Indice
Allegoria e realtà nella poesia di Giorgio Caproni:
p.2 Introduzione
p.4 Come un'allegoria
p.10 Ballo a Fontanigorda
p.13 Finzioni
p.18 Cronistoria
p.22 Il Passaggio d'Enea
p.44 Il seme del piangere
p.53 Il congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee
p.59 Il muro della terra
p.71 Il franco cacciatore
p.77 Il conte di Kevenhüller
p.94 Res amissa
p.102 L'allegoria moderna di Caproni e un breve confronto con Montale
p.111 Bibliografia
INTRODUZIONE
Chi si cimenti nella lettura delle raccolte poetiche caproniane non può non accorgersi di
quanto siano attraversate da un filo rosso che si dipana a partire da “Come un'allegoria” e si
conclude con la postuma “Res Amissa”. Tutte le sue raccolte poetiche infatti seguono uno
sviluppo evolutivo che si fonda su una relazione tra realtà ed allegoria, tra sensoriale e
sovrasenso. Scrivo evolutivo perchè, pur trattandosi di un tema costante nella poesia di
Caproni, subisce un cambiamento di raccolta in raccolta: il percorso poetico caproniano è
infatti caratterizzato da una scrittura nella quale viene perseguita una progressiva
evanescenza del reale nell'allegorico. Cosa si intenda qui con la parola “reale” non ha a che
fare con l'accezione letteraria di “realismo”, né tanto meno ha da ridursi a sinonimo di livello
letterale contrastante uno allegorico. La realtà per Caproni è quella percepita sensorialmente,
ed è stato segnalato più volte quanto siano in particolare i sensi dell'olfatto e del tatto a
predominare sugli altri. Scrive il poeta livornese:
L'artista in genere tende all'evasione, io invece ho cercato di fare poesia ad occhi aperti e guardare in faccia la realtà fino a metterne in dubbio l'esistenza. Nella mia prima raccolta, Come un'allegoria, esprimevo proprio il dubbio che tutta la realtà non fosse che allegoria di qualcosa d'altro che sfugge alla nostra ragione.1
E l'esistenza di tale realtà in effetti è messa fortemente in dubbio. Si guardino, per puro
valore esemplificativo, le due poesie Marzo e Anch'io, l'una da sempre voluta fortemente da
Caproni come poesia iniziale ad ogni sua raccolta complessiva, l'altra in conclusione alla
raccolta garzantiana di Tutte le poesie (che però essendo stata pubblicata postuma, viene
riportata qui come semplice esempio del modo di scrivere dell'ultimo Caproni):
Marzo
Dopo la pioggia la terra
è un frutto appena sbucciato.
Il fiato del fieno bagnato
è più acre – ma ride il sole
bianco sui prati di marzo
a una fanciulla che apre la finestra.
Anch'io
Uno dei tanti, anch'io
un albero fulminato
dalla fuga di Dio.
È indicativo quanto diversamente venga percepita la realtà nei due componimenti. La prima
ha carattere essenzialmente descrittivo, è chiara l'intenzione di voler rappresentare una
immagine netta: chi scrive si trova in una prospettiva esterna al componimento e sebbene vi
sia una connotazione metaforica (“la terra/ è un frutto appena sbucciato”) il testo è dominato
da una componente letterale. Nella seconda poesia l'immagine che risalta è quella dell'albero
fulminato, non un'immagine della realtà sensorialmente sentita, ma una realtà esclusivamente
analogico-metaforica, in cui l'io è interno al componimento. Il livello letterale del testo non è
sufficiente alla sua comprensione, il lettore ha di fronte una immagine complessa e allegorica
nella quale si scrive, è vero, che un albero è fulminato, ma in cui si intende qualcos'altro,
ovvero che chi scrive – uno dei tanti – si sente come un albero fulminato e quindi spezzato e
ucciso, bruciato dalla fuga di Dio, e - potremmo teorizzare dunque - incompleto per la perdita
di una verità universale. La realtà descrittiva e quasi “impressionistica” della prima poesia si
perde del tutto per lasciare il posto a una allegorica.
Ci troviamo chiaramente, come abbiamo già notato, di fronte a un caso esemplare ed
estremistico, ma esso è indicativo del percorso poetico che è nostra intenzione evidenziare
con una lente che indaghi questo rapporto costante tra realtà e allegoria.
COME UN'ALLEGORIA
Caproni pubblica Come un'allegoria nel 1936, anche se già a partire dal 1932 dei testi escono
per alcune riviste. I primi recensori della raccolta la definiscono subito esclusivamente
descrittiva: in una rivista viareggina del 1934, Gioventù, venne scritto che “il suo fondamento
è descrittivo” e per Capasso, un letterato che guidò gli esordi di Caproni e curò la prima
edizione della raccolta, “egli [Caproni] prende la penna quando lo ha toccato un fatto
plastico, naturale o comunque esteriore: un paesaggio, una festa borghigiana, un gruppo di
saltimbanchi, l'atmosfera di un luogo e di un'ora determinatissimi. La sua, è poesia
descrittiva”
2. Che possa parlarsi di descrittivismo è indubbio, ma andiamo a leggere ancora
una volta Marzo e le sue due versioni attestate, l'originale della raccolta genovese (a sinistra)
e quella accolta successivamente:
Dopo la pioggia la terra
appare lucida e fresca
e odorosa
come un frutto appena sbucciato.
Dopo la pioggia la terra
è un frutto appena sbucciato.
Il fiato del fieno bagnato
è più acre – ma ride il sole
bianco sui prati di marzo
a una fanciulla che apre la finestra.
La differenza tra le due versioni è indicativa di un notevole cambiamento: dal maggiore
descrittivismo della prima (dato anche dalla similitudine espressa dal “come”), passiamo al
metaforismo più pronunciato della. Malaguti spiega bene questa differenza:
Il ruolo di guida interpretativa che nell'originale spettava al realismo descrittivo e soggettivo ora passa alla tensione metaforica. Il testo non sviluppa più solo un senso della realtà esterna, come riconosce Capasso nell'originale, ma sottolinea il suo potenziale rappresentativo e interpretativo: il reale diventa un sistema di segni allusivi ed è quindi da interpretare. Non si tratta più solamente di vedere, ma […] di vedere come. […]. [Marzo] 2 Cito entrambe le recensioni dall'apparato critico curato da Luca Zuliani in Caproni. L'opera in versi,
collocato all'inizio in tutte le raccolte in cui l'autore ha riordinato i suoi testi fin dagli esordi, da Finzioni a Tutte
le poesie, costituisce quindi, proprio partendo dalla metafora iniziale, un invito all'esperienza di un mondo visto come, di una realtà di immagini da interpretare.3
D'altronde, come è lo stesso Caproni a suggerirci, fu per lui importante in quel periodo la
lettura di Ungaretti, che lo avvicinò maggiormente a un modo di concepire la poesia come
sintesi nominale, collegamento analogico e brevità del verso: “[Marzo] era molto più lunga
[riferendosi probabilmente a una versione manoscritta andata perduta], più descrittiva, ed io
ho tagliato corto, perchè poi mi capitò in mano, […] Allegria di naufragi del 1919, di
Ungaretti, e capii l'economia della parola
4”.
Se guardiamo alla raccolta in generale ci accorgiamo subito che tutti i suoi testi nell'edizione
definitiva non possono essere intesi soltanto letteralmente, come il semplice intento di
dipingere la realtà attraverso un macchiaiolismo descrittivista.
Analizziamo un'altra poesia, Borgoratti, da un verso della quale prende il titolo la raccolta:
Anche le vampe fiorite
ai balconi di questo paese,
labile memoria ormai
dimentica la sera.
Come un'allegoria,
una fanciulla appare
sulla porta dell'osteria.
Alle sue spalle è un vociare
confuso d'uomini – e l'aspro
odore del vino.
Il testo è diviso in due strofe il cui collegamento sfugge alla comprensione del lettore. Dopo
una prosopopea metaforica in cui la sera viene paragonata a una labile memoria che
dimentica i colori dei fiori sui balconi del paese, l'attenzione si sposta sulla porta d'ingresso di
3 A.Malaguti, La svolta di Enea: Retorica ed esistenza in Giorgio Caproni (1932-1956), Il Melangolo, Genova, 2008; p.20-1.
un'osteria in cui appare improvvisamente una fanciulla. Potremmo interpretare il
collegamento come la realtà sensoriale di un io esterno al testo che sta osservando gli effetti
dell'approssimarsi della sera sui balconi del paese e sposta successivamente lo sguardo
(attratto da un vociare e dall'odore del vino) verso la luce di un'osteria. Ma di cosa è
esattamente allegoria il sopravvenire della fanciulla in questa immagine? Sembra assai
forzata l'interpretazione data dal Malaguti secondo cui la fanciulla sarebbe “una figura
liminale che invece di riferirsi al mondo reale e tangibile come le altre presidia l'ingresso
oltre il mondo: l'aldilà si risolve in un'osteria di Genova che ha tutto l'aspetto di un erebo,
dove le voci dei morti si confondono”. Per quanto l'interpretazione possa sembrare
suggestiva non sembra realistico l'accostamento tra un'osteria e l'erebo. In questo senso
semmai il gioco tra esterno e interno dovrebbe rovesciarsi: in un fuori che diventa oscurità e
oblio e in un dentro tratteggiato assai indicativamente con la scelta di un luogo realistico
come l'osteria, in cui ancora la sensorialità è viva. Potremmo interpretare questo scambio tra
oscurità e realtà in svariati modi, ma non raggiungeremmo mai una risposta sicura. Ed è
proprio questa incertezza che deve dominare la poesia: la fanciulla è sì una “figura liminale”
ed è il suo apparire ad essere come un'allegoria (e si noti la similitudine), ad essere dunque
un qualcosa che significa ed intende un qualcos'altro che non ci è dato sapere, di
incomprensibile.
D'altronde perchè la raccolta si intitola Come un'allegoria? È lo stesso Caproni a darcene una
spiegazione appropriata:
Nella mia prima raccolta, Come un'allegoria, esprimevo proprio il dubbio che tutta la realtà non fosse che allegoria di qualcosa d'altro che sfugge alla nostra ragione.
E ancora, in un altro articolo:
[in Come un'allegoria] si tratta di un “reale” ancora più pertinente alla natura che alla società. “Segni” cui già a quei tempi, in quel mio macchiaiolismo, più che impressionismo, già tentato dalle sirene dell'espressionismo, davo un valore di quasi un'allegoria: un significato sempre volto ad esprimere un qualcosa d'altro (una mia e altrui inquietudine) al di là del puro significato letterale o figurativo della parola.5
Da quest'ultima affermazione in particolare riusciamo a trarre alcune importanti informazioni
sul primo periodo di produzione poetica di Caproni. Effettivamente il “reale” rappresentato
nelle poesie caproniane di Come un'allegoria non ha niente a che fare con la società, ma ha
un riflesso eminentemente bucolico
6: prati, ulivi, pianure, colline dominano il paesaggio. Le
rare figure umane che abitano questi luoghi (bambini, fanciulle, donne...) hanno una funzione
più simbolica che realistica e provocano nel lettore una suggestione melanconica del tempo
che corre (ma se mi passa accanto / un ragazzo, nel soffio / della sua bocca sento / quant'è
labile il fiato / del giorno) o un erotismo sensoriale (Ma io sento ancora / fresco sulla mia
pelle il vento / d'una fanciulla passatami a fianco / di corsa). Di “società” c'è davvero poco in
questa raccolta, se non un primo segnale di quella che sarà poi una predilezione tutta
caproniana per la classe umile e i luoghi che essa frequenta: osterie, taverne, borghi di
periferia (si ricordi qui ancora Borgoratti). E forse è proprio questa quasi totale estraneità al
“sociale” e, semmai, l'avvicinarsi al “bucolico”, all'elemento povero e umile che
spiegherebbe la precisazione per cui Caproni si sentirebbe più vicino al “macchiaiolismo”
piuttosto che all'“impressionismo”. E in senso artistico va intesa anche la frase successiva
riguardante la tentazione della sirena espressionista. L'espressionismo caproniano è affine a
quello pittorico in cui vi è la propensione dell'artista a privilegiare, esasperandolo, il lato
emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente. E in effetti è proprio
intendere l'espressionismo caproniano sotto questa accezione a legare la prima parte del suo
discorso con la seconda a proposito dell'allegoria, anzi della quasi allegoria. L'allegoria
moderna è assai diversa da quella medievale: la prima è spesso indecifrabile, la seconda
invece ha un valore più convenzionale e in genere intertestuale (si pensi ai numerosi bestiari
6 La Frabotta usa il termine che crediamo adeguato di “idilli campestri” per descrivere i sedici componimenti di Come un'allegoria (B.Frabotta, Giorgio Caproni: Il poeta del disincanto, Officina Edizioni, Roma, 1993; p.14).
che permettono di vedere in ogni animale il corrispondente significato simbolico); la prima si
fa garante di un sovrasenso non univoco e relativo, spesso dipendente dalla sensibilità dello
scrittore e dunque non sempre convenzionale; la seconda di uno univoco e assoluto, che fa
del lupo l'allegoria dell'avidità, del leone della superbia, della realtà un'allegoria
comprensibile attraverso la volontà di Dio. Il quasi a cui si riferisce Caproni riflette proprio
l'incertezza dell'uomo moderno, l'impossibilità di leggere nella realtà un'allegoria chiara e
unica. All'uomo moderno resta soltanto l'incertezza, l'impressione che nella realtà si nasconda
una realtà altra, incomprensibile alla propria razionalità. In Come un'allegoria (ma come
vedremo anche nelle raccolte successive) questa incertezza filosofica si fonde con
l'espressività della parola, attribuendo alla realtà una peculiarità emotiva, quasi che proprio
attraverso la parola il poeta riesca a descrivere la realtà altra. Non sorprende dunque che nei
testi ricorrano quasi ossessivamente delle personificazioni, delle prosopopee che a nostro
avviso differiscono da quelle analogiche usate ad esempio da Ungaretti, perchè hanno un
carattere più descrittivo e possiamo dire ontologico. L'io di Ungaretti pervade la realtà: il
poeta ne I fiumi si raffigura come un albero “mutilato” e “abbandonato”. Il lettore sa che
l'uso dei due aggettivi è riferito solo in apparenza all'albero, ma che è stato scelto in realtà per
descrivere l'interiorità del poeta, mutilata e abbandonata anch'essa dal dramma della guerra.
L'io di Caproni invece è, nelle sue prime raccolte, come abbiamo già visto, quasi sempre
esterno alle poesie, perché descrive la realtà attraverso una sensorialità che non è soggettiva,
ma universale. Già Marzo di cui abbiamo parlato è di per sé un esempio, ma guardiamo ad
un'altra poesia, Prima luce:
Lattiginosa d'alba
nasce sulle colline,
balbettanti parole ancora
infantili, la prima luce.
La terra, con la sua faccia
madida di sudore,
apre assonnati occhi d'acqua
alla notte che sbianca.
(Gli uccelli sono sempre i primi
pensieri del mondo)
Dov'è l'io? Il componimento è un tipico esempio di poesia in cui il soggetto si annulla nella
descrizione di un paesaggio, in cui l'alto numero di personificazioni (“colline / balbettanti
parole ancora infantili”; “la terra, con la sua faccia /madida di sudore, / apre assonnati occhi
d'acqua”) ha il compito di attribuire alla realtà un lato emotivo, di esprimerla appunto.
In questo senso in Come un'allegoria si può parlare di espressionismo e di allegorismo. L'uno
vive in funzione dell'altro e alla fine ciò che risalta grazie al gran numero di personificazioni
presenti nella raccolta (“ride il sole”, “una cosa scipita questa mattina” “sangue ferveva di
meraviglia” “ombra dolce” “così sbiadito a quest'ora lo sguardo del mare” “un pigro
schiumare bianco sull'alghe” “labile memoria ormai dimentica la sera” “giocondi roghi” “mi
fai pensare, o sera, con la tua pallidezza” “estate ansiosa”) è una realtà che ne intende un'altra
piena di sensualità ed erotismo, ma anche malinconica per un tempo che non sa fermarsi.
Non possiamo ancora parlare di allegoria, ma appunto di quasi allegoria, perchè vi è un
gioco espressivo tutto interno alla parola e non un sovrasenso razionale che vive al di sopra
di un livello letterale. Eppure le prosopopee ontologiche usate dal primo Caproni - che come
vedremo si dissolveranno sempre maggiormente nelle raccolte successive - attribuiscono al
testo una leggibilità letterale inquieta e insoddisfacente.
BALLO A FONTANIGORDA
Per quanto sia tematicamente che stilisticamente la seconda raccolta caproniana, Ballo a
Fontanigorda, sembri quasi un prolungamento della prima, in essa sono avvertibili alcuni
cambiamenti. Continuano ad essere presenti quelle che abbiamo definito “prosopopee
ontologiche” (“scherzano battendo l'ale / candide sui tetti a fiore / giunti, le colombelle
nuove”; “fra luci di colori / e risa, s'infatua gaia / la danza d'una montana / allegria”;
“bruciano alla bramosia segreta, le carnagioni giovani”; “a farne inquieta l'aria”; “fiato
fatuo”; “fiera iride”; “altera luce”; “demente fuga del tempo”; “la procellaria esclama con
brevi grida la burrasca lontana”; “picchi il sole”; a”llegri rivi”), ma ve ne sono altre riferite a
un “tu”, che compariva in parte già in Come un'allegoria, ma che è sempre maggiormente
presente in questi testi (“virginei occhi”; “sopra i monti spaziosi / le poche case disperse /
invidiano il colore caldo / della tua pelle”; “per te il mondo ritorna con più casti pensieri”;
“sapori casti di sale ai labbri che tentano già i tuoi pii errori”); la realtà sensoriale però non
gode dello stesso tipo di letteralità della raccolta precedente, essa sembra meno allegorica,
non vuole nascondere un significato altro da ciò che viene avvertito coi sensi. Il motivo di
tale cambiamento è che Ballo a Fontanigorda è assai più soggettivo e autobiografico di
Come un'allegoria. Particolarmente importante in questo senso è la presenza di questo “tu”
che riduce quel descrittivismo oggettivo della prima raccolta e permette al poeta di parlare
anche attraverso un “noi” che rende i componimenti più emotivamente soggettivi.
Generalmente il “tu” a cui Caproni si riferisce varia tra due donne: Olga Franzoni, la prima
fidanzata morta precocemente e personaggio essenziale delle prime poesie e Rina, la moglie.
Non è sempre chiaro a quale delle due donne quel “tu” si riferisca né Caproni ci ha lasciato
delle testimonianze a tal proposito. D'altronde, come apprendiamo dall'apparato critico di
Zuliani, alcuni componimenti di questa raccolta risalgono al 1934 quando Olga era ancora
viva. Eppure per il lettore inconsapevole di questo dato i due personaggi femminili assumono
una valenza allegorica importante che sarà sempre più rilevante nelle raccolte successive.
Come scrive Malaguti:
Più che a una confusione e a un'interscambiabilità dei riferimenti reali, che appare a prima vista, sarebbe però giusto ipotizzare l'opposto, cioè una definizione chiara e al limite anche forzosa dei ruoli simbolici delle figure femminili: se Olga è l'interfaccia della morte e il ricordo del passato da riscattare continuamente alla labilità della memoria, Rina, presente e viva, diventa la destinataria di ogni testo che solleciti e confermi la forza sensibile dell'immediato. Gli elementi biografici si trasfigurano quindi in istanze schiettamente testuali: Olga e Rina non valgono più per ciò che sono, ma per ciò che rappresentano in rapporto al contesto in cui si trovano.7
Infine viene accentuato in Ballo a Fontanigorda un tema tipico del primo Caproni: l'incontro
epifanico. Già in Come un'allegoria due poesie come Fine del giorno (ma se mi passa
accanto / un ragazzo, nel soffio / della sua bocca sento / quant'è labile il fiato / del giorno) e
San Giovambattista (Voci e canzoni cancella / la brezza: fra poco il fuoco / si spegne. Ma io
sento ancora / fresco sulla mia pelle il vento / d'una fanciulla passatami a fianco / di corsa)
suggerivano che il poeta da una realtà oggettiva trapassasse in un'altra realtà che potremmo
definire più immaginifica, ma in Ballo a Fontanigorda, questo passaggio si fa più presente.
In Incontro:
Nell'aria fresca d'odore
di calce per nuove case,
un attimo: e più non resta
del tuo transito breve
in me che quella fiamma
di lino – quell'istantaneo
battito delle ciglia,
e il pànico del tuo sorpreso
- nero, lucido – sguardo.
La realtà oggettiva e sensoriale data dall'odore di calce per la costruzione di nuove case viene
interrotta da un incontro che amplifica la sensorialità di un unico attimo in tre immagini
rimaste nella mente del poeta: la fiamma di lino, il battito delle ciglia, il panico dello sguardo
sorpreso. L'intenzione del poeta qui è ancora prima di tutto quella di descrivere quell'attimo,
una sensazione, una realtà “maggiorata”, ma più avanti nelle altre raccolte il tema
dell'incontro provocherà descrizioni più immaginifiche che preluderanno a una realtà
metafisica.
FINZIONI
Finzioni, oltre ad essere la terza raccolta caproniana è stato anche il titolo della prima silloge
di tutte le poesie scritte fino a quel momento. Come un'allegoria e Ballo a Fontanigorda
diventano dunque delle sottosezioni e sono accorpate anch'esse con il titolo ambiguo di
Finzioni come se tutta la sua poetica potesse riassumersi in questa parola. Ancora un volta è
lo stesso poeta a commentare la scelta di questo titolo:
Dico, guardate i titoli: inconsciamente, già a vent'anni, si può dire che avevo intitolato Come un'allegoria. Cioè vedevo la realtà, non la vedevo; la vedevo come allegoria di qualcosa che ci sfugge. Poi, col secondo, anticipai di almeno quaranta anni Borges: Finzioni. Vedevo gli oggetti come finzioni di qualcosa di sfuggito.8
Tra la prima e la seconda raccolta viene a instaurarsi un rapporto di relazione tra quattro
sostantivi: realtà e allegoria nella prima e oggetti e finzioni nella seconda. Da una parte la
realtà nasconde un'allegoria, dall'altra gli oggetti acquisiscono la caratteristica di essere
soltanto delle finzioni, ma in entrambi i casi ciò che resta immutato è quel qualcosa che ci
sfugge. È questa una ragione fondamentale per cui le due raccolte possono essere contenute
all'interno di un unico volume: la realtà è costituita da oggetti e il livello letterale di una
allegoria è in qualche modo una finzione, un qualcosa che esiste solo come schermo in cui
intendere qualcos'altro. Questo senso di complementarità tra le raccolte non significa
comunque che non vi siano delle notevoli differenze. Anzi tutto in Finzioni spariscono quelle
prosopopee che abbiamo chiamato “ontologiche”: la realtà intesa come paesaggio idilliaco e
bucolico non è più la protagonista dei componimenti. Essa è attraversata sempre da figure
umane descritte in maniera molto essenziale ed espressive di una vitalità erotica o
malinconica allo stesso tempo: donne, fanciulle, marinai, pescatori dominano la scena
insieme all'io del poeta (soggetto quest'ultimo, sempre più interno e presente alla poesia e
avvertito come un io-comprensivo capace di inglobare tutta la realtà esterna e ogni
percezione che essa proietta sul sé). La comparsa di tutte queste figure umane comporta una
predominanza del tema
dell'incontro epifanico. In Donna che apre riviere:
Sei donna di marine,
donna che apre riviere.
L'aria delle mattine
bianche è la tua aria
di sale - e sono vele
al vento, sono bandiere
spiegate a bordo l'ampie
vesti tue così chiare.
Oppure in Sono donne che sanno:
Sono donne che sanno
così bene di mare
che all'arietta che fanno
a te accanto al passare
senti sulla tua pelle
fresco aprirsi di vele
e alle labbra d'arselle
deliziose querele.
La vista o l'incontro con la donna provocano nel poeta una serie di sensazioni che, una volta
trascritte in versi, vengono descritte attraverso una serie di immagini “ipersensoriali” e una
densità metaforica nella quale si celano un erotismo e una sensualità molto forti. Il bisogno di
descrivere l'attimo dell'incontro con immagini tanto sensoriali è indicativa di un bisogno da
parte del poeta di voler lottare contro il tempo, di voler contrapporre ad esso un momento
avvertibile concretamente, quasi come se ci trovassimo di fronte ad una scultura. In questo
senso non siamo d'accordo con Leonelli quando scrive che “il tempo entra nella poesia di
Caproni”
9con la raccolta successiva, Cronistoria. Una concezione nostalgica del tempo che
passa è presente in fin dei conti, come abbiamo notato, già a partire da Come un'allegoria,
ma è Finzioni la prima vera raccolta sul tempo, sulla necessità di salvarlo, custodirlo nella
memoria. Se usiamo questa chiave di lettura, ci accorgiamo subito che il libro si divide a
metà all'altezza di Batticuore. In tutta la prima parte viviamo in un presente costituito dagli
incontri e dalle sensazioni iperboliche del poeta, al massimo l'io può evadere in una realtà
immaginifica (come in Veneziana in cui la vista degli “iridati occhi” di una fanciulla
veneziana produce “l'arguta / ombrata grazia d'una / scena sulla laguna” in cui prendono
colore nell'immaginazione di quei “lindi paesi” le gioie e i dolori derivati dagli arrivi e dalle
partenze dei marinai; oppure come in A mio padre in cui si descrivono una realtà sensoriale
-perchè avvertibile attraverso l'olfatto - passata e ormai perduta tipica della generazione del
padre e una ancora valida nella realtà presente abitata dal figlio), ma tutto si svolge in un
presente cristallizzato.
La seconda parte del libro che comincia con Mentre senza un saluto introduce il motivo del
lutto e del ricordo, dell'attimo presente che quasi proustianamente riconduce alla cosa
perduta. In Sonetto d'Epifania:
Sopra la piazza aperta a una leggera
aria di mare, che dolce tempesta
coi suoi lumi in tumulto fu la sera
d'Epifania! Nel fuoco della festa
rapita, ora ritorna a quella fiera
di voci dissennate, e si ridesta
nel cuore che ti cerca, la tua cera
allegra – la tua effigie persa in questa
tranquillità dell'alba, ove scompare
in nulla, mentre gridano ai mercati
altre donne più vere, un esitare
d'echi febbrili (i gesti un dì acclamati
al tuo veloce ridere) al passare
dei fumi che la brezza ha dissipati.
La poesia è divisa tempolarmente dal “fu” del v.3 e dall' “ora” del v.5. Immerso (“ora”) nelle
luci di una festa per l'Epifania e nelle grida di donne più vere (perchè vive?), il poeta ricorda
quando alla stessa festività partecipava insieme alla donna amata e ormai perduta, Olga
Franzoni. Quest'ultima è spesso chiamata in causa con il senhal della cera, che lo si ritrova
appunto anche in un'altra poesia, E ancora:
Sorpresa in delicate
tinte nella leggera
ora di sera, a un'aria
bruciata nel sudore
del giorno la tua cera
mi reca una puntura
di nostalgia:
Stasera
ti troverò?
La rosa
del tuo nome è bruciata
nella memoria. E ancora:
Ti troverò stasera?
Anche in questo caso, lo scarto temporale si esprime attraverso i due senhal della cera e della
rosa, l'uno per Olga, l'altro per Rina (il cui primo nome era appunto Rosa e che come
vedremo in più di una poesia è richiamata col nome del fiore). Guardando la cera di Rosa il
poeta ricorda Olga con “una puntura di nostalgia”, tanto da bruciare per un attimo il nome di
Rina. In questo senso due oggetti come cera e rosa, rendendosi simboli di qualcos'altro,
diventano delle finzioni, degli oggetti che sono qualcosa, ma che per il poeta significano
altro, ingannando la sua vista.
Ma allo stesso modo, sono finzioni anche tutte quelle figure umane di cui abbiamo detto: le
fanciulle, i marinai, i pescatori della prima parte del libro che incontrandosi con (o osservati
da) il poeta trasformano l'attimo presente o in una realtà immaginifica o in un ricordo. Ecco
spiegato dunque il significato del titolo ed ecco anche spiegato il motivo per cui le due
raccolte precedenti possono in qualche modo rientrare in una silloge unica. La realtà
continuamente è qualcosa che rimanda ad altro e cela un significato diverso e indecifrabile
per la razionalità umana.
CRONISTORIA
Potremmo definire Cronistoria pubblicata nel 1942 un canzoniere in morte dell'amata. Per
quanto possa pensarsi immediato il collegamento tra l'amata morta e Olga Franzoni, in realtà
non abbiamo alcuna prova che ci permetta di ascrivere al “tu” interlocutorio un'identità
sicura. La morte potrebbe essere intesa in alcune poesie anche come la morte del tempo, la
fine irreversibile dell'attimo presente, un momento sensoriale che non potrà più tornare:
Dove l'orchestra un fiato
dava a dolci figure
sopra la scena, ancora
mi conduce al tuo lato
la tua insistenza – al rosso
buio che appena in fuoco
liberava il tuo volto.
Io non ero in ascolto
di quelle note: l'ore
le bruciava l'odore
della tua maglia – il vento
lieve che la tua bocca
senza colore, nel rosso
del teatro, librava
il tuo sudore – l'aria
del tuo petto commosso.
Per quanto il tempo verbale della poesia (che coincide con il tempo verbale dominante
dell'intera raccolta) sia il passato, vi si scorge ugualmente quel momento epifanico tipico
delle raccolte precedenti. Il poeta ricorda un'orchestra, forse un giorno di festa passato con la
fidanzata, la cui vicinanza ricrea quella realtà immaginifica, ipersensoriale di cui abbiamo
detto. Che si tratti di Olga, di Rina o di qualsiasi altra donna, non possiamo dirlo, sappiamo
soltanto che l'uso del passato testimonia la scomparsa di qualcosa che è andato perduto ed è
irrecuperabile. Non a torto la Dei scrive che il “tu” interlocutorio “è una presenza precaria e
inafferrabile, volta alla fuga e alla sparizione, che ha una sua innata e caparbia resistenza,
sembra prendere forza nei distacchi, ed è per questo inseguita e rimpianta”
10, dunque,
potremmo aggiungere, quasi un fantasma. Il tono della raccolta è assai cupo. L'attimo del
ricordo, già preannunciato in Finzioni, diviene ora una ricerca ossessiva: tutta la realtà
sembra predisporsi per essere ricordata dal poeta:
Quale debole odore
di gerani ritocca
questa corda del cuore
come un tempo?
Trabocca
nel mio cuore la piena
dei tuoi giorni perduti,
dei miei giorni vissuti
senza spazio – con pena.
E lo spazio era un fuoco
dove ardevi per gioco
coi tuoi abiti – il bianco
del tuo petto, ed il fianco
che nel vento odoroso
dei gerani, in riposo
replicava il tuo accento.
Era un debole vento
che portava lontano
il tuo nome – un umano
vento acceso sul fronte
d'un continuo orizzonte.
L'odore dei gerani, sconvolge l'animo del poeta che si lascia trasportare da ricordi e da
immagini ipersensoriali. Allo stesso modo dei “gerani”, in ogni componimento s'individua un
oggetto che provoca un ricordo: l'orchestra, il “grigioverde e il sole” di Udine, un disco, un
abito rosso... è il tema solito delle finzioni, degli oggetti che sono altro da ciò che appaiono.
Ma in Cronistoria cambiano drasticamente l'intonazione e la realtà: non c'è più l'erotismo, la
sensualità, la dolce malinconia delle prima raccolte, domina un tono cupo, luttuoso e
10 Dentro 'Cronistoria', in Giorgio Caproni, I faticati giorni: quaderno veronese 1942, a cura di A.Dei, San Marco dei Giustiniani, Genova, 2000; p.12
disperato; dai verdi idilli bucolici di Come un'allegoria, dalle riviere azzurre e dai paesaggi
marini delle raccolte successive, si precipita nel cromatismo del rosso. Il fuoco, la brace, il
bruciare, ma anche il loro equivalente biologico, il sangue, permeano la raccolta. Un
cromatismo che, come molti studiosi hanno sottolineato, ricorda i Canti orfici che proprio nel
1941 erano stati ristampati da Falqui, rilanciando il “caso Campana”. È stato Oreste Macrì il
primo ad accostare il nome del “poeta visionario” a Caproni parlando di un metamorfismo
orfico e visionario che però si attuava con le forme di un classicismo rigoroso, seppure
intransitivo e autoreferenziale
11. E certamente non è un caso che Cronistoria sia passata al
vaglio della critica come la raccolta più vicina all'ermetismo per certi usi linguistici tipici di
quel movimento
12. Caproni proprio in quegli anni aveva stretto legami di amicizia con Luzi e
Betocchi, due dei poeti più importanti dell'ermetismo e si interessava certamente a quel
movimento se guardiamo alle tante recensione che dedica ad Alfonso Gatto e allo stesso
Luzi. Non possiamo negare che un certo grado di orfismo alla Campana sia presente nelle
poesie di Cronistoria: la realtà è legata a quei pochi oggetti appena accennati nelle poesie, ai
gerani, alle vesti della donna, a un'orchestra ma la poesia si affida tutta ormai al potere
evocativo e allusivo della parola, a una realtà altra, metafisica anticipatrice di quella onirica
de Il Passaggio di Enea.
Cronistoria stabilisce un punto di arrivo e un punto di svolta nel percorso poetico caproniano:
se da una parte preannuncia la totale sparizione della realtà presente e sensoriale tipica delle
prime poesie, è anche l'ultima raccolta in cui ancora è avvertibile un forte soggettivismo
autobiografico, in cui il poeta, in pieno tempo di guerra, si raccoglie in se stesso nell'estremo
tentativo di costruirsi un angolo soltanto suo e ancora essenzialmente lirico. Sebbene alcuni
critici come Malaguti abbiano azzardato l'ipotesi che la cupezza e il senso di luttuosità della
11 O.Macrì, Letture, “Libera voce”, a.V, n.15, 10/4/1947, ristampato con il titolo di Giorgio Caproni in
Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1956; pp.295-305.
raccolta siano dovute proprio al clima bellico degli anni della stesura
13, non vi è nemmeno un
indizio nei componimenti che sia in corso una guerra. Il titolo stesso presuppone una storia
cronachistica, costituita da giorni “senza virtù” come scrive lo stesso Caproni in Ricorderò
San Giorgio, una vita che attraversa città reali come Udine, Pisa, Assisi, Tarquinia e
soprattutto Roma, l'eterna capitale celebrata dalla retorica fascista che in Finita la stagione
rossa diventa il simbolo di una precarietà della vita:
Finita la stagione rossa
ritroverò la passione
di questi mattoni cotti
- l'aria di sangue e il nome
bruciato nei giorni irrotti?
Ritroverò allentata
la pietra nella balestra,
e la mia mira accecata
da quanta polvere infesta!
Né Roma avrà più gloria
dalle campagne a fuoco
verdi, ma cronistoria
sulle sue lapidi spente
dal mio soggiorno – dal gioco
rude che le sue lente
immagini, alzando i massi,
aprirono in dì precari.
(Oppure riudrò più chiari
i suoi squilli – spaccherai tu
il sasso sulla mia fronte
col grido di gioventù?)
IL PASSAGGIO D'ENEA
La raccolta ha una vicenda editoriale complessa. Pubblicata inizialmente nel 1952 col nome
di Stanze della funicolare, è composta da diciassette poesie divise in quattro sezioni, secondo
un indice assai diverso da quello definitivo
14. Col titolo di Il Passaggio d'Enea esce nel 1956
una silloge di tutte le raccolte pubblicate sino a quel momento con notevoli cambiamenti
nella struttura e nell'ordine dei componimenti nella sezione “terzo libro” Stanze della
funicolare. Nel 1968 esce presso Einaudi Il ‹‹Terzo libro›› e altre cose, che appunto riprende
il terzo libro de Il Passaggio d'Enea e contiene trentaquattro componimenti suddivisi in otto
sezioni. La raccolta (intitolata adesso soltanto Il Passaggio d'Enea) acquista una versione
definitiva soltanto nel 1983 con la Garzanti in Tutte le poesie.
Come detto a proposito della silloge unificante di Finzioni, è assai indicativo che
nell'edizione del 1956 tutto il percorso poetico caproniano finora stampato assuma il nome de
Il Passaggio d'Enea. Abbiamo già in altra sede
15indagato i rapporti che intercorrono tra
questa quinta raccolta e le precedenti, basterà ricordare che con Il Passaggio d'Enea, Caproni
sviluppa un senso nuovo di fare poesia abbandonando il lirismo più autobiografico e
soggettivo delle prime quattro raccolte e avvicinandosi maggiormente all'epos. Se dunque
fino a questo momento Caproni si era limitato ad interpretare la figura di un Orfeo moderno,
ora si sentierà assai più legato ad un altro grande personaggio della mitologia romana, Enea:
(...)Concludevo dicendo che tale Terzo libro, così isolato dal resto, potevo finalmente riconsiderarlo, con sufficiente distacco, come indicativo a me stesso della direzione - credo rimasta determinante - della mia ricerca negli anni che pressappoco corrono, piccole appendici e digressioni a parte, dal '43 al '54. Anni per me di bianca e quasi forsennata disperazione, la quale proprio nell'importance formale della scrittura (...), e quindi anch'essa disperata tensione metrica (prolungamento dell'umanistico e ormai crollato <ei> apposto con stridore e ironia 14 Nel dettaglio si guardi all'edizione mondadoriana curata da L.Zuliani (a cura di), op.cit.; p.1124-28.
15 L.Mandalis, Percorsi poetici caproniani: da Come un'allegoria a Il Passaggio d'Enea, tesi di laurea, Pisa, 2012
all'anodino <utente> delle Stanze della funicolare), forse cercava per via di paradosso, ma con lucida coscienza, e certo del tutto controcorrente rispetto alle altrui proposte e risultanze, un qualsiasi tetto all'intima dissoluzione non tanto dalla mia privata persona, ma di tutto un mondo d'istituzioni e di miti sopravvissuti ma ormai svuotati e sbugiardati, e quindi di tutta una generazione d'uomini che, nata nella guerra e quasi interamente coperta - per la guerra - dai muraglioni ciechi della dittatura, nello sfacelo dell'ultimo conflitto mondiale, già in anticipo presentito e patito senza la possibilità o la capacità, se non in extremis, d'una ribellione attiva, doveva veder conclusa la propria (ironia d'un Inno che voleva essere di vita) giovinezza.16
Si parla di “tutta una generazione d'uomini”. Ma vi sono altre dichiarazioni più esplicite:
(…) ormai è giunto il momento, dopo tanto paziente e isolato lavoro sulla parola (…) di indirizzare risolutamente il gusto al discorso: di ritentare, insomma, dopo tanta effusione, la composizione, un'ombra almeno di ciò che comunemente si intende per poema, tentando alfine il salto, ricchi di tanta esperienza formale, dalla lirica pura alla poesia. Un salto sì, dall'alto in basso, ma appunto per questo dall'astrazione (dalla solitudine) alla vita concreta (alla società).17
E infine
:Del resto ho sempre pensato che in poesia non basta "dire" patria amanda est per fare, putacaso, poesia...patriottica. Si deve semmai suscitare l'amor di patria parlando d'altro, magari, per fare un paradosso, di...cipolline. Parlarne con tanta forza da suscitare in chi legge uno spontaneo amore per la terra che le produce e per gli uomini che le coltivano! Anche da questo punto di vista val molto di più la ballatetta del Cavalcanti che non tutta la Bassvilliana di Vincenzo Monti, pur così ricca di fatti importanti, esplicitamente detti.18
Dunque la vocazione civile ed epica non deve esplicitarsi, ma nascondersi, rendersi indiretta,
spiegarsi in un modo, ma intendersi in altro. Ora, sappiamo che tutta la raccolta si basa su
una allegoria esterna dichiarata dall'autore riguardante la figura di Enea. Questi per Caproni è
16 G.Caproni, Nota a Il passaggio d'Enea, in Giorgio Caproni. L'opera poetica, pp.189-190, Garzanti 17 G. Caproni, La parte dell'attor giovane, in “Mondo operaio”, 10 dicembre 1949 (ora cit. in Adele Dei,
Giorgio Caproni, p.68)
l'eroe che
fuggendo da Troia in fiamme con su le spalle il padre Anchise e per mano il figlio Iulo, si fa
carico di un dilemma generazionale, per cui vanno portati al sicuro sia i padri che i figli verso
un futuro migliore:
Figlio e nel contempo padre, egli sofferse tutte le croci e le delizie che una tale duplice condizione comporta. Dico Enea meno eroe che uomo, e per di più uomo posto al centro di un'azione suprema, la guerra, proprio nel momento della sua maggior solitudine: quando non potendo più appoggiarsi alla tradizione, ossia al padre che, ormai cadente, è lui ad aver bisogno d'essere sostenuto, tanto meno può appoggiarsi alla speranza, all'avvenire, ossia all'ancor troppo piccolo figlio, tuttavia bisognoso d'appoggio.19
Svelata l'allegoria, bisogna tener di conto che essa pervade celatamente tutta la raccolta e
dunque gran parte dei componimenti vanno analizzati seguendo questa chiave di lettura.
Ognuna delle tre sezioni del libro corrisponde a una diversa relazione del rapporto
realtà-allegoria: la prima parte formata dai due componimenti introduttivi Alba e Strascico, da tutta
la sezione de Gli Anni tedeschi; la seconda dalla sezione intitolata Le stanze; la terza da In
appendice.
Nella prima parte ci troviamo di fronte ancora al tipico meccanismo caproniano finora
analizzato di una realtà presente che si trasforma in un'altra realtà. In Alba ad esempio:
Amore mio, nei vapori d'un bar
all'alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l'occhio, ora nell'ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?...Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tale ruote un'eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, attendo la morte.
Come scrive lo stesso Caproni a proposito della poesia:
A Roma, verso la fine del 1945. Ero in una latteria, solo, vicino alla stazione, e aspettavo mia moglie Rina che doveva arrivare da Genova. Una latteria di quelle con i tavoli di marmo, con le stoviglie mal rigovernate che sanno appunto di “rifresco”. Mia moglie non poteva stare con me a Roma perchè non trovavo casa e dovevo stare a pensione. Erano tempi tremendi. Io insegnavo.20
Se torniamo alla poesia ci accorgiamo che in essa è ancora importante una realtà sensoriale,
per cui il poeta si trova in un bar, seduto davanti a un tavolino di marmo (di cui viene
avvertito il gelo), circondato da un odore molto forte di rifresco. Ma la differenza con i
componimenti delle altre raccolte però sta nel fatto che la “realtà altra” è sempre meno
-perdonandoci la quasi-anadiplosi – “realisticamente iperbolica” e invece sempre più onirica o
metafisica. La brina, i vapori e - sebbene non in questa poesia – la nebbia, dominano tutta la
raccolta e indicano sempre un limite confuso tra realtà e sovrasenso o come scrive questa
volta giustamente il Malaguti, tra realtà ed Erebo
21. Il tram che s'intravede nella brina è un
oggetto fortemente simbolico, sembrerebbe quasi un Caronte infernale che una volta aperte le
proprie porte ai dannati le richiude in eterno. È (“forse”) l'eco delle sue ruote a far tremare il
bicchiere tra i denti dello scrittore nonostante abbia il polso fermo; poi con l'avversativa il
poeta crede che al posto dell'amata (Rina? Olga?) arrivi il sole e dunque l'alba (nelle varianti
precedenti al posto di “sgorga” era “sorga”) che preannuncerebbe la propria morte. Non è
facile interpretare il significato della seconda parte della poesia. Una spiegazione abbiamo
provata a darla nel nostro precedente studio
22, in cui costatavamo che per “morte” si
20 Intervista a Giorgio Caproni, in Gente, 1981 21 A.Malaguti, op.cit.;pp.155-163
intendesse la morte del poeta lirico e per alba (che tradizionalmente è sempre simbolo di
qualcosa che inizia) la nascita di quello epico
23, ma cosa ci interessa mostrare è il radicale
cambiamento che la realtà ha subito. Essa c'è ancora, ma sembra in costante evaporazione e
dissolvimento; gli oggetti non sono più finzioni, ma assumono un valore simbolico
difficilmente decifrabile: il tram, il bicchiere, l'alba, la donna hanno una valenza ambigua,
dicono altro da ciò che realmente sono e sembrano appannarsi tutti in una realtà spettrale.
Una caratteristica questa che pervade l'intera raccolta. Si guardi ad esempio a Strascico:
Dov'hai lasciato le ariose collane,
e i brividi, ed il sangue? Nel lamento
vasto che un pianoforte da lontane
stanze nel novilunio gronda, io sento
la tua voce distrutta – odo le trame
in rovina, e l'amore morto. Il vento
preme profondo un portone – d'un cane
dentro la notte, il gemitìo un accento
pone di gelo nel petto. E tu i fini
denti, perché tu non riaccendi, amore,
qui dove alzava di brace i suoi vini
sul selciato ogni giovane? Un madore
di brina, ora il giornale dove i primi
crimini urlano copre, e il tuo cuore.
Le immagini sono lugubri, cupe, vi è un gusto quasi alla Poe di terrorizzare attraverso una
fitta rete di simbologie oscure che persistono anche nella prima sezione della raccolta, Gli
anni tedeschi e in particolare nella sottosezione dei tipici sonetti caproniani, I lamenti.
In questa prima parte della raccolta dunque la realtà pur essendo ancora una realtà
ipersensoriale, modifica radicalmente i propri ambienti e le proprie immagini. Tutto,
diventando più simbolico, diventa più universale: un'intenzione questa che si allinea
perfettamente con le caratteristiche dell'epos.
La seconda parte della raccolta - che inizia con la sezione Le stanze - è quella in cui la
23 Una chiave di lettura che risulterebbe assai comprovata da molte altre poesie della raccolta che si svilupperebbe tutta in questa costante dicotomia di fondo. Vedi Le Biciclette, Stanze della funicolare etcetc
vocazione all'epos si compie maggiormente, in cui è esplicita l'intenzione del poeta di
universalizzare la propria esperienza di vita e di sentimento:
Le Stanze della funicolare sono un poco il simbolo, o l’allegoria, della vita umana, vista come inarrestabile viaggio verso la morte. La funicolare del Righi, a Genova, esiste davvero. Il suo primo percorso avviene al buio, in galleria: un buio, e una galleria, che potrebbero essere interpretati come il ventre materno. Poi, la funicolare sbocca all’aperto (è la nascita), e prosegue sino alla meta, tirata dal suo cavo inflessibile (il tempo, il destino), senza potersi fermare. Ogni stanza è una stagione differente della nostra esistenza. E di stagione in stagione, il passeggero (l' “utente”) cerca l'attimo bello (ogni stagione ha il suo) dove potersi arrestare: dove poter chiedere un alt nel suo essere trascinato dal tempo (il cavo) inarrestabile, fino all'ultima stazione, che nel piccolo poemetto è avvolta nella nebbia (mistero e lenzuolo funebre insieme).24
L'impulso allegorico permea il poemetto, la realtà di ogni stanza svapora in un sovrasenso,
gli oggetti che la compongono sono anch'essi qualcosa d'altro da ciò che sarebbero
letteralmente. E quando nella lettura ci troviamo di fronte a una realtà sensoriale che potrebbe
somigliare a quella delle prime raccolte, non procediamo più nel senso realtà-allegoria tipico
delle prime poesie, ma viceversa in quello allegoria-realtà. Nella terza strofa, ad esempio:
E lentamente, in un brivido, l'arca,
di detrito in detrito, entro la lieve
nausea s'inoltra – oscillando defalca
i mercati di pesce e d'erbe, e il piede
via sospinge di felpa oltre le bianche
rocce del giorno. E laddove un colore
di febbre la trascorre sulle panche
ancora intorpidite, a un tratto al sole
ahi quale orchestra frange fresca il mare
col suo respiro di plettri. Col rame
d'un primo melodioso tram nel sale
di cui l'etere vibra, fra il sartiame
d'un porto ancora tenero un'aurora
ecco di mandolini entro cui già
ronza chiusa altra spinta – ecco un'altr'ora
in cui impossibile è chiedere l'alt.
Mentre nelle prime raccolte, come abbiamo visto, il poeta da una realtà presente e sensibile
passava ad una ipersensoriale e immaginifica attraverso un incontro epifanico, adesso il
percorso è inverso: dall'allegoria di questa funicolare, dalla vita che scorre senza mai
fermarsi, il poeta intravede, quasi come fossero delle visioni, degli stralci di realtà: i mercati
di pesce e d'erbe, il primo tram della mattina e il sartiame d'un porto all'alba. È come se il
poeta sorvolasse la realtà, la guardasse dall'alto. D'altronde il poemetto stesso diventa un
contenitore di tutte le tipiche immagini caproniane delle raccolte precedenti, come ad
esempio nella strofa cinque:
L'ora che accendono bianche le tende
agitate alla prima brezza, e al mare
reca ragazze il cui sciame discende
fresco le scalinate – arde di chiare
maglie la lana e l'acuta profluvie
di capelli e di risa, e gli arrossati
calcagni acri nei sandali tra esuvie
di conchiglie ristora e vetri. I lati
vibrano della muta arpa che inclina
unicorde a altre balze, ma già un Righi
rosso da un'altra Genova la cima
tira inflessibile al cavo – dai gridi
l'arca e dalle persiane verdi l'ora
stacca come un sospiro, oltre cui sta
di specchiere freschissima la sola
stanza ove lieve era chiedere l'alt.
Sono viste dall'alto anche le fanciulle tante volte protagoniste della poesia caproniana, quegli
oggetti-finzione che apparivano in un modo, ma erano anche allegorie di un “qualcosa di
sfuggito”. È vista dall'alto pure Genova e, come apprendiamo da alcuni autocommenti al
testo, la vecchia camera della defunta Olga Franzoni, caratterizzata dalle persiane verdi e da
una specchiera. Quindi non solo la realtà viene vista dall'alto, da un punto di vista in fondo
irreale perché allegorico, ma sembrerebbe quasi che la funicolare passi sopra lo stesso
percorso poetico intrapreso da Caproni, sopra tutte quelle immagini e quelle sensazioni e quei
suoni che avevano caratterizzato le raccolte precedenti dell'autore.
Nel secondo poemetto della seconda sezione All alone, il soggetto poetante perde totalmente
il contatto con la realtà, è immerso in una allegoria costituita soltanto da simbologie. I due
testi (Didascalia ed Epilogo) che fanno da cornice al terzo (All alone) si relazionano in una
temporalità per cui il primo descriverebbe l'arrivo a Genova, il secondo la partenza.
Dobbiamo tener presente che da ora in poi Genova è sì un luogo reale, ma anche come è stato
detto un “luogo dell'anima”. Lo stesso Caproni la definirà la città del mézigue (di me stesso
in argot) in cui ha acquisito la propria personalità e maturità. In Didascalia:
Entravo da una porta stretta,
di nottetempo, e il mare
io lo sentivo bagnare
la mia mano – la cieca
anima che aveva fretta
e, timida, perlustrava
il muro, per non inciampare.
Dal vicolo, all'oscillare
d'una lampada (bianca
ed in salita fino
a strappare il cantino
al cuore), ahi se suonava
il lungo corno il vento
(lungo come un casamento)
nell'andito buio e salino.
Con me, mentre un cerino
mi si sfaceva bagnato
fra le dita, alla guazza
marina anche la luna
entrava – entrava una
ragazza, che la calza,
cauta, s'aggiustava.
Era un portone in tenebra,
di scivolosa arenaria:
era, nell'umida aria
promiscua, il mio ingresso a Genova.
cui la tensione erotica è molto forte e non è impossibile darne una lettura che alluda proprio
ad un'esperienza sessuale avuta dal poeta in quel portone nella tenebra. Anzi, questo tipo di
interpretazione si fa più verosimile se leggiamo in quel “mio ingresso a Genova” un ingresso
verso la maturità, verso il mèzigue. Il senso può essere ricostrutito grazie ad una poesia
successiva pubblicata ne Il congedo del viaggiatore cerimonioso, Lamento (o boria) del
preticello deriso che non per niente porta la dedica a Mézigue e nella quale compare
nuovamente il portone:
Da giovane amavo arraffare
anch'io, con la vostra sete.
[…]
Fors'era in me un sessuale
émpito il voler arricchire.
La Genova mercantile
dei vicoli – l'intestinale
tenebra dov'anche il mare,
se s'ode, pare insaccare
denaro nel rotolio
della risacca (ma io,
scusate, non mi so spiegare
troppo bene), il Male
in me sembrava inculcare
con spasimo quasi viscerale.
Eppure fu in quel portuale
caos, ch'io mi potei salvare.
Che dirvi, se la vera autrice
della mia conversione
(ma sì: non ho altra ragione
da addurre) fu una meretrice?
Alessandra Vangelo
è il suo nome e cognome.
Di Smirne: una giunone
così – una dannazione
per me, privo di cielo
com'ero, - che per mia ossessione
(vedete: da lei non si stacca
la mia mente) impero
ebbe, giù da Porta dei Vacca,
fino a Vico del Pelo.
[...]
Eh sì, sarebbe canzone
lunga, se dovessi narrare
com'io, ormai costretto
da un impeto di liberazione,
sfogai, fino all'estenuazione,
l'anima, in un portone.
All'alba me n'andai sul mare,
a piangere. Di disperazione.
È la descrizione di un atto sessuale avuto con una prostituta in un portone. È assai probabile
che i due componimenti descrivano lo stesso episodio: d'altronde se nel primo l'atto sessuale
porta il poeta a prendere consapevolezza di sé e a una maturazione, allo stesso modo, nella
seconda, il poeta, nei panni di un prete, decide di prendere l'abito subito dopo aver compiuto
l'atto sessuale con la prostituta.
Con All Alone l'io poetante sparisce totalmente lasciando il posto a “Uomini miti con piccole
borse / di cuoio, dove vanno parlottando / soli – scansando con brevi rincorse i veicoli, e
ancora parlottando / soli, di nottetempo nei portoni / neri dei loro vicoli la mano / mettono
avanti a tastare i polmoni / umidi che li inghiottirono?”, una poesia in cui il poeta descrive “il
rincasare e un po' il delirare a letto di certi piccoli uomini miti che girano tutto il giorno
parlottando soli e facendo i conti, con certe piccole borse di cuoio dove non sai cosa ci sia, e
che negli oggetti casalinghi trovano ancora la loro fede etc. etc.”
25Non è semplice
comprendere il motivo per cui Caproni abbia deciso di inserire All alone tra Didascalia e
Interludio ovvero tra due poesie stilisticamente e tematicamente molto simili che hanno però
davvero poco in comune con questo terzo componimento. Forse tra la poesia del suo arrivo a
Genova e quella della sua partenza ha voluto inserire un poemetto che descrivesse gli
“uomini miti” che abitano la città, con un tono polemico (marginale, ma non del tutto assente
25 Lettera a Betocchi datata “Roma, 6 giugno 1954”. Vedi anche apparato critico di Zuliani nel volume mondadoriano, op.cit; p.1233.
nella poesia caproniana) nei confronti della società industriale che aliena l'uomo dalla propria
vita e lo riduce ad un omuncolo che, con una valigetta in mano, se ne va per le vie della città
parlando da solo.
L'ultimo poemetto, quello che dà il titolo alla raccolta, Il Passaggio d'Enea si divide in tre
componimenti: Didascalia, Versi ed Epilogo. In Didascalia il poeta passa la notte in una
Casa Cantoniera vicino a una “rotabile”
26e il continuo passaggio delle automobili con i fari
accesi filtrati dalle persiane compone una specie di scheletro nella stanza, un qualcosa che
ricorda al poeta il passaggio d'Enea:
Fu in una casa rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo, come il mare.
Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci rare.
Erano lampi erranti
d'ammotorati viandanti.
Frusciavano in me l'idea
che fosse il passaggio d'Enea.
La realtà sensoriale è tornata. Essa è cupa come quella dei sonetti introduttivi Alba e
Strascico e de I lamenti, e il procedimento con cui viene descritta somiglia a quello delle
prime raccolte in cui da una realtà presente ne presupponeva un'altra inconoscibile. In questo
caso il passaggio delle automobili ricorda a Caproni, in un procedimento assai allegorico, il
passaggio d'Enea. Allegorico e non simbolico perché tra realtà sensoriale e oggetto vi è uno
26 “Questa casa cantoniera era naturalmente su una rotabile, allora le autostrade non c'erano ancora, e io sentivo sempre questo fruscio” (Intervista radiofonica Antologia, 1988)
scarto razionale e non immediato. Allo stesso modo del Baudelaire di Benjamin
27che vede
nell'albatro, nella corona, nella prostituta etc... oggetti che allegoricamente significano altro
da ciò che sono, esprimendo la fragilità interiore dell'io poetico e la decadenza della funzione
del poeta, Caproni vede negli “scheletri di luci rare” il “passaggio d'Enea”. Come ha riportato
Zuliani nell'apparato critico “l'immagine iniziale del poemetto, ossia le luci dei fari attraverso
le stecche delle persiane, presente anche nella Didascalia”
28, ritorna in una breve prosa
inedita […]:
A volte di nottetempo, mi sveglio di soprassalto e non posso più dormire. Sarà stata un'automobile lontana che passa, o lo scheletro di luce che i fari, attraverso le stecche delle persiane, fanno trascorrere fosforico sul soffitto (chissà), ma è un fatto che ho il sonno così leggero, e a dormire non ci riesco più.
Mi metto ad ascoltare il fresco rotolio della ghiaia marina nella risacca, ma poi ricordandomi subito che sono a Roma e che il mare non c'è (il mare a quest'ora, nel plenilunio è una profonda viola odorosa di pesce), allora mi accorgo ch'è il fresco respiro in coro della mia sposa e dei miei due bambini, e questo mitiga un poco lo sgomento che sempre mi prende ogniqualvolta, d'un tratto, m'accorgo d'essere qui.
In Versi il poeta scrive di ciò che vede in quel passaggio, una realtà immaginifica in cui poi
viene svelata esplicitamente l'allegoria alla base del poemetto. Il componimento è assai
importante per indagare il rapporto tra realtà e allegoria in Caproni e vale la pena analizzarlo
strofa per strofa. Nella prima strofa:
La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo, e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fitte d'un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l'occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!...Leggère
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t'aggrediscono – l'acume
27 W.Benjamin, Das Passagen-Werk, Frankfurt a.M., Suhrkamp Varlag, 1982; trad. it., Parigi, capitale del XIX
secolo. I “Passages” di Parigi, a cura di R.Tiedemann, Torino, Einaudi, 1986.