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PARTE INTRODUTTIVA

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Academic year: 2021

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PARTE INTRODUTTIVA

1. INTRODUZIONE

La ricerca nel settore della tecnologia farmaceutica e della biofarmaceutica ha avuto un notevole sviluppo portando alla progettazione di nuove forme farmaceutiche, sempre più sofisticate, con l’obiettivo di ottenere nuovi strumenti da utilizzare per la terapia. Inoltre l'avvento di nuovi farmaci quali peptidi, proteine, oligonucleotidi, richiede nuovi approcci terapeutici per i quali la tappa formulativa deve essere considerata ed affrontata con differenti metodologie.

Le forme farmaceutiche a rilascio controllato rappresentano un sempre più importante approccio per ottimizzare la somministrazione dei medicamenti; applicate correttamente, possono sia migliorare sia addirittura rendere possibile una determinata terapia. Lo studio e la progettazione di forme farmaceutiche a rilascio controllato richiedono una ricerca di tipo multidisciplinare, competenze non solo di ordine chimico, farmaceutico, tecnologico e analitico, ma anche e sempre di più di tipo biofarmaceutico e biotecnologico.

Grande impulso per affrontare tali problemi è stato fornito da un lato dalla disponibilità di nuovi materiali, soprattutto di natura polimerica, dall'altro dallo sviluppo scientifico nella conoscenza dei meccanismi di insorgenza e di mantenimento di quadri morbosi. Ciò ha consentito di affrontare in modo nuovo la somministrazione di farmaci sviluppando sistemi in grado di raggiungere l'organo bersaglio, liberando il principio attivo in modo specifico.

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2. SISTEMI A RILASCIO MODIFICATO DEI FARMACI

Le forme farmaceutiche a rilascio modificato appartengono alla classe delle forme farmaceutiche non convenzionali in cui il rilascio del farmaco, e il relativo andamento dei livelli ematici, dipendono dalle caratteristiche tecnologiche della formulazione e non dalle caratteristiche chimico-fisiche del principio attivo, come per le forme farmaceutiche convenzionali. Per definirle vengono utilizzate, di volta in volta, molte espressioni quali, per esempio, rilascio lento, accelerato, protratto, graduale, continuato, costante, pulsante, programmato, sostenuto, che indicano una particolare modalità o cinetica di cessione del farmaco.

Una classificazione delle forme farmaceutiche a rilascio modificato può essere fornita secondo criteri diversi quali la via di somministrazione (orale, oculare, parenterale), il tipo di cessione (ritardata, lenta, prolungata) il meccanismo di cessione (diffusione, dissoluzione, osmosi, erosione), il tipo di sistema tecnologico (matrice monolitica, reservoir, pompa osmotica, etc).

Rispetto alla forma farmaceutica convenzionale il rilascio del farmaco può essere modificato in termini di:

 velocità, sia nel senso di incremento (cessione rapida del principio attivo mediante l’aumento della velocità di dissoluzione al fine di ottenere un’azione farmacologica rapida), sia nel senso di un rallentamento (cessione protratta nel tempo con un mantenimento prolungato dei livelli ematici nell’intervallo terapeutico);

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 tempo, rilasciano la dose, o una parte, o più parti di essa in tempi diversi da quello immediatamente successivo alla somministrazione in relazione alle esigenze terapeutiche del momento (rilascio ritardato, ripetuto e pulsante);  luogo, quando la cessione del principio attivo avviene in particolari siti o

distretti dell’organismo. In questi casi si parla di “direzionamento” o “targeting” dei farmaci.

I potenziali vantaggi legati all’utilizzo di forme farmaceutiche a rilascio controllato sono numerosi: dal punto di vista clinico può migliorare nettamente la performance o il profilo terapeutico di un farmaco consentendo il controllo dei livelli ematici, in modo da evitare fenomeni di sotto/sovra-dosaggio; può diminuire il numero di somministrazioni giornaliere, rendendo più semplici le modalità e i tempi di somministrazione, e minimizzare gli effetti collaterali indesiderati. Tutto questo porta inevitabilmente al miglioramento della compliance da parte del paziente.

Il futuro promette sempre nuovi e interessanti sviluppi e renderà necessaria la risoluzione di sempre nuovi problemi formulativi, che potranno essere risolti soltanto con l'uso di nuovi materiali polimerici e nuovi metodi di direzionamento dei farmaci.

Le dispersioni polimeriche, le dispersioni acquose di idrogeli, i liposomi, i sistemi colloidali ed i sistemi microparticellari e nanoparticellari sono tutti esempi di sistemi dispersi che possono essere utilizzati nell’incapsulamento di materiale al fine di ottenere un rilascio controllato nelle applicazioni farmaceutiche, cosmetiche e alimentari.

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L’insieme dei parametri che influenzano questi sistemi è vario e molto complesso ed è legato al trasferimento di massa attraverso l’interfaccia. Questo parametro influenza il comportamento alla deformazione il quale si ripercuote sul rilascio del materiale incapsulato. Per lo sviluppo di sistemi a rilascio controllato è quindi necessario conoscere il comportamento di deformazione dei vari sistemi in condizioni di stress. [1]

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2.1 Sistemi colloidali

I sistemi colloidali sono costituiti da particelle di dimensioni che variano da 1nm a 500 nm disperse in un mezzo acquoso. Questi sistemi bifasici rappresentano un termine intermedio tra le soluzioni e le sospensioni vere e proprie. Questi tipi di sistemi possono essere classificati in liofili, liofobi o di associazione, sulla base dell’interazione delle particelle o ioni della fase dispersa con le molecole del mezzo disperdente.

 Colloidi liofili, sistemi che contengono particelle colloidali che interagiscono in modo apprezzabile con il mezzo disperdente formando dispersioni colloidali, o soli, con relativa facilità. La maggior parte dei colloidi liofili sono molecole organiche; ne sono esempi derivati della cellulosa, dell’alcol polivinilico, del polivinilpirrolidone, di molte gomme naturali (agar, adragante, arabica);

 Colloidi liofobi, sono materiali che hanno scarsa affinità e attrazione per il mezzo disperdente. Questi colloidi sono per la maggior parte composti inorganici (oro, argento, zolfo, argento ioduro) e la loro dispersione, la quale avviene per effetto di cariche elettriche che si respingono impedendo l’aggregazione e la precipitazione, risulta essere meno stabile;

 Colloidi di associazione, sono costituiti da molecole amfifile come i tensioattivi, che superato un ristretto intervallo di concentrazione formano aggregati dette micelle.

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La ricerca su questi sistemi ha portato all’utilizzo di nuove formulazioni definite CDDS (colloidal drug delivery system) costituiti prevalentemente da: liposomi (sistemi vescicolari composti da materiale lipidico di origine naturale o sintetico); SLN (solid lipid nanoparticles) nanoparticelle solide lipidiche, di dimensioni comprese tra 10 e 1000 nm, e sistemi microparticellari, trasportatori particellari di dimensioni che variano da 3 a 800 μm. I materiali usati per la preparazione dei sistemi particellari possono essere di origine naturale (amido, albumina, gelatina) oppure di origine sintetica come PLA (acido polilattico) e PLGA (acido polilattico/co-glicolico).

I principali vantaggi dei CDDS sono:

 Solubilizzazione di farmaci poco solubili in mezzi acquosi;

 Attraversamento delle barriere biologiche (definito con il termine “Trojan horse”);

 Rilascio controllato;  Riduzione della tossicità;

 Possibilità di mettere insieme più componenti con diverse caratteristiche chimico-fisiche.

Le proprietà dei CDDS sono funzione delle loro caratteristiche chimico-fisiche, quali: dimensioni particellari, area superficiale, capacità di incapsulazione e solubilizzazione dei farmaci. [2]

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2.2 Geli

Sono preparazioni semisolide costituite da sistemi dispersi solido-liquido, la cui fase dispersa forma un reticolo tridimensionale che trattiene la fase disperdente liquida.

Dal punto di vista chimico-fisico il termine gel è stato definito da P.W. Atkins come una massa semi rigida costituita da particelle solide disperse in una fase liquida ed adsorbite. [3]

The Encyclopedia of Polymer Science and Engineering definisce gel un

polimero con legami crociati rigonfiato in un mezzo liquido. Le sue proprietà

dipendono dall’interazione tra i due componenti, cioè polimero e mezzo liquido. Il gel ha le stesse proprietà meccaniche di un solido: mantiene la sua forma, ma

in condizioni di stress esso presenta il fenomeno della deformazione. [4]

Viene definito punto di gelificazione la concentrazione al di sotto della quale il gel non si forma ma appena superato questo valore, si ha un considerevole e repentino aumento della viscosità del sistema. Questa concentrazione dipende dal peso molecolare, dalla struttura del polimero, dalle sue interazioni con il solvente e dalla flessibilità delle catene.

Tra le molecole che formano lo scheletro di un gel possono esistere legami ionici o covalenti oppure legami secondari (dipolari, ad idrogeno, forze di repulsione)

La natura di tali legami e la percentuale di fase liquida permettono un altro tipo di classificazione dei geli, prevalentemente basata sulle caratteristiche reologiche:

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 Geli elastici, che subiscono trasformazioni reversibili e, dopo una sollecitazione, ritornano alla forma originale;

 Geli rigidi, che non subiscono deformazioni, in cui rigidi il reticolo si origina in seguito alla formazione di legami covalenti tra le molecole di agente gelificante;

 Gel plastici, corpi più o meno deformabili che scorrono liberamente al di sopra di un valore di soglia di sollecitazione; esempi di geli plastici sono gli idrogeli.

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2.3 Sistemi polimerici idrofili

I sistemi terapeutici a base di polimeri, naturali o sintetici, hanno dimostrato la loro efficacia nel controllare la velocità o il tempo di rilascio del farmaco, o nel migliorare il direzionamento specifico del principio attivo, contribuendo nello stesso tempo a ridurre la tossicità sistemica del farmaco veicolato. L'impiego in campo farmaceutico di materiali polimerici ha quindi permesso la realizzazione di diversi sistemi di rilascio dei farmaci basati sull'impiego di una vasta gamma di polimeri biocompatibili, idrofili aventi strutture e proprietà chimico-fisiche differenti.

Nella tecnologia farmaceutica tradizionale i polimeri vengono impiegati sia nella preparazione di forme farmaceutiche solide che liquide. Tra gli eccipienti polimerici vi sono riempitivi, disgreganti, materiali di rivestimento, modificatori reologici e tensioattivi.

La possibilità di sintetizzare polimeri con diverse caratteristiche chimico-fisiche mediante scelta quali-quantitativa dei monomeri ha aperto la strada all’impiego dei polimeri per varie applicazioni farmaceutiche. Oggi i polimeri rappresentano i materiali base per lo sviluppo di sistemi per il rilascio modificato.

Negli ultimi tempi gli idrogeli sono diventati argomento di studio come carrier per il rilascio di farmaci, poiché sono molto versatili dal punto di vista della capacità di incorporare e, soprattutto, di controllarne il rilascio, inoltre sono altamente compatibili permettendo l'uso in campo biomedico e per applicazioni biotecnologiche.

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rilascio modificato, sia in termini di "tempo" (cessione ritardata, protratta, pulsante) che di direzionamento verso il sito che il principio attivo deve raggiungere in maniera specifica (targeting). I fattori che esercitano l'azione di controllo sul rilascio di un farmaco incluso in idrogel sono rappresentati dalla velocità di penetrazione dell'acqua nel sistema, che permette alle catene polimeriche di passare da uno stato vetroso imperturbabile ad uno stato solvatato; dalla velocità di diffusione del farmaco nel sistema idratato e dalle

resistenze al trasporto che questo oppone. Gli idrogeli sono sistemi polimerici tridimensionali in grado di incorporare,

rigonfiandosi, elevate quantità di acqua. Tale capacità è dovuta alla presenza di gruppi funzionali idrofili, come quello amminico, carbossilico e ossidrilico

lungo le catene polimeriche e dalla densità di reticolazione. Maggiore è il numero dei gruppi idrofili, maggiore sarà la capacità di trattenere

l’acqua, mentre un alto numero di legami crociati provocherà una diminuzione del rigonfiamento dell’idrogel a causa della riduzione di gruppi idrofili sulle catene polimeriche e della capacità di allungamento della rete del polimero. Di conseguenza, l’aumento della densità di reticolazione provoca una idrofobicità del polimero.

Gli idrogeli possono essere classificati in base alla natura della reazione di reticolazione: nel primo tipo, denominati permanenti, le macromolecole polimeriche sono legate tra loro attraverso legami covalenti, tra i più noti è possibile citare derivati dell’acido metacrilico (PMMA e PHEMA). Gli idrogeli che si formano da interazioni fisiche, cioè entanglement molecolari mediante legami a idrogeno, interazioni ioniche e forze di Van der Waals, vengono

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definiti idrogeli fisici; tra questi sono compresi alcol polivinilico, gelatina, gel di agar. [5]

I polimeri idrofili si distinguono in:

 polimeri idrofili inerti, formano geli stabili elastici e non viscoelastici, possono essere ulteriormente suddivisi in idrogeli neutri e pH-sensibili. Gli idrogeli neutri, assorbendo una quantità significativa di acqua, si rigonfiano mantenendo sempre la loro forma di partenza e non si dissolvono in acqua a causa della presenza di legami crociati covalenti; gli idrogeli pH-sensibili rigonfiano in funzione del pH del mezzo in cui sono dispersi;

 polimeri idrofili solubili (erodibili), risultano essere reticolati ma non in modo stabile. I legami crociati si rompono per semplice rigonfiamento a temperatura ambiente. Inizialmente il comportamento è quello di un idrogel reticolato, poi, raggiunto un certo rigonfiamento, tende a dissolversi.

Poiché gli idrogeli sono materiali idrofili, essi sono formati da monomeri idrosolubili. L’elevato peso molecolare della matrice polimerica ne impedisce la dissoluzione e ne garantisce il rigonfiamento. Gli idrogeli non sono pertanto una famiglia di polimeri con simili proprietà chimiche, ma piuttosto materiali con caratteristiche simili.

La capacità di rigonfiarsi non dipende soltanto dal tipo di momomeri che compongono il polimero, ma anche dalla natura e dal numero di molecole reticolanti.

L’elevato contenuto di acqua rende gli idrogeli morbidi e flessibili, tali da

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contaminanti, come per esempio, monomeri o iniziatori. Per questo gli idrogeli devono essere estensivamente purificati prima dell’impiego.

Le proprietà meccaniche degli idrogeli sono di particolare importanza per lo sviluppo di sistemi che devono essere impiegati per uso medico o farmaceutico, in quanto devono resistere senza frammentarsi.

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2.4 Sistemi polimerici mucoadesivi

In campo farmaceutico l’adesione di un sistema ad un sito biologico (inteso come tessuto epiteliale o rivestimento mucoso), definito mucoadesione, è un fenomeno interfacciale che avviene generalmente in presenza di acqua. L’adesione di un polimero a una superficie epiteliale si può considerare come l’interazione di una serie di gruppi, carichi o neutri, presenti sulle sue molecole

con parti del tessuto, seguita dalla formazione di legami non covalenti. I polimeri mucoadesivi dovrebbero possedere una flessibilità capace di

penetrare nello strato mucoso, essere biocompatibili, non tossici e avere dei costi non elevati. [6]

Esistono diversi sistemi di classificazione dei polimeri adesivi.

Park and Robinson suddivisero i polimeri aderenti agli epiteli mucosi in tre

categorie: polimeri che diventano adesivi in presenza di acqua; polimeri che aderiscono attraverso interazioni non specifiche, non covalenti (elettrostatiche, legami idrofobici e legami a idrogeno) e polimeri che si legano a siti recettoriali specifici sulla superficie cellulare. [7]

Un’altra classificazione può invece essere fatta sulla base dell’evoluzione dei polimeri. La prima generazione di polimeri mucoadesivi poteva essere suddivisa in tre classi: polimeri anionici, caratterizzati dalla presenza di gruppi funzionali carbossilici e solfato. Questi polimeri presentano generalmente una bassa tossicità e tra questi troviamo PAA (acido poliacrilico reticolato o non) ed esteri semisintetici della cellulosa (HEC, HPC, HPMC, NaCMC …). La seconda

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classe è data dai polimeri cationici, rappresentati principalmente da N-derivati del chitosano, mentre l’ultima è data dai polimeri non-ionici.

Il principale svantaggio dei polimeri di prima generazione risiede nel fatto che essi formano legami adesivi non specifici e quindi la mucoadesione poteva avvenire anche in siti non considerati il bersaglio della formulazione. La nuova generazione di polimeri mucoadesivi, definiti “cytoadhesives” (adesivi alle cellule), presenta una specificità di legame ed è meno suscettibile al turnover del muco poiché formano legami specifici con la mucosa. Questa classe è rappresentata da lectine e da polimeri tradizionali ai quali vengono aggiunti sinteticamente gruppi tiolici (chiosano-imminotiolano, PAA-cisteina, …).[6]

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3. DESCRIZIONE DEI POLIMERI STUDIATI

3.1 Farina di Konjac

L´Amorphophallus konjac è una pianta erbacea perenne (Fig.1) originaria dell´estremo est asiatico, dove oggi è diffusamente coltivata per la produzione di glucomannano.

Il genere Amorphophallus, della famiglia delle Araceae è costituito da circa 200 specie provenienti dall’Asia e dall’Africa tropicali, alcune delle quali rientrano tra le più spettacolari piante con fiore.

Fig.1 Immagine di Amorphophallus konjac

L´Amorphophallus konjac cresce prevalentemente in aree montuose (300-800 metri s.l.m.) e predilige terreni acidi e ricchi in sostanze organiche che accumula nella radice. La pianta si sviluppa da un tubero che ha la forma di una mela gigantesca e può raggiungere parecchi chili di peso.

Dalla radice tuberosa della pianta (Fig.2) si ricava il fitocomplesso, costituito da 2/3 di glucomannano e da 1/3 di amido, oltre a lignina, cellulosa e altre fibre, che

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vengono però perse durante l´estrazione e la purificazione del glucomannano. Il glucomannano purificato si presenta sottoforma di polvere cristallina biancastra con sapore caratteristico e odore lieve.

Fig.2 Immagine della radice tuberosa di Amorphophallus konjac

Il glucomannano è un polisaccaride ad alto peso molecolare costituito da molecole di glucosio e mannosio con legami glucosidici (β-D- 1,4), la proporzione tra i due zuccheri è di 1 a 1.6. La catena principale di glucosio e mannosio presenta diverse ramificazioni in posizione 3 e sarebbe insolubile in acqua se non fosse per la presenza del 5-10% dei residui acetilati. [8]

La sua caratteristica è quella di assorbire un'alta quantità di liquidi (100 volte il suo peso), rigonfiandosi a una massa gelatinosa senza scindersi ed aumentando enormemente il suo volume.

Il glucomannano è generalmente utilizzato nell'industria alimentare come gelificante, addensante, emulsionante, stabilizzante e fonte solubile di fibra nei prodotti da forno, bevande, caramelle, sughi e molti altri prodotti confezionati e congelati.

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Le attività del fitocomplesso riconosciute sono: regolatore dell’assorbimento di zuccheri e grassi, saziante, regolatore dell’indice glicemico, blando lassativo.

3.2 Cuticola di Psillio

Psyllium è il nome comunemente utilizzato per identificare varie piante, membri del genere Plantago. Lo psillio in uso nella medicina tradizionale è ottenuto dalla pianta officinale Plantago psyllium (Fig.3), appartenente alla famiglia delle Plantaginaceae, originaria della regione mediterranea e coltivata nelle zone asiatiche, soprattutto Iran e India. E’ una pianta erbacea annuale con caule ridotto o accorciato, ha foglie allungate opposte o verticillate. I fiori sono bianchi, raggruppati in spighe rade con brattee corte. I semi sono ovali lunghi 2-3 cm, lisci al tatto e di color marrone scuro; la faccia ventrale è attraversata da una depressione lineare biancastra.

Fig.3 Immagine di Plantago psyllium

La parte farmacognosticamente importante è il seme essiccato. In esso si trovano principalmente carboidrati (70%) ma anche sostanze lipidiche, proteine, steroli,

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La mucillagine, costituita principalmente da arabinosio e xilosio, è formata da una catena di residui β- (1,4) xilopiranosici altamente ramificata; i residui di arabinosio e xilopiranosio sono legati alle posizioni 2-3 della catena di xilopiranosio, inoltre sono presenti residui di ramnosio e acido D-galatturonico. [9]

Le proprietà farmacologiche dello psillio sono dovute essenzialmente al suo

contenuto di mucillagini, composti che in presenza di acqua rigonfiano. Per questo i semi di psillio (Fig.4), assunti con elevate quantità di acqua, vengono

usati come lassativi non irritanti nella costipazione cronica, inoltre trovano impiego nel trattamento di eczemi e pruriti per le proprietà emollienti e lenitive delle loro mucillagini. Inoltre lo psillio riduce la sensazione di fame e quindi l’assunzione di cibo riducendo lo svuotamento gastrico.

Alcuni studi lo segnalano come ipoglicemizzante con effetto metabolico, anche se sconsigliato nel diabete insulinodipendente in quanto riduce l’effetto dell’insulina. Anche l’effetto ipocolesterolemizzante è stato confermato da

diversi studi. [10]

Sono state segnalate, seppure raramente, reazioni allergiche sia per ingestione sia per inalazione della polvere. È controindicato in pazienti affetti da stenosi pilorica e da occlusione o sub-occlusione intestinale, e va somministrato con cautela nel paziente portatore di megacolon.

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Fig.4 Immagini semi e cuticola di Plantago psyllium

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4.PARAMETRI CHIMICO-FISICI

4.1 La viscosità

Lo studio dei sistemi polimerici ha avuto grande sviluppo grazie alla reologia. Questa circostanza è legata soprattutto all’enorme importanza pratica che hanno le dispersioni polimeriche, ma anche al fatto che i polimeri sono assimilabili a sistemi modello, per cui, cambiando in modo appropriato certe loro caratteristiche di architettura molecolare, è possibile variare e controllare le loro proprietà reologiche.

Sotto il nome generico di fluidi polimerici sono compresi sistemi molto diversi, che vanno da sistemi poco viscosi, come per esempio le soluzioni di polimeri molto diluite, a materiali via via più rigidi, che si ottengono aumentando la concentrazione delle soluzioni. Comunque, in generale, i fluidi polimerici mostrano spesso forti effetti viscoelastici, tra cui pseudoplasticità, sforzi normali e comportamenti dipendenti dal tempo. Il fattore più rilevante che regola il comportamento reologico dei fluidi polimerici è la lunghezza della catena, oltre al fatto che le macromolecole possono facilmente subire distorsioni, anche quando sono sottoposte a flussi piuttosto lenti. Molto importante è anche la possibilità che le diverse catene formino dei legami temporanei, mediante forze intermolecolari, o permanenti, mediante reticolazione. Quando le catene sono abbastanza lunghe si formano poi associazioni intermolecolari, dette entanglement, che sono responsabili di fenomeni di elasticità. La reticolazione del polimero è responsabile della

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viscosità e della struttura del gel o idrogel. I polimeri idrofili tendono ad essere rivestiti da uno strato di acqua di idratazione, il che permette alle molecole del polimero di scorrere le une sulle altre, a basse concentrazioni, a causa della presenza di acqua. Viceversa, se il grado di idratazione è basso, le forze attrattive intermolecolari, quali legami ad idrogeno e forze di Van der Waals, formeranno legami secondari tra le molecole del polimero, diminuendo quindi la capacità di scorrimento.

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4.2 La bioadesione

Le diverse terminologie utilizzate per definire il concetto di adesione dipendono dal campo in cui il processo di adesione è implicato. L’adesione è stata definita come il legame di prodotto del contatto adesivo a una superficie (Fig. 5). [11] Si definisce bioadesione la capacità di due materiali, almeno uno dei quali di natura biologica, di aderire tra di loro per un periodo di tempo per effetto di forze interfacciali con conseguente diminuzione dell’energia superficiale del sistema. [12]

In campo farmaceutico l’adesione di un sistema a un sito biologico (inteso come tessuto epiteliale o rivestimento mucoso), definito mucoadesione, è un fenomeno interfacciale che avviene in presenza di acqua. In generale il fenomeno della mucoadesione si compone di due momenti: inizialmente si ha un intimo contatto tra il polimero idratato e la membrana, seguito dalla formazione del legame che si instaura principalmente attraverso tre tipi di interazioni: legami fisici o meccanici, legami chimici primari e legami chimici secondari.

I legami secondari, rappresentati da interazioni elettrostatiche, idrofobiche, ad idrogeno e di Van der Waals, si instaurano tra i gruppi reattivi del materiale adesivo e dello strato mucoso, e rappresentano i legami principali nel fenomeno della mucoadesione in campo farmaceutico. Le forze di Van der Waals sono una combinazione di due diversi effetti: forze di dispersione dovute al movimento degli elettroni interni e forze polari dovute all'orientamento dei dipoli elettronici permanenti. Le forze polari hanno un'importanza maggiore rispetto a quelle

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dispersive. Anche i legami a idrogeno tra i gruppi sul polimero e sul tessuto possono contribuire alla formazione del legame bioadesivo quando si usa un polimero idrofilo. I gruppi funzionali che formano legami a idrogeno, contribuendo all'adesione, comprendono quelli ossidrilici (-OH), carbossilici (-COOH), solfato (SO3H) e amminici (-NH2), presenti sia sul materiale bioadesivo che sulle glicoproteine del muco.

La mucoadesione è stata promossa come via per ottenere la somministrazione sito-specifica per molti farmaci poiché questo fenomeno comporta numerosi vantaggi:  Il farmaco, localizzato nel sito d’azione può migliorare e promuovere la sua

biodisponibilità; questa via è molto utile per i farmaci che hanno problemi a raggiungere una concentrazione efficace;

 L’utilizzo di specifiche molecole bioadesive permette il direzionamento in particolari siti, tessuti o organi;

 L’aumento del tempo di permanenza del principio attivo nel sito di somministrazione porta ad avere una riduzione del numero delle somministrazioni;

 Il farmaco viene rilasciato in una zona circoscritta con conseguente riduzione di effetti collaterali e di fenomeni antigenici.[6]

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4.2.1 Struttura e fisiologia del muco

Il termine muco si riferisce al prodotto altamente viscoso che riveste le superfici epiteliali di molte parti del corpo come occhio, naso, bocca, tratto gastro-intestinale e genitale. La funzione principale è quella di proteggere la mucosa dall’azione di corpi estranei e sostanze dannose, grazie alla capacità di intrappolamento e da danneggiamenti meccanici dovuti agli sforzi di taglio sull’epitelio, grazie all’azione lubrificante. [6]

Il muco è composto principalmente dal 95% di acqua, 1% di sali inorganici, 0,5-1% di proteine e 0,5-0,5-1% di lipidi e mucine (glicoproteine). La composizione del muco varia notevolmente in base alla specie animale, alla collocazione anatomica, all’età, al sesso e alle condizioni patologiche o normali dell’organismo.

Le mucine sono una famiglia di proteine altamente glicosilate con catene laterali di carboidrati; gli attacchi sono costituiti in modo predominante da legami O-glicosidici tramite gli aminoacidi. La sequenza aminoacidica ed i vari gruppi oligosaccaridici connessi all’ossatura principale determinano la conformazione della catena proteica; la loro struttura appare flessibile e filiforme.

Una quantità compresa tra il 70 ed il 90% in peso della glicoproteina consiste di carboidrati. Ci sono cinque carboidrati principali che compongono la catena laterale: N-acetilgalattosamina (galNAc), nei punti in cui gli zuccheri si collegano ai gruppi ossidrilici sui residui di serina e treonina della catena proteica principale; galattosio (gal); acetilglucosamina; fucosio; e acido N-acetilneuramminico (sialico). Ogni catena laterale mostra dai due ai venti

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residui ed è composta alternativamente di gal e glcNAc con fucosio e acido sialico come zuccheri terminali. Le catene laterali possono essere lineari o ramificate.

Il denso rivestimento zuccherino delle mucine conferisce loro una considerevole capacità di legare acqua e le rende resistenti alla proteolisi, fenomeno importante nel mantenimento delle barriere mucose.

La glicoproteina è legata in modo covalente ad altre sub-unità mediante legami di-solfuro intracatena. La presenza di legami non covalenti (legami ad idrogeno intercatena) stabilizza le altre unioni fisiche. Possono esistere altre interazioni non covalenti tra le catene laterali di carboidrati o tra queste catene ed il peptide costituente la glicoproteina.

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4.2.2 Fattori che influenzano la mucoadesione

In generale nelle preparazioni di formulazioni mucoadesive vengono utilizzati polimeri idrofili ad alto peso molecolare di origine naturale o sintetica.

Per valutare la capacità mucoadesiva di un materiale polimerico è necessario esplicitare le caratteristiche strutturali, i gruppi funzionali, il grado di interazione tra polimero e muco.

L’interazione tra i siti di legame presenti sul polimero e sulla glicoproteina sembra essere dovuta ai residui dei carboidrati, al tipo di interazione elettrostatica attraverso i gruppi dell’acido sialico, oppure al legame idrofobico con le molecole di fucosio presenti nella glicoproteina.

Un altro importante fattore che incide sulla forza mucoadesiva è il grado di idratazione: molti polimeri mostrano proprietà mucoadesive in presenza di una limitata quantità di acqua. Comunque in diverse situazioni l’adesione è pensata come il risultato di una combinazione di attrazione capillare e forza osmotica tra il polimero secco e la superficie mucosa umida che comporta la disidratazione e il consolidamento dello strato polimerico.

L’idratazione è essenziale per l’interpenetrazione delle catene polimeriche, l’eccesso di idratazione porterebbe alla diminuzione della mucoadesione con la formazione di una sostanza mucillagginosa: in questa situazione i legami crociati presenti all’interno del polimero non solo sono responsabili del grado di idratazione del polimero ma provvedono ad un prolungato effetto di adesione con lo strato mucoso.

Anche la componente strutturale del polimero influenza significativamente il grado di diffusione e di interpenetrazione delle catene polimeriche; molecole ad

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alto peso molecolare influenzano significativamente il legame muco adesivo, comunque lunghe catene polimeriche perdono la loro capacità di diffondere e interpenetrare nello strato mucoso. Inoltre è necessario considerare la forma e l’ingombro delle catene polimeriche. Il numero di legami crociati all’interno di un sistema polimerico influenza significativamente la mobilità delle catene e la resistenza alla dissoluzione. Ad esempio, il processo di rigonfiamento in un idrogel aumenta la superficie di interpenetrazione tra le catene del polimero e quelle del muco. D’altro canto, mentre il numero di legami crociati aumenta, diminuisce la lunghezza delle catene e la loro mobilità provocando una riduzione della forza di mucoadesione per la ridotta interpenetrazione delle catene polimeriche all’interno dello strato di muco. Anche la densità di carica delle macromolecole influenza la bioadesione e questa a sua volta è influenzata dal pH dell’ambiente fisiologico del sistema muco-polimero. I legami a idrogeno svolgono un ruolo importante nella mucoadesione: i polimeri anionici che presentano una densità di carica di gruppi -COOH e -OH hanno un’attività mucoadesiva maggiore rispetto a molecole neutre. [5] Secondo alcuni studi,

Park and Robinson [13] hanno dimostrato che è necessaria l’80% di

protonazione dei gruppi carbossilici di acidi acrilici per ottenere il fenomeno muco adesivo. Inoltre per alti valori di pH la repulsione tra i gruppi funzionali – COO- cambia la conformazione spaziale passando da uno stato a elica ad uno stato rigido in cui le catene hanno la possibilità di diffondere nel sistema mucoso. Infine, la concentrazione del polimero ha mostrato una relazione con la forza di mucoadesione: esiste infatti una concentrazione ottimale in base allo stato fisico delle formulazioni. Nello stato semisolido esiste una concentrazione

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ottimale per ogni polimero, oltre la quale l’adesione si riduce poiché un minor numero di catene sono disponibili per l’interpenetrazione con la mucosa. Diversamente, le forme solide, nelle quali le catene polimeriche non sono state idratate, mostrano una forza adesiva maggiore influenzata dalla concentrazione del polimero. [6]

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4.3 Bagnabilità e angolo di contatto

Quando una goccia di un liquido viene posta su una superficie solida, le molecole del liquido saranno soggette a delle forze tali da far assumere alla goccia una forma caratteristica: il liquido tenderà a contrarsi, assumendo la minima estensione di superficie libera compatibile con il volume del liquido stesso e con le varie forze esterne, come l’adesione o la forza di gravità. Le molecole di liquido che si trovano sulla superficie hanno un’energia potenziale maggiore di quelle che si trovano all’interno. Il rapporto tra l’energia potenziale posseduta dalla superficie libera di un liquido e la sua area viene detta tensione superficiale, la quale dipende dalle forze di coesione delle molecole all’interno della goccia. Più intense sono le forze di coesione tra le molecole del liquido e maggiore sarà la tensione superficiale del liquido stesso.

Si definisce come bagnabilità la capacità di un liquido di distribuirsi sulla superficie di un solido tenendo di conto della tensione superficiale del liquido, del solido e quella dell’interfaccia solido/liquido.

La bagnabilità si esprime in funzione dell’angolo di contatto (θ), definito dal piano della superficie solida e dalla tangente all’interfaccia liquido/aria nel punto di contatto con la superficie solida.

L’equazione di Young mette in relazione l’angolo di contatto con le varie forze che entrano in gioco: tensione superficiale del solido-aria, tensione superficiale della goccia del liquido-aria e la tensione interfacciale tra solido e liquido (Fig. 6):

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γsa = γsl + γla cos θ

dalla quale si ricava

cos θ= γsa - γsl / γl

L’angolo di contatto può variare da 0° (cos θ=1) a 90° (cos θ=0) fino a quasi 180° (cos θ= -1).

Dalla formula risulta che per avere una buona bagnabilità si devono avere valori di cos θ vicini all’unità, che si ottengono con angoli di contatto vicini a zero; più è acuto l’angolo e maggiore sarà la bagnabilità, mentre un angolo ottuso corrisponde a una bagnabilità molto bassa.

Secondo le varie condizioni potremmo ottenere una bagnabilità completa, parziale o una non bagnabilità: il primo caso è dovuto ad una tensione superficiale del liquido bassa, a una bassa tensione interfacciale e una grande superficiale del solido. La bagnabilità parziale si ha quando la tensione interfacciale è troppo grande o quando la tensione superficiale del solido è troppo bassa e il liquido non si spande completamente sul solido, quando la tensione superficiale è molto elevata e si eguagliano la tensione solido-aria con quella liquido-aria si parla di non bagnabilità.

Fig.6 Rappresentazione delle forze interfacciali coinvolte nella bagnabilità di un liquido posto su di

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