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Analisi metabolica in soggetti con diversi regimi alimentari.

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Academic year: 2021

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U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

Scuola di Medicina

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea Magistrale

Analisi metabolica in soggetti con diversi

regimi alimentari

Relatore:

Chiar.mo Prof. Ferdinando Franzoni

Candidato:

Marco Favilli

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2

Indice

Introduzione ... 6

Sezione compilativa

1

Nutrienti alimentari ... 8

1.1 Micronutrienti ... 8 1.1.1 Sali minerali ... 8 1.1.2 Vitamine ... 9 1.2 Macronutrienti ... 17 1.2.1 Carboidrati ... 17 1.2.1.1 Metabolismo glucidico ... 19 1.2.2 Lipidi ... 24 1.2.2.1 Metabolismo lipidico ... 28 1.2.3 Proteine ... 33 1.2.3.1 Metabolismo proteico ... 36

2

Concetto di dieta e analisi di diversi regimi alimentari ... 39

2.1 La dieta ideale ... 40

2.1.1 Stato nutrizionale ... 45

2.1.2 Fabbisogno energetico ... 47

2.2 Dieta Mediterranea ... 51

2.3 Dieta Vegana ... 62

3

Metodi di misura del Metabolismo Basale ... 74

3.1 Metodi indiretti ... 76

3.2 Metodi diretti calorimetrici ... 79

(3)

3

3.2.2 Calorimetria indiretta ... 80

3.3 Metodi diretti non calorimetrici ... 87

3.3.1 Acqua doppiamente marcata ... 87

Sezione sperimentale

4

Scopo del lavoro ... 89

5

Materiali e metodi ... 91

5.1 Disegno dello studio... 91

5.2 Anamnesi e misure antropometriche ... 91

5.3 Calorimetria Indiretta ... 92

5.4 Analisi dei Gas Espirati ... 95

5.5 Analisi statistica ... 97

6

Risultati ... 98

7

Discussione ... 106

7.1 Antropometria ... 107 7.2 Metabolismo basale ... 110 7.3 Substrati energetici ... 113

7.4 Composizione chimica dell’espirato ... 114

8

Conclusioni ... 117

(4)

4

Indice delle figure

Figura 1.1 Classificazione delle vitamine in base alla loro solubilità 10

Figura 1.2 Indice Glicemico degli alimenti 19

Figura 1.3 Contenuto di acidi grassi negli alimenti 26

Figura 1.4 Principali fonti di proteine animali e vegetali 36

Figura 2.1 Nutrient Rich Food Index 9.3 (NRF9.3) 40

Figura 2.2 Distribuzione dell'intake calorico tra i vari macronutrienti

raccomandata per ogni pasto 42

Figura 2.3 Distribuzione calorica raccomandata nell'arco della giornata 44

Figura 2.4 Componenti della spesa 48

Figura 2.5 Linee guida alimentari per la Dieta Mediterranea 52

Figura 2.6 Piramide alimentare della Dieta Mediterranea 53

Figura 2.7 Benefici che la Dieta Mediterranea apporta alla salute 54

Figura 2.8 Alimenti che caratterizzano la Dieta Vegana 62

Figura 2.9 Linee guida alimentari per la Dieta Vegana 64

Figura 3.1 Metodi diretti calorimetrici: cosa misura la Calorimetria Diretta e cosa

misura la Calorimetria Indiretta 79

Figura 3.2 Valore medio del QR in condizioni basali ideali 87

Figura 5.1 Calorimetro Quark PFT (COSMED, Italia) 92

Figura 5.2 Esempio di schermata riprodotta dal software al termine dell'esame. 95

Figura 5.3 Strumentazione utilizzata per l'analisi dei gas espirati 96

Figura 6.1 Soggetti esaminati nel nostro studio 98

Figura 6.2 Intake quotidiano di macronutrienti nel gruppo vegano [Risultati del

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5

Figura 6.3 Intake quotidiano di macronutrienti nel gruppo onnivoro [Risultati del

questionario Eating Habits] 99

Figura 6.4 Valori medi di età, peso, altezza e BMI dei gruppi [Risultati delle

valutazioni anamnestiche] 100

Figura 6.5 Valori medi delle circonferenze addome, vita, fianchi e del rapporto

vita/fianchi dei due gruppi [Risultati delle valutazioni antropometriche]. 101

Figura 6.6 Valutazione del metabolismo basale (BMR) nei due gruppi [Risultati

della calorimetria indiretta]. 102

Figura 6.7 Valutazione del QR e dei substrati energetici principalmente utilizzate

dai due gruppi [Risultati della calorimetria indiretta] 103

Figura 6.8 Valori medi di Pentano dei due gruppi [Risultati dell'analisi dei gas

espirati]. 104

Figura 6.9 Valori medi di Esano dei due gruppi [Risultati dell'analisi dei gas

espirati] 104

Figura 6.10 Valori medi di 2-pentanone dei due gruppi [Risultati dell'analisi dei

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Introduzione

Oggigiorno sempre più persone decidono di ridurre o eliminare del tutto gli alimenti di origine animale dalla propria dieta. Un tempo i regimi alimentari di stampo vegetariano venivano seguiti essenzialmente dagli abitanti di quei paesi dove per povertà o religione non potevano essere assunte carni (India su tutti); negli ultimi anni invece hanno avuto un notevole aumento di seguaci anche nel Mondo Occidentale, con una prevalenza di vegetariani stimata tra il 3 e il 5% nei paesi sviluppati. (American Dietetic & Dietitians of, 2003)

In Italia in particolare, le diete vegetariane sono da considerarsi oggi a tutti gli effetti abitudini alimentari ben radicate e consolidate, tanto che il rapporto Eurispes del 2019 ha stimato che, nel nostro Paese, sono oltre 3 milioni i vegetariani (5,4% della popolazione), di cui più di un milione dichiaratamente vegano (1,9%). (Eurispes, 2019) Le motivazioni che hanno portato così tanti Italiani ad abbandonare la classica dieta Mediterranea, una delle più sane, variegate ed ecosostenibili del Mondo Occidentale (Corné van Dooren & Aiking, 2016), sono da ricercare in vari aspetti.

Solitamente alla base di questa scelta ci sono per prima cosa motivazioni etiche, ambientaliste e animaliste: queste diete rappresentano una vera e propria filosofia di vita basata sul rispetto dei viventi e dell’ambiante e sull’utilizzo esclusivo di risorse non provenienti dal mondo animale. La grande crescita di consensi che hanno visto questi regimi alimentari ha sicuramente dietro anche motivazioni salutistiche: alcuni temono l’eccessivo utilizzo di antibiotici o fattori di crescita negli allevamenti, altri hanno paura delle malattie portate dagli animali, altri ancora credono fermamente nei benefici che una dieta esclusivamente di origine vegetale può fornire. (Jacobsen, 2006)

Alla luce di quanto riportato in letteratura, possiamo effettivamente dire che le diete vegetariane hanno molti vantaggi in termini di salute: si associano infatti ad un calo

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della pressione sanguigna, ad un miglioramento del profilo lipidico, a calo ponderale e ad una generale riduzione dell’incidenza di molte patologie croniche (cardiovascolari e tumorali soprattutto). (G. Fraser, 2003; Key, Appleby, & Rosell, 2006)

Al di là di quale motivazione possa esserci alla base, una cosa è certa: decidere di eliminare dalla propria dieta qualsiasi alimento animale, o addirittura di derivazione animale (come nel ‘Veganesimo’), è una scelta che inevitabilmente provoca notevoli cambiamenti nel nostro organismo.

Va comunque chiarito che, una dieta, a prescindere dal fatto che sia onnivora o meno, per essere considerata idonea e di qualità deve garantire una equilibrata assunzione di micronutrienti (sali minerali, vitamine) e macronutrienti (carboidrati, lipidi, proteine) ed un intake calorico calibrato secondo le necessità di ciascun individuo (Società Italiana di Nutrizione Umana, 2014). Seguendo un regime alimentare vegetariano è possibile mantenere tale equilibrio, ma non è affatto facile senza l’ausilio di specialisti e un’attenta selezione dei pasti: specialmente in chi elimina qualsiasi alimento di derivazione animale come i Vegani, il rischio è quello di sviluppare dei deficit nutrizionali con delle inevitabili ripercussioni sul funzionamento fisiologico del nostro corpo.

Con il seguente studio abbiamo deciso di indagare le modificazioni che tali diete possono provocare a livello metabolico e lo abbiamo fatto mettendo a confronto due modelli nutrizionali che possono essere considerati opposti: una dieta esclusivamente di origine vegetale come quella Vegana e una onnivora di stampo mediterraneo.

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Sezione compilativa

1 Nutrienti alimentari

Gli alimenti che assumiamo con la dieta sono una fonte di molecole in grado di fornire, una volta metabolizzate, nutrienti utili per la crescita ed il sostentamento del nostro organismo, ma anche in grado di influenzare l’espressione genica, il funzionamento enzimatico e il nostro atteggiamento nei confronti del cibo stesso. Tali nutrienti possono essere distinti in micronutrienti, come sali minerali e vitamine, e macronutrienti, come carboidrati, lipidi e proteine.

1.1 Micronutrienti

Per micronutrienti si intendono i sali minerali e le vitamine, sostanze adibite al mantenimento delle funzioni dell’organismo, ma, a differenza dei macronutrienti, non direttamente correlate alla produzione di energia e alla crescita.

1.1.1 Sali minerali

I principali sali minerali che troviamo nel nostro corpo sono fosforo, calcio, magnesio, cloro, potassio, sodio, ferro. Essi rappresentano circa il 6.2% del nostro peso corporeo, di cui la maggior parte localizzata a livello osseo.

Non forniscono energia, ma le loro funzioni sono comunque essenziali per la nostra sopravvivenza: sono fondamentali per la formazione e lo sviluppo del tessuto osseo (sotto forma di fosfato e carbonato di calcio) ma anche di altri tessuti (come quello dentario), partecipano attivamente a molti cicli metabolici, sono coinvolti nella regolazione dell’equilibrio idrosalino.

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Nonostante la loro importanza, il nostro organismo non è in grado di sintetizzare sali minerali e risulta dunque indispensabile assumerli con la dieta. Li troviamo sia negli alimenti, sia nell’acqua e la loro funzione non viene alterata da nessun tipo di cottura. Inoltre, il loro fabbisogno giornaliero è basso e una dieta equilibrata priva di integrazioni è solitamente sufficiente per mantenerne dei livelli adeguati.

Tra i sali minerali che introduciamo con la dieta ce ne sono sicuramente alcuni di cui non abbiamo bisogno, altri ancora che sono potenzialmente tossici se assunti in una quantità eccessiva.

(Fidanza, Liguori, & Versiglioni, 1997)

1.1.2 Vitamine

Le vitamine sono composti organici eterogenei, fondamentali per il nostro organismo. Tutte le cellule del nostro corpo hanno una piccola riserva di vitamine, ma è a livello epatocitario che troviamo i depositi maggiori.

Non sono utilizzate per produrre energia né per usi strutturali, ma le loro funzioni sono comunque numerose e importanti. Ciò nonostante esse non possono essere sintetizzate a sufficienza dal nostro corpo, per cui anche in questo caso risulta indispensabile l’integrazione alimentare.

A seconda della loro polarità, le vitamine possono essere distinte in: polari idrosolubili (tutte le vitamine del gruppo B e la vitamina C) e non polari liposolubili (vitamina A, D, E, K).

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Figura 1.1 Classificazione delle vitamine in base alla loro solubilità

Vitamina A. La Vitamina A è una sostanza fondamentale prima di tutto per il suo effetto anti-ossidante, ma anche per lo sviluppo e la proliferazione di molti tessuti del nostro organismo (in particolar modo di quello epiteliale e osseo), per la risposta immunitaria e per la vista. Per quanto riguarda quest’ultima funzione, questa vitamina, insieme ai suoi precursori (caroteinoidi) è un importante costituente della rodopsina, pigmento retinico che dà all’occhio sensibilità alla luce.

Si trova nei tessuti sotto forma di retinolo, mentre nella dieta la possiamo trovare solo negli alimenti di origine vegetale sotto forma di provitamine, che verranno poi attivate nel fegato.

Una carenza di vitamina A può provocare alterazioni a carico delle strutture epiteliali, come un’eccessiva stratificazione e cheratinizzazione, e a livello oculare, dove causa cecità notturna.

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Vitamina D. La vitamina D è un derivato del colesterolo già presente come provitamina inattiva (deidrocolesterolo) a livello cutaneo. Viene trasformata dalla luce solare in vitamina D3 (o colecalciferolo), la quale viene idrossilata due volte (a livello epatico e a livello renale) per ottenere la forma metabolicamente attiva, l’1,25-(OH)2-colecalciferolo. Essa agisce come ormone nel controllo dell’omeostasi di calcio e fosforo: a livello renale ne limita l’escrezione; a livello intestinale ne favorisce l’assorbimento; a livello osseo, ad alte dosi agisce in sinergia con il paratormone stimolando il riassorbimento osseo, a basse dosi stimola invece la calcificazione ossea. Il suo fabbisogno in un adulto è pari a 10-15 μg/die e, in condizioni fisiologiche, non c’è necessità di integrazione in quanto la semplice esposizione ai raggi solari è sufficiente a stimolarne una sintesi endogena adeguata. Situazioni particolari sono le fasi di accrescimento, la gravidanza e l’allattamento nelle quali il fabbisogno aumenta, e l’età senile nella quale si ha un calo della capacità di sintesi endogena.

In questi casi una integrazione alimentare risulta indispensabile per prevenire problemi ossei (rachitismo nei bambini, osteomalacia e osteoporosi negli adulti) e tutte le altre problematiche che possono far seguito ad una carenza di Vitamina D.

Per evitare queste complicanze può essere sufficiente l’assunzione di cibi ricchi di vitamina D (olio di fegato di merluzzo, sgombro, salmone, sardine, trote, aringhe, latte di mucca e capra e derivati, fegato di pollo e frattaglie in genere, germe di grano), ma sono più spesso necessari integratori.

La Vitamina D che troviamo negli alimenti non è sempre la stessa: infatti i cibi di origine animale contengono Vitamina D3 (colecalciferolo), sostanza che, essendo equivalente a quella endogena, viene assorbita bene ed è molto attiva; i cibi di origine vegetale contengono invece Vitamina D2 (ergocalciferolo) la quale ha una biodisponibilità e un’attività minori (Trang et al., 1998). Questo fatto spiega il motivo

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per cui molto spesso chi segue una dieta a base esclusivamente di alimenti di origine vegetale (vegani) soffra di stati carenziali di vitamina D.

Vitamina E. La vitamina E ha un ruolo protettivo antiossidante nei confronti degli acidi grassi insaturi. Una sua assenza causerebbe una diminuzione di tali acidi e conseguenti alterazioni strutturali e funzionali della membrana cellulare e degli organuli intracellulari. Tuttavia, carenze di vitamina E nell’uomo sono state riscontrate raramente.

Vitamina K. La vitamina K è una sostanza fondamentale per la coagulazione sanguigna. Essa infatti è un cofattore essenziale di un enzima epatico (la carbossilasi), il quale è adibito alla carbossilazione e conseguente attivazione dei fattori II, VII, IX e X.

Tale vitamina può essere assunta con la dieta (ne sono particolarmente ricche le verdure a foglie verdi), ma la maggior parte della quota presente nel nostro corpo è prodotta dai batteri simbionti del colon.

Il fabbisogno dell’adulto è di circa 1 μg/kg/die e risulta normalmente coperto dalla sintesi endogena batterica. Tuttavia, situazioni particolari come la somministrazione di dosi importanti di antibiotici che vanno ad alterare la flora intestinale, o l’assunzione inadeguata di cumarolici, possono causare una carenza di vitamina K, che si manifesta con emorragie anche molto gravi.

Vitamina B1. La vitamina B1, o tiamina, è un fattore necessario per il metabolismo terminale dei carboidrati e di molti amminoacidi. Essa infatti agisce come coenzima della decarbossilasi nelle reazioni di decarbossilazione ossidativa dell’acido piruvico

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(con formazione di acetil-CoA) e di altri α-chetoacidi all’interno del ciclo dell’acido citrico.

Una carenza di Tiamina provoca dunque un maggior utilizzo di grassi da parte dei tessuti, a discapito di zuccheri e proteine, e un conseguente calo netto della energia metabolica disponibile. Tutto ciò ha delle ripercussioni sistemiche importanti, con quella che viene chiamata sindrome Beriberi. Il sistema nervoso, che ricava la maggior parte della sua energia dal metabolismo dei carboidrati, è il primo a risentirne con lesioni neuronali e degenerazione della guaina mielinica, sia a livello centrale che periferico. Altre alterazioni sono riscontrabili a livello cardiovascolare (fino alla insufficienza cardiaca) e a livello gastrointestinale (disturbi della digestione).

Vitamina B2. Detta anche riboflavina, forma in combinazione con l’acido fosforico i coenzimi FAD e FMN. Il primo svolge un ruolo di accettore di idrogeno in una delle reazioni di ossido-riduzione all’interno del ciclo dell’acido citrico, il secondo invece svolge la stessa funzione ma a livello della membrana mitocondriale interna dove costituisce il primo complesso della catena del trasporto degli elettroni.

La vitamina B2 è dunque fondamentale nei processi metabolici dell’uomo e una sua mancanza potrebbe avere ripercussioni molto gravi. Nell’uomo tuttavia stati carenziali così gravi da causare sintomi non sono mai stata riscontrati.

Vitamina B3. Detta anche niacina, o acido nicotinico, la ritroviamo nel nostro organismo sotto forma di NAD e NADP, coenzimi accettori di idrogeno indispensabili nei processi metabolici di ossido-riduzione.

La vitamina B3 può essere in parte ottenuta dal triptofano, per questo i soggetti che si nutrono prevalentemente di granoturco (particolarmente povero di triptofano) hanno

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delle riserve di niacina solitamente inferiori rispetto a quelli che si alimentano in maniera più equilibrata.

Una carenza di Niacina causa un’alterazione nella respirazione cellulare con ridotta disponibilità energetica. Le conseguenze che ne derivano rientrano nel quadro clinico noto come Pellagra e possono variare da semplici alterazioni funzionali a livello muscolare e ghiandolare, a quadri irritatori o infiammatori a livello cutaneo e delle mucose orale e gastrointestinale (con disturbi della digestione e emorragie), fino ai casi più gravi con necrosi tissutale e lesioni estese in varie aree dell’SNC.

Vitamina B5. Detta acido pantotenico, è uno dei componenti del coenzima A, implicato in molte funzioni metaboliche cellulari. Tra queste le più importanti sono la conversione del piruvato ad acetil-coA e la degradazione degli acidi grassi ad acetil-coA. Entra dunque sia nella via metabolica dei carboidrati sia in quella dei lipidi e una sua carenza ne può causare il rallentamento.

La vitamina B5 è contenuta in quasi tutti gli alimenti, per cui è molto raro arrivare a stati sintomatici di carenza.

Vitamina B6. Detta piridossina, svolge il ruolo di coenzima all’interno delle vie metaboliche delle proteine. È in particolar modo importante per la sintesi degli aminoacidi, intervenendo nelle reazioni di transaminazione. Una sua carenza avrebbe forti ripercussioni sul metabolismo proteico, ma è molto rara.

Vitamina B9. La vitamina B9 o acido folico o folacina, è una molecola che interviene in molti processi enzimatici, è essenziale per il metabolismo degli amminoacidi e per la formazione dei globuli rossi, ma il suo ruolo principale è quello che svolge all’interno

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della catena di sintesi delle purine e della timina, necessarie per la formazione del DNA: l’acido folico è una vitamina fondamentale per la sintesi di DNA, per la replicazione dei geni cellulari e di conseguenza per la crescita corporea.

Ha inoltre la funzione di ridurre i livelli di omocisteina, il cui eccesso si associa ad un aumentato rischio cardiovascolare.

I folati sono presenti soprattutto nelle frattaglie degli animali e in molti alimenti vegetali, ma con la cottura se ne distrugge la maggior parte. Il loro fabbisogno giornaliero minimo sarebbe di 50-100 μg/die, ma può aumentare in situazioni particolari come gravidanza, allattamento, fasi di crescita, tumori. Ne viene raccomandata un’assunzione di minimo 200 μg/die fino a 400 μg/die (nei primi mesi di gestazione). Una sua carenza può portare a ritardo dell’accrescimento, disturbi della memoria, anemia macrocitica (detta megaloblastica), e malformazioni fetali (in caso di gravidanza).

Vitamina B12. Per vitamina B12 si intende un gruppo di sostanze contenenti cobalto (cobalamine), tra le quali le principali sono l’idrossicobalamina e la cianocobalamina. La loro principale funzione è quella di coenzima accettore di idrogeno nelle reazioni di riduzione dei riblonucleotidi a desossiribonucleotidi, necessari per la sintesi di DNA e quindi per la replicazione dei geni. Hanno quindi un ruolo fondamentale per la crescita corporea e per la formazione e maturazione dei globuli rossi.

La vitamina B12 è inoltre coinvolta nelle vie metaboliche degli acidi grassi e degli amminoacidi, ed ha anch’essa la funzione di ridurre i livelli di omocisteina (tanto che un aumento di quest’ultima è considerato un marker di carenza di vitamina B12).

Il suo fabbisogno giornaliero è relativamente basso, circa 2 μg/die per l’adulto, ma può aumentare in condizioni di gravidanza, allattamento o fasi di crescita. Possiamo trovare

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cobalamine nella carne, latte e derivati, uova e pesce, e sono inoltre resistenti alla cottura, quindi una dieta equilibrata è assolutamente sufficiente a coprirne il fabbisogno. Situazione diversa è quella dei vegani: con la dieta vegana l’assunzione di Vitamina B12 è drasticamente ridotta e tali soggetti hanno bisogno di una integrazione giornaliera.

Una carenza di cobalamina può derivare non solo da fattori dietetici, ma anche dalla mancanza del fattore intrinseco, una molecola secreta dalle cellule parietali gastriche che facilita l’assorbimento della vitamina a livello intestinale.

I principali segni di una carenza di vitamina B12 sono: ritardo di crescita, anemia macrocitica (detta in questo caso perniciosa), iperomocisteinemia, demielinizzazione delle fibre nervose con conseguenti deficit di sensibilità periferica fino a paralisi (se interessa il midollo) o turbe cognitive (se interessa l’encefalo).

Vitamina C.Detta acido ascorbico, è una molecola antiossidante necessaria anche per le vie di sintesi della idrossiprolina, elemento costitutivo del collagene presente in praticamente tutti i tessuti dell’organismo. L’assenza di vitamina C provoca la formazione di un collagene difettoso e poco resistente con conseguenze sistemiche importanti: difficoltà nella guarigione delle ferite, rallentamento o arresto dell’accrescimento osseo, cartilagineo e dentario, indebolimento delle pareti dei vasi sanguigni, frammentazione delle fibre muscolari. Questo quadro, molto raro, prende il nome di Scorbuto e si presenta dopo 20-30 settimane di carenza di acido ascorbico.

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1.2 Macronutrienti

Appartengono a questa categoria i carboidrati, i lipidi e le proteine, princìpi alimentari introdotti in grandi quantità con la dieta e rappresentanti la più importante fonte energetica per l’organismo; sono inoltre utili per la crescita e per il mantenimento del metabolismo.

1.2.1 Carboidrati

I carboidrati o saccaridi o glucidi sono i composti organici più diffusi e abbondanti sulla terra. Sono costituiti da carbonio, idrogeno e ossigeno, da cui il nome. La loro principale funzione è quella di conservare energia e renderla disponibile nel momento del bisogno.

A seconda del numero di atomi di carbonio e del gruppo funzionale dai quali sono costituiti possono distinguersi in:

 monosaccaridi, le unità strutturali più semplici. Tra questi, il glucosio è una delle più importanti fonti di energia che abbiamo, in quanto dal metabolismo di una sola molecola si ottengono fino a 38 molecole di ATP. Altri sono fruttosio, mannosio, galattosio.

 disaccaridi, due unità monosaccaridiche unite da un legame glicosidico. Tra questi, saccarosio, maltosio, lattosio.

 oligosaccaridi, 3-10 unità monosaccaridiche

 polisaccaridi o glicani, moltissime unità monosaccaridiche, uguali tra loro (omopolisaccarde) o diverse tra loro (eteropolisaccaride). Tra questi i più importanti sono il glicogeno (riserva energetica presente prevalentemente a livello epatico e muscolare), l’acido ialuronico (mucopolisaccaride), la chitina (polisaccaride strutturale).

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Oltre a questi, nella categoria di carboidrati rientrano anche le fibre (cellulosa, amido, pectine, ecc.), polisaccaridi vegetali indigeribili in quanto non idrolizzabili dagli enzimi digestivi dell’uomo. (Becker, Kleinsmith, Hardin, & Bertoni, 2003)

Per valutare la quantità di carboidrati all’interno del nostro organismo, misuriamo la concentrazione ematica di glucosio, la glicemia: in condizioni fisiologiche essa è di circa 90-100 mg/dl a digiuno, non supera i 140 mg/dl dopo un pasto (anche se ricco di carboidrati). Un altro metodo di valutazione è la percentuale di emoglobina glicata, normalmente pari a 4-6%.

L’equilibrio dei livelli glicemici è mantenuto grazie all’azione di insulina (ipoglicemizzante) e glucagone (iperglicemizzante).

I carboidrati possono essere classificati anche sulla base della velocità con cui determinano l’aumento della glicemia dopo il pasto. Per fare questa distinzione è necessario fare chiarezza sul concetto di indice glicemico di un determinato alimento: esso è un indicatore standardizzato della capacità di un carboidrato presente in tale alimento di alzare la concentrazione di glucosio nel sangue ed è espresso in termini percentuali rispetto ad un alimento di riferimento (IG100), che solitamente è il pane bianco.

Gli alimenti con alto indice glicemico sono digeriti e assorbiti rapidamente, fanno aumentare velocemente la glicemia con conseguente brusco e notevole aumento dei livelli di insulina ed altrettanto rapido crollo dei livelli glicemici. Quelli a basso indice glicemico sono invece digeriti e assorbiti più lentamente, la glicemia sale gradualmente e si avrà un normale rilascio di insulina che riporterà la glicemia a livelli normali.

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Tra i primi troviamo: pane bianco e integrale, pasta, biscotti e tutti i prodotti da forno, riso bianco, patate bianche, pizza, cereali soffiati, crepes e molti altri dolci.

Tra i secondi ci sono: verdure, legumi, cereali integrali, frutta (ad eccezione di banane, ananas, anguria). (Fidanza et al., 1997; Shils & Shike, 2006)

Figura 1.2 Indice Glicemico degli alimenti

La quota energetica derivante dai carboidrati dovrebbe corrispondere a circa il 55-60% della razione alimentare, di cui il 15% zuccheri semplici e il 45% polisaccaridi. La quantità di fibre che si consiglia di assumere è invece di 30g/die (Società Italiana di Nutrizione Umana, 2014; WHO, 2003).

1.2.1.1 Metabolismo glucidico

Il metabolismo dei carboidrati comincia con i processi digestivi. Questi cominciano già nel cavo orale grazie alla ptialina che idrolizza molti legami glucosidici, si interrompono momentaneamente nello stomaco a causa del basso pH e si completano

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nell’intestino ad opera della α-amilasi pancreatica. I prodotti finali saranno dei monosaccaridi (fruttosio, galattosio e soprattutto glucosio) che vengono assorbiti dalle cellule intestinali e rilasciati all’interno del torrente ematico. La maggior parte del fruttosio e del galattosio sono subito convertiti da parte del fegato in glucosio, il quale rappresenta dunque la forma comune finale della digestione dei carboidrati.

A questo punto il glucosio entra nelle cellule per diffusione facilitata (favorita dal rilascio di insulina) e il suo destino dipende dalle esigenze dell’organismo e dal tessuto nel quale ci troviamo. Come prima cosa viene fosforilato a glucosio-6-fosfato ad opera della glucochinasi (a livello epatico) e della esochinasi (a livello di tutte le altre cellule): negli epatociti questo processo è reversibile in quanto è presente anche la glucosio-fosfatasi che permette la reazione inversa; in tutte le altre cellule tale enzima manca dunque questo processo è irreversibile e il glucosio non può più uscire.

Il glucosio-6-fosfato, se la cellula non ha immediato bisogno di energia, viene immagazzinato sotto forma di glicogeno, con un processo di polimerizzazione detto glicogenosintesi. Tale reazione può teoricamente avvenire in tutte le cellule ma solo quelle epatiche e quelle muscolari sono in grado di contenere grandi quantità di glicogeno e crearne delle vere e proprie riserve. In caso di calo della glicemia, grazie alla reazione di glicogenolisi il glicogeno può essere nuovamente degradato a glucosio-6-fosfato. Quest’ultimo può entrare in glicolisi se c’è bisogno di energia, o defosforilarsi a glucosio, per essere immesso nel sangue (passaggio, quest’ultimo, possibile solo a livello epatico). L’adrenalina e il glucagone sono i principali attivatori di questa reazione, la prima a livello sia epatico che muscolare, il secondo solamente a livello epatico.

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Se c’è bisogno immediato di energia invece il glucosio-6-fosfato entra subito in glicolisi, un processo di ossidazione anaerobico che avviene nel citoplasma di tutte le cellule del nostro organismo. La glicolisi consta di una sequenza di reazioni che portano alla degradazione della molecola di glucosio in due molecole di acido piruvico (con produzione di 2 ATP e 2 NADH). L’acido piruvico segue a questo punto due vie diverse a seconda della presenza o della assenza di ossigeno.

Nel primo caso va incontro ad una decarbossilazione ossidativa e viene trasformato in acetil-coA, CO2 e 2H+ (con formazione di 1 NADH). L’acetil-coA entra nel ciclo

dell’acido citrico (ciclo di Krebs o ciclo degli acidi tricarbossilici), una serie di reazioni chimiche che prendono luogo nella matrice mitocondriale e tramite le quali esso viene degradato ad anidride carbonica (in tutto vengono rilasciate 2 CO2 per ogni ciclo) e

idrogeno (in tutto 8H+ con formazione di 3 NADH e 1 FADH2). Durante questo ciclo si

ha inoltre una piccola produzione di energia, tramite il rilascio di 1 ATP.

La tappa finale del metabolismo ossidativo glucidico è la fosforilazione ossidativa. In questa fase le molecole di NADH e FADH2 formatesi antecedentemente si ossidano

nuovamente, perdendo H+ e 2e-. Questi ultimi entrano in un sistema di accettori di elettroni (tra cui FMN, varie proteine contenenti zolfo e ferro, ubichinone, citocromi), i quali riducendosi e ossidandosi trasportano gli e- fino all’accettore finale, la citocromo-ossidasi. Questa è in grado di cedere la coppia elettronica all’ossigeno, il quale, una volta ridotto a ossigeno ionizzato, può legarsi a 2H+ con formazione di H2O. I complessi

transmembrana accettori di elettroni fungono anche da pompe: essi sfruttano l’energia ricavata dalle reazioni di ossido-riduzione per pompare gli H+ della matrice all’interno dello spazio intermembrana mitocondriale. A questo punto gli ioni H+, spinti dalla differenza di potenziale, ritornano all’interno della matrice tramite un’altra pompa, la

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ATPasi. L’energia derivata da questo flusso di idrogenioni viene sfruttata dalla ATPasi (detta ATP-sintetasi) per produrre ATP (in particolare 1 ATP ogni 3H+), che passerà nel citoplasma.

Con ogni NADH si possono ricavare 3 ATP, con ogni FADH2 2 ATP.

Il bilancio energetico finale del metabolismo ossidativo di una molecola di glucosio è al massimo di 38 ATP, corrispondenti a circa 456 kcal. Considerando che l’ossidazione completa di una mole di glucosio produrrebbe 686 kcal, l’efficienza globale di questi processi è del 66%, mentre il restante 34% dell’energia è dissipata in calore.

Nel caso in cui invece non ci sia ossigeno o non ce ne sia a sufficienza, l’energia viene ricavata solamente dalla glicolisi con formazione di 2 ATP per ogni molecola di glucosio. In questo caso l’efficienza è del 3% con un enorme dispendio di glucosio e il problema del mancato smaltimento dei prodotti terminali glicolitici (l’acido piruvico e il NADH) i quali bloccano la glicolisi stessa. Per ovviare a quest’ultimo problema, quando questi due prodotti sono in eccesso iniziano a reagire l’uno con l’altro: il NADH cede l’H+

al piruvato il quale si riduce ad acido lattico (con formazione di NAD+). L’acido lattico può a questo punto diffondere nel liquido extra-cellulare o nel liquido intra-cellulare di altre cellule e, nel momento in cui tornerà ad esserci abbastanza ossigeno, potrà essere nuovamente ossidato a piruvato. L’acido lattico può inoltre essere sfruttato per la sintesi di nuovo glucosio tramite la gluconeogenesi.

La glicolisi non è l’unico meccanismo di degradazione e utilizzazione del glucosio. L’alternativa è il ciclo dei pentosi fosfati, una serie di reazioni completamente indipendenti dagli enzimi del ciclo di Krebs che riveste un ruolo particolarmente importante nelle cellule epatiche e in quelle adipose, ma anche in rene ed eritrociti. In

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questo caso vengono utilizzate 6 molecole di glucosio-6-fosfato per ogni ciclo: queste perdono ciascuna una molecola di CO2 e 4 H+ e vengono degradate a pentosi-fosfato

(zuccheri a 5 atomi di carbonio come ribosio, fruttosio). Questi ultimi possono essere sfruttati per la sintesi di nucleotidi, per la sintesi di intermedi della via glicolitica o per la sintesi di nuove molecole di glucosio (in tutto 5) pronte per riiniziare il ciclo. Il bilancio finale di questa via metabolica è di una molecola di glucosio consumata ogni sei che vi entrano, con formazione di 6 CO2 e 12 NADPH per ciclo. Questi ultimi

vengono utilizzati per la sintesi lipidica in quanto agevolano la conversione di acetil-coA in lunghe catene di acidi grassi. L’importanza della via metabolica del pentoso fosfato sta nel fatto che, nel momento in cui cala la richiesta di energia cellulare e la via glicolitica rallenta, essa rimane attiva per degradare qualsiasi eccesso di glucosio e sfruttarlo per la formazione di lipidi.

Quando la glicemia scende al di sotto della norma, ma le riserve di glicogeno sono state esaurite, entra in azione la gluconeogenesi, una serie di reazioni che portano alla sintesi di nuove molecole di glucosio a partire da precursori non glucidici come aminoacidi (non tutti), acido lattico, glicerolo. Tale processo risulta essere particolarmente importante per mantenere costanti i livelli glicemici plasmatici durante le fasi di digiuno tra un pasto e l’altro. Si svolge prevalentemente a livello epatico, ma in condizione di digiuno prolungato anche il rene può dare un contributo importante. Un ruolo fondamentale nella promozione della gluconeogenesi lo svolge il cortisolo: tale ormone è in grado di mobilizzare le proteine da quasi tutte le cellule dell’organismo, rendendo disponibili grandi quantità di aminoacidi, pronti per entrare in gluconeogenesi.

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24 1.2.2 Lipidi

I lipidi o grassi sono composti eterogenei che troviamo sia nelle piante che negli animali. Essi costituiscono la maggior riserva di energia del nostro organismo, ma hanno anche funzioni plastiche, strutturali e bioregolatorie. Sono tutti composti apolari, ciò significa che non sono solubili in solventi acquosi mentre lo sono in solventi organici.

Le categorie lipidiche più importanti sono trigliceridi (o grassi neutri), fosfolipidi e colesterolo. La componente fondamentale dei primi due sono gli acidi grassi, mentre il colesterolo è costituito da un nucleo sterolico che è comunque sintetizzato a partire dai prodotti di degradazione degli acidi grassi.

Gli acidi grassi sono molecole essenziali che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare a sufficienza, dunque vanno necessariamente assunti con la dieta. Sono costituiti da lunghe catene (lineari o ramificate) di atomi di carbonio e possono essere distinti in saturi (se tutti i legami tra atomi di carbonio sono semplici), monoinsaturi (se due atomi di carbonio formano un doppio legame), polinsaturi (se ci sono più doppi legami). Maggiore è il grado di insaturazione maggiore è la fluidità della membrana che essi costituiscono (nel caso dei fosfolipidi). (Becker et al., 2003)

Tra gli acidi grassi saturi i più importanti sono:

 Acido miristico e acido palmitico. Essi possono essere prodotti dal fegato a partire dal glucosio o essere assunti con la dieta essendo particolarmente abbondanti nei grassi di origine animale (panna, burro) e vegetale (olio di palma). Sono coinvolti nella regolazione dei livelli sanguigni del colesterolo (li aumentano) e della disponibilità di acidi grassi polinsaturi, nella regolazione ormonale, nella comunicazione fra cellule, nelle funzioni del sistema immunitario.

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 Acido stearico. È presente soprattutto negli animali (specialmente nei salumi), poco nei vegetali. A differenza dei primi, non fa aumentare i livelli del colesterolo in quanto ha la possibilità di essere desaturato ad acido oleico.

Tra gli acidi grassi monoinsaturi (MUFA) troviamo:

 Acido oleico. Fa parte della famiglia degli Omega-9 ed è il più abbondante MUFA del nostro organismo. Grazie alla via metabolica dei pentoso-fosfati, il fegato è in grado di sintetizzarlo a partire dal glucosio. Le sue funzioni sono strutturali (favorisce la fluidità di membrana), energetiche, antiaterogene (influendo positivamente sui livelli di colesterolo).

Tra gli acidi grassi polinsaturi a catena lunga (PUFA) ci sono:

 Acidi grassi omega-3. Il principale è l’acido α-linoleico, che rappresenta il precursore di questa famiglia, da cui derivano tra i tanti l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA). Gli omega-3 sono grassi importanti per la salute in quanto garantiscono una fluidità di membrana ottimale, sono precursori della serie 1 degli eicosanoidi (infiammatori, anti-aggreganti, miorillassanti), riducono i livelli di trigliceridi. Essi sono acidi grassi essenziali che dobbiamo necessariamente introdurre con la dieta: l’acido α-linoleico lo troviamo in alcuni alimenti vegetali, l’EPA e il DHA sono invece abbondanti nei pesci. Chi segue una dieta esclusivamente di tipo vegetale, presenta molto spesso una carenza di questo tipo di acidi grassi.

 Acidi grassi omega-6. Il principale è l’acido linoleico, precursore di questa famiglia da cui derivano tra i tanti l’acido diomo-γ-linoleico (DGLA) e l’acido arachidonico (AA). Anche gli omega-6 hanno un ruolo importante per la salute dell’organismo, sia dal punto di vista strutturale (favoriscono la fluidità di membrana), ma anche e soprattutto dal punto di vista funzionale: i DGLA sono

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infatti i precursori della serie 1 degli eicosanoidi (infiammatori, anti-aggreganti, miorillassanti), l’AA della serie 2 (pro-infiammatori, pro-anti-aggreganti, miocontrattori). Anche questi sono acidi grassi essenziali che devono essere introdotti con l’alimentazione: gli oli vegetali sono ricchi di acido linoleico, ma possiamo trovarlo anche in altri grassi vegetali (come nella frutta secca) o animali.

Gli acidi grassi insaturi di cui abbiamo parlato finora sono tutti in forma cis-, in quanto è l’unica forma che il nostro organismo è in grado di metabolizzare. Possono però trovarsi in natura anche acidi grassi insaturi in forma trans-: questi sembra che provochino un calo del colesterolo HDL e un aumento del colesterolo LDL con aumentato rischio aterogeno, dunque sono dannosi per la nostra salute.

(Fidanza et al., 1997; Shils & Shike, 2006)

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I fosfolipidi sono lipidi composti da una molecola di glicerolo cui si legano un fosfato, a costituire la testa polare, e due acidi grassi (solitamente uno satura e l’altro insaturo), a costituire la coda apolare. Questa doppia polarità dà ai fosfolipidi una natura anfipatica. La loro funzione è prettamente strutturale: essi infatti, grazie alla loro capacità di legarsi a formare un doppio strato lipidico, sono i costituenti principali di praticamente tutte le membrane cellulari del nostro organismo. I fosfolipidi più importanti sono i fosfogliceridi. (Becker et al., 2003)

I trigliceridi, o triacilgliceroli, sono lipidi costituiti da una molecola di glicerolo cui si legano tre acidi grassi, che possono essere sia saturi che insaturi. La principale funzione di questi composti è quella di fornire energia tramite la loro degradazione o di andare ad immagazzinarla accumulandosi a livello delle cellule adipose. (Becker et al., 2003) Il 95% dei grassi che assumiamo con la dieta sono trigliceridi, i cui livelli ematici devono essere monitorati poiché correlati al rischio cardiovascolare. La concentrazione di trigliceridi nel sangue è considerata normale fino ad un massimo di 150mg/dl. (Shils & Shike, 2006)

Il colesterolo è un lipide facente parte della classe degli steroidi. È una molecola anfipatica che possiamo trovare in tutte le cellule del nostro organismo, specialmente a livello dei tessuti nervosi.

La sua quantità totale è di circa 200g, dei quali la maggior parte deriva dalla produzione endogena. Praticamente tutte le cellule sono in grado di sintetizzare colesterolo, ma la quota maggiore è fornita da quelle epatiche. Il nucleo sterolico viene sintetizzato a partire da molecole di acetil-coA, cui poi vengono aggiunte o meno varie catene laterali. Lo possiamo trovare sia in forma libera (30%) sia in forma esterificata (70%), quando il gruppo -OH su C3 lega un acido un grasso.

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Ha un ruolo fondamentale per la vita, in quanto le sue funzioni biologiche sono molteplici e importanti:

- A livello delle membrane cellulari e mitocondriale ha un ruolo strutturale, conferendo rigidità

- È il precursore degli ormoni steroidei (ormoni sessuali, mineralcorticoidi, glucocorticoidi), di cui ne costituisce lo scheletro

- È il precursore della Vitamina D

- È uno dei componenti della bile, necessaria per il corretto assorbimento dei grassi alimentari.

Nel sangue livelli normali di colesterolo totale sono tra i 150 e i 200 mg/dl. Tali concentrazioni possono subire modificazioni a seconda della dieta: se aumentiamo l’introito di colesterolo, aumentano di poco, in quanto il colesterolo stesso andrà ad inibire la produzione endogena; se facciamo una dieta ricca di grassi saturi, l’aumento è del 10-15% in quanto le grandi quantità di acetil-coA a livello epatico ne stimolano la produzione; se invece facciamo una dieta ricca di grassi insaturi, le concentrazioni di colesterolo diminuiscono leggermente. (Becker et al., 2003; Fidanza et al., 1997)

La quota calorica derivante dai lipidi non deve superare il 30% della razione alimentare, di cui <10% grassi saturi, <15% PUFA, <5% MUFA. Per quanto riguarda il colesterolo invece non dovremmo superare i 300 mg/die (Società Italiana di Nutrizione Umana, 2014; WHO, 2003).

1.2.2.1 Metabolismo lipidico

Come già detto, la quota di grassi che noi assumiamo con la dieta è costituita prevalentemente da trigliceridi (95%) e solo in minima parte da colesterolo esterificato

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e fosfolipidi. Una volta ingeriti, una piccola quota di trigliceridi (10%) viene digerita già nello stomaco da parte della lipasi linguale. Una volta raggiunto il duodeno, intervengono prima la bile, che li emulsiona, poi la lipasi pancreatica, che completa la digestione degradandoli ad acidi grassi liberi e glicerolo, poi assorbiti dall’intestino. All’interno della cellula intestinale, acidi grassi e glicerolo vanno nuovamente a costituire trigliceridi, a loro volta assemblati con piccole quantità di colesterolo e fosfolipidi a formare chilomicroni. Questi ultimi vengono immessi nella linfa e successivamente riversati nel torrente ematico. Una volta raggiunti i tessuti periferici (adiposo e muscolare soprattutto), vengono scissi nuovamente ad acidi grassi liberi e glicerolo da parte della lipoproteina lipasi: gli acidi grassi passano all’interno della cellula dove possono venire utilizzati a scopo energetico oppure, nel caso degli adipociti, immagazzinati nuovamente sotto forma di trigliceridi. I chilomicroni residui, adesso ricchi di colesterolo, vengono captati dal fegato, cosicché dopo poche ore dal pasto non abbiamo più traccia di essi nel plasma.

A livello epatico il colesterolo può essere utilizzato per la formazione della bile (e quindi eliminato con le feci) oppure assemblato insieme a grandi quantità di trigliceridi a formare le VLDL. Quest’ultime, attraverso il torrente ematico, raggiungono i tessuti periferici: qui interviene la lipoproteina lipasi e i trigliceridi vengono degradati nuovamente ad acidi grassi liberi, utilizzabili dalle cellule. Al termine di questo processo rimangono delle lipoproteine ricche di colesterolo, le LDL, le quali vengono internalizzate dalle cellule periferiche. Ruolo opposto rispetto alle LDL, è svolto dalle HDL, lipoproteine adibite al trasporto del colesterolo dalle cellule periferiche al fegato, dove viene smaltito.

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Praticamente tutte le cellule del nostro organismo, ad eccezione di quelle cerebrali e degli eritrociti, sono in grado di utilizzare gli acidi grassi (accanto al glucosio) a scopo energetico. Una volta all’interno della cellula, gli acidi grassi sono trasportati nei mitocondri dove vengono degradati attraverso la β-ossidazione: questo processo consiste in un insieme di reazioni tramite le quali dall’acido grasso viene staccata una molecola di acetil-coA con rilascio di 4H+ per volta (e formazione di 1 FADH2 e 1

NADH). La β-ossidazione viene poi ripetuta andando ad accorciare sempre più l’acido grasso, fino a degradarlo completamente. Le molecole di acetil-coA ottenute entrano a questo punto nel ciclo dell’acido citrico e seguono la stessa via del glucosio.

Le quantità di ATP che si possono ricavare al termine del metabolismo completo di una molecola di acido grasso dipendono dalla lunghezza della sua catena, ma sono abbondantemente superiori a quelle che si ottengono dal metabolismo di una molecola di glucosio.

A livello epatico, solo una minima quantità dell’acetil-coA che si forma con la β-ossidazione è utilizzata a scopo energetico. La maggior parte di esso infatti viene trasformato ad acetoacetato, dal quale a sua volta si ottengono β-idrossibutirrato e acetone. Questi tre composti, detti chetoacidi, hanno la capacità di diffondere liberamente attraverso le membrane dunque entrano nel sangue e raggiungono i tessuti periferici. Qui avvengono le reazioni opposte rispetto a quelle epatiche, con formazione di nuovo acetil-coA utilizzabile a scopo energetico.

L’energia immagazzinata sottoforma di grasso è circa 150 volte maggiore rispetto a quella immagazzinata sotto forma di carboidrati. Nonostante ciò, quando il quantitativo glucidico introdotto con la dieta è adeguato, per ricavare energia le cellule periferiche

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preferiscono metabolizzare i carboidrati piuttosto che i lipidi. Questo avviene per vari motivi. Il primo è che si ha una sintesi accelerata di acidi grassi, più rapida rispetto alla loro degradazione. Il secondo è che tali acidi grassi trovano una quantità maggiore di α-glicerofosfato, e dunque tendono ad accumularsi sottoforma di trigliceridi piuttosto che ad essere degradati.

Quando invece introduciamo una quantità di carboidrati maggiore a quella che possiamo metabolizzare o immagazzinare, l’eccesso di acetil-coA derivante dalla glicolisi aerobia viene convertito in acidi grassi attraverso una serie di reazioni nelle quali risultano fondamentali l’acetil-coA carbosillasi, enzima notevolmente stimolato dagli abbondanti prodotti intermedi dell’acido citrico, e il NADPH, derivato dal ciclo dei pentosi-fosfato. Gli acidi grassi così ottenuti si legano all’α-glicerofosfato (derivato anch’esso dalla via glicolitica e anch’esso in eccesso) e vanno a formare trigliceridi. Discorso simile può essere fatto quando introduciamo un eccesso di proteine con la dieta. Molti aminoacidi infatti possono essere convertiti in acetil-coA ed essere quindi utilizzati per sintetizzare nuovi trigliceridi. Tutto ciò avviene a livello epatico. I nuovi trigliceridi vengono immessi in circolo sotto forma di VLDL e raggiungono il tessuto adiposo dove vengono immagazzinati. Tutto questo è molto importante in quanto la quantità di grasso che è possibile accumulare nell’adipocita è molto maggiore rispetto a quella di glicogeno.

Quando invece i carboidrati non sono disponibili, come nelle condizioni di digiuno prolungato, l’equilibrio si sposta in direzione opposta favorendo il metabolismo lipidico. In questi casi quasi tutta l’energia viene ricavata dal metabolismo dei grassi e lo sbilanciamento è tale da causare una produzione di corpi chetonici che supera la capacità che le cellule hanno di degradarli. Questa situazione prende il nome di chetosi.

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Un ruolo fondamentale lo gioca in questi casi l’insulina. In condizioni di carenza glucidica l’insulina scarseggia e viene quindi meno lo stimolo all’internalizzazione e utilizzazione di glucosio. L’insulina ha inoltre un importante effetto anti-lipolitico, quindi una sua carenza favorisce la mobilizzazione dei grassi, che possono a questo punto essere degradati. Altri ormoni che intervengono in questi meccanismi sono la adrenalina e la noradrenalina, i glicocorticoidi, l’ormone della crescita, gli ormoni tiroidei: tutti quanti stimolano la lipolisi e la mobilizzazione degli acidi grassi.

Situazione particolare nella quale si ha un’attivazione del metabolismo lipidico a favore di quello glucidico è un esercizio fisico inteso. Ciò è dovuto al rapido rilascio di adrenalina e noradrenalina.

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33 1.2.3 Proteine

Le proteine sono le macromolecole più importanti dal punto di vista strutturale e funzionale che troviamo nel nostro corpo. Sono costituite da lunghe catene di aminoacidi legati tra loro tramite legami peptidici e organizzati poi in strutture tridimensionali più complesse. Gli aminoacidi sono molecole composte da un atomo di carbonio, un gruppo aminico e un gruppo carbossilico e ne esistono 20 tipi differenti. Il numero degli aminoacidi presenti in ciascuna proteina è mediamente di 400 unità, per cui a seconda del loro differente assemblaggio si possono costituite migliaia di proteine differenti.

Le principali funzioni proteiche sono: - Enzimatiche

- Ormonali

- Strutturali, sono componenti importanti del tessuto connettivo, del collagene e del citoscheletro cellulare

- Trasporto, nel caso delle proteine plasmatiche (albumina, transferrina) e dell’emoglobina

- Deposito intracellulare, come la ferritina - Immunitaria, gli anticorpi

- Coagulazione, trombina e fibrinogeno - Signalling cellulare, fanno da recettori - Omeostasi cellulare, fanno da canali ionici - Regolazione genica, le proteine istoniche - Contrattilità muscolare, actina e miosina

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All’interno del nostro organismo tutte le proteine vengono continuamente rinnovate attraverso il turnover proteico, processo tramite il quale vengono perse e sintetizzate nuovamente circa 20-30g di proteine al giorno. Affinché questo sia possibile è necessario che l’introduzione proteica con la dieta sia adeguata. Il nostro organismo infatti è in grado di sintetizzare in quantità sufficiente solo alcuni tipi di aminoacidi (non essenziali), mentre tutti gli altri (essenziali) vanno necessariamente assunti con l’alimentazione. Se un particolare aminoacido risultasse insufficiente, mentre tutti gli altri fossero disponibili si andrebbe comunque incontro ad una carenza proteica in quanto le cellule o producono proteine complete o non le producono affatto. (Hall, 2011)

L’assunzione proteica giornaliera deve essere quindi almeno pari ai 20-30g che perdiamo, ma si raccomanda comunque di assumerne circa 1,2g/kg/die (facendo riferimento al peso ideale). La quota energetica derivante dal metabolismo proteico dovrebbe essere circa del 15% per ogni pasto. (Società Italiana di Nutrizione Umana, 2014; WHO, 2003)

Con la dieta possiamo ingerire sia proteine di origine animale sia proteine di origine vegetale: le prime sono considerate complete in quanto ricche di tutti gli aminoacidi essenziali, le seconde hanno invece un valore biologico-nutrizionale sicuramente minore. Per questo motivo si consiglia di assumere 2/3 di proteine animali e 1/3 di proteine vegetali con la nostra alimentazione quotidiana (Società Italiana di Nutrizione Umana, 2014).

Una delle più importanti fonti di proteine animali di alta qualità è la carne rossa, che tuttavia è anche ricca di acidi grassi saturi e colesterolo: il suo consumo si è infatti dimostrato non essere del tutto salutare. Vari studi evidenziano come il consumo di

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carne rossa possa essere associato ad un aumento del rischio di morte (Rohrmann et al., 2013), dell’incidenza di insufficienza cardiaca (Kaluza, Akesson, & Wolk, 2015), dell’incidenza di malattie cardiache e diabete (Micha, Wallace, & Mozaffarian, 2010). In realtà queste associazioni sono risultate confermate solamente nel caso di consumo di carni rosse processate, mentre per quanto riguarda quelle non processate non è stato trovato niente di rilevante. Altre fonti di proteine animali sono le carni bianche, il pesce, le uova e i latticini, il cui adeguato consumo non è stato associato a problematiche particolari. Al contrario invece si è evidenziata una associazione tra pollame, pesce e latticini poveri di grassi e un diminuito rischio di malattie cardiache (Bernstein et al., 2010), dimostratosi abbassato del 15% in chi mangia pesce almeno una volta a settimana (Virtanen, Mozaffarian, Chiuve, & Rimm, 2008). Si è visto inoltre che i consumatori regolari di pesce hanno una minore incidenza di infarti, stroke e morti per cause cardiache. Va tuttavia detto che tutti questi benefici non sono dovuti tanto alle proteine, quanto al fatto che il pesce è ricco di acidi grassi utili per la nostra salute come omega6 e soprattutto omega3 (Mori, 2014). In generale un’eccessiva assunzione di proteine animali è stata associata ad un aumento dello stress ossidativo corporeo (Tan, Norhaizan, & Liew, 2018).

Per quanto riguarda le fonti proteiche vegetali, importanti sono fagioli, legumi, frutta secca, soia. Quest’ultima è considerata una delle fonti migliori per i vegani, ma un suo eccessivo consumo si è dimostrato essere associato con disfunzioni sessuali, essendo la soia ricca di fitosteroidi che vengono poi trasformati in estrogeni dall’aromatasi (Siepmann, Roofeh, Kiefer, & Edelson, 2011).

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Figura 1.4 Principali fonti di proteine animali e vegetali

Il nostro organismo è capace di sintetizzare alcuni aminoacidi definiti non essenziali, e lo fa a partire da molecole di α-chetoacidi. Queste, derivate sia dal metabolismo glucidico sia da quello lipidico, subiscono una reazione di transaminazione: acquistano un gruppo aminico da una molecola donatrice (la glutamina nella maggior parte dei casi), alla quale in cambio cedono l’ossigeno del gruppo chetonico e si trasformano così nell’aminoacido corrispondente. Questo processo avviene nel fegato ed è possibile grazie all’enzima aminotransferasi, derivante dalla vitamina B6.

1.2.3.1 Metabolismo proteico

Il metabolismo delle proteine della dieta inizia con la loro digestione ad amminoacidi nel tratto gastrointestinale: ciò avviene grazie all’intervento prima della pepsina a livello dello stomaco, poi degli enzimi proteolitici pancreatici a livello del duodeno ed infine delle peptidasi enterocitiche a livello del digiuno. Questo processo dura circa 2-3 ore, e man mano che si porta avanti gli aminoacidi ottenuti vengono assorbiti e immessi nel torrente ematico.

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Una volta nel sangue, nell’arco di pochi minuti gli aminoacidi vengono assorbiti dalle cellule tissutali e combinati nuovamente tra loro a formare proteine. Si creano quindi dei depositi proteici a livello cellulare, particolarmente abbondanti nel fegato.

A livello epatico, ma anche a livello linfoide, gli aminoacidi possono essere utilizzati anche per costituire le proteine plasmatiche: albumina e fibrinogeno (di origine esclusivamente epatica) e globulina (di origine sia epatica che linfoide) vengono nuovamente immesse nel torrente ematico, dove svolgono numerose funzioni importanti per il mantenimento della pressione colloide-osmotica (albumina), per il sistema immunitario (globuline), per la coagulazione (fibrinogeno).

Una certa quantità di aminoacidi plasmatici viene comunque mantenuta e rimane costante grazie al compenso fornito dalle proteine tissutali e dalle proteine plasmatiche. Si crea quindi un equilibrio dinamico.

Quando viene raggiunto il limite massimo di immagazzinamento proteico a livello cellulare e tale equilibrio non può più essere mantenuto, gli aminoacidi in eccesso iniziano a venir degradati a scopo energetico o convertiti in grassi o glicogeno. Tutto ciò avviene nel fegato.

La degradazione consiste in un processo di desaminazione nel quale l’aminoacido si converte in α-chetoacido perdendo il gruppo aminico. Quest’ultimo viene ceduto ad un accettore, l’acido α-chetoglutarico, che diventa così acido glutammico: questa reazione di transaminazione è resa possibile dall’enzima aminotransferasi, attivato dalle quantità eccessive di aminoacidi.

L’α-chetoacido invece, attraverso una serie di reazioni, può entrare nel ciclo dell’acido citrico: segue quindi la stessa via metabolica del glucosio, con una produzione finale di ATP poco inferiore rispetto a quella derivante dal metabolismo glucidico. Gli

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chetoacidi derivanti da alcuni aminoacidi possono inoltre entrare nella gluconeogenesi ed essere convertiti in glucosio e successivamente glicogeno (alanina), altri ancora possono entrare nella chetogenesi, con formazione di corpi chetonici e/o acidi grassi. L’acido glutammico può a questo punto essere riconvertito in acido α-chetoglutarico, con rilascio di 1 NADH e ammoniaca NH3+. Quest’ultima viene utilizzata dal fegato per

formare urea, prodotto tossico eliminato successivamente con le urine (90%) e con le feci (10%). Andando a dosare l’urea (e gli altri composti azotati) nelle urine 24h è possibile avere una stima del metabolismo proteico.

In condizioni fisiologiche, il nostro organismo attinge al metabolismo glucidico e lipidico per avere energia. Invece in condizioni di digiuno prolungato, quando non ci sono più carboidrati e anche i depositi lipidici scarseggiano, inizia ad essere utilizzato il metabolismo proteico, essendo le proteine molto abbondanti nei nostri tessuti. Zuccheri e grassi vengono per questo detti risparmiatori delle proteine.

Ormoni implicati nel metabolismo proteico sono principalmente l’ormone della crescita, l’insulina e gli ormoni sessuali (che favoriscono la sintesi proteica) e i glucocorticoidi (che ne favoriscono la degradazione).

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2 Concetto di dieta e analisi di diversi regimi

alimentari

Il termine dieta deriva dal greco “διαιτα”, che significa “stile di vita e quindi alimentare”: di conseguenza la dieta deve essere intesa come la razionale ed equilibrata alimentazione che un soggetto sano deve assumere quotidianamente in funzione delle proprie necessità biologiche e nutrizionali. Le combinazioni e le proporzioni dei nutrienti che assumiamo devono assicurare il soddisfacimento dei bisogni energetici, strutturali e funzionali dell’organismo, e al tempo stesso non provocare rischi potenziali per la salute, anzi prevenirli. Le esigenze di ciascun individuo sono differenti, di conseguenza non esiste una dieta standard che vada bene per tutti.

Per dieta inoltre non si intende solamente il quantitativo alimentare in senso stretto, ma anche le modalità di cottura, le modalità di preparazione, il numero di pasti nell’arco della giornata: è dunque un fenomeno dinamico.

Il cibo e gli alimenti non sono solo necessari a soddisfare i nostri bisogni biologici, ma influiscono anche su molte funzioni nervose e comportamentali: mangiare è un’esperienza sensoriale che può modificare lo stato d’animo di una persona e questo non fa che confermare il concetto di dieta come stile di vita.

Quando invece apportiamo delle modifiche alla nostra dieta abituale allo scopo di migliorare il nostro stato di salute o prevenire problematiche correlabili o meno alla alimentazione stessa, non parliamo più di dieta come stile di vita, ma di dietoterapia. In questi termini l’alimentazione diventa uno dei mezzi più efficaci di prevenzione, primaria o secondaria, di molte malattie, disturbi metabolici e disturbi funzionali.

Uno dei concetti fondamentali di una dieta completa e adeguata è la sua dinamicità: variare opportunamente gli alimenti aumenta la probabilità di assumere regolarmente e

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nelle giuste quantità i nutrienti necessari. La spiegazione sta nel fatto che non esiste un alimento completo dal punto di vista nutritivo e, al tempo stesso, alcuni cibi possono addirittura essere nocivi se assunti frequentemente, in quanto ricchi di sostanze potenzialmente dannose.

(Shils & Shike, 2006; Walter C Willett, 1994)

2.1 La dieta ideale

Per valutare la qualità di una dieta dal punto di vista nutrizionale, lo score più valido che si possa utilizzare è il Nutrient Rich Food Index (NRF9.3). Questo indice si basa su 9 nutrienti la cui assunzione è incoraggiata (proteine, fibre, vitamina A, vitamina C, vitamina E, calcio, ferro, magnesio, potassio) e 3 nutrienti la cui assunzione dovrebbe essere limitata (grassi saturi, zuccheri aggiunti, sodio): ad ogni alimento, a seconda della quantità di questi nutrienti, viene assegnato un punteggio che rappresenta la sua qualità nutrizionale.

Figura 2.1 Nutrient Rich Food Index 9.3 (NRF9.3)

I punteggi NRF9.3 di ciascun alimento assunto nell’arco della giornata vengono sommati tra loro e poi divisi per l’intake calorico della giornata; si sommano quindi gli

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score di tutti i giorni della settimana e se ne fa una media, ottenendo alla fine il punteggio NRF9.3 totale che rappresenta la qualità della dieta. (Drewnowski, 2009) Lo score NRF9.3 è stato inoltre inversamente associato all’incidenza di mortalità per tutte le cause, a dimostrazione dell’importanza che ha seguire una dieta qualitativamente adeguata (Streppel et al., 2014).

Per comporre una dieta equilibrata, in Italia prendiamo come riferimento i LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di energia e Nutrienti), delle linee guida alimentari aggiornate forniteci dalla Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU). Per esprimere i fabbisogni energetici e nutritivi indicati da queste linee guida in quantità di alimenti, è necessaria una standardizzazione: si parla quindi di porzione, intendendo con questo termine la quantità standard di un determinato alimento espressa in g.

Secondo i LARN i punti cardine di una dieta equilibrata sono:

- Introduzione di una quota calorica pari al fabbisogno energetico dell’individuo, ripartita fra i vari macronutrienti

- Introduzione di un’adeguata quantità di macronutrienti, micronutrienti ed acqua - Distribuzione dei pasti nell’arco della giornata

- Scelta dei metodi di preparazione più idonei per mantenere il valore nutrizionale (Società Italiana di Nutrizione Umana, 2014)

Perché una dieta sia equilibrata deve innanzitutto fornire un apporto energetico adeguato: la quantità di calorie che introduciamo con la dieta devono necessariamente essere pari a quelle che consumiamo. Se ciò non accade avremo inevitabilmente una perdita o un aumento del peso corporeo. In ogni caso una dieta, per quanto corretta, non sarà mai sufficiente da sola per il controllo del peso corporeo. Uno stile di vita attivo

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può aiutarci a tale scopo: un’adeguata attività fisica svolta regolarmente fa incrementare la spesa energetica permettendoci un’ulteriore perdita di massa grassa ed un eventuale recupero di quella magra persa con la dieta (WHO, 2010).

Secondo FAO (Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura delle Nazioni Unite) e OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), la quota calorica che introduciamo ad ogni pasto dovrebbe essere ripartita in questa maniera: 45-60% carboidrati, 25-30% lipidi, 10-15% proteine (WHO, 2003).

Figura 2.2 Distribuzione dell'intake calorico tra i vari macronutrienti raccomandata per ogni pasto

Per quanto riguarda i carboidrati, l’energia che essi liberano quando vengono ossidati è pari a 4,1 kcal/g. È importante che la quota calorica derivata dagli zuccheri semplici non superi il 15% del totale. Inoltre, viene raccomandata l’assunzione di almeno 25-30g/die di fibre.

Dall’ossidazione lipidica si ricava 9,3 kcal/g e la quota energetica che essi forniscono dovrebbe essere spartita in: 10% acidi grassi saturi, 15-20% acidi grassi monoinsaturi

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(soprattutto acido oleico), 5-10% acidi grassi polinsaturi, <1% acidi grassi trans. Nei bambini sotto i 4 anni la le Kcal derivanti dal metabolismo dei grassi dovrebbero essere di più (fino al 40% del totale). È raccomandata inoltre un’assunzione di non più di 300mg/die di colesterolo.

Nel caso delle proteine, la degradazione di un grammo genera a 4,35 kcal. La quota calorica che esse forniscono dovrebbe essere aumentata nel caso di condizioni particolari come accrescimento, gravidanza, allattamento. È inoltre importante mantenere un’assunzione proteica pari almeno alla quota persa con il turnover (20-30g /die), ma si raccomanda comunque di assumerne 1,2 g/kg/die per sicurezza. Sempre riguardo le proteine, i LARN raccomandano di assumerne 1/3 di origine animale e 2/3 di origine vegetale.

Bisogna inoltre considerare le differenze che si hanno nell’assorbimento dei macronutrienti. Il 2% di carboidrati, il 5% di lipidi e l’8% di proteine non vengono assorbiti nel canale digerente: di conseguenza l’ingestione di 1g di carboidrati fornirà in realtà 4 kcal, 1g di lipidi 9 kcal, 1g di proteine 4 kcal.

Per quanto riguardo i micronutrienti, un consumo costante di almeno 400 g/die di frutta, verdure, legumi e cereali integrali dovrebbe garantire un apporto sufficiente sia di vitamine che di sali minerali. Per il mantenimento dell’equilibrio idrosalino e la prevenzione dell’ipertensione arteriosa, è raccomandata l’assunzione di 2-2,5 L/die di acqua e di massimo 5 g/die di sale. (EFSA, 2010; Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, 2003; Società Italiana di Nutrizione Umana, 2014; WHO, 2003)

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