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Terapia del dolore e cure palliative

Un principio diverso da quello dell’accanimento terapeutico è quello su cui si fonda la terapia del dolore e le “cure” palliative. La medicina palliativa non mira alla cura eziologica della patologia ma mira a rendere sopportabile la sofferenza anche psicofisica, legata alle fasi conclusive di una patologia cronica e/o terminale. Quindi non consiste soltanto della terapia del dolore, attuata somministrando sostanze che eliminano la sofferenza fisica del paziente (soprattutto oppiacei come la morfina). Secondo la definizione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità

(OMS), “la medicina palliativa si occupa in maniera attiva e totale dei pazienti colpiti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e la cui diretta evoluzione è la morte”.

Gli obiettivi delle cure palliative sono:

 affermare il valore della vita, considerando la morte come un evento naturale.

 non prolungare né abbreviare l'esistenza del malato  provvedere al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi  considerare anche gli aspetti psicologici e spirituali

 offrire un sistema di supporto per aiutare il paziente a vivere il più attivamente possibile sino al decesso.

 aiutare la famiglia dell'ammalato a convivere con la malattia e poi con il lutto.

I cosiddetti hospices53 sono centri dedicati alla terapia del dolore e

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53 La dottoressa Cicely Saunders per prima concepì gli Hospices come luogo e

alle cure palliative per pazienti terminali, anche se è possibile anche un trattamento palliativo domiciliare.

Questo tipo di medicina, dunque, non è solo una semplice cura medica, ma può favorire un percorso di riconciliazione e pacificazione rispetto alla vita del malato e delle persone che gli stanno attorno.

Obiettivo principale delle cure palliative è dare senso e dignità alla vita del malato fino alla fine, alleviando prima di tutto il suo dolore, e aiutandolo con i supporti non di ambito strettamente medico che sono altrettanto necessari, come si evince dalla precedente definizione. La materia delle cure palliative e della terapia del dolore assume rilevanza giuridica in ragione del fatto che una pretesa in capo al malato della somministrazione di tali cure, specie quelle relative alla terapia del dolore consistente nella somministrazione di oppiacei, verso i quali si ha un effetto di graduale assuefazione con conseguente necessità di dosi sempre più elevate che accelerano l’evoluzione verso la morte, è pur sempre riconducibile ad un’ipotesi di eutanasia che viene qualificata come “eutanasia indiretta”. La sottile linea di distinzione tra eutanasia diretta ed indiretta che potrebbe indurre il legislatore a qualificare quest’ultima come condotta non penalmente sanzionabile e anzi lecita tutelando cioè la posizione giuridica del malato come diritto ad avere tali cure, è da ricercare nella valutazione dell’azione medica che seppur non direttamente finalizzata a provocare la morte del paziente ha come conseguenza negativa prevedibile una sua accelerazione.

Capitolo II

Uno sguardo al panorama comparatistico della regolamentazione del fine vita.

2.1 Introduzione

La vita dell'uomo, piena di relazioni con il mondo esterno, è un bene che il diritto tende a tutelare e garantire in ogni sua fase. La problematicità della regolamentazione della fase finale della vita, come si è detto, sorge solo dopo la seconda metà del XX secolo, quando, a seguito degli sviluppi di una medicina capace di prolungare artificialmente la vita biologica di malati terminali, si mise in dubbio la validità della tesi che la vita biologica è sempre buona e la morte invece è sempre un male. Su questa tesi aveva prosperato la dottrina del “vitalismo medico” che imponeva al medico, quale garante della salute del malato, di fare tutto il possibile per prolungare la vita del paziente e ritardarne la morte: la vita, anche nella fase terminale, può essere pur sempre densa di contenuti positivi da poter esprimere. I mezzi straordinari, di cui la medicina oggi dispone per differire anche per lungo tempo il momento della morte, non sempre si accompagnano però ad un benessere psico-fisico del malato, anzi spesso egli vive una condizione di estremo dolore e di incapacità a relazionarsi con il mondo esterno. Il merito della bioetica è di aver posto la questione dell' "umanizzazione della morte'': evitare l'accanimento terapeutico lasciando che la natura faccia il suo corso e contemporaneamente aiutare il malato, con le cure palliative, ad affrontare la fase terminale della vita, senza ritardare ma neppure

accelerare il progredire naturale della sua condizione verso la morte. Esiste infatti una differenza notevole tra il dolore entro la vita ed il dolore del malato terminale. Se nel primo caso esso ha un senso ed un'utilità essendovi una speranza di compensare tale sofferenza con un ritorno alla vita, nella situazione del malato terminale il prolungamento del dolore rappresenta invece un'inutile tortura che lo costringe a vivere una condizione infernale peggiore della morte. Tale riflessione ha condotto a dare sempre maggior rilievo all'autodeterminazione terapeutica del paziente, anche in relazione alle situazioni di fine-vita. Si tratta di un’evoluzione riscontrabile in diversi Paesi e anche sul piano sovranazionale.

La problematicità maggiore ha riguardato alcune soluzioni giudiziarie in cui si è voluto estendere anche al paziente incapace il diritto al rifiuto o all'interruzione di cure pur se da ciò dovesse conseguire la morte e addirittura in assenza di un living will. Una giurisprudenza delle Corti Supreme, dunque, molto criticata da chi è contrario a dare valore vincolante alle scelte del paziente in ambito terapeutico, in quanto si sostiene che si incorra in un grave errore ritenendolo sempre perfettamente in grado di scelte lucide e libere.

«l'analogia con il suicidio costituisce il punto di forza e insieme la modernità delle nuove rivendicazioni eutanasiche. […] Nell’eutanasia propria entra in gioco la volontà di riappropriarsi della morte, prevedendola, gestendola razionalmente, […]l’eutanasia acquista così la valenza di un ‘suicidio razionale’»54.

Il fatto che il suicidio in molti ordinamenti non sia perseguito distoglie l'attenzione dal fatto che riconoscere un diritto all'autodeterminazione terapeutica, senza alcun limite e cautela, in realtà equivale spesso a legittimare di fatto atti eutanasici.

Proprio in seguito al verificarsi di alcuni casi giudiziari al limite dell'eutanasia, molti ordinamenti hanno disciplinato le questioni di fine vita, attribuendo all'autodeterminazione del paziente spazi anche molto ampi: l'eutanasia e il suicidio assistito sono oggi ammessi, a certe condizioni, in alcuni Paesi. Una visione comparatistica sarà dunque utile a rispondere anche alla domanda sull'esistenza di un "diritto di morire" negli odierni ordinamenti della tradizione giuridica occidentale che già hanno legiferato in materia di fine vita.

2.2 La regolamentazione del fine-vita, tra modelli teorici e

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