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Il dibattito sull'austerita' fiscale nell'area euro

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Academic year: 2021

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Il dibattito sull’austerità fiscale nell’area

dell’euro

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INDICE

1.Introduzione………p. 3 1.1. L’Italia di fronte alla crisi………..p. 4 1.2. La politica fiscale in Europa………..p. 19 1.2.1. Rapporto Delors………p. 20 1.2.2. Il Trattato di Maastricht………..p. 21 1.2.3. Patto di Stabilità e Crescita………..p. 28 1.2.4. Six Pack………..p. 30 1.2.5. Fiscal Compact………..p. 33 2. Gli “Austerians”………p. 36 2.1 L’austerità espansiva e i casi di Danimarca, Irlanda e Italia…….p. 37 2.2. La durata e la grandezza dell’impulso fiscale……….p. 45 2.3. La composizione dell’ aggiustamento fiscale………...p. 54 2.4. L’effetto ricchezza e il ruolo delle aspettative……….p. 60

3. Gli Anti-Austerity………..p. 64 3.1. Le conseguenze dell’austerità………p. 64 3.1. L’errore di calcolo nei moltiplicatori fiscali………p. 71 4. Il rapporto debito/PIL………p. 75 4.1. Conseguenze di una riduzione delle imposte……….p. 75 4.2. L’andamento del rapporto Debito/PIL……….p. 82 4.2.1. Germania….……….…..p. 88 4.2.2.Italia…….………p. 91 4.2.3. Spagna…….………...………p. 94 4.2.4. Irlanda………...p. 97 4.2.5. Grecia………...p. 100 5.Conclusioni………..p.106 Appendice 1………...p. 112 Riferimenti bibliografici………...………...p. 115

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1. Introduzione

Questa tesi andrà a trattare il problema dell‟austerità fiscale, considerando il punti di vista di chi ne è a favore e di chi invece è contrario.

Con la parola austerità fiscale si intendono una serie di politiche di bilancio dello Stato fatte soprattutto di tagli alla spesa o aumenti nelle imposte, con l‟obiettivo di ridurre il deficit pubblico e stabilizzare e ridurre il debito pubblico.

Chi è a favore dell‟applicazione di tali misure pensa che tali politiche possano far riprendere l‟economia e la crescita andando ad agire sulla solvibilità del paese. Dall‟altra parte c‟è chi è contro tali politiche perché pensa che queste

aggraveranno la recessione e che solo stimoli al consumo possono favorire la ripresa economica.

In questo capitolo vedremo la situazione economica dell‟Europa dal 2009 ad oggi, cioè per tutta la durata della crisi. Questo ci servirà a vedere com‟è

cambiata la situazione economica, dell‟Italia in particolare, dall‟inizio della crisi ad oggi. Successivamente sempre in questo capitolo, vedremo le misure anti crisi adottate in Italia prima dal Governo Monti e poi dal Governo Letta. Inoltre andremo ad evidenziare anche le varie misure prese a livello europeo sempre come strumenti per arginare la crisi.

Nel secondo Capitolo analizzeremo i vari motivi che gli “austerians” usano per dimostrare che l‟austerità sia l‟unica strada percorribile per uscire dalla crisi. Nel Capitolo 3 al contrario si parlerà dei motivi che coloro contrari all‟austerità utilizzano per dimostrare che invece l‟austerità non è la soluzione migliore per uscire dalla crisi, e che anzi potrebbe addirittura essere motivo di peggioramento della situazione economica dei vari Paesi. Nel Capitolo 4 vedremo più da vicino la situazione di alcuni Paesi europei dal 2007 al 2012 in modo da valutare se le misure di austerità abbiamo in qualche modo aiutato il Paese o meno.

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1.1. L’Italia di fronte alla crisi

Gli eventi e le misure di politica economica prese nel 2009.

La crisi economica, innescata nel 2007 dalle difficoltà del settore finanziario negli Stati Uniti, si è rapidamente trasformata nel più grave episodio recessivo della storia recente. Dopo i casi di insolvenza, di portata sempre più ampia, di istituzioni finanziarie statunitensi, i cui titoli erano stati comprati anche da banche e fondi d‟investimento europei, lo scoppio della bolla speculativa immobiliare ha determinato il blocco dell‟attività di costruzione, il

prosciugamento della liquidità dei grandi operatori immobiliari, la caduta della solvibilità dei mutuatari, producendo effetti a catena su tutti gli operatori economici.

La diffusione globale dell‟impatto della crisi statunitense sull‟economia reale è passata anche attraverso la caduta eccezionalmente ampia del commercio mondiale.

Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, nel 2009 il Pil mondiale in parità di potere d‟acquisto è diminuito dello 0,6 per cento. La produzione

industriale dell‟8,2 e il commercio internazionale del 10,6 per cento.

Nel 2009 il Pil è diminuito del 2,5 per cento negli Stati Uniti e del 4,2 per cento nell‟Unione europea (-4,1 per cento nell‟area dell‟euro). La caduta del Pil è stata del 5,0 per cento in Italia e Germania, del 4,9 per cento nel Regno Unito, del 3,6 per cento in Spagna, del 2,2 per cento in Francia. Tra la primavera del 2008 e quella del 2009 la produzione industriale è scesa di circa un quarto in Italia, Germania e Spagna, di un quinto in Francia e di quasi il 15 per cento nel Regno Unito. Il valore delle esportazioni è diminuito di quasi il 25 per cento in Italia, del 20 per cento in Germania e di circa il 15 per cento in Spagna, Francia e Regno Unito. Nel biennio 2008-2009, la caduta del livello del reddito ha raggiunto in Italia il 6,3 per cento, il risultato peggiore tra quelli delle grandi economie avanzate. Nel 2009 la diminuzione del valore aggiunto dell‟aggregato che comprende commercio, servizi ricettivi, trasporti e comunicazioni è stata pari al 6,3 per cento. In questo quadro, famiglie e imprese hanno rivisto al ribasso le scelte di consumo, investimento e produzione: questi comportamenti si sono

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alimentati a vicenda su scala mondiale. Di fronte al carattere globale della crisi anche la reazione delle politiche economiche è stata generalizzata. L‟azione delle autorità di governo– la più imponente mai messa in campo nel dopoguerra e coordinata a livello internazionale – è stata essenziale nel contenere la gravità della crisi. In particolare, prima degli interventi decisi nel Consiglio europeo di maggio 2009, gli Stati membri dell‟Unione europea avevano destinato a misure attive di contrasto dell‟impatto della recessione su famiglie e imprese circa 400 miliardi di euro (il 3 per cento circa del Pil dell‟Unione).

Gli oneri di questi interventi, insieme alla caduta di gettito legata alla contrazione dell‟attività, hanno avuto un forte impatto sui conti pubblici, con conseguenze negative di medio termine. Per l‟insieme dell‟area dell‟euro, anche in ragione della caduta del Pil nominale, l‟indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche in rapporto al prodotto è cresciuto dal 2 per cento del 2008, al 6,3 per cento del 2009: il rapporto tra debito pubblico e Pil è passato dal 69,4 al 78,7 %. L‟Italia è riuscita a contenere il deterioramento dei conti pubblici, almeno in termini relativi. Nel biennio 2008/2009 l‟Italia era in una situazione migliore rispetto ai vari Paesi europei, in termini di rapporto debito/PIL, solo la Germania era meglio dell‟Italia. Nel 2009 l‟Italia registra un incremento della spesa

pubblica e una contrazione delle entrate relativamente più contenuti rispetto alle altre grandi economie europee. Il contributo più importante all‟aumento della spesa (+3,1 per cento) è venuto dalle prestazioni sociali in denaro. Le misure volte a estendere l‟uso degli ammortizzatori sociali e a sostenere i redditi e l‟occupazione hanno portato ad aumenti consistenti degli esborsi per le indennità di disoccupazione (circa 2 miliardi di euro), la cassa integrazione guadagni (oltre 1,5 miliardi) e il sostegno delle fasce più deboli della popolazione (circa 1,5 miliardi di euro).

L‟Italia è uno dei pochi paesi europei ad aver aumentato, nel 2009, il rapporto tra entrate e Pil. Le entrate totali sono diminuite, infatti, solo dell‟1,9 per cento, cosicché la loro incidenza sul prodotto è risultata del 47,2 per cento, con un aumento di mezzo punto percentuale rispetto all‟anno precedente. La pressione fiscale è aumentata di tre decimi di punto rispetto al 2008, toccando il 43,2 per

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cento. Nel nostro Paese, la caduta del gettito fiscale e parafiscale è stata parzialmente compensata dal forte aumento delle imposte in conto capitale, cresciute in valore assoluto di quasi dodici miliardi di euro, anche grazie ai prelievi operati in base allo “scudo fiscale” (circa 5 miliardi di euro).

Le recessioni più gravi sperimentate dal nostro Paese negli ultimi quarant‟anni sono state quelle del 1975 (dopo la prima crisi petrolifera), del 1982-1983 (dopo la seconda), del 1992-1993 (che portò all‟uscita della lira dal sistema monetario europeo) e del 2002-2003 (dopo l‟attacco alle Torri Gemelle). Tali episodi non appaiono comparabili per intensità a quello del biennio 2008-2009, quando il Pil si è contratto per due anni consecutivi. Come risultato di questi andamenti, alla fine del 2009 il valore aggiunto reale dell‟economia italiana si collocava allo stesso livello dell‟ultimo trimestre del 2000: si tratta di un arretramento di 36 trimestri.

In Italia, la caduta dei livelli di attività nel biennio 2008-2009 si è verificata dopo un lungo periodo di crescita economica stentata: se si prende a riferimento

l‟intero decennio, la performance italiana è risultata la peggiore tra i 27 paesi dell‟Unione europea.

Nel periodo 2001-2007 anche la produttività oraria (misurata dal rapporto tra valore aggiunto ai prezzi base e ore lavorate) è cresciuta in Italia a un tasso nettamente inferiore rispetto a quello sperimentato dai principali partner europei. Tra i fattori che spiegano queste tendenze sono preminenti le caratteristiche dimensionali e di specializzazione del nostro sistema produttivo: sotto il primo aspetto, è più elevata in Italia l‟incidenza delle microimprese (fino a dieci addetti), caratterizzate da livelli e dinamiche della produttività strutturalmente più bassi; sotto il secondo, il modello italiano è orientato verso produzioni a bassa tecnologia nella manifattura e in servizi labour-intensive nel terziario. Incidono inoltre negativamente le note debolezze del nostro Paese nell‟economia della conoscenza, ampiamente riconosciuto come uno dei più importanti fattori strutturali di competitività.

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Gli eventi e le misure di politica economica prese nel 2010.

Nel corso del 2010 dai dati provenienti dall‟Istat emerge che, l‟economia

mondiale ha segnato una marcata ripresa, con un‟espansione del cinque per cento del Prodotto interno lordo (Pil) misurato a parità di potere d‟acquisto. Già sul finire del 2010 la produzione industriale mondiale ha recuperato i livelli pre-crisi e gli scambi internazionali di beni e servizi in volume hanno più che compensato la forte caduta dell‟anno precedente.

Nell‟Unione europea (Ue) la fase di ripresa è stata discontinua e disomogenea: nel 2010 la crescita media è stata dell‟1,8 per cento per l‟insieme dell‟area, risultato su cui ha pesato la forte espansione della Germania (3,6 per cento), mentre Francia e Italia hanno messo a segno incrementi decisamente più contenuti (1,6 e 1,3 per cento) e la Spagna ha conseguito un risultato ancora lievemente negativo.

La ripresa europea ha beneficiato largamente dello stimolo derivante dalle

esportazioni nette, ma è stata sospinta anche dal recupero degli investimenti e dal riaccumulo di scorte, mentre le difficoltà del mercato del lavoro hanno frenato i consumi privati. La dinamica dell‟attività economica si è rafforzata nella prima metà del 2010 per poi decelerare nella seconda. Nel primo trimestre del 2010 l‟espansione del prodotto è tornata su ritmi elevati (+0,8 per cento su base congiunturale), grazie soprattutto ai buoni risultati di Francia e Germania.

Nel decennio 2001-2010 l‟Italia ha realizzato la peggiore performance produttiva tra tutti i paesi dell‟Unione europea, con un tasso medio annuo di aumento del Pil di appena lo 0,2 per cento, a fronte dell‟1,1 per cento rilevato per l‟area dell‟euro. Durante la crisi del 2009 Italia e Germania hanno subito la maggior caduta del prodotto tra i grandi paesi, ma mentre l‟economia tedesca ha recuperato già gran parte del reddito perduto, l‟Italia presenta ancora un forte divario rispetto ai livelli pre-crisi.

Il confronto con le fasi cicliche precedenti conferma che l‟episodio recessivo conclusosi nell‟aprile del 2009 (secondo la cronologia definita in termini tecnici nel Rapporto) è di gran lunga il più grave dal secondo dopoguerra. La fase di espansione in atto risulta però di intensità minore rispetto a quelle osservate nel

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passato. Il ritmo di crescita congiunturale del Pil italiano si è marcatamente indebolito a partire dall‟autunno 2010 (+0,1 per cento a trimestre). Nei primi quattro mesi del 2011 la fiducia delle imprese manifatturiere appare stabile, con un maggiore ottimismo tra i produttori di beni di consumo e prodotti intermedi rispetto a quelli di beni strumentali.

Nel settore delle costruzioni, dopo il miglioramento emerso nella seconda parte del 2010, si registra un deterioramento dei giudizi sugli ordini e sull‟attività. L‟insoddisfacente dinamica del prodotto è il risultato di una debolezza sia della domanda interna sia di quella estera netta.

L‟andamento dei consumi delle famiglie è stato condizionato dal calo del potere d‟acquisto, diminuito del 3,1 per cento nel 2009 e poi ancora dello 0,6 per cento nel 2010. Per salvaguardare i livelli di spesa, le famiglie italiane hanno dato luogo a una progressiva erosione del tasso di risparmio, sceso al livello più basso tra tutte le altre grandi economie dell‟area dell‟euro. Ciononostante, nel 2010 i consumi privati in volume sono risultati ancora inferiori dell‟1,7 per cento rispetto al livello del 2007.

Gli investimenti, dopo il crollo registrato durante la recessione, hanno segnato un recupero ampio, seppure parziale.

La dinamica degli scambi con l‟estero ha pesato negativamente sulla crescita anche nel 2010. Per il complesso delle economie europee l‟eredità più pesante della crisi è rappresentata dal deterioramento dei conti pubblici. Il processo di aumento del debito pubblico è proseguito anche nel 2010, benché le condizioni macroeconomiche siano migliorate e l‟indebitamento netto si sia ridotto di tre decimi di punto nell‟area dell‟euro. Nonostante l‟impatto combinato di una caduta più importante del prodotto e di oneri più elevati sullo stock di debito, l‟Italia è riuscita a contenere nell‟ultimo triennio l‟aumento del rapporto tra debito e Pil a poco più di 15 punti percentuali. Nel nostro Paese la politica di bilancio non ha dovuto effettuare interventi per salvaguardare il sistema finanziario.

Nel corso del 2010, il miglioramento delle condizioni macroeconomiche e l‟avvio di politiche di rientro hanno condotto a una riduzione del rapporto tra

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indebitamento netto e Pil in tutte le grandi economie, a eccezione della

Germania. In Italia, il rapporto deficit/Pil è passato (escludendo l‟effetto degli swap) dal 5,3 al 4,5 per cento. Il miglioramento è dovuto agli interventi di contenimento della spesa, la cui incidenza sul Pil è diminuita di oltre un punto percentuale, a fronte di una più moderata contrazione della quota delle entrate. La pressione fiscale è scesa così al 42,6 per cento, 0,5 punti in meno rispetto al valore rilevato l‟anno precedente, sul quale aveva pesato significativamente il rientro dei capitali dall‟estero (il cosiddetto “scudo fiscale”). Nel 2010 gli scambi commerciali con l‟estero sono ripresi a ritmi elevati (+15,8 per cento per le esportazioni e +23,4 per cento per le importazioni), ma insufficienti a

recuperare i livelli del 2008, con un divario più contenuto per le importazioni (- 3,9 punti percentuali) rispetto alle esportazioni (-8,5 punti percentuali). Ciò ha determinato un aumento sostanziale del disavanzo commerciale, che nel 2010 ha superato i 29 miliardi di euro (era di 13 miliardi nel 2008). In particolare, il disavanzo energetico si riduce lievemente rispetto al periodo pre-crisi, passando da 59 miliardi nel 2008 a 53 miliardi nel 2010, mentre quello relativo ai prodotti intermedi aumenta di 9,5 miliardi. D‟altra parte, l‟avanzo dei beni strumentali si è ridotto di 5,1 miliardi, quello dei beni di consumo durevoli di 4,4 miliardi e quello di beni di consumo non durevoli si è trasformato in un disavanzo di 1,9 miliardi, con una contrazione, in termini assoluti, pari a 3,9 miliardi.

L‟evoluzione degli scambi con l‟estero nel 2010, pur mostrando un significativo recupero, mette in luce un allarmante aumento del grado di penetrazione delle importazioni di prodotti trasformati e manufatti sul mercato interno: diminuito nella fase di crisi, esso è aumentato nettamente nel 2010, raggiungendo il 33,3 per cento, valore massimo del decennio.

Gli eventi e le misure di politica economica prese nel 2011.

Il 2011 ha segnato il ritorno dell‟instabilità finanziaria per l‟area dell‟euro, che mette tuttora a rischio i fondamenti stessi dell‟Unione Monetaria Europea: in tale contesto, l‟Italia ha affrontato una delle crisi più difficili della sua storia.

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La presa di coscienza del carattere strutturale della crisi è stata per l‟Italia improvvisa e, per molti, traumatica. Gli interventi di politica economica che si sono succeduti in modo convulso nell‟estate del 2011 hanno cercato di

fronteggiare una crescente sfiducia nei confronti della sostenibilità del debito pubblico italiano e della capacità del nostro Paese di soddisfare le condizioni per restare nell‟Unione Monetaria. L‟adozione di misure drastiche, volte ad

accelerare il percorso verso l‟azzeramento del deficit pubblico e così rendere più sostenibile il debito sovrano ha ridotto il rischio del collasso finanziario, dando tempo all‟Italia di avviare riforme di natura strutturale, coerentemente con gli impegni assunti in sede europea.

Le difficoltà emerse sui mercati finanziari hanno indotto, a partire dall‟estate, un brusco peggioramento delle prospettive, influenzando i comportamenti delle imprese e delle famiglie. Le prime hanno rivisto al ribasso i piani di produzione e di investimento. Le seconde hanno subito gli effetti immediati dei provvedimenti di natura fiscale, nonché quelli futuri legati alla riforma delle pensioni e del mercato del lavoro: alla riduzione del reddito disponibile attuale, già diminuito significativamente negli anni precedenti, si è aggiunta una

contrazione di quello atteso per gli anni futuri. Il clima di fiducia è peggiorato e, analogamente a quanto avvenne nella crisi degli anni 1992-1993, la discesa dei consumi non si è fatta attendere, risentendo anche di un aumento del risparmio per fini precauzionali.

A partire dal terzo trimestre del 2011 il prodotto ha ripreso a diminuire e la

discesa si è accentuata nel trimestre successivo e all‟inizio del 2012. La domanda estera netta è stata l‟unica componente che ha sostenuto, e tuttora sostiene, la dinamica del prodotto grazie alla buona performance delle esportazioni,

soprattutto sui mercati extra-europei, in presenza di una forte contrazione delle importazioni. Si moltiplicano i segnali di difficoltà del mondo delle imprese, anche a causa del ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni e di fenomeni di credit crunch, i quali, in crescita nei primi mesi di quest‟anno, hanno interessato di più le piccole imprese e coinvolto anche unità

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economicamente solide. Il rapporto debito pubblico/Pil è salito al 120,1 per cento, con un aumento di 1,5 punti percentuali rispetto ad un anno prima. Nel confronto con il periodo pre-crisi (cioè il 2007), tale rapporto è aumentato di 17 punti percentuali in Italia e di quasi 21 nella media dell‟eurozona.

In questo quadro, e in presenza di una dinamica retributiva in ulteriore deciso rallentamento, il reddito disponibile delle famiglie in termini reali è diminuito nel 2011 (-0,6 per cento) per il quarto anno consecutivo, tornando sui livelli di dieci anni fa: in termini pro-capite esso è inferiore del quattro per cento al livello del 1992 e del sette per cento nei confronti del 2007. In quattro anni la perdita in termini reali (a prezzi 2011) è stata pari a 1.300 euro a testa e la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è passata dal 12,6 all‟8,8 per cento. Il 16 Novembre 2011, dopo le dimissioni di Berlusconi, sale al Governo Mario

Monti come Presidente del Consiglio del Governo Tecnico. Sale al Governo con

lo scopo di riportare l‟economia e le finanze italiane ad un livello “accettabile” entro la fine del 2013 e propone perciò tutta una serie di provvedimenti e decreti legge volti a conseguire questo scopo. Egli, salito al Governo, si è dichiarato favorevole all‟austerità nel nostro Paese, dichiarando che seppur dolorosa è una politica necessaria. Il primo decreto varato è il cosiddetto SALVA ITALIA, varato subito a dicembre 2011 per mettere in sicurezza i conti e tentare di

raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. Il decreto Salva Italia però altro non è stato che aumentare le tasse per i cittadini, le aliquote sugli immobili e l‟età di pensionamento. Praticamente è stata reintrodotta la tassa sulla prima casa (IMU), è stato deliberato l‟aumento dell‟iva del 2%, anche se per fortuna fino ad oggi è aumentata solo dell‟1%, sono state introdotte imposte di bollo sulla detenzione di titoli in portafoglio e prodotti finanziari ed è stata introdotta anche la tassa sulla casa all‟estero. Inoltre ha reso detraibile l‟IRAP per invogliare le imprese ad assumere personale. Gli altri punti riguardano la rintracciabilità del contante per pagamenti superiori a 1000 euro e la liberalizzazione di alcune attività.

Gli eventi e le misure di politica economica prese nel 2012.

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nei primi mesi del 2013, come confermato dalla variazione congiunturale negativa del Pil, stimata allo 0,5 per cento nel primo trimestre. La crisi che ha investito la nostra economia è giunta dopo un decennio di crescita economica non soltanto modesta, ma anche nettamente inferiore a quelle degli

altri grandi paesi europei. Un decennio che è stato caratterizzato anche da un andamento stagnante della produttività del lavoro, aumentata solo dell‟1,2 per cento, contro il 9,5 dell‟Eurozona. Per tali ragioni, la crisi globale iniziata nel 2007-2008, ha colpito l‟economia italiana più severamente di molti altri paesi avanzati. Fra il 2008 e il 2012, in Italia il Pil è diminuito del 5,8 per cento, mentre in Francia è rimasto quasi stazionario e in Germania è aumentato del 2,5 per cento. La diminuzione del Pil e i riflessi negativi sull‟occupazione hanno determinato, congiuntamente alle turbolenze finanziarie e alle politiche fiscali restrittive, una severa caduta della domanda interna: quella per consumi ha risentito della flessione del reddito disponibile delle famiglie, che è stato anche penalizzato da un‟inflazione rimasta relativamente sostenuta nonostante il quadro recessivo. La domanda di investimenti è stata fortemente condizionata dal calo della capacità utilizzata, dalle incerte prospettive dell‟economia, dai problemi di finanziamento alle imprese.

Questo aspetto della crisi emerge chiaramente anche dalle valutazioni delle imprese che segnalano, a partire dalla fine del 2011, un generale inasprimento delle condizioni di accesso al credito, con un ritorno ai livelli dell‟inizio della crisi economica globale. Durante il 2012 i casi di razionamento del credito hanno creato maggiori difficoltà per le piccole imprese e tale divario non ha accennato a ridursi anche nei primi mesi del 2013: a marzo, per le piccole aziende la probabilità di non ottenere il finanziamento richiesto è stata in media pari a quasi il doppio di quella delle medie e grandi imprese. Va segnalato che questa penalizzazione dovuta alla dimensione si riduce significativamente, ma non si annulla, per quelle che risultano solide.

Esistono, inoltre, importanti differenze territoriali nell‟accesso al credito. La presenza di tensioni creditizie assume un particolare rilievo in ragione del fatto che per le aziende italiane vi è, storicamente, uno sbilanciamento nelle

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forme di finanziamento a favore del credito bancario, non solo in termini

quantitativi, ma anche di vantaggio fiscale. Sono, tuttavia, da segnalare possibili futuri effetti positivi conseguenti all‟introduzione, nel 2011, dell‟Ace – Aiuto alla crescita economica – l‟incentivo al rafforzamento della struttura patrimoniale delle imprese che opera mediante l‟esclusione dal calcolo della base imponibile dell‟Ires (o dell‟Irpef) del rendimento figurativo degli apporti di nuovo capitale proprio e degli utili reinvestiti. I risultati delle elaborazioni, svolte con il nuovo modello dell‟Istat di microsimulazione sulle imprese, mostrano che, a regime, gli sgravi indotti da questo strumento possono avvantaggiare le piccole e medie imprese e quelle che operano nelle regioni meridionali: i segmenti attualmente più penalizzati dal razionamento del credito. In un contesto di flessione del Pil del 2,4 per cento e di contributo negativo della domanda interna di 5,4 punti percentuali, nello scorso anno la domanda estera netta ha ripreso, dopo molti anni, il ruolo di principale motore della crescita, attenuando in misura rilevante la profondità della recessione con un contributo positivo alla variazione del Pil di ben 3 punti percentuali. Sebbene la domanda estera netta abbia fornito un impulso positivo all‟espansione del Pil durante tutti i trimestri dell‟anno, il suo contributo alla crescita si è progressivamente ridimensionato.

In un contesto di generale rallentamento della domanda mondiale, l‟export è cresciuto significativamente: la performance delle vendite all‟estero di merci dell‟Italia (+3,7 per cento) è risultata, insieme alla Spagna, la più favorevole tra le principali economie dell‟Unione europea. Tuttavia, una parte rilevante dell‟ampliamento dell‟attivo commerciale è imputabile alla forte contrazione delle importazioni, condizionate dalla debolezza della domanda interna. I saldi di finanza pubblica indicano che, nonostante le condizioni negative del ciclo,

l‟indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche in rapporto al Pil è sceso al 3 per cento, valore obiettivo per ambire al rientro dalla procedura di disavanzo eccessivo, aperta nei confronti dell‟Italia dalle istituzioni europee nel 2009. Al netto della spesa per interessi, si è registrato un consistente avanzo primario, pari al 2,5 per cento del Pil e superiore di 1,3 punti rispetto a quello

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del 2011. La riduzione dell‟indebitamento netto è dovuta in larga misura

all‟aumento della pressione fiscale che ha raggiunto il 44 per cento. La dinamica della spesa pubblica è stata più contenuta: le uscite correnti al netto degli

interessi si sono ridotte dello 0,5 per cento, quelle totali sono cresciute dello 0,6 per cento. Al contempo, stante la debolezza dell‟economia, l‟incidenza del debito sul Pil è comunque aumentata, arrivando al 127 per cento. La recessione

dell‟ultimo anno e mezzo ha coinvolto tutti i principali settori, provocando una profonda e generalizzata caduta del valore aggiunto e accentuando le difficoltà strutturali del sistema produttivo. Sono state colpite in modo particolare le costruzioni, che hanno subìto per il quinto anno consecutivo una contrazione dell‟attività, seguite dall‟agricoltura e dall‟industria; anche sul settore

terziario ha pesato l‟intonazione negativa della domanda, seppure con un impatto inferiore a quello osservato per il settore manifatturiero. Le uniche eccezioni significative sono costituite dal settore delle attività artistiche e di intrattenimento, delle riparazioni di beni per la casa, entrambi in crescita nel 2012, e da quello delle attività finanziarie e assicurative, rimasto stazionario. In particolare, il comparto manifatturiero ha risentito in maniera assai pesante delle conseguenze dell‟ultima recessione, iniziata a maggio 2011;

complessivamente, a febbraio di quest‟anno la produzione industriale è risultata inferiore di quasi l‟11 per cento, rispetto al picco registrato ad aprile 2011 e del 24 per cento, rispetto al massimo storico dell‟aprile 2008. La crisi è intervenuta su un sistema delle imprese caratterizzato da notevoli eterogeneità nella struttura e nei livelli di competitività e potenziale di crescita; un sistema già colpito

duramente dalla prima fase recessiva avvenuta tra il 2008 e il 2009. La significativa diminuzione del reddito disponibile delle famiglie si è riflessa in un forte calo (-1,9) della spesa per consumi – molto superiore a quella della crisi del 2008-2009 – e, in un‟ulteriore diminuzione della propensione al

risparmio, che si è ridotta fino a toccare il minimo storico dell‟8,2 per cento. La propensione a risparmiare, un tempo punto di forza del sistema italiano, pur risultando ancora superiore a quella misurata in Spagna, si è attestata su livelli sensibilmente inferiori rispetto a Germania e Francia, avvicinandosi al Regno

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Unito, il paese tradizionalmente con i livelli più bassi in Europa.

In questo contesto, i nuovi crediti al consumo e i nuovi mutui concessi dalle banche alle famiglie si sono ridotti nel 2012, rispettivamente, del 20 per cento e del 35 per cento, contro una media di riduzione del 3 per cento e del 7,8 per cento nel periodo 2009-2011. A ciò ha contribuito una maggiore selettività degli operatori finanziari, dovuta all‟aumento delle sofferenze bancarie imputabili al settore delle famiglie, che dal 2009 sono cresciute del 27 per cento annuo.

Alle sopravvenute difficoltà economiche, le famiglie hanno risposto in modo diffuso riducendo la quantità o qualità dei prodotti acquistati nel settore

alimentare e per l‟abbigliamento e preferendo centri di distribuzione a più basso costo rispetto ai tradizionali canali di acquisto. L‟incremento di incidenza di questi comportamenti di consumo è stato sensibile, soprattutto nelle regioni del Nord, anche se il Mezzogiorno rimane in termini assoluti l‟area più interessata dal fenomeno.

Sulla caduta della spesa per consumi ha pesato anche un‟inflazione che ha colpito in misura notevolmente superiore le famiglie con bassi livelli di spesa: nel 2012, rispetto a un tasso d‟inflazione (misurato dall‟indice dei prezzi al consumo armonizzato europeo) pari al 3,3 per cento, l‟inflazione subita dalle famiglie che si posizionano nel quinto più basso della spesa per consumi è stata del 4,2 per cento; quella relativa al quinto più alto è stata del 2,9 per cento. Anche nel 2011, seppure in misura meno intensa, l‟inflazione aveva colpito relativamente di più le famiglie con minore capacità di spesa.

Nel 2012, sotto il Governo Monti, vengono approvate un‟altra serie di

provvedimenti che avevano l‟obiettivo di migliorare la situazione economica del Paese. Tra i provvedimenti più importanti riportiamo il CRESCI ITALIA che riguarda le imprese e le liberalizzazioni. La maggior parte delle novità riguarda il venir meno delle tariffe dei professionisti, e l‟obbligo per questi di fornire un preventivo scritto per le prestazioni professionali. Altre misure approvate e messe in pratica sotto il Governo Monti sono il decreto sulle semplificazioni fiscali e il decreto Semplifica Italia ed è stata fatta anche la riforma del lavoro.

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Arriviamo poi alla SPENDING REVIEW, ovvero la riduzione della spesa nel settore pubblico. Questo decreto legge prevedeva inizialmente un risparmio di 4,5 miliardi di euro nel 2012 e 10,5 per il 2013 e contrariamente a quanto previsto nel Salva Italia l‟iva non dovrebbe aumentare, almeno per il 2012. Le novità più importanti di questo provvedimento sono:

 Le assunzioni nella pubblica amministrazioni sono effettuate tramite la consip, da questo è esonerato il settore sanitario;

 Le amministrazioni possono estinguere i contratti con i fornitori se questi non applicano le migliori condizioni previste dalla consip;

 Riduzioni già dal 2012 di spese per beni e servizi nei ministeri;

 Riduzione personale nelle pubbliche amministrazioni, ma non per scuola, sanità, sicurezza, soccorsi e magistratura;

 La riduzione delle spese nei ministeri riguarda i dirigenti, 20% in meno, e i dipendenti, 10% in meno;

 Riduzione del 10% del personale delle forze armate;

 Agevolazioni per i dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni licenziati: prepensionamento o mobilità per 2 anni con l‟80% dello stipendio;

 Riduzione del 50% delle “auto blu”;

 Riduzione del valore dei buoni pasto per la Pubblica Amministrazione;  Le ferie delle Pubblica Amministrazione non possono essere scambiate

con straordinari;

 Tagli a ministeri ed enti sociali di 1,5 miliardi nel 2012 e 3 nel 2013;  Riduzione dei trasferimenti dello stato per 700 milioni nel 2012 e 1

miliardo nel 2013;

 Riduzione delle province (non ancora avvenuta);

 Meno sperperi nelle scuole e più fondi per dare libri gratis alle medie. Questa misura di revisione della spesa pubblica è già stata avviata anche in altri Paesi.

Dopo la Spending Review sono stati fatti, sempre sotto il Governo Monti: “Decreto Sviluppo” che prevede una serie di provvedimenti per riavviare la

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crescita, “Dismissioni” che è un provvedimento con l‟obiettivo di avviare un‟operazione straordinaria per abbattere il debito pubblico, “Sviluppo due”, “Pareggio di Bilancio”, “Costi della Politica” e infine la Legge di Stabilità, che comprende norme di carattere fiscale ed economico in generale.

La LEGGE DI STABILITA‟ è stato l‟ultimo provvedimento adottato dal Governo Monti. Nella legge di stabilità l‟iva torna a far parlare di se: dal primo luglio 2013 infatti è salita al 22%, mentre l‟aliquota ridotta era prevista rimanere al 10%. La legge prevede lo stanziamento di un fondo “taglia tasse” per le

famiglie con stipendio medio, i cui soldi provengono dalle entrate date dalla lotta contro l‟evasione fiscale; per le piccole attività è previsto un fondo per

l‟esenzione dell‟IRAP, inoltre ci sarà la possibilità di detrazioni fiscali per i figli a carico e molti controlli per smascherare i falsi invalidi.

Le manovre messe in atto dal Governo Monti sono una sorta di austerità, infatti ci sono stati tagli alle spese e aumenti nelle tasse. Il problema però è che ha ridotto in misura maggiore le spese sbagliate, quelle che comporteranno maggiori spese per le famiglie e ha aumentato troppo le tasse; l‟aumento delle tasse più nuove spese a carico delle famiglie ha portato ad un ulteriore peggioramento della situazione economica del paese. Queste manovre messe in atto sotto il Governo Monti non hanno portato ad un rientro nel deficit pubblico, semmai il contrario, infatti hanno avuto un forte impatto sulla disponibilità economica della popolazione e quindi della domanda. Questo ha comportato una restrizione della produzione per l‟aumento dei costi alle imprese e la difficoltà di allocazione sul mercato.

Nel 2013 subentra il Governo Letta, tale Governo si propone di ridurre le tasse da 44,3% a 44,2% nel 2013, praticamente è una presa di giro per tutti i cittadini perché questo comporterà solo pochi euro in più nelle tasche della popolazione, e per il 2016 ha programmato di arrivare a 43,7% che a mio avviso è un ulteriore presa di giro per la popolazione. L‟idea di Letta sarebbe che diminuendo il cuneo fiscale (cioè la differenza tra il costo che le imprese sostengono per ogni

lavoratore e il salario netto che entra nelle tasche del lavoratore), la produzione e l‟occupazione possano migliorare. Se si riduce il costo del lavoro per le imprese,

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si avrà una contrazione dei costi di produzione e quindi questo comporterà (forse) una riduzione dei prezzi di vendita di beni e servizi e questo dovrebbe far aumentare la competitività dell‟industria nazionale. Il questo modo vogliono rilanciare le esportazioni e incentivare i consumatori ad un maggior acquisto di merci nazionali riducendo così le importazioni. Aumentando il reddito

disponibile per i lavoratori, il taglio del cuneo fiscale determina la crescita della domanda di beni e consumi e ciò spinge le imprese ad aumentare produzione e occupazione. Risulta quindi che l‟abbattimento del cuneo fiscale fa crescere la competitività e alimenta la domanda interna. C‟è però un grande “SE” in tutta questa vicenda. La riduzione del cuneo fiscale farà rialzare l‟economia se la riduzione in questione sarà sostanziosa altrimenti a mio avviso tutto rimarrà com‟è adesso.

Vediamo come il governo Letta traduce in numeri questa manovra. La manovra taglierà il cuneo di 10,6 milioni di euro in tutto il triennio, di cui solo 2,5 nel 2014, quindi è chiaro che per i consumatori/lavoratori e imprese cambierà ben poco, e inoltre i soldi per fare questa manovra arrivano dai tagli della spesa pubblica. Quindi va da sé che tagli alla spesa pubblica sommati ad un aumento delle tasse portano minore domanda e questo ovviamente azzera i pochissimi effetti positivi dell‟aumento del reddito dei cittadini dato dalla riduzione del cuneo fiscale. Il provvedimento più importante che è stato approvato sotto il Governo Letta è la LEGGE DI STABILITA‟ e il BILANCIO DI PREVISIONE per lo Stato per il triennio 2014-2016, approvata il 15 ottobre 2013. Tale legge riguarda soprattutto le spese, sia per i cittadini che per lo stato. Il consiglio dei ministri ha inserito meccanismi per alcuni sgravi fiscali, ma al tempo stesso l‟introduzione di nuove imposte. Secondo questa legge non sarebbero previsti tagli alla sanità, è previsto un recupero di circa 8,6 miliardi di euro attraverso tagli alla spesa e interventi fiscali, è previsto anche che venga eliminata la tassa sulla prima casa ma dall‟altra parte viene introdotta la TRISE che comprende l‟IMU, la tassa sui rifiuti e la tassa sui “servizi indivisibili”. Però l‟imposta di bollo per comunicazioni relative ai prodotti finanziari aumenta e abbiamo visto che anche l‟iva è aumentata.

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1.2. La politica fiscale in Europa

La politica fiscale è quella parte della politica economica di ogni Paese che si occupa del finanziamento delle spese pubbliche e della ridistribuzione dei redditi; è di competenza dei singoli Stati membri della Comunità Europea in quanto elemento caratterizzante della sovranità nazionale.

Ad oggi non esiste un ordinamento fiscale europeo inteso come insieme organico di imposte europee sovrapposte a quelle degli Stati membri e derivanti

dall‟esercizio di una piena competenza fiscale dell‟Unione. I vari Trattati non attribuiscono, infatti, alle istituzioni comunitarie competenze fiscali tali da permettere la creazione di una imposta comunitaria, di definirne la base imponibile e di assicurarne la riscossione.

L‟azione europea in materia è, pertanto, sussidiaria in quanto riguarda solo quegli aspetti che possono incidere sul funzionamento del mercato comune e

sull‟attuazione della libera concorrenza

.

Ciò significa che la politica fiscale non è stata ritenuta dai founding fathers del Trattato come una delle attività

fondamentali per la sopravvivenza della Comunità, ma, piuttosto, come strumentale per il raggiungimento delle finalità principali. La competenza comunitaria in materia è stata esercitata sia in termini normativi che, e soprattutto, in termini giurisprudenziali: le sentenze della Corte di Giustizia hanno, infatti, consolidato nel tempo tutta una serie di principi generali in materia fiscale.

L‟incidenza di questi principi è notevolissima ed ha provocato ampi e

profondi mutamenti nella legislazione dei singoli Stati membri, realizzando un processo di “armonizzazione” delle normative nazionali. In questo senso è possibile parlare di un “ordinamento fiscale comunitario”.

Prima di vedere le politiche fiscali e le misure anti crisi adottate in Italia negli ultimi anni, è opportuno vedere cosa succede, ed è successo in Europa, dalla creazione dell‟UEM agli ultimi provvedimenti presi. Partiamo perciò dal Rapporto Delors, che in qualche modo sancisce la nascita dell‟UEM, passando per il Trattato di Maastricht, fino ad arrivare alle misure più recenti come il Fiscal Compact.

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1.2.1. Rapporto Delors

Nel giugno del 1988 il Consiglio Europeo confermò il proprio sostegno alla progressiva realizzazione dell‟ Unione Economica e Monetaria e assegnò a un comitato guidato da Jaques Delors, all‟epoca presidente della Commissione Europea, il mandato di elaborare un programma concreto per il suo

conseguimento. Il compito assegnato al Consiglio Europeo di Hannover (27-28/06/88) era quello di elaborare un progetto per la realizzazione dell‟UEM. Il Comitato era composto dai Governatori delle Banche Centrali Nazionali della Comunità Europea, da Alexander Lamfalussy, allora direttore della Banca dei Regolamenti Internazionali, dall‟economista Niels Thygesen e dal Presidente del Banco Exterior de Espana Miguel Bayer. Il rapporto, chiamato Rapporto Delors, consegnato ai Ministri dell‟Economia e delle Finanze al Consiglio Europeo di Madrid (28-29/06/89) proponeva una “tabella di marcia” articolata in 3 fasi per la realizzazione dell‟Unione Economica e Monetaria.

La Prima fase sarebbe dovuta iniziare il 1° luglio 1990e prevedeva:  Completa libertà di circolazione dei capitali tra gli Stati membri;  Il rafforzamento della cooperazione fra Banche Centrali;

 Libero utilizzo dell‟ECU (moneta unica prevista, poi sostituita con l‟Euro);

 Miglioramento della convergenza economica.

Il Consiglio conferì maggiori responsabilità al comitato dei Governatori delle Banche Centrali degli Stati membri della Comunità Europea.

Per la realizzazione della 2° e 3° fase però occorreva modificare il trattato che istituisce la Comunità Economica Europea (Trattato di Roma), al fine di creare la necessaria infrastruttura istituzionale. L‟esito delle modifiche fu il Trattato

sull‟Unione Europea, approvato nel Dicembre 1991 e firmato a Maastricht nel Febbraio 1992.

La Seconda Fase in atto dal 1° gennaio 1994 prevedeva:  La creazione dell‟Istituto Monetario Europeo (IME);

 Divieto di finanziamenti del settore pubblico da parte delle Banche Centrali;

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 Maggior coordinamento delle Politiche Monetarie;  Rafforzamento delle convergenza economica;

 Progressiva realizzazione dell‟indipendenza delle Banche Centrali Nazionali, da completarsi al più tardi entro la data di istituzione del Sistema Europea delle banche Centrali;

 Inizio preparazione della fase 3.

La creazione dell‟Istituto Monetario nel ‟94 segnò l‟avvio della seconda fase per la creazione dell‟Unione Economica e Monetaria e determinò lo scioglimento del Comitato dei Governatori. Le due funzioni principali dell‟IME erano:

 Il rafforzamento della cooperazione tra banche centrali e il coordinamento delle politiche monetarie;

 Svolgere i preparativi necessari per la costituzione del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), per la conduzione della politica monetaria unica e per l‟introduzione, nella terza fase, di una moneta comune.

Nella seconda fase fu deciso che l‟Euro sarebbe stata la moneta unica in questione e che sarebbe stata introdotta con l‟inizio della 3°fase.

La Terza Fase inizia il 1° gennaio 1999 con la conduzione di una politica

Monetaria unica sotto la responsabilità della BCE e vennero anche stabiliti i tassi di cambio fissi con le monete dei vari Paesi.

1.2.2. Il Trattato di Maastricht

Il Trattato di Maastricht è stato firmato il 7 febbraio 1992 dai 12 Paesi membri della Comunità Europea, oggi Unione Europea, ma è entrato in vigore il 1° novembre 1993. Con tale Trattato risulta sorpassato l‟obiettivo economico originale della Comunità, ossia la realizzazione di un mercato comune, e si afferma la vocazione politica. Il Trattato consegue 5 obiettivi politici:

 Rafforzare la legittimità democratica delle istituzioni;  Rendere più efficaci le istituzioni;

 Instaurare un‟Unione Economica e Monetaria;  Sviluppare la dimensione sociale della comunità;

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 Istituire una politica estera e di sicurezza comune.

Al trattato di Maastricht viene conferito uno status costituzionale ed è quindi significativo che sia stato incluso uno specifico capitolo dedicato alla “Politica Economica e Monetaria” (Titolo IV), articolato in 4 capi, di cui 3 concernenti norme permanenti (artt. 102A-109D) e uno concernente norme transitorie, sostanzialmente relative alla fase di ammissione alla UEM (artt. 109E-109M). Queste norme configurano dunque una vera e propria Costituzione Economica dell‟Unione Europea.

Il trattato ha una struttura complessa. Il preambolo è seguito da sette titoli. Il titolo I contiene le disposizioni comuni alle Comunità, alla politica esterna comune e alla cooperazione giudiziaria. Il titolo II contiene le disposizioni che modificano il trattato CEE e il titoli III e IV modificano rispettivamente i trattati CECA e CEEA. Il titolo V introduce le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune (PESC). Il titolo VI contiene le disposizioni relative alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni (JAI). Le disposizioni finali figurano al titolo VII.

Il trattato di Maastricht crea l'Unione Europea, e con il trattato di compromesso del Lussemburgo questa era prevista essere composta da 3 pilastri, che sono stati un modo di dividere le politiche dell'Unione Europea in tre aree fondamentali e sono stati aboliti con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009.

Il primo pilastro è costituito dalla Comunità europea, dalla Comunità europea del carbone e dell'acciao (CECA) e dall' Euratom e riguarda i settori in cui gli Stati membri esercitano congiuntamente la propria sovranità attraverso le istituzioni comunitarie. Vi si applica il cosiddetto processo del metodo comunitario, ossia proposta della Commissione europea, adozione da parte del Consiglio e del Parlamento europeo e controllo del rispetto del diritto comunitario da parte della Corte di giustizia.

Il secondo pilastro instaura la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) prevista al titolo V del trattato sull'Unione europea. Esso sostituisce le

disposizioni contenute nell'Atto unico europeo e consente agli Stati membri di avviare azioni comuni in materia di politica estera. Tale pilastro prevede un

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processo decisionale intergovernativo, che fa ampiamente ricorso all'unanimità. La Commissione e il Parlamento svolgono un ruolo modesto e tale settore non rientra nella giurisdizione della Corte di giustizia.

Il terzo pilastro riguarda la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni (JAI), prevista al titolo VI del trattato sull'Unione europea. L'Unione deve svolgere un'azione congiunta per offrire ai cittadini un livello elevato di

protezione in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Anche in questo caso il processo decisionale è intergovernativo.

Il mercato unico viene completato dall'instaurazione dell'UEM. Gli Stati membri devono garantire il coordinamento delle loro politiche economiche ed istituire una sorveglianza multilaterale di tale coordinamento, e sono soggetti a norme di disciplina finanziaria e di bilancio. La politica monetaria mira ad istituire una moneta unica e a garantirne la stabilità grazie alla stabilità dei prezzi e al rispetto dell'economia di mercato.

Il trattato prevede l'instaurazione di una moneta unica in tre fasi successive:

 la prima fase, che liberalizza la circolazione dei capitali, inizia il 1º luglio 1990;

 la seconda fase, che incomincia il 1º gennaio 1994, permette la convergenza delle politiche economiche degli Stati membri;

 la terza fase deve iniziare entro il 1º gennaio 1999 con la creazione di una moneta unica e la costituzione di una Banca centrale europea (BCE).

L'Unione europea così creata veniva edificata sui tre pilastri del progetto Santer, il cui principale sarebbe stato quello noto come "Comunità europea" (CE, in

sostituzione della CEE), l'unico a carattere federale rispetto agli altri due – sulla PESC e sugli affari interni – di carattere intergovernativo. L'Unione dispone di un quadro istituzionale unico in quanto le sue istituzioni sono comuni a tutti e tre i pilastri; oltre a quelle canoniche, viene ufficialmente riconosciuto il Consiglio

Europeo come organo di sviluppo politico. Dopo la creazione dell'Istituto Monetario Europeo (IME), entro il 1º gennaio 1999 sarebbe nata da esso la Banca Centrale

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Europea (BCE) e il Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) che avrebbe coordinato la politica monetaria unica. Venivano distinte due ulteriori tappe: nella prima le monete nazionali sarebbero continuate a circolare pur se legate

irrevocabilmente a tassi fissi con il futuro Euro; nella seconda le monete nazionali sarebbero state sostituite dalla moneta unica. Per passare alla fase finale ciascun Paese avrebbe dovuto rispettare dei parametri di convergenza. I parametri di

Mastricht o criteri di convergenza sono i requisiti economici e finanziari che gli Stati dell'Unione europea devono soddisfare per l'ingresso nell'Unione economica e

monetaria dell'Unione europea (UEM). Tali parametri sono esposti all'articolo 121, paragrafo 1 del Trattato di Roma che istituisce la Comunità europea (TCE), come modificato dal Trattato di Maastricht; essi riguardano la stabilità dei prezzi,

la situazione delle finanze pubbliche, il tasso di cambio, i tassi di interesse a lungo termine:

 il tasso d'inflazione di un dato Stato membro non deve superare di oltre l'1,5% quello dei tre Stati membri che avranno conseguito i migliori risultati in materia di stabilità dei prezzi nell'anno che precede l'esame della situazione dello Stato membro.

Per quanto riguarda la situazione della finanza pubblica il trattato stabilisce che: "La sostenibilità della situazione della finanza pubblica [...] risulterà dal conseguimento di una situazione di bilancio pubblico non caratterizzata da un disavanzo eccessivo [...]".In pratica, al momento dell'elaborazione della sua raccomandazione annuale al Consiglio dei ministri delle finanze (Ecofin), la Commissione esamina se la disciplina di bilancio sia stata rispettata in base ai due seguenti parametri:

- il disavanzo pubblico annuale: il rapporto tra il disavanzo pubblico annuale e il PILnon deve superare il 3 % alla fine dell'ultimo esercizio

finanziario concluso. In caso contrario, tale rapporto deve essere diminuito in modo sostanziale e costante e aver raggiunto un livello prossimo al 3% (interpretazione tendenziale a norma dell'articolo 104, paragrafo 2) o, in alternativa, il superamento del valore di riferimento deve essere solo

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eccezionale e temporaneo e il rapporto deve restare vicino al valore di riferimento;

-il debito pubblico: il rapporto tra il debito pubblico lordo e il PIL non deve superare il 60 % alla fine dell'ultimo esercizio di bilancio concluso. In caso contrario, tale rapporto deve essersi ridotto in misura sufficiente e deve avvicinarsi al valore di riferimento con ritmo adeguato

Il tasso di cambio. Il trattato prevede "il rispetto dei margini normali di fluttuazione previsti dal meccanismo di cambio del Sistema monetario europeo per almeno due anni, senza svalutazione nei confronti della moneta di qualsiasi altro Stato membro".

Lo Stato membro deve aver partecipato al meccanismo di cambio del Sistema monetario europeo senza soluzione di continuità nel corso dei due anni

precedenti l'esame della sua situazione, senza peraltro essere stato soggetto a gravi tensioni. Inoltre, lo Stato membro non deve aver svalutato la moneta nazionale (ovvero il tasso centrale bilaterale della propria valuta in rapporto a quella di un altro Stato membro) di propria iniziativa nel corso del suddetto periodo.

• I tassi di interesse nominali a lungo termine non devono superare di più del 2 % quelli dei tre Stati membri, al massimo, che avranno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi (si tratta di fatto dei medesimi presi in considerazione per il parametro della stabilità dei prezzi). Il periodo da

considerare è l'anno precedente l'esame della situazione nello Stato membro in questione.

Con il protocollo sulla politica sociale allegato al trattato, le competenze comunitarie vengono estese al settore sociale. Il Regno Unito non aderisce al protocollo, che si prefigge gli obiettivi seguenti:

 promuovere l'occupazione;

 migliorare le condizioni di vita e di lavoro;  garantire un'adeguata protezione sociale;  promuovere il dialogo sociale;

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 sviluppare le risorse umane per garantire un livello elevato e sostenibile d'occupazione;

 integrare le persone escluse dal mercato del lavoro.

Tra le grandi innovazioni del trattato figura l'istituzione di una cittadinanza europea, che si aggiunge a quella nazionale. Chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro è anche cittadino dell'Unione. Tale cittadinanza conferisce nuovi diritti degli europei, ossia:

 il diritto di circolare e risiedere liberamente nella Comunità;

 il diritto di votare e di essere eletti alle elezioni europee e comunali nello Stato di residenza;

 il diritto alla tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di uno Stato membro diverso da quello d'origine nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è

rappresentato;

 il diritto di petizione dinanzi al Parlamento europeo e il diritto di sporgere denuncia al mediatore europeo.

L'innovazione principale è però la definizione del principio di sussidiarietà. Tale principio precisa che nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, la Comunità interviene soltanto se gli obiettivi possono essere realizzati meglio a livello comunitario che a livello nazionale. L'articolo A prevede che l'Unione prenda decisioni "il più vicino possibile ai cittadini".

E‟ molto importante precisare che la Danimarca e l‟UK non aderirono a questo Trattato.

Modifiche apportate al Trattato di Maastricht

Trattato di Amsterdam (1997)

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creazione di una politica comunitaria in materia di occupazione, il trasferimento sotto competenza comunitaria di alcune materie precedentemente disciplinate dalla cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni, le misure volte ad avvicinare l'Unione ai suoi cittadini, la possibilità di una più stretta

cooperazione tra alcuni Stati membri (cooperazioni rafforzate). Esso estende inoltre la procedura di codecisione e il voto a maggioranza qualificata e procede a una semplificazione e a una rinumerazione degli articoli dei trattati.

Trattato di Nizza (2001)

Il trattato di Nizza è destinato essenzialmente a risolvere le questioni lasciate aperte dal trattato di Amsterdam nel 1997, ossia i problemi istituzionali legati all'ampliamento. Si tratta della composizione della Commissione, della ponderazione dei voti al Consiglio e dell'estensione del voto a maggioranza qualificata. Esso semplifica il ricorso alla procedura di cooperazione rafforzata e rende più efficace il sistema giurisdizionale.

Trattato di Lisbona (2007)

Il trattato di Lisbona procede all‟attuazione di vaste riforme. Esso pone fine alla Comunità europea, abolisce la precedente architettura dell‟UE ed attua una nuova ripartizione delle competenze tra l‟UE e Stati membri. Ha altresì modificato il funzionamento delle istituzioni europee e il processo decisionale. L‟obiettivo è migliorare il processo decisionale in un‟Unione allargata a 27 Stati membri. Il trattato di Lisbona riforma inoltre molte politiche interne ed esterne dell'UE. In particolare, esso consente alle istituzioni di legiferare e di adottare misure in nuovi settori politici.

Il trattato di Maastricht è stato modificato altresì dai seguenti trattati di adesione:

Trattato di adesione di Austria, Finlandia e Svezia (1994), che porta a

15 il numero degli Stati membri della Comunità europea.

Trattato di adesione di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta,

Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria (2003)

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Trattato di adesione della Bulgaria e della Romania (2005).

Questo trattato porta il numero degli Stati membri da 25 a 27.

1.2.3. Patto di Stabilità e Crescita

Il “Patto di Stabilità e Crescita”, detto anche “Trattato di Amsterdam”, fu sottoscritto nel ‟97 al fine di evitare un precoce fallimento del percorso

d‟integrazione monetaria intrapreso nel ‟92 con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht. Tale Patto è stato un seguito naturale del Trattato di Maastricht, impone, tramite due regolamenti che hanno forza di legge tra gli Stati membri, obiettivi di medio periodo per il bilancio, regolamenti che garantiscano un saldo “prossimo al pareggio o positivo”. Preso atto, infatti, che alla fine del ‟95 l‟unico Stato in grado di rispettare i parametri di convergenza previsti nel Trattato di Maastricht era il Lussemburgo, si ritenne necessario rinegoziare le condizioni di accesso degli Stati membri alla terza fase, e quindi all‟Unione Monetaria

Europea. Tale patto mira a garantire la disciplina di bilancio degli Stati membri della UE per evitare disavanzi pubblici eccessivi e contribuire così alla stabilità monetaria.

Così come avvenne alcuni anni prima a Maastricht, le posizioni politiche che caratterizzarono il dibattito tra gli Stati membri ad Amsterdam furono

sostanzialmente due: la prima, quella sostenuta soprattutto dalla Germania (ed in special modo dalla sua Banca Centrale più che dal suo governo), prevedeva che i parametri non dovessero essere rinegoziati, e che dovessero essere interpretati in modo rigido, al fine dell‟ammissione dei Paesi all‟UEM, anche a costo di non far partire l‟integrazione monetaria, oppure di creare un‟Unione Monetaria ristretta a pochi Paesi. La seconda posizione, sostenuta soprattutto dalla Francia e dai Paesi mediterranei, prevedeva, invece, che per l‟ammissione all‟UEM tali parametri di convergenza dovessero essere interpretati in modo flessibile, anche attraverso un giudizio politico sullo “sforzo” e sulla “buona volontà” dimostrati dagli Stati membri. Per rendere possibile l‟accesso all‟UEM a tutti i Paesi, infatti, si dovette

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rendere più elastico il parametro relativo al rapporto tra debito e PIL, poiché in caso d‟interpretazione restrittiva molti Paesi, tra cui Italia, Belgio e Grecia, ma anche Spagna, Irlanda, Austria e persino gli stessi Paesi Bassi, ritenuti tra i Paesi modello della stabilità monetaria, ed in cui, non a caso, sono stati sottoscritti questi Trattati, sarebbero stati estromessi dall‟Unione Monetaria: la riduzione del debito, infatti, è obiettivo realizzabile soltanto nel lungo periodo.

Fu stabilito che, qualora il debito pubblico di uno Stato membro dovesse essere superiore al 60% del suo PIL, esso debba “diminuire sufficientemente fino al valore di riferimento, ad un tasso soddisfacente” (Art.104C). Per rendere vincolante questa prescrizione, e non una mera dichiarazione d‟intenti, i “rigoristi” ottennero dal Patto l‟imposizione ai Paesi membri di perseguire il pareggio di bilancio, eliminando, quindi, la possibilità di poter registrare un deficit, ancorché contenuto entro il 3% del PIL, così come si era inizialmente stabilito a Maastricht. In deroga a ciò, il Patto ha previsto comunque un margine di tolleranza fino al 3%, a condizione però di recuperare tale deficit negli anni di congiuntura positiva. In ogni caso, questo parametro non doveva e non dovrà mai superare il 3% del PIL, pena una pesante sanzione pari allo 0,2% del PIL. Se poi questo parametro dovesse superare il 4%, allora la sanzione aumenterebbe fino allo 0,5% del PIL. Se invece lo Stato adotta tempestivamente misure correttive, la procedura viene sospesa fino a quando il deficit non viene portato sotto il limite del 3%. Se le stesse misure si rivelano però inadeguate, la procedura viene ripresa e la sanzione irrogata.

Le prime applicazioni di quei criteri fecero emergere una serie di problemi e alcuni elementi di debolezza, quali: la natura in qualche misura arbitraria del limite del 3% per i deficit di bilancio; l‟asimmetria del PSC, che era vincolante in periodi di congiuntura negativa ma non lo era quando il ciclo risultava favorevole e i governi ne avrebbero potuto approfittare per costruirsi margini di sicurezza; gli aspetti politici relativi alle decisioni del Consiglio e la discutibile legittimità democratica delle istituzioni dell‟Unione. Queste e altre difficoltà, legate al ristagno delle economie europee dei primi anni 2000, hanno portato, sotto la spinta dei governi di Francia e Germania, entrambi alle prese con forti aumenti

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dei loro deficit di bilancio, alla sospensione di fatto del PSC e all‟introduzione di modifiche sostanziali nel Consiglio europeo tenutosi a Bruxelles il 22-23 marzo 2005. L‟intento dichiarato era quello di prestare maggiore attenzione alla logica economica delle regole, per rafforzarne la credibilità e il rispetto, ma in realtà questi interventi correttivi alle disposizioni del PSC minavano seriamente la sua possibilità di applicazione. Furono quindi apportate delle prime modifiche al Patto: il tetto del 3% per il deficit pubblico e quello del 60% per il debito pubblico furono mantenuti, ma la decisione di dichiarare un paese in deficit eccessivo poteva con tali modifiche, essere legata a certi parametri: il

comportamento del budget cyclically adjusted, il livello del debito, la durata del periodo di lenta crescita e la possibilità che il deficit sia legato al miglioramento di procedure di produttività.

L‟esplosione della crisi finanziaria ed economica del 2008-09, e la conseguente crisi dell‟euro (2010-11), hanno messo ulteriormente a nudo l‟inadeguatezza dei meccanismi di sorveglianza del PSC. La più importante lezione della crisi è stata che la sola disciplina fiscale, per quanto necessaria, non è affatto sufficiente a garantire la stabilità macrofinanziaria dei singoli Paesi e dell‟area monetaria europea nel suo complesso, come i casi dell‟Irlanda e della Spagna, fiscalmente virtuose, confermano. Proprio per porre riparo a queste carenze il Consiglio Europeo e il Parlamento Europeo (sulla base di un lavoro preparatorio durato mesi) hanno approvato nel corso del 2011 alcune importanti riforme del PSC e della governance economica europea, il cosiddetto accordo six-pack e fiscal compact.

1.2.4. Six Pack

Si tratta di Cinque regolamenti e una direttiva (in vigore dal 13 dicembre 2011). Si applica ai 27 stati membri, con alcune regole specifiche per l‟Eurozona (riguardanti soprattutto le sanzioni). Copre non soltanto la sorveglianza dei bilanci, ma anche quella macroeconomica (Macroeconomic Imbalance Procedure)

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Rafforza il Patto di Stabilità e Crescita (PSC), sia nella parte preventiva sia nella parte correttiva. Assicura una più rigorosa applicazione delle regole definendo in termini quantitativi una deviazione significativa dagli obiettivi di medio termine, dunque rafforzando la sorveglianza preventiva. Rende operativo il criterio del debito,rendendo possibile l‟avvio della Procedura di Deficit Eccessivo con riferimento al debito e non solo al deficit. In particolare, si stabilisce:

 l‟obbligo per gli Stati membri di convergere verso l‟obiettivo il pareggio di bilancio con un miglioramento annuale dei saldi pari ad almeno lo 0,5%;

 l‟obbligo per i Paesi il cui debito supera il 60% del PIL di adottare misure per ridurlo ad un ritmo soddisfacente, nella misura di almeno 1/20 della eccedenza rispetto alla soglia del 60%, calcolata nel corso degli ultimi tre anni;

 un semi-automatismo delle procedure per l‟irrogazione delle sanzioni per i Paesi che violano le regole del Patto. Le sanzioni sono infatti sono

raccomandate dalla Commissione e si considerano approvate dal Consiglio a meno che esso non la respinga con voto a maggioranza qualificata

(“maggioranza inversa”) degli Stati dell‟area euro (non si tiene conto del voto dello Stato interessato).

Ai Paesi che registrano un disavanzo eccessivo si applicherebbe un deposito non fruttifero pari allo 0,2% del PIL realizzato nel‟anno precedente, convertito in ammenda in caso di non osservanza della raccomandazione di correggere il disavanzo eccessivo.

Il 23 novembre 2011 la Commissione europea ha presentato le seguenti due proposte (cd. “Two Pack”) che mirano a completare e rafforzare il Six Pack, rendendo più efficaci sia la procedura del semestre europeo sia la parte preventiva e correttiva del Patto di stabilità e crescita:

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 una proposta di regolamento sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri che affrontano o sono minacciati da serie difficoltà per la propria stabilità finanziaria nell‟eurozona;

 una proposta di regolamento recante disposizioni comuni per

il monitoraggio e la valutazione dei progetti di bilancio e per assicurare la correzione dei disavanzi eccessivi degli Stati membri nell‟eurozona.

La prima proposta di regolamento definisce una procedura per la vigilanza rafforzata sugli Stati membri che affrontano o rischiano di affrontare gravi difficoltà economico-finanziarie, con potenziale effetto di contagio in tutta l‟eurozona, o che ricevono assistenza finanziari (dal Fondo europeo di

stabilizzazione dell‟eurozona (FESF), dal Fondo monetario internazionale (FMI), o da altre istituzioni finanziarie internazionali) al fine di assicurare un rapido ritorno alle condizioni normalità. In base alla seconda proposta gli Stati dell‟Eurozona dovrebbero:

 pubblicare i propri programmi di bilancio a medio-termine, basati su previsioni macroeconomiche fornite da un organismo indipendente;

 presentare entro il 15 ottobre il progetto di bilancio per l‟anno successivo:  approvare la legge di bilancio annuale non più tardi del 31 dicembre;  istituire un ente di controllo del bilancio indipendente per il monitoraggio

degli andamenti di bilancio.

La Commissione, qualora ritenesse il progetto di bilancio di uno Stato membro non conforme agli obblighi imposti dal Patto di stabilità e crescita, potrebbe chiedere, entro due settimane dalla ricezione del progetto, la presentazione di un progetto di bilancio rivisto. Al termine dell‟esame del progetto di bilancio, al più tardi entro il 30 novembre di ogni anno, la Commissione adotterebbe, se

necessario, un parere sul progetto stesso, da sottoporre alla valutazione dell‟Eurogruppo.

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Entro la primavera–estate del 2013, la Commissione dovrebbe approfondire l‟ipotesi di un‟eventuale ulteriore revisione del braccio preventivo del Patto di stabilità e crescita al fine valutare, a determinate condizioni, l‟ammissibilità di alcune categorie investimenti pubblici.

Prima della fine del 2013, la Commissione si impegna inoltre a presentare le seguenti proposte per completare l'attuale quadro di governance economica:

 le misure per assicurare una maggiore coordinamento ex-ante dei progetti di riforma importanti;

 l‟introduzione di uno “strumento per la convergenza e la competitività”, ovvero incentivi finanziari per supportare, sulla base di accordi di natura contrattuale tra gli Stati membri e le istituzioni dell‟UE, la realizzazione delle riforme strutturali. Ad avviso della Commissione, l‟introduzione di un tale strumento finanziario potrebbe agevolare, in prospettiva, la creazione di una capacità di bilancio (fiscal capacity) autonoma per l‟eurozona.

Infine, la Commissione si è impegnata ad elaborare ipotesi di revisione dei Trattati vigenti, allo scopo di avviare un dibattito, prima delle prossime elezioni del Parlamento europeo previste per maggio 2014, relativo ad un‟ulteriore integrazione in materia di Unione economica e monetaria.

Nel dicembre 2011, poi, di fronte all‟incalzare della crisi dell‟euro, è stata siglata a Bruxelles una nuova intesa europea per il rafforzamento della disciplina di bilancio e il coordinamento delle politiche fiscali, il cosiddetto fiscal compact, che ha introdotto vincoli e sanzioni fiscali e di bilancio, in parte nuovi e in parte non dissimili da quelli già adottati con il six-pack.

1.2.5. Fiscal Compact

Fiscal Compact è appellativo usato comunemente per il Treaty on stability, coordination and governance in the Economic and Monetary Union, trattato stipulato nel marzo 2012 dai Paesi dell‟Unione Europea (con l‟eccezione della

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Gran Bretagna e della Repubblica Ceca) al fine di rafforzare disciplina e coordinamento delle rispettive politiche di bilancio ed economiche e la governance dell‟area dell‟euro.

L'accordo prevede per i paesi contraenti, secondo i parametri di Maastricht fissati dal Trattato CE, l'inserimento, in ciascun ordinamento statale (con norme di rango costituzionale, o comunque nella legislazione nazionale ordinaria), di diverse clausole o vincoli tra le quali:

 obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio (art. 3, c. 1);

 obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del PIL (e superiore all'1% per i paesi con debito pubblico inferiore al 60% del PIL);

 significativa riduzione del debito pubblico al ritmo di un ventesimo (5%) all'anno, fino al rapporto del 60% sul PIL nell'arco di un ventennio (artt. 3 e 4);

 impegno a coordinare i piani di emissione del debito col Consiglio dell'Unione e con la Commissione europea (art. 6).

Sebbene sia stato negoziato da 25 Paesi dell'Unione europea, l'accordo non fa formalmente parte del corpus normativo dell'Unione europea.

I principali punti contenuti nei 16 articoli del trattato sono:

 l'impegno ad avere un deficit pubblico strutturale che non deve superare lo 0,5% del PIL e, per i paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del PIL, l'1%;

 l'obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell'eccedenza in ciascuna annualità;

 l'obbligo per ogni stato di garantire correzioni automatiche con scadenze determinate quando non sia in grado di raggiungere altrimenti gli obiettivi di bilancio concordati;

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 l'impegno a inserire le nuove regole in norme di tipo costituzionale o comunque nella legislazione nazionale, che verrà verificato dalla Corte europea di giustizia;

 l'obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di sotto del 3% del PIL, come previsto dal Patto di stabilità e crescita; in caso contrario scatteranno sanzioni semi-automatiche;

 l'impegno a tenere almeno due vertici all'anno dei 17 leader dei paesi che adottano l'euro.

L‟entrata in vigore era prevista per il 1° gennaio 2013, a condizione che almeno 12 Stati dell‟eurozona lo abbiano approvato. Dopo aver completato il processo di ratifica, oltre a essere vincolati dalle norme del Trattato, i Paesi appartenenti all‟area dell‟euro potranno accedere ai finanziamenti del relativo fondo di stabilità permanente (European Financial Stabilisation Mechanism, EFSM).

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