

22 norme giuridiche; giurisdizione giudiziaria, cioè il potere delle corti di applicare le norme e imporre le sanzioni da esse previste. Si osservi che mentre la giurisdizione sul proprio territorio, incluse le acque territoriali, è generale e completa, esercitare invece giurisdizione in mare, così come delineato dal diritto internazionale, non sempre e non necessariamente contiene tutti e tre gli aspetti. Il confine marino è quindi il limite della zona di esercizio della giurisdizione in uno spazio che altrimenti sarebbe condiviso da tutti i membri della comunità internazionale. Gli spazi marini possono essere suddivisi in due macrocategorie, ovvero quelli sottoposti alla giurisdizione dello Stato costiero e quelli che si trovano al di là di essa; oggi il diritto internazionale marittimo è sinonimo della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM), considerata come una “carta costituzionale”31 del diritto del mare: essa

è stata firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 ed entrata in vigore il 16 novembre 1994, che è stata ratificata dall’Italia con la l. n. 689/1994 e che ha sostituito, nei rapporti fra gli Stati contraenti, le precedenti Convenzioni di Ginevra del 1958 sul mare territoriale e la zona contigua, sull’alto mare, sulla piattaforma continentale e sulla pesca. Ai sensi della Convenzione, ogni Stato ha le proprie acque interne, mare territoriale e la propria piattaforma continentale, potendo inoltre creare una zona contigua ed una zona economica esclusiva. Oltre tali zone costiere degli Stati, vi è l’alto mare, il quale è oggetto di regolamentazione nella Parte VII della Convezione, che lo definisce in negativo all’articolo 86 come comprendente “tutte le aree marine non incluse nella zona economica esclusiva, nel mare territoriale o nelle acque interne di uno Stato, o nelle acque arcipelagiche di uno Stato-arcipelago” e che è “aperto a tutti gli Stati, sia costieri, sia privi di litorale”32, nessuno dei quali può “legittimamente pretendere di assoggettare alla propria sovranità alcuna parte”33. Avendo

31 Definizione di Tommy T.B. Koh, Presidente della Terza Conferenza sul diritto del mare, in occasione del discorso pronunciato alla sessione finale, tenutasi a Montego Bay.

32 Articolo 86 CNUDM. 33 Articolo 89 CNUDM.

(24)

23 ad oggetto la migrazione via mare e le varie operazioni di ricerca e soccorso, le zone rilevanti sono le acque interne, il mare territoriale, la zona contigua, l’alto mare e la zona economica esclusiva. Presupposto sostanziale per potere configurare le varie zone è la linea di base, a partire dalla quale lo Stato calcola l’ampiezza del suo mare territoriale e delle eventuali altre zone marittime che intende istituire, e che è definita dall’articolo 5 CNUDM come “la linea di bassa marea lungo la costa, come indicata sulle carte nautiche a grande scala ufficialmente riconosciute dallo Stato costiero”.

Le acque interne si trovano all’interno della linea di base, che è usata per delimitare il mare territoriale dalle altre zone marittime (articolo 8, par. 1, CNUDM); in esse sono ricomprese anche acque all’interno della linea di bassa marea, porti, estuari, acque racchiuse nella linea di chiusura delle baie. Esse ed i porti ai sensi dell’articolo 2, par. 1, CNUDM sono soggette al completo ed incondizionato esercizio della sovranità da parte dello Stato, il che comporta che in tale fascia non sussista un diritto di transito inoffensivo a favore delle imbarcazioni straniere; inoltre, lo Stato può precludere l’ingresso nei propri porti a tali imbarcazioni, diritto che comunque incontra un limite nella norma che ne permette l’ingresso in caso di forza maggiore o estremo pericolo. La sovranità dello Stato si estende anche al mare territoriale (articolo 16 CNUDM), fascia di mare adiacente alla sua costa e alle sue acque interne, la cui estensione massima è di 12 miglia nautiche, calcolate a partire dalla linea di base. La sovranità in questa zona incontra un limite nel diritto di passaggio inoffensivo, di cui godono tutti gli altri Stati34, passaggio che è definito come

“la navigazione nel mare territoriale allo scopo di: a) attraversarlo senza entrare nelle acque interne né fare scalo in una rada o installazione portuale

(25)

24

situata al di fuori delle acque interne; b) dirigersi verso le acque interne o uscirne, oppure fare scalo in una rada o installazione portuale”.

Per essere considerato come “inoffensivo” deve essere “continuo e rapido”35, inoltre non deve arrecare pregiudizio alla pace, al buon ordine

e alla sicurezza dello Stato costiero ai sensi dell’articolo 19 CNUDM. L’ingresso nel mare territoriale per prestare attività di soccorso non fa venire meno il diritto di passaggio inoffensivo36, escludendo quindi che lo Stato costiero possa impedire ad una imbarcazione di entrare nelle sue acque per prestare soccorso ad eventuali migranti in pericolo; tuttavia, tale conclusione non si presta ad essere applicata nel caso di attività di ricerca di imbarcazioni in pericolo, visto che in questo caso si rientra nell’ambito di cui all’articolo 21, lett. h, CNUDM, il quale prevede che lo Stato costiero possa emanare leggi e regolamenti in merito a prevenzione di violazioni delle leggi e regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione. In ogni caso dovrebbe essere delineata una netta differenziazione tra le imbarcazioni coinvolte deliberatamente in attività di immigrazione irregolare, e quelle che si trovino a trasportare migranti viste le circostanze: queste ultime rispondono all’obbligo di tutelare la vita umana in mare.

Con l’espressione “zona contigua” si intende una fascia di mare adiacente alle acque territoriali e la cui estensione massima è fissata in 24 miglia nautiche dalle linee di base37: in essa

“lo Stato costiero può esercitare il controllo necessario al fine di prevenire le violazioni delle proprie leggi e dei propri regolamenti in materia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione entro il suo territorio o mare territoriale e di punire le violazioni delle leggi e regolamenti suddetti commesse nel proprio territorio o mare territoriale”38,

35 Articolo 18 CNUDM. 36 Articolo 18, par. 2 CNUDM. 37 Articolo 33, par. 2, CNUDM. 38 Articolo 33, par. 1, CNUDM.

(26)

25 quindi non fornisce diritti sovrani allo Stato, ma solo diritti di controllo sulle navi in transito. Essa non esiste ipso iure, ma deve essere necessariamente essere proclamata con atto unilaterale dallo Stato costiero: in Italia presenta un carattere peculiare, in quanto sebbene non sia stata mai formalmente istituita, il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero ha provveduto ad istituirla, come zona funzionalmente collegata alla materia migratoria. Infatti, l’art 11-sexies della legge 189/2012 (“Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”), che ha emendato l’articolo 12, comma 9-bis, del TU richiama la zona contigua:

“La nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato”.

Inoltre, l’articolo 6, comma 2, del decreto interministeriale del 14 luglio 2003 recante disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina è rubricato “Attività nelle acque territoriali e nella zona contigua”, disponendo che la Guardia di Finanza coordini le attività navali connesse al contrasto all’immigrazione irregolare, in una fascia che si “estende fino al limite dell’area di mare internazionalmente definita come «zona contigua»”39. Gli Stati costieri si mostrano di solito reticenti nell’istituire tale zona e ciò può trovare uno dei suoi motivi nello scopo ultimo che lo Stato si pone, ovvero prevenire gli sbarchi prevenendo le partenze, il che comporta la mancanza di interesse ad esercitare funzioni di blocco del natante e/o prevenzione dell’ingresso irregolare,

39 F. MUSSI, Il dilemma dell’esistenza e dei poteri esercitabili nella zona contigua italiana, in A. ANTONUCCI, I. PAPANICOLOPULU, T. SCOVAZZI (a cura di) op.cit.

(27)

26 invocando piuttosto la propria sovranità per bloccare all’esterno di essa i natanti trasportanti migranti40. Infine, per quanto riguarda la zona economica esclusiva41, essa può estendersi non oltre le 200 miglia marine dalla linea di base e diviene effettiva a seguito della sua formale proclamazione da parte dello Stato costiero. Rispetto ad essa lo Stato costiero gode di diritti sovrani riguardanti esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse ittiche, ha giurisdizione in materia di installazione e utilizzazione di isole artificiali, impianti e strutture, ricerca scientifica marina, protezione e preservazione dell'ambiente marino. In tutto ciò non è dato rivenire materie rilevanti nell’ambito della migrazione via mare o nel caso di soccorso a persone in pericolo in mare, il che comporta che tali questioni ricadano nell’ambito del regime di libertà dell’alto mare e quindi non sussista una base giuridica che permetta allo Stato costiero di interferire con le operazioni di soccorso condotte da ONG e con le eventuali operazioni di ricerca intraprese da queste nella sua zona economica esclusiva42. In ultima battuta si deve considerare come i migranti che viaggiano nel Mediterraneo generalmente utilizzino piccole imbarcazioni senza alcuna bandiera: dunque gli Stati possono stabilire una giurisdizione de jure su queste e prendere iniziative per intercettarle.

2.2. L’obbligo di salvare la vita umana in mare nel diritto internazionale pattizio e consuetudinario.

L’obbligo di salvare la vita umana in mare è uno dei principi cardine del diritto internazionale del mare ed esprime un’antica tradizione di

40 S. TREVISANUT, op.cit. 41 Articolo 56 CNUDM.

42 R. BARNES, The International Law of the Sea and Migration Control, in B. RYAN e V. MITSILEGAS (a cura di), op.cit.; I. PAPANICOLOPULU, Immigrazione irregolare via mare, tutela della vita umana e organizzazioni non governative, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fascicolo n. 3/2017.

(28)

27 solidarietà marinara, riconosciuta per la prima volta nel 1758 da Emer de Vattel nella sua opera “Le droit des gens ou principes de la loi naturelle appliqués à la conduite et aux affaires des nations et des souverains”, il quale ne riconobbe il suo carattere umanitario. Questa norma fa parte del diritto internazionale consuetudinario, infatti, come la dottrina ha puntualmente osservato “the duty to rescue those at sea is firmly established in both treaty and general international law”43. Il suo carattere consuetudinario si rileva innanzitutto dal fatto che questo obbligo è stato inserito in numerosi Trattati a partire dall’inizio del ventesimo secolo: lo si rinviene già nella Convenzione internazionale per l’unificazione di alcune regole giuridiche relative all’assistenza e al salvataggio in mare del 1910 all’articolo 11; nell’articolo 8 della Convenzione internazionale per l’unificazione di alcune regole giuridiche relative alla collisione tra imbarcazioni, sempre del 1910; tale obbligo era previsto all’articolo 45, par. 1 della Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare nel 1929, la quale è la versione precedente della SOLAS; è stato ripreso dall’articolo 12 della Convezione sull’alto mare, che è stato la base dell’articolo 98 introdotto nella CNUDM, inoltre è previsto dalla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (SOLAS), dalla Convenzione internazionale sul salvataggio del 198944 e dalla Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso marittimi (SAR). Infine, la normativa dell’Unione Europea lo prevede agli articoli 3 e 9 regolamento (UE) n. 656/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, concernente disposizioni relative alla “sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle

43 GOODWIN-GILL, The Refugee in International Law, Oxford, 1996, p. 157. 44 Convenzione di Londra del 28 aprile 1989 sul soccorso in mare (“Salvage”), che inquadra l’istituto del soccorso in mare in un’ottica privatistica; ha avuto il merito di chiarire che il regime giuridico in materia di soccorso è applicabile anche quando dovrebbe applicarsi la normativa nazionale, che dunque è rilevante su un piano integrativo, residuale; inoltre, ha cancellato la distinzione tra assistenza e salvataggio. In Italia è stata ratificata e resa esecutiva con la l. 129/1995.

(29)

28 frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea”. In secondo luogo, il carattere consuetudinario è stato riconosciuto dalla Commissione di diritto internazionale, organo delle Nazioni Unite nel quadro dei lavori preparatori che hanno condotto all’adozione della Convenzione sull’alto mare del 1958, il cui articolo 12, par.1 è stato la base dell’articolo 98 CNUDM. D’altro canto, questo obbligo può essere considerato come una di quelle “considerazioni elementari di umanità” riguardanti le attività in mare, come affermato dalla Corte internazionale di giustizia nel 1949, con riguardo al caso dello Stretto di Corfù (Albania c. Regno Unito). Essendo una consuetudine, tale norma è il portato dell’idea che i modelli comportamento elaborati nel passato possano essere idonei a regolare i rapporti anche nel futuro 45 e si applica a tutti

gli Stati, indipendentemente che essi siano parte di un Trattato in cui essa sia rinvenibile: ciò è particolarmente significativo nel momento in cui si osservi che la CNUDM non è stata accettata da tutti gli Stati, in particolare nell’ambito degli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, non è ancora stata ratificata da Libia, Israele, Siria e Turchia; tuttavia essi sono parte della SOLAS ed, esclusa la Siria, anche della SAR. È più difficile invece il rapporto tra la norma e l’Unione Europea, la quale non ha reso alcun tipo di dichiarazione in cui specifichi che il dovere di salvataggio sia una materia la cui competenza sia stata trasferita all’Unione da parte degli Stati membri. Inoltre, l’Unione Europea non è parte dell’Organizzazione Marittima Internazionale (OMI), né delle Convenzioni SOLAS e SAR: ciò significa che solo gli Stati membri devono rispondere di questa obbligazione46.

45 P. PASSAGLIA, A. PERTICI, R. ROMBOLI, Manuale di diritto costituzionale

italiano ed europeo, vol. III, G. Giappichelli Editore, 2009, pg. 7.

46 R. MUNGIANU, Frontex and Non-Refoulement- The International Responsability

(30)

29

2.3. L’obbligo di prestare soccorso in mare nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare

L’articolo 98 CNUDM è rubricato “obbligo di prestare soccorso” e dispone che:

1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l'equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa; c) presti soccorso, in caso di abbordo, all'altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all'altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo. 2.Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali”.

Come considerazione preliminare, si noti che la disposizione si colloca nella parte VII della CNUDM, che è dedicata al regime giuridico applicabile all’alto mare, facendo sorgere quindi la questione sull’ambito di applicazione dell’obbligo di prestare soccorso nelle diverse zone marittime. In primo luogo, l’articolo 58, par. 2, CNUDM prevede che “Gli articoli da 88 a 115 e le altre norme pertinenti di diritto internazionale si applicano alla zona economica esclusiva purché non siano incompatibili con la presente Parte”, quindi in virtù di questo richiamo

l’articolo 98 si applica anche nella zona economica esclusiva. In secondo luogo, la disposizione si riferisce a “chiunque sia trovato in mare” e non a chiunque sia trovato nell’alto mare, dunque è possibile una interpretazione estensiva di essa. Per quanto riguarda il mare territoriale, l’estensione dell’obbligo di salvataggio anche in questa zona

(31)

30 si può ricavare dall’articolo 18, par.2, CNUDM, il quale prevede che il passaggio inoffensivo possa consentire la fermata e l’ancoraggio se sono finalizzati a “prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà”47, considerando inoltre che sarebbe a dire poco provocatorio immaginare che il mancato riferimento al mare territoriale possa comportare una sua esclusione dalla portata dell’obbligo. La Convenzione d’altronde poggia su espressioni quali “needs of mankind as a whole”, “justice and equal rights”, che fanno propendere per un’interpretazione non geograficamente limitata: sarebbe paradossale che le persone o i natanti si debbano trovare in una situazione di pericolo solo nell’alto mare per ricevere soccorso48. L’obbligo di salvataggio

dell’articolo 98 può essere scisso in due obblighi ulteriori, rispettivamente nel primo e nel secondo paragrafo: innanzitutto vi è l’obbligo dello Stato di imporre al comandante della nave che batte la sua bandiera di procedere al soccorso di qualunque persona che si trovi in pericolo in mare; inoltre vi è l’obbligo per gli Stati costieri di promuovere efficaci servizi di ricerca e salvataggio. È un obbligo di carattere generale e si applica a tutte le imbarcazioni, siano esse imbarcazioni militari, commerciali o private: le navi delle ONG ricadono in quest’ultima categoria e quindi anche nei loro confronti si applica l’obbligo previsto dall’articolo 9849; il dovere di salvataggio

della vita umana in mare persiste sia in tempo di pace che in tempo di guerra.

Il paragrafo 1, lett. a, dispone che il comandante della nave deve prestare soccorso ad ogni persona trovata che rischia di perire in mare, senza che vengano poste distinzioni tra le classi di persone che devono essere salvate, come peraltro il regolamento (UE) n. 656/2014

47 I. PAPANICOLOPULU, The duty to rescue at sea, in peacetime and in war: a general review, International Review of the Red Cross, 2016.

48 TREVISANAUT, op.cit., pg 56.

49 I. PAPANICOLOPULU, Immigrazione irregolare via mare, tutela della vita umana e organizzazioni non governative, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fascicolo n. 3/2017.

(32)

31 all’articolo 9, co. 1 dispone che gli attori delle operazioni di salvataggio si attengano a tale obbligo “indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova”; è opportuno notare come non sia offerta alcuna definizione di “persona in pericolo”. Per quanto riguarda una nave che si trovi in tale situazione, per il diritto consuetudinario internazionale rientra nella circostanza che un “marinaio esperto” nutra la “ben fondata apprensione” che l’equipaggio perda la vita. Il regolamento sopracitato riconosce inoltre che, nelle operazioni coordinate da Frontex, per riconoscere le situazione di pericolo venga considerata una lista di criteri50, che includono: l’esistenza di una richiesta d’aiuto; la navigabilità del natante e la probabilità che questo non raggiunga la sua destinazione finale; il numero di persone a bordo rispetto al tipo di natante e alle condizioni in cui si trova;la disponibilità di scorte necessarie per raggiungere la costa, quali carburante, acqua e cibo; la presenza di un equipaggio qualificato e del comandante del natante; l’esistenza e la funzionalità di dispositivi di sicurezza, apparecchiature di navigazione e comunicazione; la presenza a bordo di persone che necessitano di assistenza medica urgente; la presenza a bordo di persone decedute;la presenza a bordo di donne in stato di gravidanza o di bambini; le condizioni e previsioni meteorologiche e marine. A tale soccorso, ai sensi della lett. b, si deve procedere il più velocemente possibile, obbligo che risponde a due condizioni che si sostanziano nella ricevuta notizia da parte del comandante di tale situazione di pericolo e che sussiste nella misura in cui si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa, inciso che indica come il comandante debba basare la decisione su un suo giudizio discrezionale basato su tutte le circostanze del caso. Tuttavia, poiché l’obbligazione primaria del comandante è quella di garantire la salvezza della sua nave, equipaggio e passeggeri, sarà difficile stabilire se vi sia stata da parte sua una violazione di tale obbligo, a meno che non si

(33)

32 ravvisino circostanze in base alle quali non ci sarebbe stato alcun danno per l’imbarcazione che procede al salvataggio. Il quadro si complica ulteriormente osservando la differenza tra lett. a) e lett. b), che fanno riferimento a due tipi di attività diversa, ovvero “prestare assistenza” e “soccorso”, senza però che sia specificata la differenza tra esse51.

Nell’ambito della lett. b) può sussistere un ulteriore problema: lo Stato deve esigere che ogni imbarcazione che batte sua bandiera presti soccorso in maniera celere, sia essa pubblica o privata (quale ad esempio una nave commerciale). Nel 1983 UNHCR denunciò come, durante la crisi dei boat people vietnamiti, nei contratti riguardanti le imbarcazioni commerciali che solcavano il mare di fronte alla Cambogia, Vietnam e Laos, venisse inserita una “time charter”, che poneva a carico dei comandanti delle imbarcazioni le spese causate dai ritardi dovuti al soccorso delle persone in mare52. Ciò sicuramente rappresentava un

fattore di deterrenza, di cui i comandanti avrebbero tenuto conto nel momento di decidere sulle azioni da compiersi: a fronte di queste pratiche, UNHCR ha varato un programma53 in cui è previsto che il comandante della nave soccorritrice sia indennizzato con un contributo proporzionato al numero delle persone tratte in salvo. Dopo questa prima indicazione, anche la Convenzione internazionale sul salvataggio ha introdotto all’articolo 12 la previsione che le operazioni di salvataggio portate a termine con successo danno diritto ad un compenso. Si tace, tuttavia, sulla questione di chi sia tenuto a tale compensazione monetaria. Un’ulteriore profilo di difficoltà che reca la disposizione, si può individuare nei risvolti penalistici che discendono dall’obbligo che incombe sul comandante. Un caso significativo è la

51 B. FELDTMANN, What Happens After the Defense? Considering “Post Incident” Obligations of Masters from the Perspective of International and Danish Law, Ocean Development & International Law, 2015.

52 UNHCR, Problems Related to the Rescue of AsylumSeekers in Distress at Sea, 1983.

(34)

33 vicenda Cap Anamur, che ha riguardato la nave dell’omonima organizzazione umanitaria tedesca, la Komitee Cap Anamur Deutsche Notarzte: nel giugno del 2004 dopo aver prestato soccorso a trentasette migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana, rimase in sosta per ventuno giorni a circa 17 miglia da Porto Empedocle, aspettando l’autorizzazione all’attracco nelle coste italiane. In quel lasso di tempo la situazione a bordo divenne problematica al punto tale da convincere infine le autorità italiane a concedere la suddetta autorizzazione. In seguito, i migranti furono trasferiti in un centro di permanenza temporanea, la nave sequestrata ed al comandante Schmidt, il primo ufficiale ed il responsabile dell’organizzazione umanitaria venne contestato il reato di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina, reato di cui agli artt. 110 cod.pen. e 12, comma 1, 2 e 3-bis, decreto legislativo n.286/1998, come modificato dalla legge n. 189/2002. Dopo 5 anni di processo, il 7 ottobre 2009 venne resa una sentenza di assoluzione54 nei confronti degli imputati “perché il fatto non costituisce reato ai sensi dell’art. 530, comma 3 c.p.p” e “per non avere commesso il fatto ai sensi dell’art. 530 c.p.p”. Nella sentenza venne smontata l’ipotesi accusatoria iniziale, in base alla quale la nave avrebbe forzato il blocco navale che le era stato imposto, evidenziandosi piuttosto come fosse sussistente una situazione di stato di urgenza e necessità, determinata dalla lunga permanenza dei naufraghi bordo, soggetti che in questo modo si vedevano preclusa la possibilità di richiedere asilo o protezione umanitaria; in particolar modo il comandante Schmidt, in una delle e-mail inviate alla agenzia marittima di Luigi Tagliavia55, denunciava che alcuni naufraghi presentavano “gravi problemi psicologici” e comunicava che, per tutte le 56 persone a bordo, la nave aveva a disposizione “soltanto 18 tonnellate di acqua

54 Sentenza n. 954/2009.

55 Contattato il 30 giugno 2004 dalla Commissione Rifugiati delle Nazioni Unite di Roma, al fine di prestare la propria opera per l’ormeggio della motonave nel porto di Porto Empedocle, scelto in quanto il più adeguato sotto il profilo logistico per l’approdo.

(35)

34 potabile”. Apparve inoltre pretestuoso l’avere coinvolto il secondo di bordo, Dachkevitch, in quanto il soggetto che ha davvero un potere decisionale sulle sorti e la condotta della nave è il comandante: è rispetto alla sua posizione infatti che si utilizza la formula assolutoria “per non aver commesso il fatto”, non essendo emerso a suo carico alcun elemento che provasse una sua “compartecipazione morale o materiale al compimento del fatto”. L’elemento centrale della sentenza fu la causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., in particolare nell’”adempimento di un dovere imposto da una norma di diritto internazionale”: come primo dato oggettivo venne riscontrato come i soggetti salvati fossero prima ancora che “migranti” o “richiedenti asilo”, dei “naufraghi”: come premessa nel ragionamento del Tribunale, si osserva che l’ordinamento italiano in base all’articolo 10 della Costituzione si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra queste gli accordi internazionali in vigore in Italia, che assumono un carattere di sovraordinazione rispetto alla legislazione interna ai sensi dell’articolo 117 Cost. Come conseguenza di tale configurazione dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale, viene affermato che l’obbligo del diritto internazionale incombente sul comandante della nave di procedere al salvataggio risponde a quanto previsto dalla Convenzione di Montego Bay all’articolo 98, resa esecutiva con L. 689/1994; dall’articolo 10 della Convenzione sul soccorso in mare del 1989; da quanto previsto dalla Convenzione SOLAS, e dalla Convenzione SAR. In base a questa normativa, venne rilevato come i poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati dello Stato nell’area di competenza non escludono che “unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso allorquando lo richieda l’imminenza del pericolo per le vite umane”; inoltre l’obbligo del comandante trova un rafforzamento nel diritto interno all’articolo 1158 Codice della Navigazione, che sanziona penalmente l’omissione da parte del

(36)

35 comandante della nave, nazionale o straniera che sia, di prestare assistenza. Cadde anche la visione dell’accusa, secondo la quale i tre imputati avevano agito nel nome di un interesse personale, o di un profitto (consistente anche nella grande visibilità e risonanza internazionale della vicenda) nel periodo di tempo trascorso tra l’operazione di salvataggio e la richiesta di attracco della Cap Anamur, in quanto tale ritardo derivava dalla ricerca di un “place of safety” dove far sbarcare i naufraghi, compito che può essere svolto solo dal comandante56.

Il paragrafo 2 dell’art. 98 CNUDM denota come il dovere di prestare soccorso in mare non ponga degli obblighi solo in capo al comandante ma anche a carico degli Stati costieri, che sono tenuti a creare e mantenere un servizio di ricerca e salvataggio, il quale è nominato SAR, acronimo di “Search and Rescue”. Tuttavia, l’utilizzo del verbo “promuove” fa dubitare che si tratti effettivamente di un obbligo e non sia piuttosto una sollecitazione (seppur pressante), un invito ad una condotta che gli Stati dovrebbero tenere, quindi non si configurerebbe viceversa un obbligo di allestimento effettivo del servizio; inoltre la disposizione è affetta da più profilo di incertezza, che lasciano ampi spazi di accertamento. In primo luogo, non viene specificato un arco temporale in cui tale “obbligo” debba trovare esplicazione, dunque è ragionevole pensare che sussista a prescindere e prima di un eventuale naufragio. In secondo luogo, si riscontra come il servizio debba presentare i caratteri dell’adeguatezza ed effettività (“adeguato ed effettivo”), tuttavia non è presente alcuna specificazione di tale espressione, un chiarimento che possa effettivamente far comprendere quali siano le condotte più idonee a dare attuazione alla disposizione. Infine, si rileva la sostanziale indeterminatezza dell’espressione “quando le circostanze lo richiedano”, in riferimento agli accordi di

56 F. VASSALLO PALEOLOGO, Cap Anamur- Pubblicati i motivi di assoluzione: l’intervento umanitario non è reato, www.meltingpot. org, 8 marzo 2010.

Riferimenti

Documenti correlati

Cala Mitigliano - Massa Lubrense (NA) vicino grotta.. Nikonos IV con 35 mm e

Una tragedia che si somma alla grave situazione umanitaria che in Siria si protrae da quasi nove anni con l’80% della popolazione in stato di povertà e oltre 11 milioni di persone

Fatta questa premessa, appare necessario verificare se in caso di deviazione della nave dalla rot- ta originaria per effettuare un’operazione di soccorso in mare a persone in

In en- trambi i casi è aggiunta l’ulteriore osservazione secondo cui «The ship is certified as “cargo ship” and the Flag State was notified by the attached note of the

Ultima modifica scheda - data: 2021/11/11 Ultima modifica scheda - ora: 10.21 PUBBLICAZIONE SCHEDA. Pubblicazione scheda -

Nome scelto (autore personale): Camperio, Giulio Codice scheda autore: AUF-2j010-0000079 Sigla per citazione:

n Eseguire valutazioni delle vulnerabilità come parte integrante del processo di creazione di nuove AMP per verificare come il cambiamento climatico, l’acidificazione

Infatti vi è un’aspra conflittualità tra il governatorato di Erbil e quello di Sulaymania, che procura problemi politici e sociali, in quanto la popolazione curda si divide