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La tutela dell'origine geografica del prodotto

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Academic year: 2021

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Indice:

Introduzione

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Capitolo I

Il marchio geografico

1-Tutela dell'origine geografica di un prodotto 8

2-Nozione di marchio individuale, funzione e requisiti di validità 10

2.1- Il marchio europeo 17

3- Il marchio collettivo 22

3.1 - Funzione e requisiti di validità 24

3.2 - Titolarità e utilizzo del marchio 27

3.3 - Istituti “limitrofi”. Problematiche relative all’uso del marchio 32

3.4 - Marchio collettivo geografico 35

4 -Marchio di qualità 38

Capitolo II

Sistemi di protezione internazionali e comunitari

1 - Convenzione di Unione di Parigi 40

1.1 - Accordo di Madrid 42

1.2 - Convenzione di Stresa 44

1.3 - Accordo di Lisbona 45

1.4 - L’Accordo TRIPs 47

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2 - L’informazione sull’origine dei prodotti nella disciplina comunitaria 52

2.1 -Regolamento (UE) n. 1151/2012 denominazione d’origine protetta (DOP) e indicazione geografica protetta (IGP) 64

2.2 - Specialità tradizionale garantita (STG) e indicazioni facoltative di qualità (IFQ) 69

3 - La disciplina nazionale 72

4 - Rapporto fra le denominazioni comunitarie e gli altri istituti 74

5 - Disciplina dei vini e delle bevande spiritose 79

CAPITOLO III

La disciplina della contraffazione del marchio e la tutela del

“made in Italy”

1 - Contraffazione dei marchi 82

2 - Tutela penale della proprietà industriale 90

2.1 - Tutela del made in Italy 96

2.2 - L’indicazione fallace 106

2.3- Osservazioni critiche e nuove modifiche normative 110

3- La contraffazione su internet 118

4 - Interventi dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato 123

5 - Osservazioni conclusive 130

Indice bibliografico

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Introduzione

In un sistema di mercato sempre più globalizzato e caratterizzato da un grande sviluppo dell’e-commerce si fa sentire maggiormente l’esigenza di tutela dell’identificazione delle imprese e dei prodotti da essi offerti, in un’ottica di tutela di interessi contrastanti, riconducibili ai diversi attori che operano nel mercato, i quali sono tutti necessari per una corretta competizione nel libero mercato.

Il consumatore, non potendo conoscere la qualità del prodotto prima del suo consumo, deve poter avere un’informazione quanto più ampia ed esaustiva del bene che si trova ad acquistare, che nel caso di transazioni ripetute nel tempo, possa orientarne le scelte future, eliminando, o comunque riducendo, i costi che dovrebbe altrimenti sopportare per ottenere e valutare le informazioni necessarie all'individuazione dei beni più idonei a soddisfare i propri bisogni (c.d. « costi di ricerca»).

Il produttore, invece, deve poter contare sul fatto che nessuno si appropri ingiustamente della notorietà che il suo prodotto ha raggiunto,1 magari dopo anni di sforzi pubblicitari e di ricerca. Il suo interesse sarà quello di differenziare i propri prodotti da quelli dei concorrenti in modo da promuovere fenomeni di fidelizzazione della clientela che gli permettano di raggiungere migliori posizioni di mercato.

Inoltre, vi è un interesse all’accrescimento del benessere collettivo che sarà garantito qualora l’ordinamento miri a incentivare l’efficienza e il miglioramento qualitativo dei prodotti, in particolar modo in un sistema di mercato dove il rapporto fra produttori e consumatori è caratterizzato da una forte asimmetria informativa.

1In economia questo comportamento è definito free rider, intendendo un soggetto che consuma

una risorsa senza contribuire al mantenimento della risorsa stessa. Spesso si fa l’esempio di chi gode di un bene pubblico senza contribuire pagando la propria quota dei costi. In T.COWEN e A.TABARROK, Principi di economia, capire il mondo in un approccio moderno, 262 ss.

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L’obiettivo a cui aspirano i segni distintivi d’impresa è quello appunto di permettere che ogni imprenditore sia ben individuato nel mercato e possa essere distinto dagli altri. Tradizionalmente ne vengono riconosciuti tre: ditta, insegna e marchio2. È proprio quest’ultimo che, tuttavia, ha sempre avuto un valore preminente, essendo il segno che viene apposto sul prodotto stesso e che quindi carpisce meglio l’attenzione del consumatore.

Oltre alle esigenze sopraelencate se ne è aggiunta una nuova: quella della tutela dell’origine3 dei prodotti, che avendo spesso lo scopo di garantire qualità e

caratteristiche dei prodotti, rappresenta uno strumento di concorrenza alternativo rispetto al prezzo, soprattutto perché spesso determinate qualità di prodotti sono dovute a fattori naturali e umani legate a specifiche località geografiche.

In primis questa esigenza è fortemente percepita nel mercato agroalimentare, dove

accanto agli interessi sopradetti, se ne affiancano molti altri che riguardano la collettività, come quello della garanzia della sicurezza e dell'igiene del traffico dei prodotti, della salvaguardia della salute del pubblico dei consumatori, della tutela dell'ambiente e del paesaggio, fino alla conservazione delle tradizioni culturali connesse a specifiche forme di produzione radicate in sede locale.4

Necessaria è dunque una preliminare osservazione, perché se tradizionalmente il legislatore attribuisce particolare protezione e privilegi a coloro che ottengono risultati meritevoli di tutela giuridica si può pensare che si possa fare lo stesso anche in relazione a un nome geografico e potremmo chiederci se ciò possa avvenire qualora il toponimo sia inserito all’interno di un marchio. C’è chi in dottrina5 osserva come un nome geografico sia attribuito ad un prodotto non

2Ne esistono anche altri come per esempio il domain name, ma i tre citati sono anche quelli che

sono presi in considerazione dal legislatore del codice civile.

3In C.GALLI, Globalizzazione dell’economia e tutela delle denominazioni di origine dei prodotti

agroalimentari, in Riv. dir. indu, 2004, 60 ss., “in un epoca nella quale, come è stato efficacemente

scritto la globalizzazione dell’economia non si traduce soltanto in globalizzazione dei mercati, ma anche in globalizzazione dei fattori produttivi, e quindi in una deterritorializzazione - oltre che in una de materializzazione - dell’economia, i prodotti tipici i fondano invece su un elemento di localizzazione forte, sul quale le denominazioni che denotano l’origine di questi prodotti pongono l’accento” .

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conosciuto come tipico ab origine, ma che potrebbe divenire tale in un secondo momento: in questo caso, se l’ordinamento giuridico volesse attribuire una posizione di privilegio al produttore, potremmo considerare ciò come equa ricompensa per gli sforzi fatti per rendere tipico il prodotto, ma contemporaneamente potremmo ritenerla del tutto ingiustificata, e produttiva di una sorta di “rendita di posizione” che vada a limitare fortemente la concorrenza degli altri produttori che operano in quel territorio. Ben si ricorda come il diritto industriale sia avverso all’attribuzione di vantaggi perpetui legati all’innovazione e quindi si comprende come non sia facile trovare una soluzione che ben soddisfi entrambe le posizioni.

La trattazione che segue mira a riflettere se il marchio possa essere considerato ancora idoneo a salvaguardare queste molteplici e contrapposte esigenze o se siano preferibili i nuovi istituti introdotti dal legislatore comunitario. In particolar modo, si vedranno tipologie diverse di marchio, e se e a quali condizioni si permetta all’interno di esso che vi sia l’indicazione di un toponimo. Successivamente, l’attenzione cadrà su strumenti introdotti dal legislatore comunitario, diversi per natura, per struttura e funzione dal marchio, chiaro segnale che già fa presumere come tale strumento non sia di per sé pienamente sufficiente.

È necessario osservare preliminarmente le ragioni che hanno spinto il legislatore europeo a intervenire in questo ambito. La questione è piuttosto semplice dato che se, da un lato, l’esaustiva informazione su di un prodotto svolge una funzione pro-concorrenziale, allo stesso tempo potrebbe influire negativamente sugli scambi commerciali, qualora causasse un’eccessiva frammentazione legislativa fra gli Stati che operano nel medesimo mercato.

Questo è un problema che da tempo si sono poste le istituzioni europee, che hanno riconosciuto come diverse discipline relative all’informazione sui prodotti possa provocare un effetto restrittivo alla libera circolazione dei prodotti all’interno del mercato unico e che ha risolto la Corte di giustizia dell’Unione europea con la storica sentenza del 20 febbraio del 1979 nella causa 120/79,

5M. LIBERTINI,Indicazioni geografiche e segni distintivi, in Riv.dir. comm., 1996, I, 1031 ss.

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Cassis de Djion6, in cui si è applicato il principio del mutuo riconoscimento da parte degli stati aderenti, che non avessero armonizzato le loro normative.

Questo principio è stato poi attenuato da parte della stessa Corte, che ha voluto evitare che esso comportasse una competizione non virtuosa da parte degli Stati e che li spingesse a introdurre regole giuridiche particolarmente permissive, che incentivasse la produzione nel proprio territorio ma che contemporaneamente ne provocasse un forte peggioramento qualitativo (race to the bottom).

Il primo temperamento di tale principio si è avuto nella causa 289/87 del 14 luglio 1987, nella causa Smanor, che ha stabilito come non sia possibile che si applichi tale principio qualora possa generare effetti distorsivi e che non si possa giustificare l’utilizzo di denominazioni che non siano tra di loro molto diverse e che possono generare un pericolo di inganno del consumatore7.

Questa è dunque la problematica a cui il legislatore europeo si è trovato di fronte, quello di trovare soluzioni unitarie rispetto alle varie soluzioni nazionali non armonizzate, nonostante le numerose direttive avessero cercato di incentivare ciò e che lo ha portato a introdurre istituti nuovi che andassero a affiancare, se non a sostituire quelli nazionali. Poiché questi sono strumenti con caratteristiche e presupposti diversi si cercherà, per ognuno di essi, di metter in luce i reciproci rapporti e gli eventuali contrasti. Infine, si arriverà a riflettere se questa disciplina sia soddisfacente o se si debba eventualmente pensare a soluzioni migliori.

La terza e ultima parte di questo elaborato terminerà con la descrizione della disciplina della contraffazione sia del marchio che delle Indicazioni Geografiche e Denominazioni d’Origine. La contraffazione è senza dubbio un fenomeno antichissimo, ma che negli ultimi decenni, è andato ad aggravandosi, generando danni sempre maggiori al sistema economico.

6La causa riguardava un liquore francese e si discuteva se potesse essere lecitamente importato in

Germania e commercializzato con la denominazione “liquore” pur avendo una gradazione alcoolica inferiore a quella minima (20°) fissata dalla legge tedesca per la messa in commercio di “liquori”.

7Si veda M. LIBERTINI, in L’informazione sull’origine dei prodotti nella disciplina comunitaria,

in Riv. dir. Indu., 2010,VI, 289 ss. L’autore osserva che “l’indicazione geografica non veritiera può essere indifferente per una serie di consumatori completamente ignoranti del valore semantico di una certa parola, ma può ben essere rilevante per un gruppo di consumatori più istruiti, che dalla indicazione possono essere in vario modo attratti”.

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Verrà in particolare analizzata la questione relativa alla tutela del “made in” che risulta essere una problematica di estrema attualità, in particolar modo in un paese come l’Italia che essendo ricco di produzioni tipiche tradizionali ha forte interesse che esse siano tutelate. Infine ci si domanderà se sia possibile considerare efficaci i rimedi che sono attualmente previsti per far fronte a questo fenomeno o se invece siano prospettabili soluzioni migliori.

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Capitolo I

Il marchio geografico

Sommario:1-Tutela dell'origine geografica di un prodotto. 2-Nozione di marchio individuale, funzione e requisiti di validità. 2.1- Il marchio europeo. 3 -Il marchio collettivo. 3.1-Funzione e requisiti di validità. 3.2-Titolarità e utilizzo del marchio. 3.3-Istituti “limitrofi”. Problematiche relative all’uso del marchio. 3.4 -Marchio collettivo geografico 4 -Marchio di qualità.

1 -Tutela dell'origine geografica di un prodotto

Quando si utilizza il termine prodotto tipico si fa riferimento a un prodotto caratterizzato da qualità invariabili o che in ogni caso tendono a rimanere costanti nel tempo. Nella maggior parte dei casi queste caratteristiche presuppongono un legame con il territorio e per fare riferimento a questo si utilizza il termine “milieu

gèographique”. Esso è stato coniato evidentemente in Francia e non trova una

speculare traduzione nella lingua italiana se non quella di “ambiente”.

La tipicità può derivare da fattori ambientali che possono condizionare fortemente la produzione, basti pensare come la morfologia geologica di un terreno, il microclima, le correnti d’aria o l’acqua che scorre in quel territorio possano incidere sulle qualità di un prodotto (si ricordi come un vitigno come il Nebbiolo possa nelle terre piemontesi dare alla luce il Barolo, che ha caratteristiche del tutto diverse dal vino che deriva sempre del vitigno Nebbiolo ma sia stato prodotto nella Napa Valley in America). Inoltre, possono esservi fattori umani atti a influenzare le caratteristiche di un bene, si pensi all’importanza delle tecniche di lavorazione consolidate e la formazione di manodopera specializzata, il cd.

know-how (un possibile esempio è quello del vetro di Murano).

Tipico quindi è sia il prodotto reso tale dalla natura, sia quello che ha subito una lavorazione caratterizzante da parte dell’uomo.

Quando il prodotto segnala la propria origine geografica, genera verso il mercato una “promessa indiretta” riguardo le proprietà del bene e qualora non ci sia corrispondenza fra le qualità presunte e quelle invece effettivamente presenti

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potremmo parlare di “agropirateria”, fenomeno diffuso e assai temuto in particolar modo dai paesi europei che hanno tradizioni gastronomiche fortemente radicate.

Si pensi come solo indicando località come Avana, Chianti, Champagne, Porto, venga in mente ad ognuno un prodotto ben determinato e caratterizzato da particolari qualità. È, quindi, incontestabile come l’indicazione dell’appartenenza ad un territorio abbia un valore commerciale capace di attribuire un quid pluris rispetto alle produzioni che ne sono prive, garantendo una maggiore forza concorrenziale rispetto a prodotti omogenei o sostituibili.

Può accadere che non sia neanche necessario nominare direttamente la località di provenienza, ma che basti un’indicazione indiretta della tipicità dello stesso. Questo accade quando non c’è un riferimento esplicito alla località di origine, ma quando dal tipo di confezionamento, dagli strumenti di promozione e dalla pubblicità se ne presuma l’origine grazie all’utilizzo di elementi simbolici tipici e

folkloristici di una tradizione locale1.

È necessario quindi che sia predisposta una protezione dei prodotti tipici soprattutto quando la “designazione geografica esprima o anche solo suggerisca, qualità tipiche dovute alla localizzazione della provenienza o ai metodi tradizionale di produzione2” affinché non si creino situazioni di ingiustificato privilegio fra i produttori di un medesimo bene o si generi un illegittimo affidamento da parte del consumatore.

1Il caso “Feta” è sicuramente emblematico, perché ha visto la Corte di Giustizia cambiare

completamente opinione riguardo la tutela della denominazione feta nell’ordinamento comunitario. Infatti il 16 marzo 1999 la corte si era pronunciata negando la tutela e il successivo regolamento n.1070/ 1999 ne ha dato esecuzione eliminando la denominazione feta dal registro comunitario. Mentre il 25 ottobre del 2005 la Corte ha riconosciuto la legittimità della registrazione, escludendo il carattere generico del nome, dando quindi un interpretazione meno restrittiva dell’art. 3 del regolamento 2081/92, come invece veniva sostenuto da altri stati come la Danimarca, la Germania, Francia e Regno unito. La Corte nella sua seconda pronuncia osserva come il legame fra la denominazione feta e il territorio ellenico veniva suggerito in maniera più o meno esplicita nelle etichette dei produttori di formaggio, attraverso appunto l’utilizzo di colori, bandiere o segni riecheggianti il territorio greco, con un reale rischio di confusione nel consumatore. Si veda C. BENATTI Il revirement della Corte di Giustizia sul caso “Feta”in

Riv.dir. agra.2006 II,110 ss.

2Esaustiva è l’analisi fatta sulla questione da E. LOFFREDO, Profili giuridici della tutela delle

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2-Nozione di marchio individuale, funzione e requisiti di validità

3 L’importanza del marchio è tale da aver una disciplina multilivello, sia nazionale, comunitaria e internazionale. Partendo da quella nazionale si può vedere come sia il legislatore del codice civile all’art. 25694-2574, sia quello del Codice di

proprietà industriale (d’ora in avanti c.p.i, D.Lgs 10/02/2005 n. 30, che ha

sostituito la disciplina del r.d. 21/06/1942 n.929 “legge marchi”) all’art. 75, si preoccupano di disciplinare e definire il marchio.

Dalla lettura di entrambi emerge subito come il legislatore riconosca che laddove vi sia capacità distintiva, ex art. 7 Codice proprietà industriale (si utilizza emblematicamente “atti a distinguere”), si riconosce un diritto di esclusiva, che comporta che vi sarà violazione del diritto di marchio qualora questo venga usato da terzi senza che il titolare abbia autorizzato tale utilizzo. Detta protezione trova spazio anche nell’ambito degli atti di concorrenza sleale, all’interno degli atti confusori, ovvero atti idonei a generare confusione nel consumatore, come quelli dell’art. 25986,1), per evitare che si realizzi una tendenza parassitaria e di

agganciamento.

Il marchio racchiude in sé due funzioni distinte7: della prima si è già detto, ovvero la capacità distintiva, che è la funzione che più interessa i giuristi, e che consente

3Per un’attenta analisi, G. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, diritto dell’impresa,172 ss. e

A.VANZETTI e V. DI CATALDO, Manuale di Diritto Industriale, 149 ss.

4Art. 2569. Chi ha registrato nelle forme stabilite della legge un nuovo marchio idoneo a

distinguere prodotti o servizi ha diritto di valersene in modo esclusivo per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato.

In mancanza di registrazione, il marchio è tutelato a norma dell’articolo 2571.

5Art. 7. Possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese.

6“Usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi

legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti del concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente “

7 Per un esame più completo rinvio a C. GALLI, Funzione del marchio e ampiezza della tutela,

1996, “l’esame sin qui svolto ci ha infatti permesso di verificare, per così dire sul campo che il marchio opera essenzialmente come uno strumento di comunicazione, ovvero è il veicolo per

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al pubblico dei consumatori di distinguere prodotti da altri dello stesso genere, mentre la seconda è quella di garanzia di costanza qualitativa, ed è la funzione che più interessa gli economisti, perché una volta che un imprenditore avrà ottenuto un certo accreditamento legato a quel marchio, sarà il marchio stesso a stimolare l’imprenditore a non abbassare il proprio standard qualitativo per non perdere il cliente ormai fidelizzato.

Più discusso è se possa avere anche un'altra funzione, che era sicuramente riconosciuta con l’originale legge marchi, quella dell’indicazione di provenienza8.

Sarebbe logico pensare che il marchio abbia anche questa funzione laddove si pensasse a un marchio legato indissolubilmente a un’impresa per tutta la sua vita commerciale, ma ciò è venuto meno con l’attuale disciplina che permette la cessione del marchio, che ha di per sé un suo valore economico, anche separatamente dall’azienda, purché ne venga data conoscenza al mercato.9

È possibile che su un uno stesso prodotto vi siano apposti più marchi, e ciò dipende dal tipo di messaggio che ciascun marchio vuole trasmettere potendo così distinguere fra marchi speciali e quelli generali. Ed esso può essere riferito sia a un bene che a un servizio.

Il marchio, per essere valido, deve essere dotato dei requisiti di liceità, novità, verità e originalità . Per essere lecito il marchio non deve contenere segni contrari

trasmettere un messaggio e che le diverse funzioni che il marchio può, in linea di fatto, assolvere, corrispondono alle diverse possibili componenti di tale messaggio”

8In C. GALLI, “tale espressione, al contrario, significava che la presenza di un determinato

marchio su di un prodotto informava il consumatore del fatto che quel prodotto proveniva dal medesimo nucleo aziendale “caratterizzante” ovvero dal medesimo imprenditore da cui era stato realizzato il prodotto recante lo stesso marchio che egli aveva acquistato in passato. Il “messaggio” che in tal modo il marchio comunicava non aveva dunque riguardo all’identità del soggetto da cui avevano origine i prodotti o i servizi per i quali quel marchio era usato, bensì concerneva il fatto che tutti i prodotti o i servizi in questione provenissero da una medesima fonte imprenditoriale costante nel tempo.”

9 P. FRASSI, Lo statuto di non decettività del marchio tra diritto interno, diritto comunitario ed

alla luce della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, inRiv. dir. ind. 2009, I, pag. 29

ss. L’autrice usa il termine statuto di non decettività da intendersi come corretta informazione del consumatore, che identifichi un nuovo equilibrio fra il consumatore e i titolari del marchio, poiché si può permettere la cessione del marchio, senza la cessione dell’azienda solo a condizione che si comunichi in modo appropriato questo, in modo tale che il consumatore sia edotto del fatto che chi utilizzerà d’ora in avanti quel marchio non utilizzi l’azienda del precedente titolare, sottintendendo dunque che non dovrà presupporre alcun equivalente valore qualitativo.

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alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume, stemmi o segni protetti da convenzioni internazionali, senza l’autorizzazione dell’Autorità competente, segni lesivi di un altrui diritto d’autore o di proprietà industriale. Mentre particolare e diversa disciplina si ha nel caso dell’uso del nome altrui, o dell’immagine altrui, poiché si distingue tra nome o immagine notoria o meno.

Per essere nuovo ex art. 12 c.p.i, il marchio non deve essere identico o simile a un altro precedentemente utilizzato da un concorrente su un prodotto identico o affine. Qui si distingue fra marchio celebre10, che gode di tutela

extra-merceologica, quindi anche al di là del prodotto identico o affine, perché si avrebbe in ogni caso un agganciamento alla notorietà di esso, e marchio non celebre, la cui difesa è solo limitata al settore merceologico di riferimento. Questa valutazione sulla la novità del marchio è stata articolata dalla giurisprudenza in tre fasi11: in primis si va a vedere se c’è identità o somiglianza a livello visivo fra i due segni, qualora questo passaggio non produca un risultato certo si va a vedere se un’analisi di tipo fonetico possa essere risolutiva. Infine, se anche questo passaggio risulta non soddisfacente, si procede a una valutazione logico-concettuale.

Per quanto riguarda gli altri due requisiti si deve fare una particolare attenzione, con riguardo all’obiettivo che ci siamo posti in origine, ovvero di vedere se il marchio garantisca tutela all’origine geografica del prodotto.

10In passato si parlava anche di marchio super-notorio o di alta rinomanza. Secondo C. GALLI,

Funzione del marchio e ampiezza della tutela,1996, la notorietà presso il pubblico e la rinomanza,

deve essere intesa come “buona fama”.

11 Si veda, a titolo di esempio, la ricostruzione che è stata fatta nella procedura di opposizione

n.624/2013, attivata dalla società CONFEZIONI GARDA S.P.A contro la società ANDREA BIDESE S.r.l., all’esito della quale si era riscontrato che fra i marchi in questione vi era una somiglianza di livello medio.

Si veda anche la massima espressa dalla Commissione dei Ricorsi con la sentenza 13/13 del 1/07/2013 nella quale si è precisato che “ il confronto tra segni, al fine di ricercarne somiglianze confusorie, va effettuato non in via analitica attraverso l’esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni elemento grafico, fonetico, concettuale ma piuttosto in via globale e sintetica che è il modo in cui i marchi sono solitamente percepiti dal consumatore, cioè come un “tutt’uno” che prescinde dai dettagli che non abbiano funzione dominante nel contesto denominativo e/o figurativo d’insieme ed è destinato a rimanere come tale impresso nella di lui memoria. Non contano nel giudizio comparativo i dettagli, specie se privi di carattere “spiccato” nell’economia del segno, posto che il consumatore, al momento della scelta, difficilmente sarà in grado di procedere ad un loro raffronto analitico; con la conseguenza che eventuali differenze- ove anche avvertibili in presenza diretta di entrambi i marchi - finirebbero comunque per svanire sul piano mnemonico.”

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Infatti, per essere vero, o non decettivo, ex art. 14 c.p.i lettera b), il segno non deve essere “idoneo a ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica , sulla natura e sulla qualità di prodotti o servizi”, non deve trasmettere un messaggio espresso o anche evocativo di informazioni false. In questo ambito la decettività della provenienza geografica, il cd. toponimo, non obbliga a utilizzare un’indicazione vera in assoluto, tuttavia mira ad evitare che il marchio, indicando una località geografica, inneschi quella presunzione di qualità legata a luoghi noti per determinate capacità produttive. Si avrà, dunque, decettività del marchio qualora si indichi la provenienza di un prodotto non vera e qualora ciò provochi nella mente del consumatore una presunzione di qualità. Sul punto la giurisprudenza è assai ricca12.

12Il Tribunale di Milano nel 1872 nella controversia tra Havana Club InternationalSA e

PernodRicard Italia s.p.a. c. Holding V.O.F. e Veliers.p.a., sulla legittimità del marchio rum Matusalem, ha ritenuto che l’indicazione “Espiritu de Cuba” fosse idonea ad ingannare il

pubblico sulla provenienza geografica, sulla natura o la qualità dei prodotti o servizi. Inoltre la corte ritenne che il fatto di indicare che il rum provenisse da Cuba anziché dalla Repubblica Domenicana fosse stato fatto solo con il fine di “incunearsi in quella fetta di mercato particolarmente sensibile alla predetta suggestione comunicazionale, probabilmente imprescindibile per l'accreditamento di massa di un prodotto per altro di indubbia elevatissima qualità”. Lo stesso Tribunale invece con riguardo alla questione riconvenzionale sollevata dalla parte convenuta sulla liceità del marchio del rum Havana Club in quanto contenete la dicitura “fundata en 1878” riteneva però che la dicitura non intendesse appropriarsi di una storia imprenditoriale familiare, ma comunicare al consumatore una sostanziale continuità produttiva tra l'odierno Havana Club e il rum che fin dal 1878 viene prodotto nella città di Cardenas, e pertanto rigettava la domanda, ritenendo che non vi fosse alcun illecito concorrenza.

Il 9 dicembre 2004, la Sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale del Tribunale di Torino, dopo una riflessione in cui ha richiamato al disciplina nazionale e europea in materia di commercio di olio (la legge 3 agosto 1998, n. 313, relativa all'etichettatura d'origine dell'olio extravergine di oliva e il Regolamento (CE) n. 1019/2002 del 13 giugno 2002 relativo alle norme di commercializzazione dell'olio di oliva) ha riconosciuto la invalidità del marchio dell’Olio Carli. La causa di invalidità riconosciuta era quella di decettività originaria, perché generava nel pubblico dei consumatori il convincimento che l'Olio Carli fosse un olio di oliva italiano, prodotto con olive liguri provenienti dalla rinomata località di Oneglia. Una delle argomentazioni sostenute dai Fratelli Carli s.p.a, ma non accolte dal Tribunale , era quella relativa al fatto che il consumatore abituale dell’olio Carli fosse più informato rispetto al consumatore medio, visto che poteva acquistare tali prodotti solo per corrispondenza.

Cassazione civile sez. I Data: 13/09/2013 n. 21023 Budweiser Budvar Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali C. Anheuser-Busch Inc. questo è un caso in cui vengono sollevate problematiche diverse, “L'art. 14 c.p.i, ove prevede l'illiceità di segni idonei a ingannare il pubblico «in particolare sulla provenienza geografica», si riferisce a qualunque designazione idonea a indicare la provenienza di un prodotto da un certo ambito geografico.” Si sottolinea inoltre come “ la denominazione geografica continua a rivestire piena validità ed efficacia, ai fini che qui interessano, quando la sua notorietà perdura ancorché essa non sia più ufficialmente usata. E' del tutto frequente il caso in cui in un passato, a volte molto antico, località o intere regioni avevano un nome diverso dall'attuale, in alcuni casi espresso in una diversa lingua non più in uso,

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Infine, l’originalità consiste nella capacità distintiva, che già abbiamo più volte indicato come il presupposto di ogni segno distintivo. Il legislatore stesso indica delle ipotesi di per sé prive di tale capacità 13, come l’utilizzo di denominazioni generiche e descrittive o nomi di uso comune, ma quello che più ci interessa è l’ipotesi della lettera b) dell’art. 13 c.p.i, che pone fra i divieti quelli indicanti la provenienza geografica14. L’attenzione a questa ipotesi è dovuta al fatto che talvolta una simile indicazione presenti significato descrittivo e anche qualitativo del prodotto. La ratio di questo divieto è quella di impedire che si formino situazioni di monopolio, che appunto mirino ad escludere dall’utilizzo di tale termine gli altri produttori.

ma che dette denominazioni sono rimaste nell'uso comune del linguaggio e continuino ad essere note alle popolazioni. In tal caso non è dubbio che i detti nomi debbano, agli effetti che qui interessano, essere considerati come denominazioni geografiche atte di conseguenza ad indicare presso i consumatori la provenienza di un dato prodotto.”

Interessante è l’analisi, che riguarda un toponimo estero è stata fatta Cassazione Sezione I Civile 16 marzo 1992, con riferimento al marchio “New England”. Veniva richiesta la registrazione del marchio “New England” che venne respinta dall’Ufficio centrale dei brevetti in ragione del fatto che la dicitura poteva indurre in errore il consumatore sull’origine dei prodotti, facendogli credere che questi siano di provenienza inglese, quando sono, invece, fabbricati in Italia. La richiedente ricorse alla Commissione dei ricorsi sostenendo che la dicitura controversa fosse espressione di fantasia e che non vi fosse nessun riferimento a località geografiche tali da indurre in confusione il consumatore. La Cassazione arriva a cassare la decisione della Commissione dei ricorsi in quanto “il marchio d’impresa costituito da toponimo estero, e destinato a contraddistinguere prodotto di un impresa operante in Italia, non è validamente registrabile in quanto suscettibile di trarre in inganno i consumatori circa l’effettiva provenienza dei prodotti marcati”.

Altro caso la cui menzione è necessaria è quella della soluzione più recente , ma che interessa sempre un toponimo estero, che ha dato il Tribunale di Roma, sez. specializzata 25 agosto 2014, n.17362, alla controversia sul “Maraschino di Zara”, in il Dir. Indu. 2015,I, 43 ss. La sentenza sottolinea a un aspetto centrale, ovvero quella della funzione di “affidamento del marchio” che permea l’intera disciplina dei marchi ma che forse trova in tema di decettività la sua applicazione migliore . Il Tribunale conclude non riconoscendo la decettività del marchio, osservando come il marchio non indicasse che il maraschino fosse prodotto a Zara ma che l’azienda D. fosse stata fondata li.

13Art 13 c.p.i,b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l'epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio .

14Da notare la diversa disciplina che si ha per i marchi collettivi, che si vedrà meglio nei paragrafi

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La Corte di Giustizia in passato ha dato un’interpretazione abbastanza restrittiva15, riconoscendo non solo un divieto “di registrazione dei nomi geografici in quanto marchi nei soli casi in cui essi indichino luoghi che presentano attualmente agli occhi degli ambienti interessati, un nesso con la categoria di prodotti di cui si tratta, bensì si applica anche ai nomi geografici utilizzabili in futuro dalle imprese interessate in quanto indicazione di provenienza geografica della categoria di prodotti di cui si tratta”, e ritenendo che anche se non abbia ancora alcun nesso sarà compito dell’autorità competente dover valutare se sia ragionevole o meno presumere che lo possa avere in un secondo momento.

Nel caso in cui si faccia riferimento a una località, diversa da quella in cui l’imprenditore produce, che non abbia alcun concreto collegamento con il prodotto e purché non abbia portata descrittiva o capacità ingannevole, si potrà parlare di “marchio di fantasia”, che è considerato valido dal legislatore. Ecco perché in passato è stato ritenuto valido il marchio “Capri” apposto su dei pacchetti di sigarette .16

È interessante vedere come questa soluzione continui a essere sempre attuale e ne è un esempio la soluzione della Suprema Corte di Cassazione del 19/04/2016 nel caso Soc. Panariagroupind. C. Ministero dello sviluppo economico, che ha

15Corte di Giustizia, 4 maggio 1999, WindusfingChiemsee Productions-und VertriebsGmbH

(WSC). La questione verteva sul possibile utilizzo del termine “Chiemsee” che è il più grande lago della Baviera. La WindsurfingChiemsee, sosteneva che le altre imprese non potevano utilizzarlo perché avrebbe generato confusione, mentre per le parte convenute il termine in questione, essendo un indicazione che designa la provenienza geografica non ammette protezione.

16 Tribunale di Roma 12 gennaio 1993, in Riv. dir. comm. II, 451ss. Comune di Capri c. Brown

and Williamson Tobacco Corporation e B.A.T Cigaretten fabriken “un nome geografico può

essere registrato come marchio qualora sia usato con significazione autonoma di pura fantasia, senza alcuna aderenza concettuale al prodotto da contraddistinguere”. L’uso di un nome geografico brevettato come marchio non viola le disposizioni contenute negli art 14-21 LM e l’art. 7 c.p.i, qualora il suo uso non sia tale da procurare un pregiudizio (economico e morale) alla persona ( fisica e giuridica) di cui sia stato utilizzato il nome, ovvero sia usato in maniera da ledere la fama, il credito o il decoro ( nel caso di specie del Comune di Capri). Il caso in esame è interessante anche perché vede contrapposti non due imprenditori, ma un’amministrazione pubblica, che intervenne nella causa promossa presso il Tribunale di Roma, sostenendo la nullità del marchio, evidenziando che esso creava pregiudizio all’isola di Capri che vedeva associato il suo nome a delle sigarette, pur essendo famosa per le sue bellezze naturali, e la salubrità della vita che vi si può condurre, considerando inoltre che lo stesso comune di Capri di era fatto promotore di una campagna per la lotta contro il fumo. La Corte non riconobbe che vi fosse violazione dell’allora art. 18 legge marchi, ritenendo che non essendo presente alcuna coltivazione di tabacco e come la località in questione non sia in alcun modo collegata all’idea del fumo, non vi fosse alcuna ragione per associare l’isola alla produzione ed al consumo di tabacco.

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seguito una strada diversa rispetto a quella precedentemente presa dalla Commissione dei ricorsi. Quest’ultima aveva negato la registrazione del marchio Cotto d’Este perché ritenne che il termine “Este” fosse descrittivo della provenienza geografica della ceramica da zone, corrispondenti ai possedimenti della famiglia degli Estensi, note per tali produzioni. Negando la registrazione del marchio si era evitato che l’impresa richiedente si appropriasse dei pregi dipendenti dalle caratteristiche ambientali e culturali di quella zona.

La Corte, invece, ha poi ritenuto che si trattasse di un marchio di fantasia escludendo che fosse un marchio descrittivo e geografico, in quanto privo di un chiaro riferimento ad una precisa località geografica, dal momento gli Estensi non erano particolarmente noti in quanto abili produttori di ceramiche. Si ritenne, quindi, che non vi fosse alcun collegamento percepibile da parte del consumatore medio17 tra la dinastia e la zona di produzione in questione, riconoscendo così il carattere distintivo del marchio.

Si ricordi come non sempre il nome geografico sia utilizzato con la specifica volontà di caratterizzare in modo particolare i prodotti o i servizi forniti. Un esempio che può chiarire questa affermazione lo si può trarre dal mercato creditizio, dove le banche spesso fanno uso del nome geografico (es. Cassa di risparmio di Piacenza) senza che ciò vada a connotare in modo particolare il servizio svolto e senza che ciò produca alcun inganno verso il consumatore. 18

17Cass civile sez.1 19/04/2016 n. 7736 Soc. Panariagroupind. C. Min. sviluppo econ.“È noto,

infatti, che i marchi forti, quali sono quelli di fantasia, hanno uno speciale potere individualizzante che deriva loro non già da una diretta aderenza concettuale con il prodotto cui ineriscono, ma dalla creazione immaginifica del contenuto ideologico-espressivo, mentre sono deboli - ma pur sempre registrabili- i marchi che siano privi di una specifica forza distintiva allorché il toponimo sia meramente indicativo della regione ove il prodotto è realizzato”.

18C’è chi inoltre come osserva M.S. RICHTER, in Oggetto della registrazione e requisiti di

validità del marchio, Commento tematico della legge marchi,1998,159 ss., oltre ad osservare l’uso

del toponimo nell’indicazione di un attività creditizia, ritiene che sia registrabile il nome geografico che descriva una “zona interamente di proprietà del produttore” come nel caso di un podere dal quale trae il nome una determinata produzione agricola. La medesima osservazione viene fatta da S. MAGELLI, in Studi di diritto industriale in onore di A. Vanzetti, Marchio e nome

geografico,2004 e da M. LIBERTINI, Indicazioni geografiche e segni distintivi,in

Riv.dir.comm.,1996, I, 1032 ss., in cui si afferma come l’indicazione geografica sia sostanzialmente neutra non solo nell’attività creditizia ma anche in quella edile. M. LIBERTINI ricorda inoltre come in passato si ammettessero anche altre di ipotesi come quella del nome geografico inserito come elemento descrittivo di un marchio complesso e quella del nome

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La capacità distintiva è in assoluto il presupposto di validità del marchio più volubile e mutabile nel tempo, infatti, il marchio può originariamente risultare distintivo per poi non esserlo più, alcuni anni dopo. La perdita sopravvenuta di capacità distintiva può causare la decadenza dal diritto di marchio ed il fenomeno è definito “volgarizzazione del marchio19”. Ciò si verifica quando un termine

originariamente distintivo di una sottoclasse di beni diventa, per vari motivi, identificativo di una genericità di prodotti di quella categoria. La volgarizzazione è un fenomeno non arrestabile da parte del produttore e che è conseguenza del successo e dell’accreditamento che il segno ha raggiunto nel mercato.

Fenomeno opposto è il cd.“secondary meaning” che si realizza quando un marchio inizialmente debole e con scarsa capacità distintiva riesce nel tempo ad acquisirla, potendo così conseguire la registrazione.

2.1 -Il marchio Europeo

È inoltre importante vedere come, oltre ad avere un protezione nazionale, sia possibile ottenere una tutela più ampia. Allargare i propri spazi di tutela, però, interesserà solamente il produttore che vorrà vendere le proprie merci al di là del territorio nazionale, mentre per il produttore che preferirà rivolgersi esclusivamente al mercato italiano sarà sufficiente la registrazione nazionale. Se invece si vuole avere una protezione in più Stati dell’Unione Europea, si dovrà chiedere la registrazione come Marchio dell’Unione Europea.

È necessario dunque un accenno al nuovo Regolamento UE n.2015/242420del

Parlamento Europeo e del Consiglio, del 15 dicembre 2015, entrato in vigore il 23

geografico che non era ufficialmente riconosciuto come tale in sede amministrativa, anche se questa seconda ipotesi era ab origine criticata da molti.

19 Il fenomeno in questione è assai diffuso si pensi come: Biro, Rimmel, Nylon, Post-it, Scotch

fossero in origine marchi registrati che però sono stati poi utilizzati dal consumatore per indicare la categoria di prodotti corrispondente, causando così la perdita di capacità distintiva del marchio.

20Sulla questione si veda C. SERENA, Il marchio dell’unione europea: le novità del regolamento

UE 2015/2424, edizione 04/2016-numero online, il sole24ore. S. GIUDICI, Osservazioni sulla nuova disciplina europea dei marchi, in Riv. dir. indu. 2016, III,158 ss., S. SANDRI, I marchi collettivi e i marchi di certificazione nella Riforma, in Il Dir. indu, 2017, II, 119 ss., in cui si

sottolinea l’estensione della competenza dell’Ufficio anche nel caso di marchi collettivi e di certificazione.

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marzo 2016, che ha modificato il Regolamento n.207/2009 del consiglio CE, e alla Direttiva 2015/2436/UE 21 , che abroga la Direttiva 2008/95/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa, che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 14 gennaio 2019. Tali atti normativi, non hanno stravolto il sistema delineato nella precedente legislazione, ma hanno cercato di sopperire a lacune emerse, con l’obiettivo di garantire una maggiore certezza e sicurezza giuridica22.

L’ufficio che si occupa della registrazione del marchio passa da essere “ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno” (UAMI), a “ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale” (EUIPO), sempre con sede a Alicante, in Spagna, e il marchio comunitario (MC) diventa marchio dell’Unione europea (MUE)23.

Interessanti risultano alcuni considerando come il n.7, il n.15 e il n.9 del Regolamento. Dal considerando n.7 emerge l’obiettivo del regolamento di “modernizzare il sistema del marchio d'impresa nell'Unione rendendolo più efficace, efficiente e coerente nel suo insieme e adeguandolo all'era di Internet (dicitura simile è utilizzata anche nel considerando n.6 della Direttiva)” e questo mette in luce come il legislatore comunitario non sia cieco rispetto alla necessità di adattare l’istituto marchio all’evolversi del mercato, mentre dal n.15 si evince una necessità di rafforzare la protezione dei marchi e la lotta alla contraffazione, anche nel rispetto degli obblighi internazionali, affermando che “è opportuno che

21 Si legga in particolare i considerando n.15 e 16 della Direttiva.

22S. GIUDICI sottolinea come questa forte esigenza del legislatore europeo di garantire maggiore

sicurezza giuridica nel mercato, realizzi in realtà in un ambiguità: la certezza e sicurezza giuridica dell'estensione della protezione che si vuole perseguire attraverso le richiamate norme che impongono precisione nella descrizione del segno e dei prodotti e servizi potrebbe essere effettivamente soddisfatta solo nei casi (eccezionali) di identità fra segni e identità fra prodotti e servizi (c.d. “doppia identità”). Mentre il marchio non ha tutela solo verso un segno identico utilizzato su prodotti o servizi identici, ma è tutelato contro l'uso di un segno identico o simile per contraddistinguere prodotti o servizi uguali o affini per cui non ha senso il riferimento letterale che fa sia nell’art. 28.5 del Regolamento e nell’art. 39.5 della Direttiva.

23Considerando n.2 del Regolamento “a seguito dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, è

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il titolare del marchio UE abbia il diritto di vietare ai terzi di introdurre prodotti, in ambito commerciale, nell'Unione senza la loro immissione in libera pratica, quando tali prodotti provengono da paesi terzi e recano senza autorizzazione un marchio d'impresa identico o sostanzialmente identico al marchio UE registrato in relazione a tali prodotti”. La questione relativa alle merci in transito merita un’attenzione maggiore, non solo perché vi sono delle novità importanti ma soprattutto perché su questo tema vi è un approccio contrastante fra la giurisprudenza europea e i due atti normativi, ma che si analizzerà meglio quando parleremo di contraffazione.

Infine, dal considerando n.9 si ricava un elemento di novità volto a “garantire maggiore flessibilità, accrescendo allo stesso tempo la certezza del diritto per quanto attiene ai mezzi di rappresentazione dei marchi d'impresa”. Si ritiene che sia opportuno sopprimere il criterio della rappresentazione grafica dalla definizione del marchio UE.

Emerge, quindi, una differenza con la disciplina nazionale, perché il nostro art. 7 c.p.i. indica come elementi passibili di registrazione i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, mentre, qui questo requisito viene del tutto superato, dal momento che si afferma che “il segno dovrebbe poter essere rappresentato in qualsiasi forma idonea, utilizzando la tecnologia generalmente disponibile, e quindi non necessariamente mediante strumenti grafici, purché la rappresentazione sia chiara, precisa, autonoma, facilmente accessibile, intellegibile, durevole e obiettiva”.

Anche la Direttiva elimina il riferimento alla rappresentazione grafica, ma nel considerando n.13 aggiunge che è “altresì essenziale prescrivere che il segno sia suscettibile di essere rappresentato in modo chiaro, preciso, autonomo, facilmente accessibile, intelligibile, durevole e oggettivo”.

I requisiti di validità del marchio europeo non cambiano, poiché l’art. 4 del Regolamento include nella definizione stessa di segno atto a costituire un marchio UE l’essere adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese, requisito poi ripetuto nell’art. 7 lettera b), mentre dalla lettera f) si ricava la liceità, dalla g) la non decettività e infine dall’art. 8 si comprende come

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la mancanza di novità possa impedire la registrazione dei marchi in questione. Questi atti normativi sono andati a modificare alcuni aspetti della procedura di registrazione del marchio24.

24Dal nuovo art. 25 r.m.u.e. , si è eliminato la possibilità di fare depositare domande di marchio

UE attraverso gli uffici nazionali, mentre precedentemente lo si prevedeva sia mediante il servizio centrale per la proprietà industriale di uno Stato membro o presso l’Ufficio del Benelux per la proprietà intellettuale (BOIP). L’ufficio richiede il pagamento di una tassa e rilascia una ricevuta da cui risultino, una riproduzione, descrizione o altra forma di individuazione del marchio, la natura e il numero dei documenti e la data di ricezione. La domanda deve contenere i requisiti indicati nell’art. 26 r.m.u.e. e affinché la data del deposito sia considerata valida il pagamento della tassa deve avvenire entro un mese. I prodotti e i servizi per i quali è chiesta la registrazione di marchio d'impresa sono classificati secondo il sistema stabilito dall'accordo di Nizza sulla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi, del 15 giugno 1957 (“classificazione di Nizza”). Ex art. 30 r.m.u.e. è possibile far valere la priorità del proprio marchio, e entro tre mesi dalla data del deposito si dovrà consegnare la documentazione a sostegno di ciò.

L’ufficio procede alla valutazione sulla regolarità formale della domanda, e verifica se essa soddisfa le condizioni dell’art. 26 r.m.u.e.. Se l’ufficio ritiene che manchino i requisiti può respingere la richiesta, ma ex art. 37 r.m.u.e. par 3 “La domanda può essere respinta solo dopo che il richiedente è stato messo in grado di ritirarla, modificarla, o di presentare le sue osservazioni. A tal fine, l'Ufficio comunica al richiedente gli impedimenti che ostano alla registrazione e indica il termine entro il quale questi può ritirare o modificare la domanda ovvero presentare le sue osservazioni. Se il richiedente non elimina gli impedimenti alla registrazione, l'Ufficio la respinge in tutto o in parte” si garantisce dunque una sorta di contraddittorio cartolare fra il richiedente e l’ufficio.

Interessante è la relazione di ricerca ex art. 38 r.m.u.e., “Su istanza del richiedente del marchio UE al momento del deposito della domanda, l'Ufficio redige una relazione di ricerca dell'Unione Europea (“relazione di ricerca UE”) nella quale indica i marchi UE anteriori e le domande anteriori di marchio UE scoperti, che possano essere invocati ai sensi dell'articolo 8 contro la registrazione del marchio richiesto. Se al momento del deposito di una domanda di marchio UE il richiedente domanda che gli uffici centrali della proprietà industriale negli Stati membri procedano a una relazione di ricerca e se è stata pagata la relativa tassa di ricerca entro il termine previsto per il pagamento della tassa di deposito, l'Ufficio trasmette senza indugio una copia della domanda di marchio UE all'ufficio centrale per la proprietà industriale di ciascuno Stato membro che gli ha notificato la sua decisione di effettuare, per le domande di marchio UE, una ricerca nel proprio registro dei marchi. L'Ufficio trasmette al richiedente del marchio UE la relazione di ricerca UE richiesta nonché quelle nazionali, se richieste, che siano pervenute.”

Se i requisiti cui deve conformarsi la domanda di marchio UE sono soddisfatti, la domanda è pubblicata ai fini dell'articolo 41 r.m.u.e, sempre che non sia stata respinta ai sensi dell'articolo 37 r.m.u.e. Tutte le persone fisiche o giuridiche, nonché i gruppi o organismi che rappresentano fabbricanti, produttori, prestatori di servizi, commercianti o consumatori possono indirizzare all'Ufficio osservazioni scritte, specificando i motivi per i quali ai sensi degli articoli 5 e 7 r.m.u.e il marchio dovrebbe essere escluso d'ufficio dalla registrazione.

Entro tre mesi dalla data delle pubblicazione della domanda di marchio comunitario può essere fatta opposizione alla registrazione del marchio, da chi ne sia titolare anteriore o licenziatario anteriore, mediante atto scritto e motivato. Il titolare anteriore deve dare prova che nei cinque anni precedenti ha fatto uso effettivo del marchio. Alla Commissione è conferito il potere di adottare atti delegati conformemente all'articolo 163 bisr.m.u.e per specificare le procedure per la presentazione delle opposizioni e per il loro esame, di cui agli articoli 41 r.m.u.e e 42 r.m.u.e. Si può in ogni momento ritirare la domanda di registrazione, modificarla o dividerla. Se la domanda soddisfa le disposizioni del presente regolamento e non è stata presentata opposizione entro il

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Per il marchio europeo continua a valere il principio di unitarietà: art. 1 comma 2 r.m.u.e, secondo il quale “Il marchio comunitario ha carattere unitario. Esso produce gli stessi effetti in tutta la Comunità: può essere registrato, trasferito, formare oggetto di rinuncia, di decisione di decadenza dei diritti del titolare o di nullità e il suo uso può essere vietato soltanto per l’intera Comunità. Tale principio si applica salvo disposizione contraria del presente regolamento”, quindi qualora un nuovo stato dovesse entrare a far parte dell’UE sarebbe estesa la protezione anche in questo nuovo Stato. Tuttavia, nel caso in cui la registrazione del marchio venisse negata (pensiamo per opposizione di un titolare di un marchio nazionale registrato solo in alcuni dei Paesi Membri), si negherebbe tout court la registrazione europea, per cui l’unica possibilità rimasta al richiedente sarà quella di fare plurime domande di registrazione nazionali nei Paesi in cui vorrà vendere il suo prodotto, ovviamente escludendo quello da cui deriva l’impedimento alla registrazione europea.

Si potrebbe pensare che questo principio vada a ridurre la differenza fra marchio nazionale e marchio europeo ad una mera questione di scala infatti, “cosi come il marchio nazionale spiega i suoi effetti sul territorio dello stato di registrazione ed è strumentale a politiche commerciali calibrate, di conseguenza, il marchio UE insiste sull’area compresa entro confini dell’Unione Europea ed è funzionale a politiche commerciali parametrate al mercato comune, assecondando anzitutto l’aspirazione delle imprese che vi operano ad adottare uno stesso marchio per le attività europee25.

Tuttavia, vi sono autori,26 che manifestano qualche perplessità, ritenendo che questo parallelismo in realtà tenga fino ad un certo punto e che debba essere

termine di cui all'articolo 41 r.m.u.e., paragrafo 1, o se gli eventuali procedimenti di opposizione instaurati si siano definitivamente estinti per effetto di ritiro, rigetto o altra circostanza, il marchio e le indicazioni di cui all'articolo 87 r.m.u.e., paragrafo 2, sono iscritti nel registro. La registrazione è pubblicata e l'Ufficio rilascia il certificato di registrazione.

Il marchio ha durata decennale e può essere rinnovato per un numero illimitato di volte, sempre con efficacia decennale.

25A. COGO, Note sull’unitarietà del marchio Ue, in Giuri. Ita. 2016,II.

26Si veda la riflessione fatta da A. COGO, Note sull’unitarietà del marchio Ue, in Giuri. Ita.

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considerato più come un obiettivo del sistema europeo di tutela dei marchi, piuttosto che come un risultato già acquisito. I dubbi dell’autore riguardano

soprattutto la percezione del marchio da parte dei consumatori, sostiene, infatti, che la percezione da parte dei consumatori possa essere ragionevolmente omogenea in un determinato paese, ma che questo è più difficile che avvenga a livello europeo, viste le differenze culturali e linguistiche dei vari Stati. La difficile attuazione di questo principio sta, inoltre, nel fatto che non sia chiaro quale tipo di ampiezza debba avere la notorietà del marchio, in particolar modo, non si indica se la notorietà deve essere raggiunta in tutta l’Unione o se basti che sia raggiunta solamente in una parte di essa. Si è lasciato, così, che fosse l’interprete a trovare una soluzione soddisfacente e molte sono state le occasioni in cui la Corte di Giustizia è dovuta intervenire per sopperire a questa lacuna27.

Sicuramente centrali, ai fini di questa analisi, sono le modifiche nell’art. 7 delle lettere J) e K), l’inserimento della lettera l) e l’introduzione del paragrafo 4 bis all’interno dell’art.8, la cui valutazione, all’attuale stadio dell’elaborato, potrebbe risultare complessa, ragion per cui si riprenderà la valutazione di queste novità in un momento successivo.

3 -Il marchio collettivo

Il legislatore, accanto ai marchi individuali, ha introdotto un tipo particolare di marchi, il marchio collettivo (art. 2570 c.c., e art 11 c.p.i)28. L’elemento

27A. COGO, Note sull’unitarietà del marchio Ue, in Giuri. Ita. 2016, II, ricorda i casi: Armafoam

del 2008, Webshipping del 2011, Pago del 2009 e Impulse del 2015.

28 Art. 2570 cc. I soggetti che svolgono la funzione di garantire l’origine, la natura la qualità di

determinati prodotti o servizi possono ottenere la registrazione di marchi collettivi per concederne l’uso, secondo le norme dei rispettivi regolamenti, a produttori o commercianti.

Art. 11 c.p.i.

1. I soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi, possono ottenere la registrazione per appositi marchi come marchi collettivi ed hanno la facoltà di concedere l'uso dei marchi stessi a produttori o commercianti.

2. I regolamenti concernenti l'uso dei marchi collettivi, i controlli e le relative sanzioni devono essere allegati alla domanda di registrazione; le modificazioni regolamentari devono essere comunicate a cura dei titolari all'Ufficio italiano brevetti e marchi per essere incluse tra i documenti allegati alla domanda.

3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 sono applicabili anche ai marchi collettivi stranieri registrati nel Paese di origine.

4. In deroga all'articolo 13, comma 1, un marchio collettivo può consistere in segni o indicazioni che nel commercio possono servire per designare la provenienza geografica dei prodotti o servizi.

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qualificante questo istituto è la dissociazione fra titolarità e l’uso del marchio: infatti i soggetti titolari, una volta ottenuta la registrazione del marchio non lo utilizzano personalmente, ma questo verrà concesso in uso ad altri diversi produttori, che avranno l’obbligo di rispettare le norme statutarie poste dall’ente titolare e il dovere di sottoporsi ai relativi controlli.

Solitamente, i marchi collettivi vengono usati cumulativamente rispetto a quello individuale. Questo accade perché il singolo utilizzatore del marchio collettivo non è tutelato dallo sviamento di clientela da parte degli altri utilizzatori e cercherà di differenziare maggiormente il proprio prodotto apponendo anche un marchio individuale; esempi noti di marchio collettivo sono “ Pura lana vergine”, “Vero cuoio”, “Filo di scozia alta qualità”. Il settore dove sono nati e dove si sono sviluppati di più è sicuramente quello delle produzioni agricole, in particolare quelle vinicole e casearie, senza che però mancassero esempi importanti anche nella produzione artigiana.

Una prima distinzione all’interno del genus marchi collettivi è quella fra marchi uni-settoriali o di prodotto e marchi a ombrello. Con i primi si intende il marchio utilizzato per indicare prodotti di un unico genere, mentre quello ad ombrello coinvolge prodotti di genere diverso29.

In tal caso, peraltro, l'Ufficio italiano brevetti e marchi può rifiutare, con provvedimento motivato, la registrazione quando i marchi richiesti possano creare situazioni di ingiustificato privilegio o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative nella regione. L'Ufficio italiano brevetti e marchi ha facoltà di chiedere al riguardo l'avviso delle amministrazioni pubbliche, categorie e organi interessati o competenti. L'avvenuta registrazione del marchio collettivo costituito da nome geografico non autorizza il titolare a vietare a terzi l'uso nel commercio del nome stesso, purché quest'uso sia conforme ai principi della correttezza professionale.

5. I marchi collettivi sono soggetti a tutte le altre disposizioni del presente codice in quanto non contrastino con la natura di essi.

29All’interno della classe dei marchi collettivi ad ombrello si devono ricordare alcune iniziative a

livello regionale per esempio la Toscana ha creato il marchio Agriqualità, simboleggiato da una farfalla bianca su uno sfondo azzurro, che qualifica i prodotti agroalimentari realizzati con le tecniche dell’agricoltura integrata con lo scopo di difendere la biodiversità e la fertilità del territorio, proteggere il paesaggio agrario, valorizzare e promuovere un sistema di produzione di qualità. I controlli sui concessionari garantiscono la tracciabilità del prodotto e siano assenti OGM. La norma di riferimento del marchio Agriqualità è la legge regionale n. 25 del 1999 “ Norme per la valorizzazione dei prodotti agricoli e alimentari ottenuti con tecniche di produzione integrata e tutela contro la pubblicità ingannevole” mentre il regolamento d’uso e il Regolamento Regionale n. 47 del 2 settembre del 2004, in cui si definiscono i controlli e le modalità di attuazione degli stessi e le eventuali sanzioni. Un organismo di controllo autorizzato dalla Regione Toscana

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3.1 -Funzione e requisiti di validità

Fra il marchio individuale e quello collettivo vi è senza dubbio una differenza sul piano funzionale: infatti, il marchio individuale ha la funzione tipica del marchio di impresa, quella distintiva, mentre quella dei marchi collettivi attiene all’ambito di garanzia qualitativa, in quanto svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi30. Per natura di un prodotto si deve intendere le qualità che esso presenta, in particolar modo in relazione alla materie prime in esso utilizzate, mentre per origine non è da intendersi come origine imprenditoriale31, ma come origine geografica di un prodotto.

Si applica la disciplina dei marchi individuali, per quanto riguarda i requisiti di validità, con una necessaria attenzione per il requisito di novità, infatti, l’art. 12 c.p.i. comma 2, precisa che il requisito della novità non viene meno se un certo segno è stato anteriormente oggetto di un marchio scaduto da oltre due anni, ovvero oltre tre anni se si tratta di un marchio collettivo. Non si permette la registrazione come marchio di ciò che è già stato oggetto di un marchio precedente, qualora non sia trascorso un determinato termine dalla scadenza. Questo termine è più lungo per il marchio collettivo, rispetto a quello individuale, probabilmente perché si è ritenuto che, affinché una nuova registrazione dello stesso segno non ingeneri confusione nel pubblico dei consumatori, il marchio collettivo necessiti di più tempo rispetto ad un marchio individuale.

verifica il rispetto del disciplinare potendo anche prelevare campioni da sottoporre ad analisi. L’ARSIA ( agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione del settore agricolo-forestale) attua la vigilanza sui organismi di controllo, ha l’elenco dei concessionario e può essa stessa revocare la concessione. Il n. dei concessionario nel 2006 contemplava, 34 produttori agricoli e 36 trasformatori.

30P. SPADA,Il marchio collettivo “privato” tra distinzione e certificazione, in scritti in onore di

Minervini,1997, utilizza il termine “omologazione” dei prodotti che siano stati promossi da una

verifica qualitativa. Spada utilizza questo termine, riflettendo su che tipo di regolamento debba essere imposto. Si osserva come non si debba fare una valutazione sulla meritevolezza dei criteri di valutazione ( si fa infatti l’esempio fra la sicurezza del prodotto e la valutazione sullo stile “in” o “out” rispetto ai canoni della moda giovanile), che saranno pienamente discrezionali, ma che sarà più importante che non si inganni il consumatore, in un’ottica di lotta alla decettività.

31Abbiamo già visto come sia criticabile individuare una funzione di indicatore di provenienza per

il marchio individuale, soprattutto dopo la novella del 1992, qui la difficoltà è sicuramente maggiore perché non si può collegare il prodotto o il servizio a un’unica entità imprenditoriale ma lo si collega ad una pluralità di imprese, che sono state legittimate ad usarlo.

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Per la capacità descrittiva del segno c’è chi 32 ritiene che la descrittività del segno

di un marchio collettivo debba essere distinta da quella richiesta per un marchio individuale, in ragione della sua diversità funzionale. Infatti, “il marchio collettivo identifica una sottoclasse di prodotti individuata nell’ambito del genere merceologico più ampio cui essi appartengono non tanto in ragione della sua origine imprenditoriale quanto in ragione di una caratteristica qualitativa la cui presenza è per l’appunto attestata dall’apposizione del segno”, potendo dunque riconoscere un livello più elevato di descrittività del segno rispetto a quella tollerata per il marchio individuale .

Ai requisiti di validità del marchio si aggiunge in sede di registrazione l’allegazione di un regolamento. Infatti ogni marchio collettivo dovrà avere un proprio regolamento d’uso che gli permette di svolgere efficacemente la funzione di garanzia qualitativa. I regolamenti dovranno disporre sulle materie prime da utilizzare, sulla delimitazione di zone geografiche da cui dovranno provenire i prodotti, sui procedimenti da seguire, e sugli standard da ottenere. Inoltre, si devono prevedere dei sistemi di controlli affinché si verifichi che i regolamenti siano effettivamente rispettati e un sistema di sanzioni vario che può andare da una semplice diffida, fino alla revoca dell’uso del marchio, verso i trasgressori del regolamento. Gli uffici a cui si chiede la registrazione ne verificano l’idoneità e la completezza.

I regolamenti concernenti l'uso dei marchi collettivi, i controlli e le relative sanzioni devono essere depositati al momento della richiesta di registrazione del marchio e deve essere data comunicazione all’Ufficio Italiano Brevetti di ogni successiva modifica. Il legislatore non solo sanziona chi utilizza scorrettamente il marchio, ma anche il titolare, dal momento che è prevista come causa di decadenza del marchio il mancato o fittizio controllo, da parte del titolare o comunque qualora il controllo non sia idoneo a verificare le sussistenza dei requisiti di qualità, art. 14, 2 comma c) c.p.i.

Il titolare del marchio si potrà attivare, facendo rilevare la contraffazione del marchio, qualora si accorga che un soggetto non autorizzato faccia uso di esso e

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