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Nuove mappe cognitive per interpretare il cambiamento

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Academic year: 2021

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Nuove mappe cognitive per interpretare il cambiamento New cognitive maps for interpreting change

Michele Talia,

Professore ordinario di Urbanistica

Scuola di Architettura e Design, Ateneo di Camerino michele.talia@unicam.it

Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina,

ma io sono il fiume. E’ una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco.

Jorge Luis Borges, Altre Inquisizioni

New cognitive maps for interpreting change

Keywords: physical form, urban patterns, housing types, scenarios, utopia

Abstract

As often happens in individual and collective affairs, we speak of a ‘period of transition’ when we lack the words to describe a change or when there are not enough elements to understand the complexity of the phenomenon we are experiencing. At first glance such a situation would also seem to apply to the current systemic crisis, but we cannot ignore the existence of a coincident counter process. In virtue of this counter process, modern society tends to be characterised more and more as a society of information. Its development can be associated with the original role played by language, which, due to its unprecedented performance power, manages to transform into reality what it describes in words.

On closer inspection, the evolution in meaning of “urban form” and “housing type” is particularly affected by this transition (and this paradox). This is true to such an extent that after having believed that, once elaborated, neither described a hypothesis liable to revision but rather an authoritative reference for action, today we tend to propose a different scenario in which forms and types no longer seem destined to describe the existing situation or evaluate the possibility of a controlled transition but rather to explore the prospect of overcoming current territorial formations.

As a result of this different acceptance, the identification of new settlement models and the search for typological proposals to apply on the large and small scales can participate in a new updated reflection on new strategic planning instruments. In an attempt to overcome limits in the utopian temptations of those planning changes while overlooking the beginning of reality, such tools instead aim to instil territorial government with a constructive vision where the forecasts (or models) are self-determining via clear devices

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for collective learning and integrated management of the urban transformations.

Overcoming the deep-rooted conviction that tends to contrast models with utopian projects, the observation of new spatial forms induces us to create a plan that underlines the propensity to carefully define the idea of the city to be proposed; at the same time we can probe the capacity of urban-planning discourse to envision a future where the community can learn again to imagine and hope.

Even more interesting is the reflection that has developed in recent years around typology research thanks to the success of key directions that “force” the study of building types well beyond their traditional tasks of aiding architectural design; as well, these directions identify invariants that connect back to the urban project. Due to these new meanings, the debate on the city’s futures can consider the extreme richness of morphological solutions and the spatial layout available to the designer and, at the same time, the need to make use of classification schemes that allow different points of view to be rigorously compared. Premessa

Nei lunghi anni del post-modernismo imperante la discussione sul progetto della città ha conosciuto una fase di prolungato declino, che ha finito per coincidere con la progressiva rimozione di alcuni termini fondamentali per l’analisi e la modificazione consapevole della forma urbana. Per effetto di questa controriforma culturale il riferimento ai concetti di Tipo e di Modello, dopo aver rappresentato la chiave di volta dell’idea modernista di urbanistica, ha ceduto il passo a una visione più estemporanea della città, in cui l’impossibilità di governare la complessità delle strutture sociali e delle nuove forme insediative finiva per coincidere con l’accettazione, e talvolta con l’esaltazione, di un’estetica della frammentazione e della asimmetria.

Anche se l’architettura postmoderna ha messo in discussione ogni idea di progresso e di continuità, e ha provato a liquidare qualunque rappresentazione di un futuro radicalmente diverso dall’eterno presente, non sembra esserci riuscita troppo a lungo e le lancette dell’orologio hanno finalmente ripreso il proprio movimento. Così come il superamento del progetto illuministico era stato anticipato a metà Ottocento dal primo vero crollo del sistema mondiale di accumulazione capitalistica (Maggio, 2015), oggi la liquidazione del post-modernismo può avvenire sotto la pressione di una nuova grande crisi di sistema, che alla stregua dei grandi cicli descritti da Fernand Braudel sembra destinata a produrre un autentico salto di paradigma (Bonomi, 2013).

Come ho già avuto modo di osservare in altra sede l’esito di questa grande trasformazione è rintracciabile nel nuovo assetto del mercato, delle tecnologie, della organizzazione della società e del territorio (Talia, 2009), ma qui mi preme approfondire le modificazioni subite dal rapporto tra tipo e modello (o al contrario tra modello e tipo), che in una fase di complessa transizione come quella attuale sembrano destinate a riacquistare una dimensione problematica. Se è vero, come ci ricorda Marc Augé, che per molti anni siamo stati indotti a ritenere che il modello, una volta elaborato, non fosse più un’ipotesi passibile di revisione, ma un autorevole riferimento per l’azione, oggi dobbiamo fare i conti con un differente scenario, nel quale i modelli insediativi e i processi tipologici non si propongono più di descrivere la situazione esistente, o di valutare la possibilità di una loro evoluzione controllata, ma piuttosto di esplorare le prospettive di superamento degli attuali assetti urbani (Augé, 2012).

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Tipi e modelli nel discorso sulla città

Accade sovente che nelle vicende individuali e collettive si parli di 'periodo di transizione' quando non ci sono elementi sufficienti per comprendere la complessità dei fenomeni ai quali si sta assistendo. Almeno a prima vista una situazione siffatta sembrerebbe verificarsi anche nel caso della grave crisi che ha investito le aree urbane di più antica industrializzazione, ma non possiamo ignorare l’esistenza di un concomitante processo di segno opposto; in virtù di quest’ultimo la società contemporanea tende sempre più a caratterizzarsi come società dell’informazione, e il suo sviluppo può essere associato al ruolo inedito assunto dal linguaggio, che grazie a un potere performativo senza precedenti riesce a trasformare in realtà ciò che descrive a parole.

Seguendo l’incitamento di una cultura dell’informazione che impone contenuti e retoriche che sembrano in grado di ispirarsi a un nuovo vocabolario frutto della divulgazione scientifica (globalizzazione, flessibilità, governance, inclusione), il discorso sulla città finisce per smarrire la consapevolezza che tra verità, autorità e seduzione retorica esistono profonde differenze (Lyotard, 1981); ne consegue che anche a causa della mediazione testuale operata dal linguaggio, la vita quotidiana rischia di perdere di vista le realtà concrete in cui le persone abitano, producono, interagiscono e consumano (Boniburini, 2009).

A fronte di questo evidente paradosso, comunità apparentemente consapevoli dei compiti che sono chiamate a svolgere manifestano una crescente propensione a ridurre il campo della propria iniziativa e della stessa propensione a programmare gli interventi futuri, frazionando la propria attività in una serie di progetti a breve termine che stimolano orientamenti “laterali” anziché “verticali” (Bauman, 2007). Come ci ricorda nuovamente Bauman in un’intervista rilasciata nel 2003 il tempo di attenzione umana sembra essersi ristretto, ma ancor più significativo è “il restringimento del tempo dedicato alla previsione e alla pianificazione. In tutte le epoche il futuro è stato incerto, ma la sua capricciosità e volatilità non è mai stata avvertita con tanta intensità come nel mondo della modernità liquida e del lavoro <flessibile>, dei legami umani fragili, degli stati d’animo fluidi, delle minacce aleggianti e dei pericoli invisibili” (Bauman, 2003, pag. 110).

A ben vedere l’evoluzione del significato attribuito ai concetti di “modello” e di “tipo” risente in modo piuttosto evidente di questo “scarto” piuttosto repentino; come ci ricorda Marc Augé (2012) per molti anni siamo stati indotti a ritenere che il modello, una volta elaborato, non descrivesse più un’ipotesi passibile di revisione, ma un autorevole riferimento per l’azione, mentre oggi dobbiamo fare i conti con un differente scenario, nel quale modelli e tipologie non sembrano destinati a descrivere la situazione esistente, o a valutare la possibilità di una loro evoluzione controllata, ma piuttosto sono invitati ad esplorare le prospettive di superamento delle attuali formazioni territoriali.

Grazie a questa differente accezione, l’individuazione di nuovi modelli insediativi e la ricerca di proposte tipologiche da applicare alla grande e alla piccola scala possono partecipare a una discussione aggiornata sulla pianificazione strategica. Puntando a superare i limiti presenti nelle tentazioni utopiche di progettare il cambiamento senza tener conto adeguatamente del principio di realtà, si può tentare di orientare il governo del territorio a una visione costruttivista, che vuole che le profezie (o i modelli) si autodeterminino attraverso dispositivi articolati di apprendimento collettivo e di gestione integrata delle trasformazioni urbane (Watzlawick, 1988, pag. 88).

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Superando la convinzione radicata che tende a contrapporre il modello al progetto utopico in virtù della sua capacità di definire “relazioni finite in un contesto fenomenico specifico, senza pretendere di presentarsi come metodo generale” (Gregotti, 1966, pag. 19), l’indagine compiuta intorno alle nuove morfologie spaziali prodotte dalle trasformazioni insediative ci induce a elaborare una concezione del “modello” che ne sottolinea la propensione a definire una determinata idea di città che il progetto urbanistico ha intenzione di proporre, e di saggiare al tempo stesso la capacità dello stesso modello di orientare il discorso urbanistico verso un futuro che la comunità possa imparare nuovamente a concepire e ad augurarsi.

Non solo; in virtù della sua capacità di fornire nuove strategie di orientamento nella complessità, il modello può rappresentare un prezioso dispositivo concettuale da impiegare, come il filo di Arianna nel labirinto di Cnosso, nella semplificazione e riduzione gnoseologica delle molteplici forme assunte dagli insediamenti contemporanei. Seguendo l’insegnamento di Ulrich Beck, una siffatta procedura è in grado non solo di aiutarci a riportare ordine nel repertorio infinito di situazioni “particolari” prodotte dalla contemporaneità, ma anche ad affrontare il conseguente senso d’incertezza mediante un incremento di riflessività, di partecipazione democratica e di autodeterminazione degli individui (Beck, 2000).

Ancora più interessante è poi il dibattito che negli ultimi anni si è sviluppato intorno alla ricerca tipologica, grazie anche all’affermazione di orientamenti critici che “forzano” lo studio dei tipi edilizi ben oltre i loro compiti tradizionali di aiuto alla progettazione architettonica che da tempo sono stati messi in discussione. Se infatti proviamo a rileggere i processi evolutivi che hanno caratterizzato la formazione storica dell’ambiente antropico, ci accorgiamo che la forma degli insediamenti risulta fortemente condizionata dalle regole spaziali che alle diverse scale ne hanno segnato la trasformazione, con ripercussioni significative per gli organismi urbani e gli aggregati edilizi complessi e, ovviamente, per gli stessi tipi edilizi (Cappuccitti, 2008).

L’indagine tipologica, passando attraverso l’individuazione delle invarianti cui ricondurre il progetto urbano, può dunque contribuire a un confronto sui futuri della città che tenga conto della estrema ricchezza delle soluzioni morfologiche e delle articolazioni spaziali che sono a disposizione del progettista e, al tempo stesso, della necessità di ricorrere a schemi classificatori che permettano una comparazione rigorosa tra punti di vista differenti.

Il governo delle nuove formazioni territoriali e la smaterializzazione dei confini Nel proporre la riscoperta di concetti come “tipo” e “modello”, che a causa di un uso eccessivo hanno ormai smarrito il loro potere evocativo, non possiamo fare a meno di considerare che i cambiamenti subiti negli ultimi decenni dalla città occidentale ci costringono a misurare l’attualità e la fertilità di queste rappresentazioni mentali. Lungo la stretta linea di crinale che separa la diffusione insediativa dai processi di metropolizzazione, i modelli spaziali e le soluzioni tipologiche che abbiamo ereditato dalle utopie del XIX secolo assumono un valore emblematico, ma possono essere sostituiti da riferimenti più attuali, che sono in grado di acquisire un rinnovato valore allegorico e di imporsi nell’immaginario collettivo degli abitanti delle nuove conurbazioni.

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Quanto ai modelli si tratta in particolare di concepire una rappresentazione simbolica di notevole impatto, tale cioè da favorire il raffronto tra soluzioni che esprimano le conseguenze della adesione a un differente principio insediativo. Nel caso invece delle tipologie da utilizzare come termine di paragone, la simulazione dell’impatto determinato dalla adozione di una peculiare conformazione dell’insediamento offre l’opportunità di valutare le ripercussioni che un particolare assetto spaziale può produrre sull’immagine urbana e sulla qualità dell’abitare.

Un primo termine di riflessione è costituito a tale proposito dal sovvertimento delle vecchie mappe mentali a seguito del crollo dell’ordine spaziale e della affermazione di matrici insediative in cui una crescente frammentazione tende a costituire il carattere dominante. Nei nuovi equilibri disegnati dalla innovazione tecnologica e dai processi di globalizzazione, le relazioni spaziali subiscono un vero e proprio cambiamento genetico, se non altro perché spazio e tempo - pur rivelandosi essenziali nel condizionare la mobilità geografica, il decentramento produttivo e i flussi finanziari – non si propongono più come dimensioni materiali e tangibili della vita sociale. In casi come questi le tensioni introdotte dalla progressiva rimozione di confini e partizioni tra aree che in precedenza apparivano distinte, se non addirittura contrapposte (città-campagna, centro-periferia, urbano-extraurbano, ecc.), impongono la ricerca di nuove configurazioni spaziali e di scenari alternativi in grado di consentire una scelta informata tra differenti modelli insediativi. A fronte dei processi di superamento e di “smaterializzazione” dei limiti della città e degli altri cambiamenti radicali cui stiamo assistendo, i modelli urbani e la classificazione tipologica potranno fornire utili indicazioni al governo del territorio nella misura in cui sapranno abbandonare gli esercizi prudenti di estrapolazione delle tendenze in atto che si sono imposte negli ultimi decenni, per adottare approcci maggiormente visionari e non rifiutare i rischi e le opportunità offerte dalla immaginazione utopica. Se assumiamo che l’attuale crisi di sistema costituisce un brodo di coltura particolarmente favorevole per l’affermazione di elementi di discontinuità nella previsione degli eventi futuri, possiamo abbandonare la tradizionale accezione negativa dell’utopia per assegnarli il compito di “aiutarci ad avvistare possibilità politiche ed empiriche” (Jameson, 2007, pag. 285) cui altrimenti non avremmo pensato.

Soprattutto nel caso delle “utopie realizzabili” proposte da Jona Friedman, l’esercizio di argomentare le molteplici opzioni che ci troviamo di fronte – e non solamente di considerare quelle più semplici e a portata di mano – costituisce un prezioso antidoto nei confronti della tendenza diffusa alla adozione di atteggiamenti rinunciatari, con la conseguenza di favorire l’acquisizione di una coscienza del tempo maggiormente aperta al futuro e incline al cambiamento.

Tra gli effetti più eclatanti di questo cambio di atteggiamento nei confronti della progettualità utopica vi è quello di portare alle estreme conseguenze la critica alla città contemporanea, soprattutto laddove si cerca di contrastarne la tendenza all’appiattimento sul presente e la sfiducia nei processi identitari. Il modello negativo da cui si cerca di rifuggire è soprattutto quello indicato da Rem Koolhaas per la città del XXI secolo, che implica la liquidazione della pianificazione urbanistica non tanto perché la sua Città Generica non debba essere comunque progettata, ma in quanto “la pianificazione non fa alcuna differenza. Quest’ultima infatti può preoccuparsi di collocare opportunamente le funzioni urbane, o al contrario può disporle in modo irrazionale, ma il modo in cui le città si sviluppano o muoiono appare comunque imprevedibile” (Saragosa, 2011, pag. 281).

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La rinuncia a influire sulla trasformazione di una Città che è percepita come una ripetizione frattale e infinita di uno stesso modello strutturale elementare ha costituito molto probabilmente una delle cause scatenanti dell’intreccio tra crisi economica e crisi urbana cui abbiamo assistito in questi ultimi anni. Al tempo stesso tuttavia tale abdicazione sembra essere alla base di una spinta di segno contrario, che punta a reintrodurre il nostro sguardo critico nei territori post-metropolitani, dove si avverte ormai l’esigenza di riutilizzare gli strumenti analitici a disposizione del ricercatore territoriale per mettere in dubbio l’indiscutibile o l’indiscusso (Augé, 2012, pag. 80), e cioè per contrastare con le armi dell’intelligenza e del coraggio intellettuale la deriva fatale imposta dalla città generica.

I nuovi compiti del progetto urbanistico

In linea con la lettura adattativa del cambiamento che abbiamo utilizzato nelle argomentazioni precedenti, e che consente di sostituire alla passiva accettazione degli eventi osservati la ricerca delle potenzialità/probabilità espresse dalla realtà fenomenica, possiamo ritornare ai concetti di Tipo e Modello che abbiamo momentaneamente abbandonato per verificare se entrambi possono essere utili nella definizione del nuovo ruolo del progetto urbanistico dopo il tramonto della cultura post-moderna.

Un’utile traccia da seguire per muoversi più speditamente in questa direzione è costituita ad esempio dalla proposta di un marcato sviluppo degli esercizi di collaborazione tra le istituzioni cui compete il governo del territorio. In un quadro che si caratterizza al tempo stesso per la frammentazione delle strutture insediative e per il mancato riordino delle competenze in materia di pianificazione (che anzi appare ulteriormente accentuato a causa del ridimensionamento del ruolo delle province), è possibile auspicare una tendenza convergente da parte dei contesti metropolitani e delle reti dei medi e piccoli comuni a puntare con maggiore convinzione sulle politiche di piano, anche al fine di utilizzare la cooperazione come risorsa in grado di garantire una gestione più efficiente e autorevole di accordi, protocolli e altre pratiche contrattuali (Talia, 2013).

Nella misura in cui questa nuova generazione di moduli negoziali dovrà fare a meno della rete di sicurezza offerta dai tradizionali meccanismi a carattere prescrittivo – che risultano fortemente indeboliti non solo, come si è visto, con riferimento all’area vasta, ma anche per quanto concerne il piano urbanistico comunale, che in attesa di una legge quadro di livello nazionale appare svuotato e delegittimato – si avverte l’esigenza di un crescente ricorso a documenti a carattere strategico con cui riaggregare i territori della dispersione. In virtù di questo accresciuto bisogno di interlocuzione, la capacità evocativa della comunicazione acquista un’evidente centralità, ed è ragionevole supporre che i modelli urbani che riusciremo a elaborare non dovranno più preoccuparsi di privilegiare i riflessi applicativi e i contenuti tecnico-amministrativi, ma eserciteranno la propria attitudine comunicativa a favore del dialogo tra soggetti e attori della pianificazione con visioni, scenari e indirizzi strategici. Analogamente la classificazione degli interventi con cui cercheremo di qualificare un nuovo ciclo del processo di urbanizzazione non dovrebbe proporsi di dettare le regole morfo-tipologiche con cui governare le trasformazioni urbane in modo dirigistico (e dunque sostanzialmente inefficace), ma dovrà impegnarsi nella ricerca delle condizioni che potranno aprire la strada ad un’evoluzione incrementale della attuale struttura insediativa.

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In questa costante mediazione tra approcci visionari e orientamenti pragmatici, è ragionevole supporre che l’affermazione di un nuovo paradigma urbano sarà in grado di superare il pericolo di una dissoluzione rapida e irreversibile dell’idea di città che abbiamo ereditato dalle precedenti generazioni se potrà ricevere importanti sollecitazioni dalla elaborazione di un nuovo linguaggio urbanistico. A fronte di una crescente esposizione pubblica del progetto e degli interessi che quest’ultimo si propone di veicolare, la disciplina urbanistica deve raccogliere una sfida particolarmente impegnativa, che la spinge a contaminare il lessico specialistico con termini e concetti presi a prestito da altri campi della conoscenza e della comunicazione.

Spingendosi oltre le espressioni tipiche di un sapere esperto, la pianificazione del territorio dovrà dunque affinare la sua capacità di raccontare un progetto, riuscendo a descrivere in modo convincente i risultati che s’intendono conseguire prima ancora di ultimare la traduzione dell’idea progettuale in elaborati tecnici definitivi, e comunque molto prima di ottenere la validazione formale e le verifiche tecniche necessarie per passare dalla intuizione preliminare alla fase attuativa. Il progetto urbanistico, se saprà superare le convenzioni della tradizione accademica e delle routine burocratiche, sarà altresì in grado di stimolare nuove interazioni e fertili momenti di confronto, se non altro perché la transizione verso una nuova idea di città ha bisogno non solamente di prospettare nuovi equilibri insediativi, ma anche di ricostituire un’agorà virtuale nella quale ritessere i fili di un’identità urbana di cui la cultura post-moderna aveva pensato di poter fare a meno. Riferimenti bibliografici

Augé, M. (2012). Futuro. Torino: Bollati Boringhieri.

Bauman, Z. (2003). Intervista sull’identità (a cura di B. Vecchi). Bari: Laterza.

Bauman, Z. (2007). Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido. Bari: Laterza. Beck, U. (2000). La società del rischio. Verso una seconda modernità. Roma: Carocci. Boniburini, I., ed. (2009). Alla ricerca della città vivibile. Firenze: Alinea.

Bonomi, A. (2013). Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi. Torino: Einaudi. Borges, J. L. (1963). Altre Inquisizioni. Milano: Feltrinelli.

Cappuccitti, A. (2008). “Forme insediative”, in C. Mattogno (ed.), Ventuno parole per l’urbanistica, Roma: Carocci.

Gregotti, V. (1966). Il territorio dell’architettura. Milano: Feltrinelli. Jameson, F. (2007). Il desiderio chiamato utopia. Milano: Feltrinelli. Lyotard, J. F. (1981). La condizione postmoderna. Milano: Feltrinelli.

Maggio, E. (2015). Moderno/Postmoderno: Il giardino dei pensieri – Studi di storia della filosofia, http://www.ilgiardinodeipensieri.com/temi/indice-temi-ft.htm.

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Saragosa, C. (2011). Città tra passato e futuro. Roma: Donzelli.

Talia, M. (2009). La riforma del governo del territorio e il nuovo ordine urbano, Urbanistica, n. 138.

Talia, M. (2013). A metà del guado, verso un nuovo ordine urbano. Quaderni di TRIA, vol. 4.

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