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Guarda Judith Kleibs - Sirene (traduzione)

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Academic year: 2021

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la rivista di CRIAR - Università degli Studi di Milano --- CRIANDO 2/2018 76

Judith Kleibs

Sirene

traduzione di

Rosanna Petrizzo

Non potevamo continuare a starcene seduti lì così, in quel modo. Mille pensieri mi ronzavano in testa mentre dalla finestra socchiusa arrivava il rombo monotono delle auto e un’afa insopportabile, un’afa paralizzante che rendeva impossibile ogni movimento. Non avremmo dovuto essere al di sopra di tutto, qui al 26˚ piano? Lontani dai rumori del traffico e dall’afa che copriva come un tappeto le strade e i marciapiedi? Eppure c’eravamo dentro in pieno, seduti sul bordo del letto, impalati. Con un’occhiata mi accorsi che anche lei aveva le mani giunte sul grembo. Il suo sguardo correva lungo le pareti, poi di colpo andava verso il soffitto, fin quando notai che stava osservando una mosca. Quando l’insetto si infilò nello spiraglio aperto della finestra e volò via, lei abbassò di nuovo gli occhi sulle mani giunte. Più ce ne restavamo lì seduti, più sentivo la coperta sotto di me inumidirsi. Eravamo entrambi fradici, io del mio stesso sudore, lei dell’acqua in cui aveva nuotato. Lei taceva, io mi mordevo il labbro inferiore. Come sei diventata una sirena? Le parole mi uscirono di bocca a volume bassissimo e furono immediatamente inghiottite dal frastuono della strada, rimbombandomi tuttavia nelle orecchie. La luce del sole le illuminava la coda di pesce che brillava, di un blu argento. Bisogna saper nuotare sott’acqua, disse lei senza guardarmi in faccia, e io sono molto brava. Si tirò indietro una ciocca di capelli con un movimento leggero e fluente. I capelli, che a poco a poco si stavano asciugando, sembravano schiarirsi sempre di più. Hai freddo?, le chiesi con il sudore che mi scorreva lungo la schiena. Non lo so, disse lei, sempre a testa bassa, prova a sentire e dimmelo. Fece librare la mano nell’aria per qualche secondo prima che la afferrassi. Era gelida. Non potevo crederci. Aveva la mano quasi trasparente, come se le scorresse acqua nelle vene. Pensai di spezzarle le dita stringendogliele e, quasi in preda al panico, le lasciai, mi alzai e preparai un tè. Intanto con la coda dell’occhio osservavo la sirena: era infelice. L’acqua che le gocciolava dalla coda aveva formato una piccola pozza sul tappeto. Non sai dove andare, pensai. Lei alzò la testa e annuì. Quella era casa mia, disse, era tutto quello che avevo. Ti do qualcosa di asciutto da metterti, dissi. Nell’armadio scovai un’ampia camicia e dei pantaloni e glieli diedi, poi mi girai e mi appoggiai al davanzale. La fronte sudata sciolse lo sporco appiccicato al vetro. Vidi un fiume infinito di auto e gente che si rifugiava nei negozi con l’aria condizionata e nelle stazioni della metropolitana per sfuggire al gran caldo. Sentii cadere qualcosa sul tappeto e immaginai che fosse la coda. Mentre il sole spariva dietro i grattacieli, una voce fievole disse: sono pronta. Mi girai, ed eccola lì in piedi, con indosso i pantaloni e la camicia enorme. La coda lucente

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la rivista di CRIAR - Università degli Studi di Milano

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era tutta sgualcita per terra. Vista così era una ragazza normalissima. Incredibilmente pallida e magra. Mi avvicinai e la abbracciai, lei mi lasciò fare. Troveremo qualcos’altro per te, dissi, e sentii in bocca un suo capello biondo. Non so fare nient’altro, fu la sua risposta. L’avevo incontrata nella 47a strada, appoggiata a un muro sporco; accanto a lei, sopra a una

porta, splendeva la scritta “Coral Room” in lettere azzurre. Lei era un punto brillante in mezzo al caos e allo sporco della città. La trovai fradicia e con le lacrime agli occhi. Lavorava al Coral Room da mesi, sei giorni alla settimana, e abitava lì, in una stanzetta. In città non conosceva nessuno, a parte quelli del Coral Room. Era il suo rifugio, lì la città non poteva inghiottirla. Il suo posto di lavoro era un acquario enorme, e ogni mezz’ora nuotava avanti e indietro in mezzo ai pesci e ai coralli per i clienti del bar. Lì, sott’acqua, era in pace, non sentiva niente del movimento frenetico del bar. Era il posto in cui si sentiva protetta. La sera che la incontrai, qualcosa era andato storto. Improvvisamente non riusciva più a stare in apnea per tanto tempo gettando nel panico i clienti, che credevano stesse annegando. Il proprietario del bar la mise alla porta. Il costume da sirena lo poté tenere.

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