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In my beginning is my end… Thomas S. Eliot, Four Quartets
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INDICE
Riassunto 4 Introduzione 7 Scopo 40 Materiali e metodo 41 Risultati 49 Discussione 54 Tabelle e figure 62 Bibliografia 724
RIASSUNTO
L’influenza del sonno sui processi cognitivi, in particolare quelli mnestici è stata estesamente studiata. In particolare il ruolo del sonno NREM nel consolidamento mnestico è stato sottolineato secondo differenti modelli. La microstruttura del sonno, valutata secondo i parametri del pattern alternante ciclico, è stata correlata a modificazioni plastiche e a processi cognitivi in diverse situazioni sperimentali e cliniche ma non nella patologia neurodegenerativa. D’altro canto, numerosi lavori sottolineano che già nelle fasi iniziali delle demenza si osservano alterazioni del sonno e che questi fenomeni possono anche precedere l’insorgenza della sintomatologia clinica. La più importante condizione di aumentato rischio di sviluppare la demenza di Alzheimer è rappresentata dal mild cognitive impairment. Scarsi sono i dati obiettivi e le valutazioni standardizzate sulle variabili ipniche in questa condizione. Scopo del presente lavoro è stato valutare le modificazioni della macrostruttura e della microstruttura del sonno in un gruppo di pazienti con MCI,
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confrontandoli con controlli sani e pazienti con Alzheimer, valutare se vi fossero differenze in pazienti evoluti in demenza e non evoluti e correlarle con i risultati ai test neuropsicologici. Dodici pazienti (7F, 5M), di età compresa tra 68 e 78 anni (età media ± DS: 73 ± 4 anni), con diagnosi di MCI sono stati sottoposti a polisonnografia ambulatoriale. L’analisi della macrostruttura del sonno non ha evidenziato differenze statisticamente significative nei principali parametri nei pazienti MCI rispetto ai controlli, mentre quella microstrutturale ha mostrato un incremento delle componenti rapide ed una riduzione delle componenti lente del CAP, con correlazioni con il test delle 15 parole di Rey (memoria immediata), il test delle matrici attentive e la fluenza verbale fonemica. La durata del sonno ad onde lente correlava inoltre con test di memoria verbale e spaziale, mentre la veglia infrasonno con la fluenza verbale. Nei pazienti MCI evoluti in demenza, è stata osservata una riduzione dell’instabilità del sonno ad onde lente ed una riduzione delle componenti lente del CAP.
Tali dati sono in linea con analoghe osservazioni in protocolli sperimentali e in bambini con disabilità psicologiche e sottolineano le importanti relazioni dinamiche e reciproche tra sonno e funzioni
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cognitive. Inoltre, le variabili microstrutturali potrebbero essere proposte come nuovi biomarkers dell’evoluzione in demenza in associazione a quelli già comunemente utilizzati.
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INTRODUZIONE
Sonno e funzioni cognitive
L’influenza del sonno sui processi cognitivi, in particolare quelli mnestici è stata estesamente studiata, ma le relazioni tra i due fenomeni risultano ancora non perfettamente comprese. Il problema principale è rappresentato dal fatto che sia la memoria che il sonno non sono omogenei, ma eterogenei e costituiti da diverse componenti e processi che si svolgono in tempi differenti. Il sonno è organizzato in differenti stadi, cicli e fenomeni transitori, che si ripetono nell’arco della notte in una maniera ordinata e che variano costantemente nel corso della notte con modificazioni che avvengono in intervalli di tempo molto variabili, armonizzate ed integrate tra di loro. Allo stesso modo, la memoria è suddivisibile in differenti sottotipi e si modifica con il tempo, essendo un processo che necessita di una serie temporale di passaggi diversi.
Tipicamente la memoria può essere divisa in dichiarativa (esplicita) e procedurale (implicita) ed ogni sottotipo viene ulteriormente suddiviso
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in altre categorie; i processi di memorizzazione richiedono fenomeni di apprendimento, potenziamento a breve e lungo termine e richiamo delle informazioni memorizzate, che sono state diversamente classificate secondo diversi modelli (Squire, 2004).
Il sonno svolge già un ruolo nel preparare circuiti neuronali per l’iniziale encoding delle informazioni. Esistono una serie di lavori recenti in cui la deprivazione di sonno prima dell’esposizione a nuovo materiale da ricordare determina una riduzione della performance. In particolare il materiale ad alto contenuto emozionale positivo viene ricordato in maniera meno efficace nei soggetti che sono stati sottoposti a deprivazione di sonno notturno (Walker, 2010). Senza un corretto sonno, la funzione ippocampale appare quindi alterata e il tentativo di compenso che si verifica mediante un incremento dell’attivazione delle aree frontali (come evidenziato da studi di RM funzionale) non riesce a superare i deficit nel memorizzare nuovi contenuti (Walker & Stickgold, 2006). Per quanto riguarda il ruolo del sonno nel consolidamento della memoria i dati sono robusti e consistenti e riguardano prevalentemente il sonno NREM ad onde lente (slow wave sleep, SWS) (Walker, 2010). Pur nella differenza tra
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protocolli e tecniche sperimentali, il sonno ad onde lente (soprattutto della prima parte della notte) è infatti quello maggiormente correlato alle modificazioni mnestiche e più in generale alla performance del giorno successivo.
In alcuni protocolli sperimentali in cui il test cognitivo richiedeva l’utilizzo di aree cerebrali specifiche, è stato possibile evidenziare come le medesime aree cerebrali presentassero un incremento dell’attività delta (nelle medesime aree) che correla con il miglioramento delle performance nel giorno successivo (Huber et al., 2004). Parallelamente, la stimolazione magnetica durante il sonno ha determinato la comparsa di un incremento di attività delta durante il sonno ed un corrispondente miglioramento in performance di memoria dichiarativa (Diekelmann & Born, 2010). Inoltre il sonno notturno protegge la memoria dichiarativa dalle interferenze di nuovo materiale cognitivo; in altri termini, le funzioni mnestiche testate dopo una notte di sonno risultano significativamente più resistenti alle interferenze, mentre dopo un giorno di veglia sono molto più suscettibili ad un protocollo di apprendimento antagonistico ed interferente (Ellenbogen et al., 2006).
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I principali modelli sviluppati per spiegare la plasticità neuronale legata al sonno sono due. Secondo il modello del dialogo ippocampo-neocorticale durante il sonno l’ippocampo gioca un ruolo cruciale nel riattivare questi circuiti rinforzando le connessioni neocorticali e permettendo che le informazioni si riattivino nella sola neocorteccia (Diekelmann & Born, 2010). Il modello di Tononi e Cirelli (Tononi e Cirelli, 2003; 2006) postula il ruolo fondamentale del sonno nel regolare la connettività sinaptica cerebrale, principalmente della neocorteccia. Il ruolo dell’attività ad onde lente del sonno sarebbe quello di ridurre o comunque depotenziare l’attività sinaptica in maniera da evitare la saturazione della plasticità neuronale rendendo possibili nuovi apprendimenti. Le due ipotesi, secondo alcuni autori, non sono in realtà inconciliabili (Walker, 2010): in ambedue i modelli, durante il sonno il rapporto segnale-rumore aumenta e vengono mantenute (o potenziate) soltanto le informazioni che sono più forti: in altri termini il sonno potrebbe determinare un progressivo fenomeno di selezione e rimozione, permettendo di recuperare una capacità sinaptica sufficiente per le informazioni del giorno successivo. Il consolidamento e la preservazione di memorie episodiche recenti è
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legato prevalentemente al sonno ad onde lente, il sonno e più spesso il sonno REM può giocare un ruolo importante nell’estrarre schemi generali da esperienze individuali aiutando tre specifiche, anche se non esclusive forme di integrazioni mnestiche come l’assimilazione delle nuove informazioni nel network delle informazioni già acquisite, l’astrazione di regole generali e l’unificazione (“unitization”) di informazioni recentemente acquisite. Inoltre il sonno REM appare particolarmente importante nella memorizzazione di eventi ad alto contenuto emozionale, visto il particolare stato neurochimico e di attivazione di circuiti neuronali in cui si verifica. (Walker & Stickgold, 2010).
Anche altre variabili neurofisiologiche sono state correlate a processi plastici durante il sonno, in particolar modo, eventi transitori e parametri di instabilità del sonno, soprattutto NREM. Il pattern alternante ciclico (CAP) è stato messo in relazione a funzioni cognitive in differenti contesti clinici e sperimentali. L’interesse verso parametri microstrutturali e di instabilità del sonno nasce più in generale dall’esigenza di superare i limiti della valutazione convenzionale del sonno notturno. La valutazione neurofisiologica del
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sonno è stata definita e standardizzata a cominciare dagli anni Sessanta. In 1968, Rechtschaffen e Kales hanno coordinato un gruppo di esperti per concordare un manuale standardizzato per la lettura del sonno. Questo manuale, poi rivisto nel 2007 da parte dell’ American Academy of Sleep Medicine, rappresenta la base per la lettura e la descrizione delle caratteristiche neurofisiologiche del sonno.
Sulla base di questa classificazione è possibile riconoscere i cicli e gli stadi del sonno che rappresentano l'impalcatura ipnica su cui si articola l'alternarsi del sonno NREM e sonno REM. L'organizzazione in stati e cicli definisce cioè la “macrostruttura del sonno”. Tuttavia, questa stadiazione presenta importanti limitazioni. Innanzitutto, suddivide il sonno in epoche valutate in maniera discontinua (a gradini) mentre il processo ipnico è un fenomeno continuo e graduale che si modifica nel tempo. Inoltre, aspetti EEG o poligrafici di più stadi possono essere presenti nella stessa epoca che viene comunque assegnata allo stadio maggiormente rappresentato. Infine, nel sistema macrostrutturale vengono scotomizzati una serie di eventi transitori e di breve durata, ma di grosso significato dinamico, da correlare verosimilmente a fenomeni di plasticità neuronale ed a flussi di
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informazioni durante il sonno (Parrino et al., 2009). È nato pertanto un crescente interesse verso la valutazione di tali fenomeni transienti riuniti sotto la denominazione di “microstruttura”. Una serie di regole sono state proposte dall’American Sleep Disorder Association (ASDA) nel 1992 e successivamente confermata nel Nuovo Manuale per lo Scoring del Sonno nel 2007 per definire i microrisvegli o arousal. In base a questi criteri, gli arousal vengono definiti come una brusca variazione nel pattern EEG, che può includere frequenza teta (4-7 Hz), alfa (8-13 Hz) e/o frequenze più alte, ma non fusi del sonno. Gli arousal devono essere preceduti da almeno dieci secondi di sonno continuo. Nell’accezione ASDA, gli arousal sono considerati soltanto in associazione con l’invecchiamento e con i disturbi del sonno, mentre una certa quota fisiologica degli arousal spontanei è presente nel sonno normale in ogni età (Boselli e coll., 1998). La definizione di arousal è stata criticata inoltre per difficoltà applicative in alcune patologie del sonno e nella popolazione pediatrica e per la mancanza di una solida spiegazione biologica per i criteri della durata. Inoltre, il fenomeno dell’arousal rende conto solo di una parte dei fenomeni EEG transienti e non comprende eventi caratterizzati da
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sincronizzazione EEG come delta bursts e sequenze di complessi K. Inoltre nella maggior parte dei casi un arousal è preceduto da onde delta o comunque da sincronizzazione EEG e tale informazione viene perduta nell’analisi dei soli arousal. Infine, è stato evidenziato come gli arousal non siano casualmente dispersi nell’ambito del sonno, ma siano per la maggior parte ordinatamente disposti durante il sonno NREM in un ritmo spontaneo generalmente intorno ai 20-40 secondi definito Cyclic Alternating Pattern o CAP, descritto per la prima volta da Terzano nel 1985 (Terzano e coll., 1985). In condizioni fisiologiche il CAP è presente in tutti gli stadi del sonno NREM e si identifica come una sequenza di cicli che si ripetono periodicamente e che sono composti da una fase di attivazione che si staglia sul ritmo di fondo e che può comprendere anche attività in sincronizzazione (fase A) e da una fase in cui ricompare l'attività di fondo (fase B).
Terzano e coll. hanno definito nel 2001 le regole per quantificare questi eventi fasici nell’ambito del sonno nonREM, che può essere pertanto distinto in tracciato CAP (Cyclic Alternating Pattern) e non-CAP. I parametri che descrivono la quantità di fase CAP presente in sonno nonREM sono il CAP-time ed il CAP-rate: il primo è definito
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come tempo in minuti trascorso in CAP all’interno del sonno NREM ed il secondo è definito dal valore percentuale del rapporto CAP-time/durata totale NREM. Ciascuna fase A e ciascuna fase B presentano una durata compresa tra 2 e 60 secondi: questo ambito temporale si basa sulla constatazione che la grande maggioranza delle fasi A (più del 90%) che compaiono durante il sonno sono separate da un intervallo inferiore ai 60 secondi. La successione di due o più cicli CAP configura la sequenza CAP, tenendo presente che ogni sequenza CAP comincia sempre con una fase A. L’assenza di CAP per più di 60 secondi configura un tracciato di sonno non-CAP; la fase A che chiude la sequenza CAP è conteggiata come non-CAP e fa da ponte tra CAP e non-CAP (Terzano e coll., 2001).
All'interno del sonno nonREM il CAP è un fenomeno continuo che varia spontaneamente in relazione al livello di sincronizzazione EEG e può pertanto assumere caratteristiche diverse nei singoli stadi. In particolare, le fasi A sono composte da: ritmi alfa intermittenti e sequenze di punte al vertice in stadio N1; sequenze di complessi K seguiti o meno da componenti alfa o beta in stadio N2; delta burst in N3; arousal ASDA in tutti gli stadi non-REM.
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Più in generale, in base alla dominanza di sincronizzazione o desincronizzazione EEG, ogni fase A può essere classificata in tre sottotipi. Il sottotipo A1 è caratterizzato da una prevalenza dell'attività EEG sincronizzante che supera l’80% della durata. Esempi di fasi A1 includono: ritmo alfa intermittente in N1, rapida successione di punte al vertice (prevalentemente nella transizione tra stadio N1 ed N2), sequenze di complessi K o delta-burst nelle altre fasi non-REM. Il sottotipo A2 è caratterizzato dalla presenza di ritmi rapidi nel 20-50% della fase: ne sono esempi una successione di complessi K o un isolato complesso K seguito da ritmo alfa ed arousal con onde lente. Le fasi A3 sono caratterizzate dalla presenza di attività desincronizzante per più del 50% della durata, ad esempio isolati complessi K seguiti da ritmo alfa, arousal ASDA e burst polifasici con più del 50% di desincronizzazione EEG.
Come detto, il CAP costituisce un fenomeno fisiologico nel sonno. I valori fisiologici di CAP rate variano in base alle fasce d’età secondo un profilo a U (33% nei bambini, 43% negli adolescenti, 32% nei giovani adulti, 37.5% negli adulti di mezza età, 55% negli ultrasessantenni) (Parrino e coll., 1998). Le percentuali del sottotipo
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A1 declinano poi intorno ai 30 anni mantenendo gli stessi valori fino ai 60 anni (62%) per poi scendere in età più avanzata (47%). Al contrario i sottotipi A2 ed A3, in maniera analoga agli arousal ASDA, mostrano nel corso della vita un incremento lineare dall'età prescolare alla senescenza.
In condizioni normali il CAP svolge numerose funzioni, proteggendo la continuità del sonno quando questo viene minacciato da un evento contingente di perturbazione ma anche accompagnando strategicamente i passaggi tra gli stadi nonREM. Il CAP è l’espressione di un meccanismo operativo del cervello che rende flessibili gli stadi del sonno e nello stesso tempo presiede ai cambiamenti dinamici della sua macrostruttura.
All'interno del ciclo di sonno, il 90% delle fasi A identificate lungo la branca discendente ed il 92% di quelle di quelle riscontrate all'interno del plateau sono sottotipi A1, mentre il 64% delle fasi A che si trovano nella branca ascendente sono fasi A2 (45%) o A3 (19%).Questi dati indicano che sia le attività EEG lente che rapide sono implicate nell'organizzazione strutturale del sonno. In particolare la costruzione
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ed il mantenimento del sonno profondo sono acquisiti attraverso un processo di instabilità EEG periodica accompagnata da leggere oscillazioni. In questa parte del sonno, le fasi A1 servono a modificare progressivamente la situazione neurofisiologica dalla desincronizzazione della veglia alla massima sincronizzazione del sonno profondo. La rottura del sonno ad onde lente e l'insorgenza del sonno REM sono principalmente associate a pattern EEG in desincronizzazione (fasi A2 e A3) e ad una potente attivazione delle funzioni motorie vegetative. È stato evidenziato che l'abbondanza di fasi A1 nella branca discendente e nel plateau riflette meccanismi cerebrali coinvolti nell'attività REM-off, di tipo aminergico, mentre la prevalenza di sottotipi A2 ed A3 e arousal EEG nella branca ascendente è espressione dell'oscillatore REM- on, colinergico (Terzano e coll., 2005).
Le fasi CAP hanno una collocazione preferenziale ad intervalli di 20-40 secondi e definiscono un' oscillazione con una frequenza <1 Hz. In una serie di lavori sperimentali e clinici, è stato dimostrato che le oscillazioni con frequenza inferiore ad 1 Hz, di origine corticale, sono espressione di stati tonici di ridotta attivazione e sono fondamentali
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per indurre una connettività corticale tra differenti aree cerebrali (con le cosiddette slow oscillations), giocando un ruolo fondamentale nell'organizzare la complessa struttura del sonno NREM. (Steriade, 2005).
Tutti i tipi di fasi A (e più in generale tutti i fenomeni transienti nel sonno) sono accompagnati da attivazioni neurovegetative di tipo autonomico caratterizzate da incremento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e di altri segni di attivazione autonomica nonché in genere da incremento del tono muscolare (Halasz e coll., 2004). L’analisi della bilancia simpatico vagale ha effettivamente chiarito che nel corso del sonno NREM l’attivazione simpatica è significativamente più elevata in CAP, ed in particolare durante la fase A, mentre è ridotta in nonCAP ed ancora più attenuata in coincidenza con la fase B (Ferini-Strambi e coll., 2000; Ferri e coll., 2000). Le fluttuazioni delle attività autonomiche coincidono quindi con la periodicità del CAP durante il sonno nonREM. È possibile identificare un'attivazione gerarchica che va da pattern EEG più lenti, in cui le modificazioni neurovegetative sono moderate, a pattern più rapidi, corrispondenti alle fasi A3 o agli arousal della classificazione ASDA
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(Ferri et al., 2000; Sforza et al., 2000; Poyares et al., 2002). Perturbazioni acustiche somministrate in soggetti normali aumentano le fasi A1 senza incrementare i sottotipi A2, A3 e gli arousal EEG, alterando la qualità del sonno e inducendo così un'eccessiva sonnolenza diurna. Tuttavia, quando lo stimolo disturbante è particolarmente potente o prolungato, si verifica un progressivo aumento anche delle fasi A2 ed A3 del CAP (e degli arousal EEG) con conseguente discontinuità del sonno. La varietà di risposte EEG è determinata da meccanismi specifici che controllano il flusso di stimoli esterni ed interni, tra cui il “cancello” talamico . Investita da uno stimolo attivante, la corteccia tenta inizialmente di preservare la continuità del sonno rafforzando la propria impermeabilità attraverso una sincronizzazione fasica EEG (complessi K e delta burst). Tuttavia, quando il cancello talamico non è in grado di controllare gli impulsi afferenti le alterazioni EEG a livello della corteccia cerebrale si traducono in sequenza più rapide e miste della banda alfa e beta. In ogni caso, la corteccia cerebrale esordisce con una risposta protettiva del sonno sottoforma di burst EEG lenti e di ampio voltaggio che precedono quasi sempre le attività rapide transitorie. L'analisi spettrale
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del CAP mostra infatti che nel sonno NREM i diversi tipi di fase A sono varianti di un processo continuo a due facce: una componente iniziale di onde lente EEG di ampio voltaggio, che predispone la corteccia cerebrale ad aprire le porte per un'attività più rapida correlata ad una potente attivazione vegetativa e muscolare. Oltre ad una crescente potenza di attivazione simpatica, le fasi A del CAP mostrano una diversa distribuzione topografica nelle aree cerebrali. In particolare, le fasi A1 possono essere considerate arousal del lobo frontale per la loro netta rappresentazione sulle regioni anteriori, le fasi A3 si esprimono soprattutto sulle regioni posteriori e le fasi A2 condividono le caratteristiche spettrali localizzatorie delle fasi A1 ed A3. Esse infatti nascono sulle regioni frontali e prefrontali come sottotipi A1 e poi diffondono verso le aree parieto-occipitali assumendo le caratteristiche di un sottotipo A3 (Ferri et al., 2005).
In questa ottica, è possibile affermare che le fasi A del CAP possono costituire finestre permissive, in cui possono verificarsi eventuali fenomeni patologici. Durante il sonno NREM, quindi se lo stimolo (apnea, movimento degli arti inferiori, anomalie epilettiche) coincide con la fase permissiva, si determina la condizione perché il fenomeno
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(motorio, respiratorio, EEG) si manifesti (Halasz et al., 2004). Il CAP può essere visto come quindi un meccanismo che spiega la distribuzione (e la durata) non casuale di numerosi fenomeni patologici (Parrino et al., 2007).
D'altro canto, le oscillazioni del CAP vengono accentuate in risposta a stimoli esterni ed interni. In condizioni di patologia il CAP rate aumenta in tutte le situazioni in cui il sonno è perturbato da fattori di disturbo (situazioni ambientali, dolore, ansia, depressione, epilessia, apnea, insonnia, movimenti patologici, sostanze eccitanti).
E' interessante sottolineare come il CAP fornisca una misura obiettivabile e ripetibile della stabilità del sonno notturno. Insieme ad altri parametri (durata del sonno come misurata dal tempo totale di sonno, intensità del sonno valutabile mediante la percentuale di sonno ad onde lente e continuità, definita dal numero e durata dei risvegli notturni), è possibile quindi utilizzare il CAP per cercare di definire la qualità ristorativa del sonno (Parrino e coll., 2004).
Un ruolo del CAP nei processi di apprendimento che si verificano durante il sonno è stato osservato a partire dalla valutazione di un
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soggetto con memoria superiore ed incremento del CAP rate (Ferini-Strambi et al., 2004), fino ad estendersi a numerose condizioni sperimentali (Ferri et al., 2010) ed alla valutazione di soggetti con patologie del sonno (narcolessia e sindrome delle apnee ostruttive nel sonno in prima battuta) o ritardi dello sviluppo e disabilità in età infantile (Bruni et al., 2010). Non sono presenti in letteratura dati sulle modificazioni della microstruttura del sonno e correlazioni con funzioni cognitive in pazienti con patologie neurodegenerative né dati sul follow up longitudinale di tali soggetti.
Sonno e funzioni cognitive nell’anziano sano e con patologia neurodegenerativa
Le correlazioni tra sonno e funzioni cognitive nell’anziano appaiono particolarmente complesse. Il primo problema da affrontare riguarda la definizione di invecchiamento fisiologico. In generale, con il termine di “anziano sano” si definisce un individuo di oltre 65 anni di età che non soffre di evidenti patologie a carico di alcun apparato o
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sistema. La modificazione del sonno più evidente nel sonno della persona anziana è rappresentata da una riduzione del tempo totale di sonno notturno, accompagnato ovviamente da un incremento della veglia infrasonno e dell’efficienza di sonno (rapporto tra tempo totale di sonno e tempo totale di letto) che passa da circa l’86% dell’età adulta al 79% nei soggetti di oltre 70 anni (Bliwise, 1993; Bliwise, 2004). L’abitudine dell’anziano ad avere un ritmo sonno-veglia polifasico, con incremento dei sonnellini pomeridiani, rende conto almeno parzialmente di questo fenomeno. Negli studi sperimentali in condizioni di “free run” (cioè di assenza di stimoli ambientali), è stato notato come l’anziano si sveglia 2,7 volte più del giovane e presenta un analoga propensione al nuovo addormentamento. È quindi possibile concludere che la difficoltà maggiore dell’anziano è il mantenimento del sonno piuttosto che la difficoltà ad iniziarlo (Ohayon et al, 2004; Pace-Schott & Spencer, 2011).
Per quanto riguarda l’architettura del sonno, le modificazioni più rilevanti riguardano il sonno profondo NREM. Il sonno ad onde lente o sonno profondo (fasi 3 e 4 secondo la classificazione del 1968 di Rechtschaffen e Kales, stadio 3N della nuova classificazione) è
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maggiormente rappresentato nei giovani e decresce significativamente con l’età. Il sonno profondo è caratterizzato da onde delta che si riducono progressivamente in ampiezza passando dall’età infantile all’anziano. La massima ampiezza delle onde delta raramente supera i 150 μV in un anziano sano, a differenza di quanto accade nel giovane adulto sano in cui è frequente riscontrare onde delta di 200 μv e più nel sonno profondo. La conseguenza della riduzione in ampiezza delle onde delta è che, se si applicano nell’anziano i criteri di Rechstaffen e Kales secondo cui le onde delta del sonno profondo devono avere ampiezza > 75 μV, si constata una riduzione del tempo di sonno trascorso in fase 3 o 4. Feinberg ha pertanto proposto nel 1984 di effettuare lo “scoring” del sonno profondo negli anziani quantificando il tempo trascorso con le frequenze lente, indipendentemente dall’ampiezza delle onde delta. Nella revisione dei criteri di scoring del sonno pubblicata nel 2007, ad ogni modo, il comitato dell’American Academy of Sleep Medicine ha comunque consigliato di mantenere il criterio di ampiezza di 75 microvolt per la definizione di sonno profondo NREM (Silber et al., 2007). Sono state fatte diverse ipotesi fisiopatogenetiche riguardo a questo fenomeno, modificazioni
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anatomiche del cranio o variazioni nello spazio subaracnoideo ma forse in maniera più interessante modificazioni della sincronizzazione dei neuroni neocorticali e delle interazioni talamo corticali che si modificano con l’età e in alcune osservazioni sono state anche messe in relazioni all’invecchiamento di successo. Anche mediante analisi automatica l’attività ad onde lente (slow wave activity) si riduce con l’età. Questo fenomeno è stato osservato sia mediante analisi spettrale (che misura contemporaneamente le variabili di ampiezza e frequenza di una banda di frequenze) sia mediante analisi periodo-ampiezza (in cui è possibile separare le due componenti). Dati neurofisiologici e sperimentali indicano come l’attività delta sia eterogenea con una sostanziale differenza tra le onde con una frequenza tra 1 e 4 Hz e i potenziali di frequenza compresa tra 0,2 e 1 Hz (“oscillazioni lente” slow oscillations). Mentre la potenza compresa tra 1 – 4 Hz è più elevata nel primo ciclo di sonno e declina progressivamente nei cicli successivi, la potenza delle frequenze lente è sostanzialmente sovrapponibile nel primo e nel secondo ciclo NREM e si riduce debolmente nei cicli successivi (Darchia e coll., 2007). Inoltre è stato evidenziato che le oscillazioni lente hanno un’origine intracorticale
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dato che nell’animale da esperimento persistono dopo lesioni talamiche, mentre più complessa è la situazione per le onde delta, con frequenza compresa tra 1 e 4 Hz, che presentano due componenti una di origine neocorticale ed una talamica. Alcune componenti delta sono infatti conservate infatti dopo una talamotomia sperimentale, mentre la restante attività permane anche dopo decorticazione ed origina dall’interazione tra una via talamo-corticale e un feedback cortico-talamico, come dimostrato da esperimenti sull’animale. I dati neurofisiologici indicano che le oscillazioni lente di origine intracorticale innescano e raggruppano i fusi del sonno e le oscillazioni delta talamiche e corticali a frequenza 1-4 Hz (Steriade e coll., 2001). L’evidenza che le oscillazioni lente e l’attività delta 1- 4 Hz siano generate da diversi meccanismi suggerisce anche un loro differente significato funzionale: in particolare la potenza delle oscillazioni lente non aumenta dopo deprivazione di sonno e pertanto non sembra rispondere al meccanismo omeostatico a differenza della potenza a 1- 4 Hz (Achermann e Boberly, 1997). Nell’anziano l’attività delta nella sua globalità mostra una differente distribuzione nell’arco della notte con un andamento lineare più piatto rispetto a
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quello dei giovani adulti, ma non sono presenti dati sulle modificazioni delle frequenze lente (<1Hz) con l’età. La differente distribuzione dell’attività ad onde lente conferma quanto era stato già osservato con l’analisi visiva: il sonno ad onde lente appare globalmente rappresentato in maniera più diffusa e non maggiormente concentrata nelle prime ore del sonno notturno come avviene nell’adulto sano (Lombardo et al., 1998). Inoltre, le alterazioni dell’organizzazione in cicli NREM/REM determinano un maggior grado di compromissione in test di memoria dichiarativa (Mazzoni et al., 1999).
Per quanto riguarda gli altri stadi del sonno, il sonno REM resta sostanzialmente immodificato nel soggetto anziano, mentre aumentano le percentuali di sonno 1 e 2 NREM.
Per quanto riguarda le modificazioni degli eventi fasici, il sonno del soggetto anziano è caratterizzato da un incremento dei fenomeni di instabilità (micro risvegli-arousal e cambi di stadio) ed una riduzione di figure più specifiche e correlate a fenomeni di approfondimento del sonno e processi di plasticità neuronale durante il sonno (fusi e
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complessi K). Scarsi sono i dati sul pattern alternante ciclico (CAP) che appare modificarsi con l’età con un incremento progressivo del CAP rate e delle fasi A2 e A3 del CAP confermando anche a livello microstrutturale una maggiore instabilità e difficoltà nella continuità del sonno notturno (Parrino et al., in press; Bonanni, comunicazione personale). Globalmente è possibile individuare quindi alcune modificazioni del sonno con l’età, che appare caratterizzato da una minore profondità, stabilità e continuità.
Anche nei soggetti anziani è possibile evidenziare differenze tra individui appartenenti a diverse fasce di età. I “giovani anziani” (soggetti sani tra i 65 e i 75 anni) sembrano possedere una relativa stabilità dell’efficienza di sonno con preservazione del REM in confronto ai “molto anziani” (soggetti sani sopra gli 80 anni) che al contrario mostrano una instabilità del sonno con decremento del sonno profondo. Misure soggettive della qualità di sonno e studi polisonnografici in soggetti tra i 60 e gli 87 anni hanno mostrato un progressivo declino della qualità soggettiva e della stabilità del sonno, nonché un decremento del sonno profondo (Hoch et al., 1994; Ohayon et al., 2004).
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Da un punto di vista patogenetico, ambedue i fenomeni che regolano il sonno, cioè il processo omeostatico ed il circadiano, appaiono alterati con l’età. Per quanto riguarda il processo circadiano, sono stati descritti un anticipo di fase di circa un’ora dei ritmi circadiani della temperatura e del cortisolo ed una riduzione del 20-30% della loro ampiezza oltre a una desincronizzazione interna per cui le ore di sonno sono anticipate rispetto alla secrezione della melatonina (Duffy et al., 2002; Dijk et al., 2001). Le ridotte modificazioni del sonno e della vigilanza in risposta alla deprivazione di sonno suggeriscono d’altro canto, una riduzione della pressione omeostatica al sonno (Dijk et al., 2010).
Non esistono molti dati sulle interazioni tra funzioni cognitive e sonno nel soggetto anziano. In condizioni sperimentali è stato osservato che i soggetti di età superiore ai 65 anni appaiono più resistenti agli effetti della frammentazione del sonno, della sua deprivazione o restrizione, anche se sono stati valutati prevalentemente test attentivi (Pace-Schott & Spencer, 2011). Il miglioramento determinato dal sonno sui processi di consolidamento mnestico riportato nei giovani adulti si osserva in maniera ridotta nei soggetti anziani. Deve essere comunque tenuto
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presente che in questi protocolli di apprendimento di sequenze motorie esplicite e non esplicite i risultati dei soggetti superiori a 65 anni risultano già in condizioni basali differenti rispetto a quelle dei giovani adulti (Pace-Schott & Spencer, 2011). Il miglioramento correlato al sonno appare presente solo in test di memoria dichiarativa verbale, sia pure con dati contrastanti (Aly & Moscovitch, 2010). È possibile ipotizzare che i minori effetti ristorativi del sonno nell’anziano - come evidenziato dalla ridotta attività delta - in aree critiche, quali quelle frontali, ne riducano parallelamente gli effetti positivi sulla memoria .
Sono inoltre interessanti i dati provenienti da approcci metodologici completamente diversi, vale a dire gli studi epidemiologici su popolazioni di soggetti superiori ai 65 anni di età. In numerose osservazioni (Foley et al., 1995; Foley et al., 2004; Tsuno et al., 2007; Yaffe et al., 2007; Bonanni et al., 2010; Merlino et al., 2010), sono state evidenziate correlazioni tra disturbi del sonno, valutati soggettivamente, e funzioni cognitive, anche in analisi multivariate tenendo presente dei principali fattori di rischio e comorbidità. Pur nelle differenze metodologiche, l’eccessiva sonnolenza diurna correla
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con la riduzione delle performance non solo attentive, ma anche mnestiche e prassiche (Ohayon & Vecchierini, 2005), mentre meno costante appare invece il rapporto con l’insonnia diagnosticata secondo i criteri internazionali (ICSD-2, 2005) o con i singoli sintomi di sonno disturbato, come la difficoltà ad addormentarsi o i frequenti risvegli, che risultano ad ogni modo estremamente frequenti nell’età anziana. Alcuni lavori, inoltre, evidenziano come i disturbi del sonno, in particolar modo l’eccessiva sonnolenza diurna o l’abitudine al sonnellino pomeridiano, possano precedere la comparsa di deterioramento cognitivo o demenza. In una valutazione retrospettica pubblicata nel 2000, l’abitudine ad effettuare un sonnellino di più di 60 minuti nei 5-10 anni precedenti alla diagnosi aumenta il rischio di AD se associata alla presenza dell’antigene Apoepsilon 4 di 4.3 volte (maggiore rispetto alla storia familiare di demenza, Asada et al., 2000). In un successivo studio prospettico su più di 2000 soggetti di etnia giapponese residenti alla Hawaii, la presenza di sintomi di eccessiva sonnolenza diurna costituiva un importante fattore di rischio per lo sviluppo di demenza (OR 2.19) o declino cognitivo (OR 1.44) nel follow up a 3 anni in un analisi multivariata dove erano stati
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considerati i principali fattori di rischio per malattia di Alzheimer (Foley et al., 2001). In questo lavoro, l’insonnia non correla con lo sviluppo di demenza o declino cognitivo al follow up, mentre tale dato è stato riscontrato in un altro studio su 6444 soggetti di età superiore ai 65 anni valutati con un follow up a tre anni (Cricco et al., 2001). Anche la sindrome delle apnee ostruttive nel sonno è stata recentemente associata al successivo sviluppo di MCI o demenza in uno studio polisonnografico longitudinale su 298 donne anziane (Yaffe et al., 2011). È interessante notare come in un recente studio su un modello animale di malattia di Alzheimer, nel topo (PLB1 Triple) i disturbi del sonno con riduzione del tempo totale di letto e modificazioni delle frequenze EEG durante il sonno e la veglia (con incremento della potenza totale del segnale) si osservino già a 6 mesi, vadano in parallelo con la plasticità ippocampale e precedano i deficit di memoria e apprendimento spaziale che si verificano a 12 mesi (Platt et al., 2011). Inoltre dati autoptici su cervelli di soggetti in fase preclinica di malattia di Alzheimer (Braak I-II, Braak et al., 2006) evidenziano come i livelli di melatonina nel liquor e nella ghiandola pineale siano già ridotti prima dei segni clinici di demenza e siano
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legati probabilmente ad una disfunzione della regolazione noradrenergica ed a una deplezione di serotonina (Wu et al. 2003).
In questa prospettiva, lo studio dei disturbi e delle modificazioni del sonno in pazienti con una demenza in fase iniziale o a rischio di sviluppare una demenza appare particolarmente interessante.
Il quadro clinico definito come “mild cognitive impairment” (MCI) indica uno stato intermedio nel continuum tra il normale processo di invecchiamento ed il decadimento cognitivo proprio della demenza e si riferisce ad una popolazione di soggetti, anziani e non, che presentano alterazioni cognitive, spesso di natura mnesica, non sufficientemente severe da giustificare una diagnosi di demenza: le loro prestazioni in compiti che valutino l'efficienza della memoria, infatti, appaiono più simili a quelle di pazienti affetti da malattia di Alzheimer (AD) che ai controlli sani di pari età, mentre al contrario il funzionamento cognitivo generale risulta più vicino a quello dei controlli sani che non a quello dei pazienti AD, e così l'autonomia nello svolgimento delle normali attività quotidiane (Petersen et al., 1999). Sono state proposte numerose classificazioni per il mild
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cognitive impairment, tra le quali la più utilizzata è quella che suddivide il MCI in amnesico e non amnesico (Petersen et al., 2009).
All’interno dei due sottotipi, si opera una ulteriore distinzione sulla base della presenza di difetti cognitivi multipli e quindi complessivamente il MCI può essere classificato in
MCI amnesico senza compromissione di altri domini cognitivi (amnesic MCI, a-MCI);
MCI amnesico con compromissione di altri domini cognitivi oltre la memoria (multi domain amnesic MCI, md-aMCI);
MCI non amnesico con compromissione di un singolo dominio cognitivo (single domain non amnesic MCI, sd-naMCI);
MCI non amnesico con compromissione di più domini cognitivi diversi dalla memoria (multi domain non amnesic MCI, md-naMCI).
Il sottotipo più frequente è sicuramente rappresentato dal MCI amnesico. I pazienti ed i familiari sono spesso consapevoli dei problemi di memoria ingravescenti, mentre le altre funzioni cognitive
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(funzioni esecutive, uso del linguaggio, capacità visuospaziali) sono relativamente conservate, così come l'autonomia nello svolgimento delle attività della vita quotidiana.
Poiché i vari sottotipi di MCI possono rappresentare la fase prodromica di differenti tipi di demenza, una loro accurata e precoce identificazione si rivela molto importante: il sottotipo a-MCI sembra infatti evolvere più frequentemente verso la Malattia di Alzheimer, mentre gli altri sottotipi tendono a precedere lo sviluppo di altre forme di demenza (Visser et al., 2006). I soggetti con MCI rappresentano una delle classi a maggior rischio di evoluzione a demenza (o conversione), con una incidenza annua del 5-10% negli studi di popolazione e del 10-15% nelle cliniche specialistiche, dato che appare molto più alto rispetto a quanto osservato nella popolazione generale. È probabile che l'interazione di una molteplicità di fattori, quali predisposizione genetica, presenza di comorbidità mediche, neurologiche o psichiatriche, fattori ambientali e la “personale riserva cognitiva” accumulata dall'individuo determinino un ruolo importante nell’evoluzione e ciò giustifica la sostanziale mancanza di dati univoci e definitivi nella letteratura attuale.
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La ricerca di biomarkers che permettano di identificare precocemente gli individui destinati a sviluppare una forma di demenza è stata quindi particolarmente florida in questi anni (Petersen, 2011). La metodica più estensivamente studiata per la predizione dell’evoluzione è rappresentata dalla RM strutturale, ma anche metodiche funzionali come la PET o l’analisi di markers del liquido cefalorachidiano quali la proteina β amiloide e la proteina tau sono state frequentemente utilizzate. Recenti acquisizioni evidenziano come fattori di rischio cardiovascolari (ipertensione, diabete, ipercolesterolemia, ma anche la sindrome delle apnee ostruttive nel sonno) e anche indici strumentali (rigidità arteriolare, presenza di iperintensità della sostanza bianca alla RM encefalica) possano predire l’evoluzione dei soggetti con MCI e come il loro trattamento possa
rallentare il peggioramento delle funzioni cognitive (Gorelick et al., 2011). Tuttavia l’utilizzo di questi biomarkers è limitato nella pratica clinica quotidiana dai costi, dalla necessità di un know-how tecnologico e medico, dalla difficoltà di standardizzazione e dalla mancanza di chiari cutoff di normalità (Petersen, 2011). Inoltre alcuni di questi esami possono essere vissuti come invasivi dai soggetti
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anziani e non facilmente ripetibili nel follow up. La ricerca di nuovi biomarkers, da utilizzare in combinazione a quelli già proposti, sta quindi proseguendo. I parametri del sonno potrebbero costituire un importante variabile da considerare dato che presentano importanti correlazioni con le funzioni cognitivi (come precedentemente descritto), le modificazioni osservate in bambini con disabilità mentale (Bruni et al., 2010) e le precoci alterazioni di alcuni parametri già evidenziate in pazienti con demenza di Alzheimer iniziale (Vitiello et al., 1992; Bonanni et al., 2005; Ktonas et al., 2009; Bonanni et al., in press).
Una revisione della letteratura relativa all'argomento “sonno e MCI” compiuta nel 2009 (Beaulieu-Bonneau et al., 2009) ha però potuto analizzare, fino a quel momento, 19 lavori che non trattano l'argomento in modo specifico e sistematico. Successivamente sono stati pubblicati 4 studi che hanno utilizzato scale standardizzate (Guarnieri et al., in press), actigrafia (Naismith et al., 2010) o metodiche polisonnografiche (Yu et al., 2009; Kim et al., 2011). In questi ultimi due studi, tuttavia, sono state esaminati i soli parametri macrostrutturali del sonno e non è stata effettuata una valutazione
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longitudinale per evidenziare se vi siano parametri ipnici statisticamente differenti nei pazienti MCI che evolvono rispetto a quelli che non evolvono .
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SCOPO
Scopo dello studio è stato analizzare le alterazioni del sonno in un gruppo di pazienti con diagnosi di MCI, valutando con particolare attenzione gli aspetti microstrutturali e confrontandoli con controlli sani e pazienti dementi.
Il gruppo di pazienti con diagnosi di MCI è stato poi seguito per un anno, suddividendo il campione in soggetti MCI che sono evoluti in demenza (MCI+) e soggetti MCI che non sono evoluti ( MCI-). Le variabili polisonnografiche ottenute alla registrazione iniziale sono state quindi confrontate nei due gruppi.
Inoltre, sono state ricercate eventuali correlazioni tra i risultati ed i punteggi ottenuti nei test neuropsicologici somministrati per confermare l’ipotesi della presenza di una relazione dinamica tra sonno e funzioni cognitive anche in questa popolazione e valutare quali parametri ipnici e quali test neuro cognitivi risultino particolarmente sensibili a questa relazione.
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MATERIALE E METODO
Popolazione e valutazione clinica
I pazienti sono stati selezionati tra coloro che afferivano al Centro per i Disturbi Cognitivi della Clinica Neurologica del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Pisa e che rispondevano ai criteri per la diagnosi di MCI amnesico secondo Petersen (Petersen et al., 2004).
I pazienti sono stati sottoposti ad un esame clinico e ad una valutazione neuropsicologica e neuroradiologica (RM encefalo), al fine di escludere forme di deterioramento cognitivo secondarie a lesioni focali.
La batteria di test neuropsicologici per la valutazione delle funzioni cognitive comprendeva:
· memoria verbale: Digit Span Avanti (Orsini et al., 1987), Test delle 15 parole di Rey (rievocazione immediata e differita) (Carlesimo et al., 1996) e Memoria di Prosa (Carlesimo et al., 2001);
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· memoria visuo-spaziale: Span Spaziale (Orsini et al., 1987) e Apprendimento Supraspan Spaziale (De Renzi, 1975), Test della Figura Complessa di Rey (Carlesimo et al., 2001) e Trail Making Test (A,B) (Reitan, 1958);
· capacità astrattive: Coloured Progressive Matrices 1947 (Carlesimo et al., 1996), Test di Weigl (Spinnler e Tognoni, 1987), Test dei Giudizi Verbali Astratti (Spinnler e Tognoni, 1987);
· attenzione: Matrici attentive (Spinnler e Tognoni, 1987), Test di Stroop (Caffarra et al., 2004) e Digit Symbol Substitution Test (subtest n. 7 Wais);
· prassie: Copia di Disegni a Mano Libera e con Elementi di Programmazione (Gainotti et al., 1977);
· funzioni frontali e capacità di pianificazione: Frontal Assessment Battery, Test dell’Orologio (Royall et al., 1998) e Fluenza Verbale Fonemica (Carlesimo et al., 1996).
Le abitudini, la qualità soggettiva del sonno e la sonnolenza diurna sono state valutate invitando i soggetti alla compilazione di un Diario del Sonno per i sette giorni seguenti la consegna, di questionari per
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l’identificazione dell’insonnia (Terzano et al., 2005) e del Pittsburgh Sleep Quality Index (Buysse et al., 1989).
Allo scopo di individuare la presenza di sintomi riferibili a disturbi respiratori durante il sonno, i pazienti sono stati invitati alla compilazione del Berlin Questionnaire (Netzer, et al., 1999), mentre l’eventuale sintomatologia riferibile ad una Sindrome delle Gambe senza Riposo è stata vagliata attraverso un questionario validato contenente gli specifici criteri diagnostici (Allen et al., 2003). Infine domande specifiche hanno cercato di evidenziare la presenza di parasonnia del REM.
Dai 30 pazienti che hanno soddisfatto i criteri di inclusione, hanno completato lo studio dodici pazienti (7F, 5M), con le seguenti caratteristiche demografiche e cliniche: età compresa tra 68 e 78 anni (media ± DS: 73 ± 4), Mini Mental State Examination: 25,3 ± 1,8;Clinical Dementia Rate: 0,5; Scolarità: 10,7 ± 4,0 anni, Instrumental Activity Daily Living: 6,9 ± 0,8; Beck Depression Scale: 5,2 ± 1,1.
44 Registrazione polisonnografica
I pazienti sono stati sottoposti a 48 ore di registrazione EEG e poligrafica a domicilio. È stato utilizzato un EEG dinamico ambulatoriale con canali poligrafici (Brain Spy®, Micromed®) e la registrazione è stata effettuata con 8 canali elettroencefalografici (F2- RF, C4-RF, P4-RF, O4-RF, F3-RF, C3-RF, P3-RF, O3-RF), posizionati in accordo con il sistema 10-20 internazionale, elettro-oculogramma destro e sinistro, elettromiogramma dei muscoli mentonieri ed elettrocardiogramma. Per la determinazione dei disturbi respiratori durante il sonno sono stati registrati il flusso aereo oro-nasale, per mezzo di un termistore, ed i movimenti respiratori toraco-addominali, tramite fascia piezoelettrica. L’attività elettromiografica dei muscoli tibiali anteriori è stata monitorata mediante elettrodi di superficie, posizionati a livello del terzo medio della gamba bilateralmente.
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Macrostruttura
Le variabili macrostrutturali convenzionali sono state valutate in accordo con i criteri internazionalmente riconosciuti di scoring dell'American Academy of Sleep Medicine (2007). Sono stati ottenuti i parametri di continuità del sonno notturno, quali tempo totale di sonno (TTS), efficienza del sonno (ES: tempo totale di sonno/tempo totale di letto x100), latenza di sonno (LS) e durata della veglia infrasonno (Wake After Sleep Onset, WASO), oltre che durata dei singoli stadi del sonno, S1, S2, SWS, REM (in minuti e percentuale).
Microstruttura
L’analisi del Cycling Alternating Pattern è stata condotta in modalità semiautomatica utilizzando il software Hypnlolab 1.2 (SWS Soft, Italy; Ferri et al., 2005). Questo software permette un'analisi del CAP automatizzata, controllata dall’utente attraverso l’impostazione (Step 1) di tre valori soglia, uno per le frequenze basse (le quali permettono
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l’individuazione dei sottotipi A1 e di parte degli A2), uno per le alte (che caratterizzano le fasi A3 e parte delle A2), ed infine un valore che definisce l'ampiezza delle più piccole onde che si desidera siano rilevate. Questi valori sono suggeriti da una prima analisi visiva di una o più epoche di sonno e rappresentano l'input iniziale per il processo di rilevamento automatico (Step 2). Lo stesso segmento potrà essere riesaminato una volta completata la procedura automatica allo scopo di verificare la correttezza del risultato (Step 3), correggendo eventualmente i parametri nel caso che il rilevamento non risultasse soddisfacente.
Sulla base delle raccomandazioni della consensus per l'analisi del CAP (Terzano et al., 2001), sono state valutate le fasi A1, A2, A3, B ed i periodi non-CAP. Sono stati quindi determinati i seguenti parametri CAP: CAP time (tempo trascorso in CAP), CAP rate (percentuale tra CAP time e tempo trascorso in NREM), numero e durata media delle fasi A1, A2 e A3, numero di cicli CAP, indici nA1/h, nA2/h e nA3/h.
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Apnee e movimenti periodici
Gli episodi di apnea-ipopnea ed i movimenti periodici degli arti inferiori sono stati valutati secondo le nuove linee guida AASM (Manuale di scoring del sonno, 2007): le apnee nel sonno sono state suddivise in ostruttive, centrali e miste e sono stati calcolati l’indice di apnea/ipopnea (numero di eventi respiratori per ora di sonno) e l’indice di movimenti periodici degli arti inferiori (PLMS index) al fine di definire la gravità di tali disturbi.
Follow up
I pazienti sono stati seguiti clinicamente per 12-18 mesi (follow up medio 14 mesi ±2). Dei 12 pazienti valutati, 4 hanno sviluppato un quadro clinico compatibile con demenza (MCI+; età media±DS 76,5 anni ±4; 2F,2M) mentre 8 soggetti non hanno subito questo processo (MCI-, età media±DS 72 anni ±4,9; 5F, 3M).
48 Analisi statistica
I parametri macro e microstrutturali sono stati confrontati con i valori corrispondenti di 14 controlli sani e 20 pazienti con diagnosi di demenza di Alzheimer (AD) con Clinical Dementia Rating 1, di età sovrapponibile, ricavati da un precedente studio (Bonanni et al., 2005), mediante test ANOVA seguito da t-test, considerando il gruppo (pazienti vs controlli e pazienti vs dementi) come variabile indipendente. Sono stati inoltre confrontate le variabili polisonnografiche nei due gruppi di MCI al follow up (MCI+ vs MCI-) mediante analisi non parametrica utilizzando il test a U di Mann-Whitney.
I dati macrostrutturali sono stati quindi esaminati alla luce dei punteggi ottenuti alla valutazione neuropsicologica, utilizzando per il calcolo della regressione il test di Pearson per dati parametrici, considerando significativo un valore di p<0,05.
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RISULTATI
Nella tabella 1 sono riportati i parametri macrostrutturali del sonno nei 12 soggetti con MCI confrontati con quelli di 14 soggetti sani di pari età (gruppo di controllo) e di 20 pazienti con demenza di Alzheimer, già studiati presso il Centro per i Disturbi del Sonno.
Rispetto ai soggetti sani, i pazienti con MCI hanno una durata di sonno inferiore di circa 40 minuti, con aumento della latenza di sonno e maggior veglia infrasonno; la distribuzione percentuale dei vari stadi del sonno NREM appare sostanzialmente sovrapponibile, evidenziandosi un lieve incremento dello stadio 1, per la maggior veglia infrasonno; solo lo stadio REM risulta ridotto, anche se tale differenza non raggiunge la significatività statistica.
I pazienti con demenza di Alzheimer confrontati con i soggetti con MCI presentano una significativa riduzione del sonno ad onde lente, ed un ulteriore andamento verso una riduzione del sonno REM, specie verso i controlli sani.
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L'analisi microstrutturale ha evidenziato come i pazienti con Mild Cognitive Impairment presentino un incremento delle fasi A3 ed una riduzione delle fasi A1, oltre ad una tendenza alla riduzione del CAP time e del CAP rate rispetto ai controlli di pari età (Figura 1).
Nel campione esaminato si è poi osservata una notevole variabilità interindividuale nella rappresentazione percentuale dei diversi tipi di fasi A (Figura 2), con un range variabile tra il 30 e il 70% delle fasi A1 e variazioni inversamente proporzionali delle A3.
Follow up
Nelle tabelle 2 e 3, vengono riportati i parametri macro e microstrutturali dei due gruppi di pazienti con MCI a confronto. I pazienti che evolvono verso un quadro di demenza presentano un tempo totale di sonno notturno significativamente ridotto, con mantenimento delle percentuali dei differenti stadi. Per quanto riguarda la microstruttura il confronto ha evidenziato, nei pazienti MCI+, una riduzione staticamente significativa del CAP rate nel
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sonno ad onde lente e dell’indice di A1, in assenza di significative modificazioni dell’indice di A2 e A3.
Correlazioni tra parametri ipnici e test neuropsicologici
La somministrazione di test neuropsicologici ed il successivo confronto dei relativi punteggi con i singoli parametri del sonno hanno permesso di evidenziare alcune correlazioni significative:
Il test delle 15 parole di Rey per la rievocazione immediata correla con la durata in minuti del sonno ad onde lente (SWS), (r=0.60; p=0.05), e con la percentuale di SWS (r= 0.60; p=0.05) (fig. 3-4). Il test di Corsi per lo Span Spaziale correla con la sua durata
percentuale del sonno ad onde lente (r=0.67; p=0.02) e presenta una correlazione non significativa anche con la sua durata in minuti (r=0.48; p=0.14), (fig. 8-9).
La Fluenza Verbale per Categoria Fonemica evidenzia una correlazione inversa e statisticamente significativa con la quantità assoluta di veglia infrasonno (WASO) (r= -0.76; p< 0.01) (fig. 10).
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Ulteriori andamenti, sia pure non significativi, sono stati osservati tra il digit span e la durata in minuti del sonno ad onde lente (r=0.53; p=0.09) e tra test delle matrici attentive e durata in minuti ed in percentuale del sonno ad onde lente (rispettivamente r=0.53; p=0.09 e r=0.55; p=0.08).
Per quanto riguarda la microstruttura del sonno
Una correlazione diretta tra la prestazione nel Test delle 15 parole di Rey per la memoria immediata e CAP rate nel sonno a onde lente (r=0,63;p 0.02), con un andamento non significativo rispetto al numero delle fasi A1 nel sonno a onde lente (r=0,53; p=0.09) (fig. 11-12);
Una correlazione diretta tra Numero delle fasi A1 nel sonno a onde lente e Test delle matrici attentive, pari a 0,75 (p<0.01) (fig. 13);
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Una correlazione inversa tra Numero delle fasi A3 per ora nello stadio 1 e Fluenza verbale fonemica (-0,66,p=0.02) (fig. 14).
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DISCUSSIONE
I dati del presente studio non hanno mostrato variazioni significative della macrostruttura del sonno rispetto alla popolazione sana di pari età, pur evidenziando una tendenza alla riduzione del tempo totale di sonno ed all'incremento della veglia infrasonno. In un precedente lavoro (Yu et al., 2009) è stata evidenziata una riduzione, anche se non statisticamente significativa, dell’efficienza di sonno in un gruppo di pazienti MCI (12#) rispetto ai volontari sani (13#), con valori simili a quelli di pazienti con AD (10#). Soltanto raggruppando le due popolazioni di pazienti con disturbi cognitivi (MCI+AD) tali differenze raggiungevano la significatività statistica. Analogamente, in un lavoro più recente, le variabili macrostrutturali del sonno risultavano sostanzialmente sovrapponibili in soggetti con MCI (#30) e volontari sani (#30) (Kim et al., 2011). Al momento in letteratura non sono state descritte altre popolazioni di MCI che siano stati sottoposti a valutazione polisonnografica notturna. Anche le valutazioni cliniche non hanno trattato l'argomento in modo specifico
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e sistematico, come evidenziato da una revisione di 19 lavori relativi all'argomento compiuta nel 2009 (Beaulieu-Bonneau et al., 2009). Gli autori di questi studi, clinici o di popolazione si sono limitati nella maggior parte dei casi ad una valutazione della prevalenza, e in alcuni casi della gravità, dei disturbi del sonno, nel contesto più generale di un'analisi estesa alla sintomatologia neuropsichiatrica in corso di MCI. Ad ogni modo è stato possibile evidenziare come i disturbi del sonno rappresentino un’evenienza comune nel contesto del MCI, con una prevalenza del 14-65%, con valori simili nel contesto di una popolazione clinica (21-65%) e negli studi di popolazione (14-59%). I disturbi del sonno rappresentano inoltre uno dei sei sintomi neuropsichiatrici di più frequente riscontro (secondo 10 studi) ed il più frequente sintomo riferito come clinicamente significativo (Lyketsos et al., 2002; Gallassi et al.,2008; Rozzini et al., 2008). La prevalenza dei disturbi del sonno nel MCI sembra essere effettivamente intermedia tra quella osservabile nel corso di un normale invecchiamento e quella propria della demenza (Geda et al., 2004; Tatsch et al., 2006), anche se su questo tema il consenso non è ad oggi unanime (Peters et al., 2006).
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All’interno dei sottotipi di MCI è stata riportata una frequenza significativamente maggiore di disturbi del sonno in soggetti con MCI non amnesico rispetto all'amnesico, così come un’associazione con lievi segni extrapiramidali (Ellison et al.,2008; Rozzini et al., 2008). Nell’unico lavoro prospettico sull’impatto prognostico dei disturbi del sonno sull’evoluzione del MCI si evidenzia come la presenza di una sintomatologia neuropsichiatrica in generale sia associata allo sviluppo di malattia di Alzheimer, ma non vi sia alcuna differenza significativa nella prevalenza di disturbi del sonno tra individui MCI il cui status cognitivo sarebbe rimasto stabile (23,1%) e coloro che avrebbero sviluppato AD (16,7%) (Teng et al., 2007).
Uno studio multicentrico italiano, in fase di pubblicazione (Guarnieri et al., in press) ha utilizzato per la prima volta questionari standardizzati evidenziando come vi sia una sostanziale sovrapposizione dell’incidenza dei disturbi del sonno tra pazienti con MCI e pazienti con AD con un incidenza di insonnia del 44% (vs 48% dei pazienti con AD, di disturbo respiratorio in sonno del 59% (vs 54%), di Rem Behaviour disorder del 20% (vs 19%), di sindrome delle gambe senza riposo del 6,7% (vs 6,4%), di eccessiva sonnolenza
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diurna nel 50% (vs 44,5%). Globalmente il 65% sia dei pazienti con MCI che con AD presentavano qualche forma di disturbo del sonno.
Nel nostro studio si evidenzia come la microstruttura del sonno risulti alterata in pazienti con MCI, con valori intermedi tra la popolazione normale e i pazienti con AD. In particolare nei pazienti con MCI, sia pure con una marcata variabilità individuale, si osserva una riduzione del CAP rate con incremento delle fasi A3 e riduzione delle A1. Inoltre, i pazienti MCI che evolvono in un quadro di demenza (MCI+) presentano un CAP rate ridotto nell’SWS (sonno profondo NREM) ed un A1 index ridotto.
Le modificazioni della microstruttura del sonno non sono state finora indagate in popolazioni di pazienti con patologie neurodegenerative, ma analoghe osservazioni sono state effettuate in bambini con disabilità neuropsicologiche con ritardo mentale (sindrome dell’X fragile, sindrome di Down, sindrome di Prader-Willi, autismo). In queste situazioni è stata osservata una riduzione del CAP rate (variabile nell’autismo e nella sindrome di Down, più evidente nelle altre due situazioni) con una riduzione percentuale delle fasi A1 ed un
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incremento delle fasi A2 ed A3 (Miano et al.,2007; Miano et al., 2008, Verrillo et al., 2009; Bruni et al., 2010). Inoltre le modificazioni microstrutturali appaiono più rilevanti a carico dell’SWS (soprattutto nell’autismo e nella sindrome dell’X fragile), in maniera analoga alle differenze tra MCI+ e MCI- emerse nel presente lavoro. Le modificazioni microstrutturali del sonno ad onde profonde NREM potrebbero essere quelle più strettamente correlate ai processi cognitivi e plastici durante il sonno.
Per quanto riguarda le correlazioni tra test neuropsicologici e sonno, è stata evidenziata un associazione tra sonno ad onde lente e test di memoria verbale e spaziale da un lato e veglia infrasonno e test per il linguaggio dall'altro lato. Questi dati sono in linea con precedenti osservazioni: uno studio actigrafico (Naismith et al., 2010) ha evidenziato correlazioni tra veglia infrasonno e riduzione dell’attenzione e delle funzioni esecutive da un lato e numero di risvegli e memoria non verbale dall'altro. In uno studio successivo sono state evidenziate ulteriori correlazioni, nell’analisi multivariata, tra durata del sonno ad onde lente e indice di apnea-ipopnea ed il Benton naming test (Kim et al., 2011). È pertanto possibile affermare
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che le variabili macrostrutturali nei pazienti con MCI correlino prevalentemente con i test di linguaggio e memoria verbale e spaziale.
Ulteriori correlazioni riguardano poi i parametri microstrutturali e i test cognitivi: CAP rate e numero di A1 nel sonno ad onde profonde correlano con test di memoria immediata, mentre il numero delle fasi A1 nel sonno a onde lente con il test delle matrici attentive. È possibile inoltre evidenziare una correlazione inversa tra numero delle fasi A3 per ora nello stadio 1 e Fluenza verbale fonemica.
Le correlazioni tra test neuropsicologici e variabili CAP sono state studiate sia in modelli sperimentali che in bambini con disabilità neuropsicologiche, con o senza ritardo mentale. La prima descrizione di tale correlazione, tuttavia, riguarda un soggetto con notevoli capacità mnemoniche (Ferini-Strambi et al., 2004), che presentava un incremento del CAP rate, con aumento delle fasi A1 ed una proporzionale diminuzione delle A2 e delle A3. Nei modelli sperimentali, i miglioramenti nei test neuropsicologici, soprattutto quelli per fluenza verbale, working memory, memoria verbale e creatività, che si riscontrano dopo il sonno notturno correlano
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positivamente con le fasi A1 (Ferri et al.2008, Ferri et al., 2010; Aricò et al., 2010; Drago et al., 2011). Queste funzioni cognitive sono localizzate prevalentemente nelle regioni frontali dove le fasi A1 sono più rappresentate (Ferri et al., 2005). Al contrario le fasi A2 e A3 correlano negativamente con le performance cognitive. In bambini con sindrome di Asperger, un aumento delle fasi A1 è apparso correlare a superiori capacità mnemoniche (Bruni et al., 2007), mentre lo studio di un campione di pazienti dislessici ha restituito una correlazione diretta tra il numero di fasi A1 ed i punteggi ottenuti nelle scale verbali e di QI, che a sua volta, nella componente verbale, è apparso correlare con il CAP rate nel sonno a onde lente (Bruni et al., 2009). Globalmente quindi le fasi CAP lente (A1) sembrano essere fondamentali per i processi plastici e cognitivi che si verificano durante il sonno, mentre le fasi A2 e A3 determinano una frammentazione ed un alleggerimento del sonno che va in direzione opposta a tali fenomeni.
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In conclusione, nel nostro studio è stato evidenziato come nella popolazione MCI sia possibile rilevare alterazioni dei parametri microstrutturali del sonno -con riduzione del CAP rate e delle fasi A1 rispetto ai controlli sani- e come vi siano differenze nei parametri ipnici, per quanto riguarda stabilità del sonno ad onde lente e fasi lente del CAP, nei soggetti MCI che evolvono in demenza rispetto a quelli che non evolvono. Sia pure con i limiti del campione da noi esaminati, i parametri microstrutturali potrebbero essere proposti come nuovi biomarkers dell’evoluzione in demenza in associazione a quelli già comunemente utilizzati. Le correlazioni tra variabili polisonnografiche NREM e risultati ai test neuropsicologici sottolineano ulteriormente le importanti relazioni reciproche tra sonno e funzioni cognitive.
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FIGURE E TABELLE
Tabella 1. Parametri macrostrutturali del sonno nel MCI, confrontati con controlli sani e AD:
MCI #11 DS) Controlli Sani #14 AD #20 MCI vs controlli sani MCI vs AD Tempo totale di sonno 381.3 ± 79.0 421.2 ±46.7 372.7 ± 66.7 n.s. n.s. Latenza di sonno 26.4 ±19.8 15.0 ± 6.2 12.15 ± 8.1 n.s. n.s. Latenza 1° REM 112.2 ± 52.1 102.7 ± 31.5 100.0 ± 18.8 n.s. n.s. Veglia infrasonno 90.5 ± 60.1 73.1 ± 9.2 79.1 ± 37.6 n.s. n.s. S1 % 11.2 ± 5.9 7.0 ± 3.7 18.8 ± 6.7 n.s. n.s. S2% 43.3 ± 9.0 47.5 ± 2.6 51.2 ± 6.1 n.s. n.s. SWS% 28.7 ± 5.2 25.0 ± 4.1 16.1 ± 7.8 n.s. 0.01 REM% 16.7 ± 9.4 20.3 ± 4.8 13.5 ± 4.5 n.s. n.s
S1%= percentuale stadio 1 NREM/tempo totale di sonno; S2%= percentuale stadio 2 NREM/tempo totale di sonno; SWS%= percentuale sonno a onde lente (SWS= slow wave
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Tabella 2. Parametri macrostrutturali del sonno in pazienti con MCI evoluti e non evoluti:
Non evoluti Evoluti p
Tempo totale di sonno 414.3± 66.4 290.1± 69.2 0,041
Latenza di sonno 85.2 ± 76.6 60.2 ±77 n.s Latenza 1 REM 148.3 ± 84.2 128.9± 73.6 n.s. Risvegli 2.6 ± 1.3 1.8 ± 0.9 n.s. Veglia infrasonno 76.1 ± 44 119.2 ± 84.2 n.s. S1 % 8.9 ± 4.7 16 ± 5.6 n.s. S2% 40.3 ± 10.5 34.9 ±5.8 n.s. SWS% 32.3 ± 8.8 30.3 ± 8.9 n.s. REM% 18.4 ± 8.7 18.6 ± 11 n.s.
S1%= percentuale stadio 1 NREM/tempo totale di sonno; S2%= percentuale stadio 2 NREM/tempo totale di sonno; SWS%= percentuale sonno a onde lente (SWS= slow wave