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Capitolo 1 Cooperazione internazionale nelle Ande peruviane

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Academic year: 2021

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Cooperazione internazionale

nelle Ande peruviane

1.1

Introduzione

I brevi cenni che seguono hanno in questa sede il fine di contestualizzare lo studio di riscaldamento solare proposto, fortemente relazionato non solo ad aspetti puramente tecnici ma anche, ed in una quota per niente trascurabile, alle condizioni socioambientali della zona di intervento ed alle caratteristiche del progetto Inti Wasi e dei suoi attori.

1.2

La cooperazione allo sviluppo

1.2.1

Cooperazione decentrata

La cooperazione decentrata rappresenta il collegamento tra comunit`a locali or-ganizzate dei paesi in via di sviluppo e dei paesi industrializzati nell’ambito di accordi bilaterali o multilaterali, i programmi quadro: riconosce uguale dignit`a e responsabilit`a alle due comunit`a partner, promuove cambiamenti in entram-be e vuole ridurre i fenomeni che producono povert`a ed esclusione nei paesi del Sud, ma anche sollecitare una maggiore responsabilit`a nelle scelte delle

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comunit`a del Nord del mondo, come l’educazione al consumo consapevole, il riconoscimento e il rispetto delle culture altre, la consapevolezza dell’apparte-nenza a processi globali. Questo privilegia modalit`a di partenariato territoriale sulla base di accordi-quadro tra territori che coinvolgono tutti gli attori del-le comunit`a locali (organismi di volontariato, enti locali, istituzioni, soggetti economici) e di partenariato tra soggetti del Nord e del Sud accomunati dal-l’interesse per uno stesso problema. Pur essendo ancora aperta la discussione, con la denominazione cooperazione decentrata si indica una tipologia di coope-razione che proprio nella mancanza di confini certi trova la possibilit`a di aprire nuove strade alla solidariet`a internazionale. La riforma dell’art.117 della Co-stituzione Italiana contiene innovazioni sul ruolo delle istituzioni regionali nei rapporti internazionali, nella confluenza tra capacit`a legislativa regionale e na-zionale nel campo delle relazioni internazionali, come risultato della crescente consapevolezza della grande importanza che riveste la collaborazione tra sin-gole realt`a locali dei paesi in via di sviluppo interessate a processi di crescita e omologhe realt`a locali espressione di paesi a maggior grado di sviluppo [7].

L’Unione Europea gi`a da tempo parte dalle esigenze e dalle iniziative lo-cali per stabilire i propri principi di intervento. Il testo normativo che regola il sostegno dell’Unione a tali attivit`a `e il regolamento n.1659/98 del Consi-glio Europeo, di recente prorogato, con aumento di disponibilit`a finanziarie; la normativa italiana `e regolata principalmente dalla legge 49/87, integrata a livello regionale per la Regione Toscana da leggi regionali e dal Piano regionale della cooperazione internazionale 2007/2010. Gli enti locali, in base alla legge 68/93, possono destinare l’8 per mille dei loro bilanci ad azioni di coopera-zione internazionale, ponendosi cos`ı come soggetti ed attori privilegiati della cooperazione decentrata [11].

La nascita della cooperazione internazionale allo sviluppo `e fatta risalire alla met`a del secolo scorso, con il Piano Marshall, il grande piano di aiuti umanitari e finanziari che dopo la seconda guerra mondiale sostiene la rico-struzione dell’Europa occidentale, legandola tuttavia alla fedelt`a verso gli Stati Uniti d’America. Analogamente si comporta l’Unione Sovietica con i paesi del

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Patto di Varsavia; molti stati di entrambi i blocchi attuano una politica di aiuti al terzo mondo. Nasce cos`ı la cooperazione bilaterale, cio`e quel sistema di relazioni create tra le autorit`a centrali di due paesi dove uno, il donatore, aiuta l’altro, il beneficiario, trasferendo denaro, beni o conoscenze tecniche attraverso crediti agevolati o donazioni. Essa si avvale in genere di strutture e personale interni al Ministero degli Affari Esteri, com’`e il caso dell’inglese DFID, o di apposite Agenzie governative quali l’americana USAID o la tede-sca GTZ. La cooperazione bilaterale rappresenta uno strumento vincolato agli

interessi della politica econimica nazionale, come risulta chiaro per gli aiuti

definiti vincolati, in cui il paese ricevente ha l’obbligo di rivolgersi a fornitori del paese donatore. Sempre nel secondo dopoguerra si avvia la cooperazio-ne multilaterale, quella cio`e attuata dalle diverse istituzioni sovranazionali cui gli stati danno vita. Le principali fanno capo al sistema delle Nazioni Unite, come l’Organizzazione Mondiale della Sanit`a (WHO-OMS), il Fondo delle Na-zioni Unite per l’Infanzia (UNICEF), il Programma delle NaNa-zioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifu-giati (UNHCR-ACNUR), l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO). Lo sviluppo operativo della cooperazione multilaterale coincide con la costruzione del sistema universale dei diritti umani, che fissa gli obblighi di intervento per la comunit`a internazionale davanti a violazioni dei singoli sta-ti, ma anche con il difficile processo della decolonizzazione, dell’indipendenza nazionale raggiunta da numerosi paesi in Africa e Asia. Non potendo entrare nel merito della sicurezza, per i vincoli imposti dalla guerra fredda, l’ONU e le sue Agenzie sono presenti nel campo dello sviluppo mediante strutture opera-tive multilaterali con personale e culture non solo occidentali, almeno in parte diverse rispetto agli interessi dei singoli stati. Inizialmente la cooperazione, tanto bilaterale quanto multilaterale, si basa per lo pi`u su interventi centrali-stici, fatti attraverso i governi nazionali. Il fine ultimo `e l’industrializzazione accelerata, la meccanizzazione agricola e la diffusione di opere pubbliche come strade, dighe, ponti, bonifiche. A partire dagli anni Sessanta, per`o, si fa strada una forma diversa di cooperare, su base volontaria: associazioni, gruppi,

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mo-vimenti laici o religiosi, comunque privati, si inseriscono in un settore fino ad allora di esclusiva competenza di governi e organismi sovranazionali. Nascono cos`ı le organizzazioni non governative, in sigla ong. La loro comparsa `e legata ai grandi cambiamenti culturali di quegli anni e alla prospettiva di mi-glioramento della societ`a che allora sembrava possibile: le ong portano nella cooperazione internazionale questa prospettiva diversa da quella istituzionale e conducono all’impegno personale sul campo. Volontari partono alla volta dei paesi del Sud del mondo oppure si mobilitano nella ricerca di fondi. Il lavoro iniziale ha un’impostazione ancora caritatevole: raccogliere denaro o attrez-zature e inviarli o portarli a chi ne ha bisogno, evolvendosi per`o velocemente verso azioni pi`u mirate, con la costruzione di progetti.

Il progetto `e un intervento di ambito territoriale limitato, deciso concorde-mente tra partner del nord e del sud del mondo, dopo un’analisi preventiva dei bisogni e del contesto, ed organizzato secondo un preciso programma di lavo-ro. Le istituzioni governative assumeranno il progetto come proprio strumento operativo, accanto agli interventi di tipo precedente, ed inizieranno a finanzia-re difinanzia-rettamente le ong, riconoscendo la loro capacit`a di stare a contatto con le comunit`a locali. Negli anni Novanta il mondo delle ong ottiene pieno ricono-scimento come nuovo attore globale, come attestano le conferenze sui problemi mondiali: quella su ambiente e sviluppo a Rio de Janeiro nel 1992, su donne e sviluppo a Pechino nel 1995 e sullo sviluppo sociale a Copenhagen nel 1995. Il tema centrale `e certamente quello della sicurezza, poi drammaticamente ve-nuto in primo piano nel primo decennio del nuovo millennio, mentre passa in secondo piano e comunque si evolve, si modifica, viene messo in discussione il concetto di sviluppo.

Calano progressivamente le risorse per la cooperazione, anche se general-mente si stabilisce di mantenere un rapporto percentuale tra prodotto interno lordo e aiuto pubblico allo sviluppo. L’attenzione della solidariet`a internazio-nale si sposta molto sull’intervento umanitario d’emergenza e sulla risposta immediata a guerre, carestie o disastri naturali, con minore attenzione agli interventi a lungo termine e al controllo locale nell’accesso alle risorse. I nuovi

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soggetti della cooperazione internazionale sono enti locali, associazioni, coo-perative sociali, botteghe del mondo, universit`a, nel segno di quella che verr`a chiamata cooperazione decentrata, vale a dire non legata al livello centrale dei governi e tesa al rapporto diretto tra comunit`a e persone di luoghi diversi del mondo. Il principio `e il concetto di co-sviluppo, per cui i problemi vanno affrontati insieme e non riguardano solo i paesi poveri, impiegando nel proces-so di cambiamento tutte le componenti di un territorio, sia al nord sia al sud del mondo, invece che delegare il processo di sviluppo a due soli partner [10]. Non esiste ancora una definizione condivisa di cooperazione decentrata: la si identifica spesso con la cooperazione realizzata o finanziata in autonomia da comuni, province e regioni, come fa ad esempio il Ministero degli Affari Esteri italiano, mentre per l’Unione Europea si definisce tale non in base a chi pro-muove la cooperazione (autorit`a centrale, locale o privati) ma al suo modo di agire, che deve essere paritario e partecipativo, fondato su progetti comu-ni. Altre ong puntano invece al radicamento territoriale ed al rapporto con le comunit`a di provenienza. Affiancano cos`ı ai progetti di cooperazione all’estero interventi rivolti alla propria realt`a locale, ad esempio alle comunit`a immi-grate, al commercio equo e solidale oppure all’animazione socio-economica del territorio.

La cooperazione decentrata si sta oggi avviando verso due modelli: uno fondato su sistemi territoriali integrati di cooperazione, dove insieme a istitu-zioni pubbliche locali attive si costituiscono gruppi di lavoro misti, partnership pubblico - privato e collaborazioni tra mondo economico e no profit; un altro in cui l’ente locale non `e coinvolto direttamente nel processo di cooperazione ma eroga finanziamenti a soggetti del proprio territorio per loro progetti autonomi di sviluppo [12].

Quadro legislativo

L’attivit`a di cooperazione allo sviluppo degli Enti Locali si svolge nell’ambito del quadro normativo definito dalla legislazione europea, da quella nazionale e dalla legislazione regionale [8]. Formuliamo una breve storia della normativa

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italiana, con i documenti pi`u rilevanti: riprendendo la normativa di riferimento dell’attivit`a di cooperazione allo sviluppo, questa si basa sulla Legge n. 49/87, Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo Legge n. 49 del 26 febbraio 1987, art. 2, commi 4 e 5) e il relativo Regolamen-to di esecuzione (D.P.R. n. 177 del 12 aprile 1988, art. 7) con cui il nostro Paese ha formalmente riconosciuto alle Autonomie locali italiane (Regioni, Province autonome ed Enti locali) un ruolo propositivo e attuativo nell’azione di coo-perazione allo sviluppo governativa regolamentando la facolt`a di iniziativa e le modalit`a di collaborazione con le strutture ministeriali e disciplinando la possibilit`a da parte della Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri (art. 2, comma 4) di utilizzare le strutture pubbliche delle Regioni, delle Province autonome e degli Enti locali per l’attuazione di specifiche attivit`a di cooperazione individuate dalla legge stessa. La stessa legge prevede inoltre per questi soggetti (art. 2, comma 5) la possibilit`a di -avanzare proposte alla Dgcs che, ove autorizzata dal Comitato direzionale, pu`o stipulare con essi apposite convenzioni.

Sebbene si tratti di norma di secondo livello, la Delibera del Cics (n. 12/89) rappresenta un’ulteriore fonte legislativa per la regolazione della materia. La delibera approva il documento Linee di indirizzo per lo svolgimento di attivit`a di cooperazione allo sviluppo da parte delle Regioni, delle Province autonome e degli Enti locali che interpreta in forma estensiva il dettato di legge e rap-presenta l’unico testo organico sulla cooperazione allo sviluppo attuata dalle Autonomie locali e la cooperazione governativa. Ad esso si deve, infatti, l’a-ver sottolineato da un lato il ruolo prioritario assegnato a Regioni, Province autonome ed Enti locali, al fine di favorire il coinvolgimento di tutti i settori della societ`a italiana nelle attivit`a di cooperazione e di valorizzare i potenziali contributi delle comunit`a e delle strutture economiche e sociali del territorio di competenza; dall’altro, il documento sottolinea la duplice funzione propositiva ed attuativa attribuita dalla legge agli enti territoriali.

La legge n. 68 del 23-3-1993 di conversione e modifica del Dl n. 8 del 18-1-1993 Disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilit`a

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pubblica amplia la gamma dei soggetti titolari di capacit`a attuativa di iniziati-ve della cooperazione goiniziati-vernativa riconoscendo all’Associazione nazionale dei Comuni italiani (Anci) e all’Unione delle Province italiane (Upi) l’idoneit`a a realizzare programmi del Ministero degli Affari Esteri relativi alla cooperazio-ne dell’Italia con i paesi in via di sviluppo e autorizzando la Dgcs a stipulare apposite convenzioni che prevedano uno stanziamento globale da utilizzare per iniziative di cooperazione da attuarsi anche da parte dei singoli associati. La legge 68/93 introduce anche la norma che circoscrive l’impegno finanziario di Province e Comuni a sostegno di programmi di cooperazione allo sviluppo e interventi di solidariet`a internazionale, prevedendo la destinazione a tale scopo di un importo non superiore allo 0,80 percento della somma dei primi tre titoli delle entrate correnti di bilancio di tali Enti. Nel marzo 2000 il Ministero degli Affari Esteri, attraverso la sua Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo, approva le linee di indirizzi e modalit`a attuative della cooperazione decentrata allo sviluppo nell’ambito della cooperazione dell’Italia con i P.V.S. La coope-razione italiana nell’area del sud est dell’Europa trova disciplina specifica nella legge n. 84/2001 che regola la partecipazione dell’Italia alla stabilizzazione e ricostruzione dei Balcani a seguito delle crisi e conflitti degli anni ’90.

A livello regionale, la Regione Toscana ha una propria regolamentazione, fondata su due provvedimenti di legge: legge regionale 23 marzo 1999, n. 17 Interventi per la promozione dell’attivit`a di cooperazione e partenariato internazionale, a livello regionale e locale e legge regionale 30 luglio 1997 n. 55 Interventi per la promozione di una cultura di pace.

L’esigenza di migliorare l’operativit`a e l’efficacia di queste attivit`a ha por-tato ad approvare, nell’aprile 2007, un disegno di legge delega per la riforma dell’intero settore della cooperazione allo sviluppo, in cui la cooperazione viene confermata come parte qualificante della politica estera italiana e viene previ-sta l’istituzione di un Agenzia per la cooperazione allo sviluppo e la solidariet`a internazionale. Tale agenzia, un ente di diritto pubblico con piena capacit`a di diritto privato, dovr`a attuare gli indirizzi politici e le finalit`a stabiliti dal Ministri degli Affari esteri e gestire il fondo unico ove dovrebbero confluire le

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risorse economiche e finanziarie del bilancio dello Stato per l’aiuto pubblico allo sviluppo. Il disegno di legge delega `e anche frutto di un’intensa attivit`a di consultazione e confronto condotta attraverso il dialogo con le Ong, il mondo dell’associazionismo, con quello accademico e con i protagonisti della coopera-zione decentrata, che svolgono un ruolo fondamentale nel rendere concreto ed efficace l’aiuto allo sviluppo.

La cooperazione decentrata e non governativa si propone quindi come un nuovo approccio alla cooperazione allo sviluppo che non sostituisce ma `e com-plementare a quello tradizionale, rappresentato dai rapporti tra Governi cen-trali. Questo nuovo approccio privilegia modalit`a di partenariato territoriale, imperniate su accordi-quadro tra territori che cooperano coinvolgendo in un impegno organico e prolungato tutti gli attori delle rispettive comunit`a locali (organismi di volontariato, enti locali, istituzioni formative, soggetti economi-ci) e di partenariato tematico, basate sulla creazione di reti tra soggetti del Nord e del Sud accomunati dall’interesse per una stessa problematica.

La cooperazione decentrata e non governativa pu`o essere suddivisa in due percorsi principali:

• Cooperazione diretta di enti locali o organizzazioni non governative f

ONG) del Paese donatore, mediante accordi e azioni con le autorit`a locali o Ong del Paese beneficiario: i finanziamenti possono provenire anche da governi centrali, organizzazioni internazionali e associazioni.

• Cooperazione indiretta programmata e strutturata dai governi centrali,

da organizzazioni internazionali e da associazioni, nel quadro della coo-perazione bilaterale o multilaterale, che coinvolgono gli Enti Locali e le Ong.

Accanto a questi due aspetti, pu`o verificarsi il caso di cooperazioni tem-poranee per azioni di emergenza o scambi a breve termine di esperienze e assistenza tecnica.

Per concludere, va rilevato che, se con la denominazione cooperazione de-centrata si indica una tipologia di cooperazione sulla cui definizione `e ancora

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aperto il dibattito, proprio in questa mancanza di confini certi si evidenzia uno dei suoi maggiori pregi: l’aprire nuove strade alla cooperazione e alla solidariet`a internazionale.

Altri approcci alla cooperazione

Nel 1955 alla Conferenza di Bandung `e iniziato il processo grazie al quale l’As-semblea Generale delle Nazioni Unite del 1961 approvava la risoluzione 1710, con la quale veniva proclamato il primo decennio per lo sviluppo. La strate-gia del Decennio si basava sulla convinzione che, con un programma di azione finanziariamente adeguato e basato essenzialmente su grandi investimenti in-frastrutturali, sarebbe stato possibile colmare il distacco tra paesi avanzati e PVS, permettendo a questi ultimi di raggiungere il tenore di vita dei paesi sviluppati in un tempo relativamente breve. Il tasso annuo di crescita pre-visto dalla strategia (5 percento) fu raggiunto ed in alcuni casi superato, ma oltre la met`a delle popolazioni dei PVS rimase completamente emarginata, con un netto accentuarsi delle disuguaglianze e l’aumento della fame, della malnutrizione e della povert`a di massa. Con l’ingresso nelle Nazioni Unite di numerosi PVS e la nascita nel 1964 del Gruppo dei 77 (paesi africani, asiati-ci e latino-americani) all’interno della prima Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD), il Terzo mondo indirizza ai paesi in-dustrializzati dell’Est e dell’Ovest le proprie rivendicazioni sui problemi che ritardano lo sviluppo dei paesi poveri. Da subito, l’Est europeo si `e chiamato fuori dal problema, sostenendo che i problemi del sottosviluppo, essendo deri-vati dal colonialismo, non li riguardavano e quindi non poteva essere addossata loro alcuna responsabilit`a nella ricerca di soluzioni. Nel 1970, con una nuova risoluzione (n.2626), l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclamava il secondo Decennio per lo sviluppo, che aveva l’ambizione di un approccio pi`u globale, prefiggendosi obiettivi non solo economici, ma anche sociali. Nella primavera del 1974, dopo la grande crisi petrolifera e sulla base della Carta di Algeri (1973), si comincia a parlare, nel corso della sesta Sessione speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di dialogo Nord-Sud.

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Secondo i paesi in via di sviluppo, il dialogo doveva servire alla costruzione di un nuovo e pi`u giusto ordine economico internazionale, per instaurare il quale l’Assemblea adottava nella stessa sessione un programma d’azione. Il dialogo si basa su tre presupposti fondamentali: l’acquisizione, da parte dei PVS, di un’adeguata forza contrattuale, da contrapporre al potere economico, finanziario e tecnologico del Nord; la formulazione di un progetto comune per la riforma dell’ordine economico internazionale (nuovo ordine economico inter-nazionale); la definizione di una metodologia negoziale in cui i PVS possano giocare un ruolo pi`u adeguato. Il dialogo `e per`o naufragato con il fallimento della Conferenza sulla cooperazione economica internazionale (CCEI, Parigi, 1975-77), conosciuta anche come Conferenza Nord-Sud. Inoltre, a met`a degli anni ’70, si verificarono altri eventi negativi: la recessione dei paesi avanzati, l’instabilit`a monetaria, le fluttuazioni dei mercati (petroliferi ma non solo), l’aumento della disoccupazione su scala planetaria. La strategia per il terzo Decennio (approvata dall’Assemblea Generale nel dicembre 1980) fissava tra l’altro l’obiettivo dello 0,7 percento di APS sul prodotto nazionale lordo dei paesi del DAC entro il 1985, obiettivo che a tutt’oggi (1999) non `e stato rag-giunto. Il DAC (Development Assistance Committee) `e il Comitato di aiuto alla sviluppo dell’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di cui fanno parte i 24 paesi pi`u avanzati (membri dell’UE, pi`u Australia, Canada, Giappone, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Svizzera a Turchia).

Annualmente, il DAC misura le erogazioni di Aiuto pubblico allo

svilup-po (APS o ODA, Official Development Assistance) da parte dei paesi membri,

sia in valori assoluti che in percentuale del loro prodotto interno lordo (PIL). Si definisce APS ogni apporto di risorse fornite ai paesi emergenti allo scopo di favorire il loro sviluppo economico ed il miglioramento dei livelli di vita. Per rientrare nel conteggio dell’APS, i DONI e i prestiti concessi per queste finalit`a dal settore pubblico devono essere erogati a condizioni finanziarie age-volate e, nel caso dei prestiti, contenere un elemento dono (cio`e la misura del tasso di liberalit`a) non inferiore al 25 percento, devono essere cio`e dei crediti di

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aiuto, caratterizzati da un basso tasso di interesse, una lunga durata del rim-borso ed un periodo di grazia. L’APS si divide tradizionalmente in due grandi famiglie, l’aiuto multilaterale e quello bilaterale. Della prima fanno parte i contributi versati dai paesi donatori agli organismi internazionali o sovrana-zionali e da questi gestiti: si pu`o trattare di doni, di sottoscrizioni di capitale o di prestiti agevolati. Della seconda, fa parte tutta la cooperazione gestita dai singoli governi dei paesi donatori, sulla base di accordi bilaterali con uno o pi`u paesi beneficiari, attraverso gli strumenti del dono e del prestito. Negli anni ’80 `e stato sperimentato uno strumento intermedio, il multi-bilaterale, che riguardava in pratica programmi di sviluppo finanziati da un paese e gestiti congiuntamente con un organismo multilaterale. In questo modo, paesi che avevano disponibilit`a finanziarie, ma non capacit`a tecniche sufficienti a gestire programmi importanti, potevano ugualmente garantirsi la visibilit`a del loro apporto.

Successivamente, sono stati definiti altri tipi di cooperazione, come la

coo-perazione sud-sud, cio`e tra paesi in via di sviluppo di livello diverso o tra aree pi`u arretrate dei paesi avanzati e paesi del Terzo mondo. In nome della cooperazione regionale, cio`e tra PVS appartenenti alla stessa area geografica o geopolitica sulla falsariga dei mercati comuni, sono stati creati organismi sovranazionali ad hoc, come la Southern African Development Community, la Intergovernmental Authority for Drought and Desertification (Corno d’Africa), il Comit´e International de Lutte contre la S´echeresse au Sahel, ecc.

Diverso il discorso della cooperazione decentrata, troppo spesso con-fusa con le iniziative di cooperazione sostenute dagli enti locali. In realt`a, si tratta di un approccio pi`u complessivo, che si basa sul contatto diretto tra due comunit`a che abbiano degli obiettivi comuni. In questo senso, si lega stretta-mente alla cooperazione non governativa, che pur non escludendo a priori la collaborazione con governi, si indirizza di preferenza alle organizzazioni della societ`a civile e/o alle comunit`a di base, sforzandosi di innescare processi di sviluppo autosostenibile e di rafforzare le capacit`a delle organizzazioni locali, nella convinzione che siano i principali motori dei processi di sviluppo. Un

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approccio che `e stato fatto proprio, con varie sfumature, da molti organismi internazionali.

La caratteristica principale della cooperazione internazionale di fine secolo `

e appunto l’attenzione crescente, in quantit`a e qualit`a, al mondo non governa-tivo, e non solo alle sue esperienze, ma anche al suo sistema di valori. Mentre infatti alle prime grandi conferenze delle Nazioni Unite gli sparuti drappelli non governativi erano considerati poco pi`u che folklore, oggi non c’`e assise internazionale di una certa importanza che non preveda forme di scambio e di confronto con i rappresentanti della societ`a civile. Il Forum di Rio nel 1992 o quello di Pechino nel 1995 sono solo alcuni degli esempi pi`u noti. La parole d’ordine per l’ingresso nel nuovo millennio, che nelle intenzioni avrebbe dovuto vedere la salute per tutti, l’istruzione per tutti, lo sradicamento della povert`a, della fame e di varie malattie, sembra essere per tutti partecipazione.

I problemi della cooperazione riguardano comunque la realizzazione e ge-stione dei progetti, sia in campo bilaterale che multilaterale. Il canale bilaterale genera non di rado interventi non coordinati tra loro, facendo nascere proget-ti gesproget-tiproget-ti in maniera individuale da esperproget-ti spesso in conflitto tra loro. Ogni ente di gestione decide attraverso procedure rigide, tanto che qualsiasi forma di coordinamento tra progetti diversi per obiettivi comuni risulta difficile, co-me difficile risulta un adeguaco-mento al variare delle situazioni che di volta in volta si presentano. Il canale multilaterale non presenta d’altronde vantaggi maggiori poich´e ogni struttura viene finanziata separatamente ed ogni finan-ziatore condiziona le sue donazioni alla priorit`a verso certe tematiche o aree di intervento, richiedendo l’inserimento di soggetti, ONG ed aziende di fidu-cia. Questo modo di gestire la cooperazione ha contribuito al suo fallimento tanto che, non vedendo alcun risultato concreto, gli stessi donatori hanno gra-dualmente ridotto i loro contributi e finanziamenti, invece di organizzare un sistema pi`u efficiente. Sia dal punto di vista bilaterale che dal punto di vista di multilaterale, la cooperazione risulta quindi frammentata e condizionata da tanti fattori estranei al concetto di sviluppo.

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1.2.2

L’analisi dei bisogni

Ogni progetto di cooperazione allo sviluppo deve muovere da un’analisi parte-cipata, fondata su tre momenti principali:

• analisi del contesto della comunit`a a cui `e diretta l’azione di progetto a

partire da una diagnosi territoriale dal punto di vista sociale, economico, ambientale (censimento degli attori, per capire l’inflenza e il ruolo che ciascuno pu`o avere),

• analisi delle strategie di sopravvivenza, nel segno della necessit`a di

com-prendere i bisogni, i limiti e le potenzialit`a presenti nella comunit`a

• analisi delle priorit`a per lo sviluppo, muovendo sempre da dati

disaggre-gati per singole categorie pur arrivando alla fine a considerarle tutte. Si arriver`a a definire i bisogni su cui il lavoro di progetto deve essere fondato secondo una sequenza che prevede in successione lo studio del contesto, l’ana-lisi partecipata, la decisione partecipata, la formulazione del progetto. Ogni programma-quadro comprende quindi una struttura portante, un metodo di programmazione partecipata ed un insieme di piani d’azione.

La struttura portante comporta, a livello di coordinamento generale, una riunione periodica, alla quale partecipano i soggetti decentrati coinvolti, sia del paese dove si interviene che del paese finanziatore. Tale riunione ha le funzioni politiche di valutazione ed orientamento di tutte le attivit`a. Il lavoro inizia installando i gruppi di lavoro partecipati, che sono i veri protagonisti delle attivit`a.

A livello nazionale `e costituito da rappresentanti dei ministeri e delle istituzioni centrali, dal capo-progetto nazionale e da quello internazionale e da eventuali rappresentanti dei soggetti decentrati. Ha il compito di coordinare, a livello nazionale, il supporto allo sviluppo locale e di realizzare le iniziative e gli eventi nazionali che possono aiutarlo o valorizzarlo (leggi, riforme, circolari, iniziative di formazione e convegni). In ciascuna regione opera un gruppo di lavoro misto, presieduto dall’autorit`a pubblica e composto con rappresentanti delle strutture

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pubbliche e del settore associativo e privato, aperto a tutti gli attori sociali interessati, che si occupa dei processi partecipati che costituiscono l’ossatura del programma a livello intermedio. Ha una funzione molto concreta: decidere circa l’uso delle risorse della cooperazione riservate all’appoggio dello sviluppo di quella regione. E’ qui che si verifica l’analisi partecipata dei bisogni [4], che vede il collegamento tra il settore pubblico, gli attori sociali ed i tecnici. Il risultato di questo collegamento `e la definizione dei piani d’azione annuali di ciascuna regione, i quali, a loro volta, contengono i piani d’azione del livello municipale. Anche questi sono definiti con il metodo dell’analisi partecipata dei bisogni, con gruppi di lavoro locali operanti nei comuni, composti e funzionanti in modo simile a quelli regionali.

Questo metodo garantisce che tutto ci`o che contribuisce a formare il pro-gramma nasca dalla partecipazione dei diversi attori sociali del livello mu-nicipale, regionale e nazionale. Il personale internazionale ha la funzione di organizzare questo complesso processo di coinvolgimento senza escludere nes-suno e con metodi che consentano di rendere attivi anche i gruppi pi`u deboli e meno garantiti che, senza un aiuto del programma e dei servizi sanitari e sociali, rimarrebbero emarginati. La programmazione degli interventi `e rigoro-samente sottoposta ad un processo partecipato, in modo che il risultato della discussione interna ai gruppi di lavoro sia attuato e le risorse siano spese se-condo la volont`a comune [1]. In questo processo gli esperti internazionali non intervengono direttamente sui piani d’azione, ma sono presenti come interlo-cutori tecnici dei gruppi di lavoro e diventano garanti di una programmazione che appartiene alla gente ed alle sue istituzioni. Questo fatto, che sembrerebbe semplice e logico, non `e consentito dalle regole della cooperazione e dalle in-terpretazioni rigide del ciclo del progetto, perch´e implica che il finanziamento del programma sia approvato senza che siano ancora definiti i piani d’azione partecipati; sarebbe impossibile, infatti, avviare le procedure di finanziamento dopo che si `e conclusa la prima fase di programmazione partecipata, perch´e i lunghi tempi necessari per mettere effettivamente a disposizione le risorse renderebbero superato il processo partecipato. Oggi ancora gli adempimenti

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burocratici, peraltro necessari, rallentano molto il passaggio dalla fase di idea-zione e quella di attuaidea-zione: il problema della revisione formale del ciclo del progetto, quando si applica a questo genere d’interventi partecipati e fiduciari, dovr`a certamente in futuro essere affrontato e risolto.

I programmi-quadro di sviluppo umano si possono svolgere secondo gli sche-mi del quadro logico (logical framework) e del ciclo del progetto (project

cycle), che interpretano nel modo probabilmente pi`u vicino allo spirito di chi li lanci`o per ridurre i rischi dei progetti arbitrari o non trasparenti. Solo che, nel loro caso, il finanziamento iniziale si deve effettuare sulla base della definizio-ne del quadro progettuale gedefinizio-nerale e non della formulaziodefinizio-ne particolareggiata delle azioni specifiche. Perci`o i programmi-quadro possono essere fatti solo da finanziatori ed esecutori che godono di reciproca fiducia. Nel quadro pro-gettuale dovrebbe essere sufficiente indicare il contesto nazionale e locale, le aree locali d’intervento, gli obiettivi generali, i metodi di lavoro, i responsabili delle azioni, i campi d’azione e le azioni ammissibili a livello locale, nazionale e internazionale, la stima dei tempi necessari, la previsione di massima dei costi per grandi capitoli di spesa, i meccanismi di monitoraggio e di valutazione [2]. L’uso dettagliato delle risorse dovrebbe invece essere delegato ai meccanismi partecipati. Questi ultimi, d’altra parte, hanno significato solo se servono dav-vero ad influenzare l’uso delle risorse e se si utilizzano per obiettivi di interesse generale.

Riassumendo, questi sono i punti fondamentali sui quali si raggiunge general-mente l’accordo:

• il programma serve a dare appoggio allo sviluppo locale

• lo sviluppo locale del livello municipale `e collegato a quello

regiona-le, che a sua volta `e collegato a quello nazionale ed alle opportunit`a internazionali

• tutte le attivit`a sono sottoposte ai meccanismi partecipati dei gruppi di

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• le decisioni sono prese attraverso la concertazione tra tutti gli attori

sociali, pubblici e privati, interessati

• il programma prevede il partenariato delle comunit`a locali del paese, sia

del livello municipale sia regionale, con comunit`a locali italiane o di altri paesi industrializzati e non (cooperazione decentrata)

• il compito di coordinamento dello sviluppo e di supporto di strutture

complesse alle strutture pi`u piccole si attua a livello regionale, mentre si svolge a livello municipale il compito di fare in modo che i servizi a contatto con la popolazione funzionino correttamente e di promuovere la partecipazione democratica dei cittadini

• il programma si svolge per piani d’azione periodici, che includono gli

apporti della cooperazione decentrata (che contribuisce generalmente con risorse umane, materiali e finanziarie)

• il tipo di sviluppo locale che si vuole promuovere, oltre ad essere

terri-toriale e partecipato, `e anche di tipo integrato, cio`e cerca d’intervenire utilizzando tutti gli apporti istituzionali e professionali che sono necessari per dare una risposta soddisfacente e il pi`u possibile completa ai bisogni

• gli obiettivi generali del programma sono di:

– contribuire a creare un ambiente favorevole allo sviluppo,

miglio-rando il funzionamento delle istituzioni e il rapporto tra queste e la popolazione, favorendo il concreto godimento dei diritti umani da parte di tutti, combattendo la violenza e la criminalit`a e creando una propensione per il rispetto della legalit`a e per la convivenza pacifica e democratica

– ridurre la povert`a, la disoccupazione e l’esclusione sociale, combat-tendone attivamente le cause

– migliorare le condizioni fondamentali di vita della gente tenendo

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di salute, di protezione sociale, di educazione, di formazione e di qualit`a delle relazioni sociali;

• il programma cercher`a d’intervenire su tutti i campi d’azione prioritari

per lo sviluppo umano, che sono generalmente accorpati come segue:

– l’appoggio al miglior funzionamento delle istituzioni (che debbono

garantire il concreto godimento dei diritti, compresi i sistemi giu-diziari), al decentramento politico-amministrativo, alla circolazione delle informazioni e ai media pluralistici;

– la promozione dello sviluppo economico locale, mediante sostegno

all’imprenditoria, attraverso credito, assistenza tecnica e formazio-ne, con particolare attenzione alle piccole e medie imprese e al set-tore informale; i programmi di lotta alla disoccupazione ed alla po-vert`a, la diffusione della conoscenza delle risorse disponibili e la pro-grammazione dello sviluppo; l’organizzazione ed il funzionamento delle agenzie locali di sviluppo economico;

– la tutela della salute e il miglioramento della gestione dei

proble-mi sociali, con particolare attenzione al sostegno ai sisteproble-mi locali di salute, alla medicina preventiva, ai programmi di lotta contro l’esclusione sociale, alla formazione del personale;

– la promozione dell’educazione di base, la lotta all’analfabetismo,

il sostegno ai sistemi scolastici locali, la formazione professionale, l’istruzione superiore, l’accesso all’istruzione da parte delle fasce deboli della popolazione;

– il migliore assetto del territorio, con particolare attenzione alla

ge-stione sostenibile delle risorse naturali, alla sanit`a ambientale, alle infrastrutture di base indispensabili per promuovere la qualit`a della vita e lo sviluppo locale, alle politiche della casa, alla salvaguardia del patrimonio architettonico.

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Le aree debbono essere sufficientemente piccole da permettere reali processi partecipativi dei diversi interlocutori dello sviluppo e sufficientemente grandi da avere le risorse indispensabili per poter gestire una piattaforma di svilup-po locale. La cooperazione decentrata, quella forma cio`e di cooperazione che adotta meccanismi di decentramento delle informazioni, dei processi decisiona-li, della gestione dei finanziamenti e delle attivit`a a livello delle comunit`a locali dove si vuole promuovere il processo di sviluppo, cerca di essere integrata, con-siderando come componenti sviluppo gli aspetti della governabilit`a, dei diritti umani, del reddito, della salute, del welfare, dell’educazione e dell’ambiente.

Strumenti per l’analisi dei bisogni

Sono strumenti per svolgere dettagliatamente l’analisi dei bisogni:

• la mappa del territorio

• il transetto: si percorre una determinata zona insieme ai beneficiari (ad

esempio contadini e famiglie), realizzando una sezione della zona stessa in aree nelle quali si individuano le problematiche.

• il diagramma di Venn: si impiega per visualizzare le istituzioni presenti,

il loro grado di influenza, le relazioni reciproche

• lo spider diagram: integra il diagramma di Venn, costruendo la fotografia

di ogni singolo attore, definendo alcune sue competenze e restituendo l’organizzazione grafica di idee e pensieri

• la matrice di Montgomery: individua i portatori di interessi (coincidono

con gli attori): si costruisce una tabella inserendo stakeholder, interessi, impatto potenziale (effetto dell’azione), influenza sul progetto

• l’orologio: costruendo un orologio con le ore della giornata, si inseriscono

le tipiche attivit`a dei nuclei sociali (ad esempio la famiglia), divise tra uomini, donne e bambini, secondo la stagione

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• il calendario stagionale: si inseriscono, dividendoli per stagione, i dati

disaggregati delle attivit`a di uomini, donne e bambini

Priorit`a dei problemi

Normalmente la priorizzazione si pone su problemi specifici, come denutrizio-ne, condizioni igienico-sanitarie, reddito, vulnerabilit`a: costruito l’albero dei problemi, studiate le priorit`a, si arriva al quadro logico e si individuano di conseguenza le azioni, distinguendo le azioni finalizzate allo sviluppo e quelle mirate a intervenire in situazioni di emergenza e operando una netta distin-zione sia a livello istituzionale sia nei finanziamenti tra emergenza e sviluppo. Una situazione d’emergenza pu`o arrestare lo sviluppo in atto e comunque ri-chiede interventi straordinari, essenziali per il ripristino di condizioni idonee per lo sviluppo; la pianificazione degli interventi di emergenza ha obiettivi a breve termine, ai quali subentreranno gli obiettivi di medio e lungo periodo del progetto di sviluppo su una determinata area [9].

1.2.3

Il ciclo di progetto

Con l’espressione progetto di sviluppo si intende una serie di azioni coordinate tra loro e tese ad ottenere un determinato obiettivo, impiegando entro un deter-minato tempo un budget definito. Un programma di sviluppo `e invece costituito da una serie di progetti, elaborati in un unico settore (programma settoriale) o in un’area geografica specifica (programma paese), la cui attuazione tende ad un obiettivo generale, attraverso gli obiettivi specifici di ciascun progetto. Con ciclo di progetto si indica l’insieme delle azioni collegate tra loro per l’at-tuazione di un progetto, e pi`u particolarmente la sequenza circolare delle fasi della sua configurazione. Il Project Cycle Management, l’organizzazione del ciclo del progetto nella cooperazione internazionale, `e lo strumento che con-sente la programmazione, la stesura, la gestione e la valutazione di un progetto di cooperazione internazionale allo sviluppo e/o la gestione di programmi di aiuto umanitario. Individuato come strumento principale per configurare le

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diverse fasi un progetto di sviluppo, il ciclo di progetto, metodo ufficialmen-te introdotto dalla Commissione Europea per i programmi di sviluppo, sta diventando la piattaforma operativa di tutti gli enti finanziatori, ONG, enti della cooperazione decentrata, Nazioni Unite e loro agenzie [1]. La sequenza delle fasi di pianificazione, analisi, formulazione, gestione e valutazione di un intervento di sviluppo che forma il ciclo di progetto si `e affermata, presso le agenzie e le istituzioni che si occupano di cooperazione internazionale, come un insieme ordinato di metodologie e tecniche per ciascuna delle fasi del ciclo: tale sistema (in realt`a una spirale, perch´e il cerchio non si chiude su se stesso) `e ormai comunemente accettato e utilizzato con l’acronimo PCM Project Cycle Management. [2]

Affermatosi nel corso degli anni Ottanta e Novanta ed impiegato oggi, con alcune differenze non sostanziali, da tutte le principali agenzie internazionali, il PCM si caratterizza per alcuni principi fondamentali [9]. L’approccio strut-turato secondo il ciclo di progetto parte dai bisogni dei beneficiari, a cui andr`a a rispondere l’offerta di capacit`a tecniche o di disponibilit`a di fondi da parte dei donatori. La partecipazione dei destinatari, dei settori sociali, economici e culturali interessati dall’iniziativa e delle istituzioni locali e nazionali `e una caratteristica che attraversa tutte le fasi del progetto. I risultati e gli obiettivi cui il progetto tende devono essere definiti in modo chiaro sin dall’inizio ed essere espressi in termini di indicatori che possano essere verificati nel corso e al termine dell’iniziativa. Inizialmente si parla di obiettivi e risultati attesi, pi`u che delle attivit`a: se, a causa di cambiamenti nelle condizioni di contesto, le attivit`a rischiano di non dar luogo ai risultati e agli obiettivi previsti, la logica del PCM suggerisce di adeguare le attivit`a, mantenendo fisse le mete cui tendere.

In un approccio basato sul Ciclo del Progetto, l’aspetto decisivo `e la vita-lit`a futura del progetto, il suo impatto strategico, cio`e la sua capacit`a di di proiettare i benefici al di l`a della fine dell’intervento esterno. Delineando i ca-ratteri generali della gestione di progetto sar`a corretto chiarire innanzi tutto la grande differenza tra la formulazione teorica e l’esecuzione pratica. Nella fase

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di pianificazione teorica, un’attenta costruzione del quadro logico (logical fra-mework) consentir`a l’identificazione dei punti di forza e dei punti di debolezza della gestione di un progetto e l’individuazione e l’analisi dei problemi, fissan-do obiettivi generali, obiettivi specifici e risultati attesi. Nella fase pratica, le attivit`a comprendono tutte le azioni implementate e condotte per giungere, sulla base dei risultati attesi, all’obiettivo specifico del progetto. La correttez-za del lavoro teorico di costruzione di un progetto consente in ogni momento della fase pratica la verifica ed eventualmente il riorientamento in funzione dei cambiamenti che possono essere avvenuti nel contesto o nella gestione stessa del progetto.

Monitoraggio e valutazione saranno strumenti che la Staff dovr`a conti-nuamente impiegare curando la reportistica di progetto con rapporti intermedi e finali per il consolidamento delle azioni progettate e anche per una eventuale riprogrammazione dell’intervento. Il PCM permette ai progettisti e, pi`u in generale, a tutti coloro che devono operare scelte in merito a concrete azioni di sviluppo, di costruire progetti valutabili nei loro effetti immediati e nel loro impatto a medio termine.

Gli strumenti del PCM (alberi dei problemi e degli obiettivi, analisi dei punti di forza e di debolezza, analisi degli stakeholders, quadro logico, livelli della valutazione) hanno i limiti di ogni strumento teorico e non risolvono tutte le difficolt`a nel disegnare e gestire progetti che puntano pi`u a promuovere processi che non a realizzare opere. Le tecniche e i metodi del PCM devono quindi essere integrati da altri strumenti, legati all’analisi economica, sociale e culturale, e dall’analisi continua dei processi di cambiamento, le difficolt`a e anche le nuove possibilit`a che si aprono nel corso della realizzazione. Il progetto deve essere considerato come una realt`a dinamica, capace di adeguarsi e modificarsi per raggiungere i suoi obiettivi strategici [3].

La struttura del ciclo del progetto `e costituita da sei fasi fondamentali [9]. Le prime quattro sono:

• pianificazione (o programmazione) si definiscono le ragioni e le

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geografiche e settoriali;

• identificazione (o studio di prefattibilit`a) si approfondisce la conoscenza

dei possibili partner locali, dei bisogni e delle strategie, individuando le opportunit`a di collaborazione con soggetti pubblici e privati e di attiva-zione di partenariati territoriali. Al termine di questo processo durante il quale spesso si realizzano scambi di visite tra i due paesi- viene definita la tipologia di progetti su cui iniziare a lavorare, coerentemente con le priorit`a stabilite in fase di programmazione;

• formulazione (o progettazione) individuati i progetti prioritari, questi

devono essere definiti dal punto di vista tecnico attraverso uno studio di fattibilit`a da affidare a specialisti del settore;

• redazione finalizzata al finanziamento il progetto cos`ı formulato deve

essere trasformato in una proposta scritta che risponda ai criteri definiti dall’istituzione finanziatrice (che non sempre coincide con le ammini-strazioni locali che promuovono l’iniziativa di cooperazione decentrata); questa proposta scritta sar`a il documento di progetto.

Se il progetto riceve l’approvazione del finanziatore, si procede alle due fasi successive:

• realizzazione le attivit`a previste nel documento progettuale vengono

realizzate dall’ente esecutore (ente che spesso riflette una partnership tra soggetto internazionale e soggetto locale). A seguito di eventuali mu-tamenti nel contesto locale, il progetto pu`o essere modificato allo scopo di garantire il raggiungimento degli obiettivi prefissati;

• valutazione finale (ed eventualmente la valutazione ex post) il progetto

viene valutato sulla base dei risultati effettivamente conseguiti.

In tal modo sar`a possibile individuare le linee per lo sviluppo futuro dei processi di cooperazione fra i due territori. La valutazione finale viene realizzata al

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termine del progetto, la valutazione ex post dopo un certo periodo (in genere uno o due anni) dalla sua conclusione.

Questa struttura pu`o essere applicata a tutte le tipologie di progetto, com-presi i progetti della cooperazione internazionale decentrata. Naturalmente, ciascuna fase dovr`a essere interpretata alla luce delle caratteristiche dei sog-getti coinvolti e delle relazioni fra di essi. Il ciclo di progetto `e una struttura adottata tanto dagli enti finanziatori quanto dai soggetti esecutori (agenzie, ONG, enti locali, ecc.). I diversi passi del ciclo hanno quindi un contenuto diverso a seconda dell’istituzione che li realizza1. Le fasi del ciclo del progetto sono ormai universalmente adottate da tutti le agenzie della cooperazione allo sviluppo, anche se `e molto difficile proporre, per ciascuna fase, un adattamento standard ad un contesto eterogeneo come quello della cooperazione decentrata [6].

Per la compilazione di un progetto di cooperazione gli elementi che abbiamo indicato andranno dettagliati seguendo uno schema che indichi i seguenti punti:

• proponente • titolo • ubicazione • settore di intervento • motivazione • destinatari • partner locale

• descrizione della situazione di partenza • obiettivi generali

1In questi accenni facciamo riferimento principalmente al ciclo del progetto dal punto di vista di un soggetto esecutore.

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• obiettivi specifici e risultati attesi • azioni che di intendono intraprendere • cronogramma delle azioni

• mezzi necessari alla realizzazione: persone, attrezzature, risorse

finanzia-rie

• apporti locali

• contatti con le autorit`a locali e piani di sviluppo locali • continuit`a dell’azione dopo la conclusione dell’intervento • criteri di valutazione

• bilancio

Per organizzare le diverse fasi del ciclo in un progetto di cooperazione de-centrata, pu`o essere utile tener presente che in un progetto di questo tipo si intrecciano capacit`a e competenze diverse, che devono essere organizzate in-torno a funzioni ben definite. In primo luogo vi `e una funzione di indirizzo, che corrisponde alla fase della programmazione e che in una strategia di coo-perazione decentrata dovrebbe essere assunta dall’amministrazione pubblica, la quale si presenta come momento di coordinamento del territorio nei con-fronti del paese partner. Occorre poi tradurre le linee di indirizzo in progetti concreti, attraverso un’opportuna identificazione dei bisogni e delle proposte dei partner locali. Per la fase dell’identificazione `e necessario attivare soggetti in grado di svolgere un lavoro di analisi dei problemi sul terreno: in genere, questo ruolo pu`o essere svolto con efficacia da organizzazioni non governative, agenzie di sviluppo, centri studi presenti nel territorio, in stretto collegamento con strutture pubbliche, private o del Terzo Settore del paese con cui si col-labora. All’identificazione dei problemi e delle possibili risposte si devono af-fiancare soprattutto quando l’idea progettuale presenti una certa complessit` a-competenze specialistiche in grado di costruire proposte tecnicamente valide e

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sostenibili nel tempo. Tali competenze possono essere individuate tra gli enti che partecipano al coordinamento o al di fuori di essi. In questa fase che nel ciclo `e definita progettazione l’analisi tecnica specialistica viene poi applicata alla struttura che ogni linea di finanziamento propone per la presentazione di progetti. Questa operazione, che corrisponde alla fase della richiesta di fi-nanziamento, necessita capacit`a di scelta, sintesi e redazione che rimandano a soggetti analoghi a quelli che abbiamo indicato per l’identificazione. Nella realizzazione del progetto emerge la necessit`a di competenze tecniche ma an-che di capacit`a gestionale. Nella valutazione, infine, occorrer`a verificare, oltre all’effettiva realizzazione di quanto previsto secondo standard di qualit`a, anche la corrispondenza fra quel che si lascia sul terreno a disposizione dei beneficiari e le ragioni e le aspettative che avevano portato alla programmazione iniziale e ai problemi identificati: in questa fase gli aspetti politico-strategici e quelli tecnico-progettuali vanno entrambi considerati [3].

Un’iniziativa costruita secondo l’approccio del ciclo del progetto verr`a

va-lutata sulla base di una serie di criteri che ne misurano la qualit`a: la fattibilit`a, la pertinenza, l’efficienza, l’efficacia, l’impatto, la sostenibilit`a.

Il concetto di fattibilit`a di un progetto si riferisce alla possibilit`a che i suoi obiettivi di breve e medio termine possano essere raggiunti attraverso le atti-vit`a previste, sulla base delle condizioni del contesto locale, delle competenze dei soggetti attuatori, delle caratteristiche dei destinatari, dei rischi e delle opportunit`a esterne.

Un progetto `e pertinente se `e coerente con le priorit`a stabilite dalle auto-rit`a locali e risponde a bisogni chiaramente e consapevolmente indicati dai destinatari dell’intervento.

Un progetto `e efficace se permette, nel tempo, il verificarsi dei mutamenti strutturali desiderati.

L’efficienza riguarda invece il rapporto tra risultati concreti e risorse utilizza-te: tra due possibili soluzioni di un problema una `e considerata pi`u efficiente dell’altra se, a parit`a di risorse, ottiene maggiori risultati, oppure se raggiunge gli stessi risultati dell’altro a costi minori.

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Il grado di impatto di un progetto riguarda la sua capacit`a di introdurre cam-biamenti consistenti, stabili nel tempo, tali da provocare un sensibile miglio-ramento nelle condizioni di vita dei destinatari; si riferisce quindi alla capacit`a del progetto di risolvere in modo definitivo, attraverso gli effetti prodotti dalle diverse attivit`a, i problemi individuati.

La complessiva sostenibilit`a di un progetto `e data dalla capacit`a del conte-sto locale di riprodurre e consolidare i cambiamenti introdotti dal progetto, anche dopo l’esaurirsi dell’appoggio esterno. Perch´e un progetto sia sostenibi-le nel tempo, occorre che i risultati si fondino su basi solide; si parla quindi di sostenibilit`a culturale (i risultati ottenuti devono essere compatibili con la cultura locale), di sostenibilit`a ambientale (i risultati non portano a processi di degrado), di sostenibilit`a istituzionale (le istituzioni locali sono in grado di gestire i risultati), di sostenibilit`a sociale (i risultati non entrano in conflitto con la struttura sociale), di sostenibilit`a tecnologica (le tecnologie scelte sono compatibili con le conoscenze, le capacit`a e le risorse locali), di sostenibilit`a economico-finanziaria (i costi derivanti dalla gestione dei risultati progettuali non sono superiori alle risorse rese disponibili).

Per realizzare questi obiettivi `e necessario attuare un processo di condi-visione delle varie fasi con la comunit`a locale, per giungere a un senso di

appropriazione (ownership), cercando la strada per un partenariato reale.

Detto questo, `e bene ricordare che il progetto `e uno strumento fondamenta-le, ma resta sempre un’astrazione rispetto alle dinamiche della realt`a in cui si inserir`a e a cui si dovr`a adattare; sar`a quindi duttile e tale da consenti-re l’eventuale modifica in itineconsenti-re degli interventi, in rapporto con le possibili trasformazioni della situazione.

1.2.4

Tecnologie appropriate

Per tecnologia si intende conoscenza umana applicata alla produzione, l’insie-me di informazioni necessarie per trasformare materie pril’insie-me, semilavorati e ore di lavoro (input) in nuova produzione (output), informazioni che comprendono sia la letteratura tecnica, manuali, disegni, ecc., sia la conoscenza pratica

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ri-chiesta per utilizzare efficacemente le istruzioni (know-how). La tecnologia ha rappresentato e rappresenta un mezzo importante per risolvere e organizzare i bisogni ed i problemi della vita dell’uomo sulla Terra; come passo ulteriore, il concetto di tecnologia appropriata richiede che le scelte siano correttamente operate in relazione alla situazione ambientale, umana ed economica in cui vengono formulate.

Le tecnologie sono dette appropriate quando sono compatibili con i bisogni della realt`a per cui e con cui si formula il progetto e con le sue condizio-ni socio-economiche e culturali; devono utilizzare risorse umane, materiali ed energetiche reperibili sul posto, a costo adeguato e gestibili da parte della po-polazione, nella tutela del contesto ambientale e nell’attenzione verso i bisogni delle comunit`a locali.

Non sempre `e facile elaborare criteri per la scelta di tecnologie corrette, social-mente ed economicasocial-mente sostenibili e tali da andare incontro ai bisogni delle comunit`a locali, giungendo ad una loro autonomia nell’utilizzo delle stesse e sar`a quindi necessario valutare in dimensione problematica le tecnologie da adottare nelle singole situazioni in una prospettiva di praticabilit`a a medio e lungo termine.

L’idea di tecnologie appropriate ha origine nella concezione gandhiana di svi-luppo: la tecnologia non deve creare forme di sfruttamento degli esseri umani, n´e a livello internazionale n´e a livello nazionale, e tanto meno a livello locale, fra citt`a, campagna e villaggi. Per questo Gandhi propone tecnologie a piccola scala, sistemi cooperativi e produzioni di beni e servizi di cui gli uomini abbia-no veramente bisogabbia-no, introducendo cos`ı il concetto di tecabbia-nologia appropriata: le tecnologie impiegate saranno destinate a migliorare la qualit`a della vita sen-za perdere di vista la dignit`a dell’uomo e senza alterare l’equilibrio ecologico. Le scelte dovranno quindi prendere in considerazione tutti gli aspetti che ruo-tano attorno alla persona ed ai suoi bisogni. L’obiettivo `e quello d’arrivare a formulare scelte tecniche che mettano in primo piano gli aspetti ambientali, climatici, antropologici, sociali, economici, di disponibilit`a di materie prime e

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di energia, oltre a tener conto del livello tecnico e delle potenzialit`a formative dei destinatari [5].

I popoli che non hanno sviluppato tecnologie proprie incontrano oggettive dif-ficolt`a nell’importare ed utilizzare le tecnologie dei paesi pi`u sviluppati. Espe-rienze relative all’industrializzazione dei paesi e delle regioni emergenti mostra-no che le tecmostra-nologie proposte mostra-non sempre rispondomostra-no in maniera adeguata alle esigenze reali delle regioni e delle popolazioni: vi `e un vuoto tra gli obiettivi che si propone l’industria (minimizzazione dei costi di produzione, massimizzazione della produttivit`a) e le esigenze reali delle regioni e delle loro popolazioni. Il riconoscimento di questa distanza tra fra le esigenze di sviluppo economico e sociale di una regione e le esigenze di razionalit`a economica e organizzativa ha portato a definire il concetto di tecnologie appropriate. Va osservato che il concetto di appropriatezza non `e necessariamente riferito a paesi a livello di sviluppo molto basso: una tecnologia pu`o essere appropriata anche rispetto a una popolazione altamente progredita.

Per molti studiosi una tecnologia sarebbe appropriata solo quando risolve i grandi problemi dell’uomo, della societ`a e dell’ambiente, quali si presenta-no nelle societ`a industriali avanzate. Questa definizione non `e accettabile, in quanto la tecnologia `e un mezzo, uno strumento per raggiungere certi obiettivi, con i quali non si identifica e che non sono necessariamente quelli che si pro-pone una societ`a industriale avanzata. Viceversa, dobbiamo ritenere che una tecnologia sia appropriata quando, per effetto della sua struttura e dei rapporti che riesce a stabilire con la cultura, l’ideologia, la struttura sociale del paese in cui viene adottata, d`a origine a processi che si autosostengono e riescono a far crescere le attivit`a del sistema e la sua autonomia. In altre parole, si tratta di far aumentare la capacit`a di sopravvivenza e di sviluppo della popolazione che la adotta. Ne consegue, data la variet`a delle condizioni al contorno, che non esiste uno schema valutativo della appropriatezza di una tecnologia applicabile sempre e comunque. In un certo ambiente, un rapido sviluppo economico con-seguente alla applicazione di una nuova tecnologia pu`o avere effetti dirompenti sul tessuto sociale, quali l’abbandono delle attivit`a agricole, l’inurbamento, il

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rallentamento dei vincoli familiari. In altri casi, questo non avviene.

Nella letteratura anglosassone sono presenti due concetti: la tecnologia leg-gera (soft technology) e la tecnologia a basso costo (low cost technology). La tecnologia leggera non `e sempre identificabile con una tecnologia appropriata: il termine indica una tecnologia solitamente a basso impatto ambientale, in quanto largamente basata su procedure informatiche, certo difficilmente uti-lizzabili dagli abitanti dei paesi in via di sviluppo. La tecnologia a basso costo invece `e pi`u frequentemente una tecnologia appropriata, anche se non sempre si identifica con essa.

Le tecnologie possono essere caratterizzate attraverso una serie di fattori, come il decentramento sul territorio, l’uso delle risorse naturali, l’intensit`a di lavoro [6].

Decentramento delle attivit`a sul territorio: La valorizzazione delle risorse

uma-ne e delle risorse naturali e la tutela dell’ambiente sono maggiori, uma-nei paesi in via di sviluppo, se il lavoro si svolge in aree relativamente piccole e se il progetto `e fortemente partecipato dalla popolazione locale.

Uso delle risorse naturali: I nuovi processi produttivi devono impiegare le

ri-sorse presenti nell’area definita dal progetto senza alterare n´e inquinare l’ecosi-stema, affrontando preventivamente il problema dello smaltimento dei residui dei processi produttivi con modalit`a tali da non deteriorare il territorio; `e au-spicabile incoraggiare procedure di recupero di materia e di energia ogni volta che questo sia possibile.

Intensit`a e tipo di lavoro: In certi casi una tecnologia pu`o essere appropriata quando `e ıtechnology-intensive e richiede personale di buona qualificazione: sar`a quindi appropriata, in questo caso, rispetto ad aree nel quale `e presente una forza-lavoro a buon livello culturale. In altri casi invece per essere ap-propriata, deve essere labour-intensive, cio`e tale da determinare un utilizzo ottimale delle risorse umane locali, adeguandosi alla cultura del territorio per cui il progetto `e stato pensato.

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Nella scelta delle tecnologie da impiegare in un progetto di sviluppo sono quindi sempre da mantenere come necessario punto di riferimento la struttura dell’ecosistema in cui si vuole operare e anche la progettazione dei precedenti sistemi tecnologici costruiti dall’uomo, per quanto semplici possano essere. Le somiglianze tra questi due sistemi ambientali, quello naturale e quello tecno-logico, sono ovvie e possono essere studiate e valutate allo stesso modo, anche perch´e non bisogna dimenticare che il sistema tecnologico `e in effetti esso stes-so una parte dell’ecosistema. Lavorare in questo modo conduce alla scelta di una strategia che consente di utilizzare le tecnologie appropriate all’ambiente naturale, in cui i sistemi ambientali tecnologici (tecnosistemi) siano organizzati in modo analogo ai sistemi ambientali naturali (ecosistemi), integrandoli nella struttura e funzionamento della natura.

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1.3

Le Ande peruviane

1.3.1

Il Per`

u

Situato nella parte centro-occidentale dell’America del sud, tra i 071’ di lati-tudine nord e i 1818’ di latitudine sud, e tra i 6836’ di longitudine est e gli 8114’ di longitudine ovest, il Per`u (1.285.220 km2, 29.216.405 abitanti, capi-tale Lima) `e uno stato dell’America meridionale. Confina a nord con Ecuador e Colombia, a est con Brasile e Bolivia, a sud con il Cile, ad ovest con l’Oceano Pacifico.

Il nome, in spagnolo Per`u, in quechua e aymara Piruw, `e gi`a presente nella dizione Pir`u in una cedola reale spagnola del 1529 (Capitulacion di Toledo), con la quale Carlo V concede a Francisco Pizarro di esplorare e popolare le nuove terre scoperte, assegnando questo nome, come provincia spagnola, al caduto impero Inca. La lingua ufficiale `e lo spagnolo (castigliano). Il quechua e l’aymara, lingue indigene parlate prevalentemente nella regione andina, so-no ricoso-nosciute localmente come ufficiali dove il loro utilizzo `e effettivamente prevalente

Il Per`u precolombiano

Per ricostruire la storia del Per`u precolombiano [19], si fa ricorso a testimo-nianze dirette e indirette, date dai cronisti spagnoli delle Indie nei secoli XVI e XVII, come Cieza de Le`on (1550), Juan de Betanzos (1551), Pedro Pizarro (fratello di Francisco Pizarro, 1571), Carlos de Molina (1584), i due scrittori indo-spagnoli Blas Valera (1595) e Garcilaso de la Vega (fine XVI sec.) [13], dai monumenti archeologici, in parte tuttora in Per`u, in parte dispersi nel resto del mondo, spesso in raccolte private e quindi inaccessibili, dai resti scheletrici che consentono un esame antropologico, da elementi etnografici che possono condurre ad una almeno approssimativa ricostruzione delle culture [28].

L’impero teocratico degli Incas. All’inizio della conquista spagnola, la

regione era in una situazione di unit`a politica, costituita dal grande impero Inca, Tahuantinsuyu (i quattro cantoni, o province: settentrionale,

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occidenta-le, orientaoccidenta-le, meridionale); capoluogo dei quattro quadranti era Cuzco, in cui era insediata una dinastia dominante di tipo vassallatico, con un potere non omogeneo, dato l’estendersi del controllo in momenti diversi e su popolazioni differenti per razza e civilt`a. Proprio da Cuzco inizi`o l’espansione degli Incas: secondo la tradizione la famiglia dinastica dominante era chiamata Orejones, grandi orecchi, per l’orecchia allungata ad arte perforandola [14]. Lo stato degli Incas comprendeva un territorio vastissimo, corrispondente agli attuali Ecua-dor, Per`u, Bolivia, settentrione del Cile e nord-ovest dell’Argentina. La storia dinastica degli Inca, data dalla successione di dodici sovrani, si distingue in due grandi periodi: il primo viene in maniera ricorrente definito dall’appellativo Sinchi (probabilmente dal significato di capo militare, analogo al latino dicta-tor) accostato ai nomi dei primo quattro sovrani, mentre poi prevale l’epiteto Inca, dal probabile significato di autorit`a civile, a vita [18]. La tradizione mo-stra la famiglia dinastica come una minoranza aristocratica di origine divina, che comanda in una prospettiva di provvidenzialismo, legata a origini mitiche che potrebbero anche essere rimaneggiamento tardivo, nato quando il potere era gi`a da tempo consolidato; per quanto riguarda la religione, gli Inca trasfor-marono profondamente, in una prospettiva unificante, le precedenti credenze nella huaca (luogo sacro) di ciascun ayllu (comunit`a di villaggio), portando ad una sostanziale eliolatria; tuttavia, anche se l’espansione del culto del sole fu opera dell’Inca, i culti precedenti non scomparvero del tutto: si veneravano il serpente, il condor, il puma, le pietre e l’acqua di fiumi e laghi come progenitori della razza umana [20]. Da notare per`o che le nostre fonti rinviano all’ultimo periodo precedente il dominio spagnolo e ad una lettura della storia passata che potrebbe muovere da un errore di prospettiva; dobbiamo quindi riferirci anche e soprattutto a fattori che possano ricostruire il modo di vivere, la dimensione antropologica, la gestione della cosa pubblica attraverso fattori meno legati ad una interpretazione voluta [27]. Rilevante in questa dimensione pu`o essere la cultura materiale: muovendo sempre dal fatto che le testimonianze ci riporta-no all’ultima fase della storia incaica precedente la presenza spagriporta-nola, quando furono raccontate dalle parole dei cronisti, possiamo tuttavia individuare una

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struttura sociale complessa, forme di vita civile e politica attentamente or-ganizzate, come viene attestato da palazzi e fortezze ben costruiti in pietra lavorata, a secco o legata con malte, dalla presenza di manufatti dell’industria tessile, di ceramiche e prodotti della metallurgia. Mancavano totalmente al-cuni momenti importanti in campo tecnico: l’uso del tornio, il ferro, la ruota (questo fattore, unito alla mancanza di animali da trasporto validi, rese ine-sistente qualsiasi veicolo), la scrittura. Esisteva tuttavia un efficiente sistema amministrativo (quipu) che consentiva di tenere un registri di beni e persone, memorizzato su cordicelle annodate [17]. Si praticavano sacrifici umani e si usavano come ornamento parti umane. La conquista della dinastia di Cuzco port`o alla prevalenza della lingua quechua sulle altre precedentemente esisten-ti, di cui la pi`u estesa era la lingua del Collao, lingua colla, impropriamente detta aymar`a. La popolazione dell’impero Inca, secondo il censimento indetto da Francisco de Toledo (1569-1581) era di 11.000.000 persone, di cui 40.000 circa a Cuzco e 200.000 nella regione circostante; di questi solo ventimila o trentamila appartenevano alla classe privilegiata degli Orejones. L’economia era agricola, di un tipo di agricoltura raffinata, non tanto per gli strumenti, esclusivamente di legno, quanto per un sistema di irrigazione artificiale costi-tuito di canali e terrazzamenti (andenes), indice di un’agricoltura intensiva. Prodotti principali i fagioli, i peperoni, la quinoa (un cereale), la patata e il granturco, a lungo base dell’alimentazione. L’allevamento di animali domestici era fondato in prevalenza, oltre che su alcune specie di gallinacei, su lama e vigogne, per la lana e la carne e, per i lama, anche per il trasporto di piccole some. Le abitazioni era di tre tipi: le capanne di piccole dimensioni, di canne e ciottoli sovrapposti a secco (pirca), o di mattoni cotti al sole (adobe) e canne, oppure le case di adobe e pietra della classe dirigente, spesso a due piani e con terrazza, oppure gli edifici istituzionali, come santuari e fortezze, spesso di dimensioni rilevanti. I vestiti erano semplici: una tunica e un poncho sovrap-posto per gli uomini, una tunica e uno scialle per le donne; per fissare le varie parti del vestiario si usavano spilloni; le calzature erano costituite da sandali di varie forme. Le armi erano date da mazze di legno spesso con un’estremit`a

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di pietra e bronzo a sei o otto punte, da fionde e archi e dal propulsore, una macchina per lanciare pietre e frecce. Usavano l’oro e l’argento per ornamen-ti personali e oggetornamen-ti di culto, come vasi, statuette, coltelli rituali; i tessuornamen-ti, di cotone, agave e lana, venivano fabbricati con telai fissati orizzontalmente sul terreno e tinti con colori resistentissimi, di origine vegetale e animale [15]. Base della societ`a era, ed `e rimasto, l’ayllu, che per semplificazione possiamo definire comunit`a di villaggio, ma che ha in realt`a valori e significati molto pi`u complessi: inizialmente un gruppo gentilizio indicato con il nome del pro-genitore, poi un entit`a sociale formata da un centinaio di famiglie, secondo uno schema amministrativo applicato nello stato Inca, con centro Cuzco; la terra utilizzabile da parte di ogni singola comunit`a restava giuridicamente di propriet`a della dinastia Inca, divisa per`o quanto alla produttivit`a in tre parti, una destinata ai sacerdoti, una all’Inca e alla burocrazia, una al villaggio. Il sistema amministrativo funzionava in assenza di moneta, sulla base del prelie-vo di materie prime e prodotti derivanti dal laprelie-voro delle comunit`a di villaggio e della prestazione obbligatoria di lavoro: tutti, tranne funzionari e sacerdoti, erano tenuti a lavorare la terra e il lavoro aveva un significato onorifico.

La conquista spagnola. Nel 1532 lo spagnolo Francisco Pizarro sbarc`o in Per`u con il mandato di alguacil major e adelandato sulle terre eventualmente conquistate alla corona di Spagna e riusc`ı a sottomettere l’impero incaico, in-debolito a causa di una guerra intestina tra Hu´ascar e Atahualpa, i due fratelli pretendenti al dominio dell’impero, che ebbe termine con la cattura di Ata-hualpa. Nel 1535 Pizarro fond`o la capitale peruviana di Ciudad de los Reyes (Citt`a dei re, odierna Lima); a Ciudad de los Reyes nel 1551 venne fondata la prima universit`a del continente sudamericano, la Universidad Nacional Mayor de San Marcos. Annientata la relativamente debole opposizione di alcuni ge-nerali incas ed estinta la dinastia inca con la morte dell’ultimo discendente, Tupac Amaru, che aveva cercato di mantenere una parvenza di regno nella par-te pi`u selvaggia della zona andina, inizi`o il dominio spagnolo che, sul territorio dell’antico Impero incaico, instaur`o il Vicereame pi`u potente della Spagna in oltremare. Nel 1542 un editto imperiale spagnolo promulg`o le cosiddette Leyes

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