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DUE GENERI IMMORTALI: LA FAVOLA E LA FIABA 1

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DUE GENERI IMMORTALI: LA FAVOLA E LA FIABA

LA FAVOLA

La favola è un genere letterario piuttosto inattuale soprattutto dal punto di vista della critica. A partire dai primi decenni del secolo scorso, gli studi del formalista russo Vladimir Ja. Propp hanno orientato l’attenzione verso la fiaba. È risultato così abbastanza facile confondere i due generi, non solo fra di loro, ma anche con la tradizione popolare e folclorica. Per queste ragioni sembra necessario definire i due generi letterari ripercorrendo la loro storia dalle origini ai giorni nostri. La favola è un genere universale che ha trovato consensi in ogni età e gruppo sociale, tuttavia non è una forma semplice. Da sempre, i critici hanno faticato a definirne le origini lontane e imprecisabili, a fissarne i testi, a distinguerne gli apparentamenti con forme letterarie in parti simili. Per Ben Edwin Perry1 la favola è una finzione che afferma una verità generale di tipo etico, raccontando una sola azione del passato attraverso caratteri specifici. Si differenzia dunque da aneddoti storici, racconti eziologici e miti che cercano di documentare un evento reale o spiegare un mistero naturale; proverbi che generalizzano al presente un situazione tipo; allegorie che utilizzano personificazioni di concetti astratti; enigmi, miti e fiabe che possono risultare morali loro malgrado. Peter Hasubeck2 sostiene invece che la favola presupponga la presenza di animali, piante e oggetti metaforici, al contrario delle parabole e dei miti, i quali mostrano uomini e divinità, e delle fiabe e delle storie di animali le quali sarebbero prive della volontà didattica e del tono critico e satirico. A conclusioni diverse e discutibili, giunge David Lee Rubin3, convinto che il genere favola debba essere specificato secondo tre diverse modalità di ragionamento,

1 PERRY 1959, pp. 17-37. 2 HASUBECK 1982, pp.43-57. 3 RUBIN 1991, 35-40.

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sostiene che: la favola allegorica sia frutto di un ragionamento deduttivo, il quale presenta astrazioni personificate applicate all’esperienza concreta, ragionando dal generale al particolare; la favola esemplare deriverebbe invece da un ragionamento induttivo capace di individuare un tipo o un esempio per indicare una classe d’individui capaci d’identificarsi in esso attraverso la rappresentazione di particolari precisi; il ragionamento analogico invece sottolinea la somiglianza nella dissimiglianza in due modi: quello intergenerico, il quale produce la favola in senso tradizionale, connettendo gli uomini agli animali, e quello intragenerico, il quale produce una parabola legando personaggi dello stesso genere in situazioni tanto diverse da dover indovinare la relazione.

Alla base di questa ipotesi c’è un’idea estesa di favola, la quale si differenzierebbe in base ad elementi strutturali e funzionali. Così prendendo in considerazione il valore didattico esisterebbero: favole assertive che espongono un’idea semplice sul modello esopico, favole dialettiche quando un singolo racconto deve essere letto all’interno di un micro-gruppo per chiarire l’asserzione, e problematiche quando vengono posti in rilievo i dubbi e le ambiguità. Morten NØigaard4 cercando di giungere ad una

semplificazione strutturale, ha sottolineato la forma binaria di un’interpretazione, in cui un personaggio generalmente debole compie una scelta morale che un altro, più forte, valuta solo nella replica o nell’azione finale, meritando la simpatia del lettore. Questa lettura giudicata troppo dogmatica da Gert Jan van Dijk5 è stata rielaborata da Hasubek6 nel tentativo di mostrare come i due protagonisti, o gruppi rivali, rappresentino due diversi punti di vista a confronto durante tutto lo svolgimento della favola, dalla situazione iniziale fino alla conclusione. Per NØigaard la morale può

essere paradigmatica, quando enuncia in forma impersonale una verità esistenziale, parenetica se è presente un’esortazione al lettore, sarcastica qualora venga specificata una categoria di individui ai quali è indirizzata la favola.

La favola ci appare un genere soggetto a molteplici definizioni, Pierre Brunel7 lo definisce “doppio”, in quanto composto da una parte narrativa e da una riflessiva e perché soggetto ad un’interpretazione allegorica. Questa interpretazione ha

4 NØIGAARD 1964. 5 DIJK 1997.

6 HASUBEK 1966, pp. 185-198. 7 BRUNEL 1996, pp. 9-19.

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accomunato la favola al proverbio, perché entrambi esprimono un concetto attraverso un’immagine tratta dall’esperienza. Tuttavia, mentre il proverbio presuppone un mondo in cui ogni situazione viene valutata in un bilancio definitivo e rassegnato, la favola presenta un mondo continuo in cui bisogna affrontare situazioni analoghe a quelle esemplificate. Per questo è considerato un genere prolettico e didascalico, capace di orientare l’intelligenza pratica dell’uomo. La distinzione fra favola e proverbio non è stata sempre così chiara, Girolamo Bargagli8 considerava il proverbio una sorta di evoluzione figurativa dell’apologo:

La favola ancora, di quella che si chiama apologo, come è il far parlare gli animali e le cose inanimate, ha tal similitudine col proverbio che molti proverbi sono tratti da quella9.

Perry sostiene invece l’anzianità del proverbio in base alla maggiore semplicità, mentre NØigaard critica il pregiudizio romantico e folclorico ottocentesco che

considera recentiores le forme più complesse. Francisco Rodriguez Adrados10 mantiene ben distinti i due generi per analizzare sia le caratteristiche strutturali che le peculiarità grammaticali di ciascuno; al contrario della favola, nel proverbio compare un solo personaggio ed è frequente l’impiego dell’indefinito “chi” (“chi asino nasce, asino muore”), e degli articoli determinativi (“quando il gatto non c’è i topi ballano”, “la volpe perde il pelo non il vizio”), i quali presuppongono il riferimento analettico a qualcosa di già conosciuto. Il proverbio fa “credere a credito”11 un’opinione comune, mostrando una “ragione pigra”12 incapace di formulare ragionamenti astratti, gli studiosi tendono così a metterne in evidenza la limitatezza e l’insufficienza didattica.

Più complesso è il rapporto con la fiaba, la quale, a differenza della favola, ha conosciuto una grande fortuna critica nel secolo scorso. La studiosa Marianne Thalmann13 ritiene che alla fiaba vada riconosciuto il merito di aver conciliato l’inverosimile armonia fra interiore ed esteriore, uomo e natura, religione e scienza,

8 BARGAGLI 1982. 9 Dialogo de’ giuochi, 1572. 10 ADRADOS 1999. 11 ESTIENNE 1566. 12 Ibid.

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auspicata dal razionalismo cartesiano, lasciando così alla favola l’arduo compito di insegnare all’uomo le verità sul mondo.

La favola dalle origini classiche

alle rielaborazioni medievali e rinascimentali

Per la ricostruzione della storia della favola partiamo da colui al quale è attribuita la paternità del genere, Esopo. Non sono molte le notizie sull’autore ma una coppa attica a fondo nero con figure rosse, conservata nei Musei vaticani, sembra mostrare un ritratto di Esopo; un uomo brutto, con naso e fronte molto pronunciati che contrastano in maniera evidente con il corpo estremamente piccolo. Questa non è la sola rappresentazione grottesca dell’autore greco, una statua conservata a villa Albani a Roma e intitolata Ritratto di Esopo, mostra le stesse caratteristiche.

L’enfasi con cui vengono rappresentati i tratti peculiari di un’etnia caratterizzava la rappresentazione della diversità e della condizione servile, lasciandoci intuire che l’autore vissuto a Samo durante il VI secolo a. C. fosse in realtà d’origine tracia o frigia e quindi straniero.

Nel tentativo di definire le caratteristiche delle sue favole, è utile riportare l’episodio iniziale della versione greco-bizantina della Vita attribuita a Massimo Planude14 (XIII-XIV sec.), al quale si deve la maggior parte delle informazioni sul favolista greco. Il dotto narra che Esopo servendosi di un po’ di acqua calda riuscì a dimostrare la falsità e la colpevolezza di coloro che lo accusavano di aver mangiato alcuni fichi del padrone. Da questo racconto emerge tutta la saggezza di Esopo legata alla metis, cioè all’astuzia tipica degli animali protagonisti delle sue favole. L’impiego degli animali oltre a tipizzare vizi e virtù degli uomini, può essere attribuito ad una percezione arcaica e primitiva di se stessi.

14 Massimo Planude nacque e morì a Nicomedia, rispettivamente nel 1225 circa e nel 1305. Fu un dotto e un monaco bizantino che visse e operò sotto i regni di Michele VIII Paleologo e Andronico II Paleologo.Scrisse numerose opere, tra queste ricordiamo: un libro di grammatica greca in forma di domanda e risposta, gli Erotemata di Moscopulo, con un'appendice sul cosiddetto verso politico; un trattato sulla sintassi; una biografia di Esopo e una versione in prosa delle sue favole.

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Questi racconti sembra che giungano in Grecia dall’area assiro-babilonese, come mostra la presenza di coccodrilli, scarabei e gatti, o addirittura da quella indiana che ha prodotto il Panchatantra15.

L’insieme delle favole esopiche viene ricostruito attraverso versione anonime o di autore noti, sia in lingua greca da Babrio e Aftonio, sia in lingua latina da Fedro e Aviano. Le tre edizioni anonime più affidabili ma di datazione incerta sono: l’Augustana composta da duecentotrentuno favole, alle quali ne vanno aggiunte altre centoquarantatré presenti in parafrasi; la Vindobonese costituita da centotrenta favole e l’Accursiana (dalla prima versione a stampa di Buono Accorsio) o Planudeana (dal supposto compilatore Massimo Planude) formata da centoventisette favole.

La favola fa il suo debutto nella letteratura latina nel I secolo d. C., contemporaneamente continua a circolare oralmente e a sopravvivere nei volgarizzamenti popolari sul tipo del Romulus16. Il nome latino fabula o fabella è

connesso all’idea del discorso parlato, derivando dal greco phemi e dal latino fari, o meglio fabulor –ari che significa “conversare”. Una diversa etimologia è proposta dall’Oxford English Dictionary secondo il quale la parola deriverebbe dal termine inglese di origine sconosciuta fib che significa “fandonia”, “bugia”. Jan M. Ziolkowski17 ha osservato che queste definizioni, sottolineando l’aspetto finzionale del genere, hanno creato una certa confusione, infatti sono state annoverate sotto lo stesso termine opere molto diverse, dai fabliaux comico-erotici medievali ai Viaggi

di Gulliver di Swift.

Per fare chiarezza sulle forme e sulla definizione del genere prendiamo in considerazione i prologhi ai cinque libri delle favole di Fedro.

Nato intorno al 15 a. C. in Tracia o in Macedonia, cresce a Roma come schiavo, e inizia a scrivere favole sotto l’imperatore Tiberio, firmandosi come Augusti libertus.

15 Il Panchatantra è la più famosa raccolta di favole indiana e probabilmente anche la più antica. Si compone di un racconto-cornice sul quale si innestano settanta favole che veicolano precetti di morale utilitaristica. La prosa è intercalata da strofe in versi generalmente di contenuto morale e didascalico. Il racconto-cornice narra di un re indiano che affida i suoi tre figli alle cure del saggio brahamano Visnusarman il leggendario autore del Pañchatantra, perché li educhi. A tal fine compone i seguenti cinque libri: La separazione degli amici, Il modo di acquistare gli amici, La guerra e la pace dei corvi e dei gufi, La perdita di ciò che si è acquistato, Le opere fatte sconsideratamente.

16 Il Romulus è una raccolta di favole esopiche nota nel sec. XII, il nome deriva dal suo compilatore il quale diede una libera versione latina di circa sessanta favole tramandate dai manoscritti.

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Nel prologo del primo libro Fedro riconosce la forte influenza di Esopo al quale si ispira per numerose favole trasposte in senari giambici per ottenere un testo tanto piacevole quanto educativo. Nel prologo del secondo libro inizia a prendere le distanze dal suo predecessore, sostenendo il valore di un genere indipendente dai modelli e capace di accogliere elementi nuovi e originali, nel segno della brevitas; tuttavia nell’Epilogo si definisce secondo cultore della favola dopo Esopo, del quale si professa emulo non invidioso. Nel prologo del terzo libro Fedro si trova costretto a scusarsi con coloro che si sono sentiti colpiti da alcune delle sue favole, precisa che nei suoi racconti non è presente alcun riferimento a fatti e persone, e chi si fosse sentito rappresentato dovrebbe accusare la propria sporca coscienza, poiché il suo unico obiettivo è descrivere i costumi degli uomini in generale. Profondamente colpito da questo episodio Fedro formula un’ipotesi socio-genetica della favola presentata come il genere grazie al quale gli oppressi possono protestare contro le ingiustizie dei potenti.

La schiavitù, sempre soggetta al potere, poiché non osava dire quello che voleva, trasferì i propri sentimenti in favolette, e inventando storielle scherzose, evitò di essere falsamente incriminata. Io quel sentiero, l’ho fatto diventare una strada, e ho inventato più storie di quante lui non ne abbia lasciate, anche se alcuni soggetti che ho scelto mi condussero alla rovina.18

Sembra che dalle sue favole emerga il desiderio di vedere la vita dal punto di vista dei ceti più bassi, e anche se questo desiderio non conduce ad alcuna soluzione, nelle sue opere si legge la voglia di affermare che la libertà deve essere raggiunta ad ogni costo. Nel quarto libro Fedro mostra solo preoccupazioni letterarie, concentrandosi sulle qualità estetiche della sua opera di genere antico, ma di argomento nuovo. Nel quinto libro sebbene dichiari orgogliosamente di aver adoperato il nome di Esopo come etichetta per proteggersi dai detrattori, nulla è tolto al merito di un Fedro ormai anziano, al quale riconosciamo l’eleganza e la brevità del dettato, il carattere satirico della materia e le finalità didattico-morali.

L’obiettivo di Fedro è dare dignità letteraria al genere favola, perché desideroso di gloria. Rispetto ad Esopo le sue versioni delle favole risultano più didattiche perché

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spesso la morale è prolettica, e più letterarie grazie all’adozione del verso e all’uso di aggettivi che precisano le scene; Fedro consegue dunque la propria originalità allontanandosi progressivamente dal modello esopico.

Anche se nel Medioevo si persero nome e memoria di Fedro, la sua eredità letteraria si diffuse a macchia d’olio a partire dal X secolo d. C. così come mostrano alcune raccolte che entrarono nel normale cursus studiorum degli studenti: l’Esopo

di Wissembourg (inizio X sec.), le Fabule antiquae di Ademaro di Chabannes e il Romulus pervenutoci attraverso numerosi rifacimenti. Il Romulus è una silloge di

favole in prosa in lingua latina del IX secolo. L’autore della maggior parte delle favole esopiche era considerato, invece di Fedro, un certo Romolo (in lingua latina

Romulus) che, come dichiarato nel testo, avrebbe tradotto dal greco le favole di

Esopo per farle conoscere al figlio Tiberino. Romulus dava pertanto il nome alla silloge di favole in prosa messa insieme forse nel IX secolo partendo da manoscritti di Fedro a noi ignoti e che probabilmente contenevano numerose aggiunte. Il

Romulus si presentava in tre versioni: Il Romulus Ordinarius (Romulus Vulgaris)

risalente probabilmente al IX secolo; Il Romulus di Vienna e il Romulus di Nilant (o

Anonimo Nilanti). Dalle suddette opere in prosa vennero generate alcune opere in

versi: Novus Aesopus di Alexander Neckam del XII secolo; il Romulus di Nevelet, l’Aesopus di Ademaro di Chabannes; il Romulus Roberti, le cui prime quattro favole provenivano dallo Speculum historiale di Maria di Francia. La favola esopica è rimasta vigorosamente viva per tutto il Medioevo ed ha fornito il suo contributo per lo sviluppo della narrativa breve. In ambito latino questo influsso si manifesta nei

Ridula, i quali chiaramente modellati sulle favole di Fedro, sono i più antichi

tentativi di racconti in versi inseriti nei Carmina cantabrigensia del XI secolo. In ambito volgare l’influsso della tradizione esopica appare ancora più determinante; in Francia, per esempio, le favole esopiche sono state tradotte in lingua d’oïl sotto il nome di Isopet (< Esopus), per renderle accessibili anche agli illetterati.

Alla tradizione esopica appartiene anche un’ulteriore opera che rinnova il genere dell’apologo zoomorfico, l’Esope di Marie de France. Si tratta di una raccolta di centocinque favole, composte fra il 1170 e il 1180 su invito del «cunte Willame» L’autrice sembra derivare le sue favole non tanto da una raccolta latina, ma alcune da

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una traduzione medio inglese di uno dei molti rifacimenti del Romulus nilantii risalente al XII secolo, ed altre dalla tradizione popolare e folclorica; in più ne inserisce alcune ex novo, le quali sembrano collocarsi perfettamente nel contesto, grazie alla «straordinarietà dei toni»19. Anche nelle riprese esopiche l’autrice mostra grande autonomia: rimaneggia la morale tradizionale, rinnova il senso delle storie adattandole alle prospettive del mondo feudale (gli apologhi esopiani diventano lucide riflessioni sul potere e sulle sue leggi), vivacizza i canovacci favolistici e i dialoghi e modifica i ruoli dei personaggi; dà vita ad un processo di riadattamento delle favole, le quali diventano strumento per capire le contraddizioni dell’Inghilterra anglonormanna, e veri e propri exempla.

I numerosi intrecci novellistici nei quali non sono presenti animali ma esclusivamente uomini, appaiono agli occhi di Carlo Donà come dei protofabliaux, per questa ragione Marie de France è considerata sia il maestro sia il più prolifico autore di questo genere. In questi testi colpisce il notevole scarto stilistico rispetto ai

lais, con l’impiego del genere comico e un modus narrandi diverso rispetto a quello

delle novelle cortesi.

Nell’Esope di Marie de France possiamo intravedere il processo grazie al quale, sul finire del XII secolo, «dall’antico tronco della favola esopica si diramano i fortunati rami dei fabliaux e dell’epica animalesca»20.

La seconda parte della raccolta contiene numerosi racconti estranei alla tradizione esopica «tutti di notevole pregio letterario e storico»21, alcuni di questi si rifanno ai temi presenti nell’Ysengrimus22 mediolatino, alle raccolte di origine orientale e alla tradizione folklorica del racconto di animali. All’interno di questa tradizione nasce in quegli anni il Roman de Renart attribuito a Pierre de Saint-Cloud, del quale non conosciamo nulla al di fuori del nome. L’autore derivò dal poema mediolatino

Ysengrimus. la materia per un lungo racconto in volgare destinato a raccontare le

avventure, tutt’altro che edificanti, della volpe Renart. L’Ysengrimus è un poema eroicomico in distici elegiaci, che prende il nome dal lupo che è il principale protagonista della vicenda, è frutto dell’opera di uno sconosciuto monaco di Gand

19 DONA’ 1997, pp. 310-340. 20 Ibid.

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noto tradizionalmente come Magister Nivardus il quale raccolse e ordinò fra il 1148 e il 1149 un gran numero di storie sul lupo, la volpe e altri animali, creando quella che rimarrà la cornice narrativa fissa: la contesa tra il lupo Ysengrimus, forte, avido e stolto e la volpe Rainardus che compensa la propria relativa debolezza con una eccezionale e spregiudicata sagacia La straordinaria capacità narrativa permise a questi racconti di fare subito storia. Negli anni successivi, infatti, altri autori celebrarono, secondo l’esempio di Pierre de Saint-Cloud, le discutibili e divertenti imprese della volpe in una collana di storie indipendenti le une dalle altre, ma reciprocamente interconnesse.

La favola medievale ha un forte impatto edificante così come quella classica, ma a differenza di quest’ultima, prima umanizza l’animale trasformandolo in una controfigura dei vizi e delle virtù, poi umanizza il lettore affinché possa verificare le conseguenze dei propri comportamenti nell’ampio commento finale. La favola, per queste ragioni, assume sempre maggiori tratti di verosimiglianza attingendo informazioni dal Fisiologo al quale si ispirarono i bestiari del XII e del XIII secolo. Il

Fisiologo è un’opera redatta ad Alessandria d’Egitto tra il II e il IV secolo d. C. da

autore ignoto contiene la descrizione simbolica di animali e piante (sia reali che immaginari) e di alcune pietre, i quali, presentati in chiave allegorica attraverso alcune citazioni delle Sacre Scritture rimandano a significati metafisici inerenti alle realtà celesti o il comportamento umano. La personificazione risulta tanto più credibile quanto più, trascurando i tratti zoologici molto stilizzati che identificano l’animale, viene applicata ad una caratteristica di ordine morale. Dunque l’uomo medievale apprende i fondamenti della propria istruzione morale nello zoo della favola.

In Italia, Giovanni Boccaccio nella sua Genealogia loda il carattere dimostrativo della favola, in grado di sollecitare la curiosità delle persone ignoranti. In effetti, «nel Medioevo le istruzioni per l’uso della favola si fanno sempre più dettagliate affinché la letteratura serva all’uomo comune nella vita di tutti i giorni».23

In questo contesto si inseriscono le favole del cosiddetto Esopo toscano, uno scrittore boccacciano di fine Trecento, di ambiente domenicano e inedito fino al secolo scorso. La novità delle sue favole risiede nella familiarità molto più marcata con il

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reale, infatti, la vera protagonista dei sui racconti è la società artigianale e commerciale della Toscana trecentesca, per la quale l’educazione coincide con la predicazione religiosa che riflette e insegna la quotidianità. La cultura del tempo richiede una letteratura didattica e allegorica così come mostra la stessa Commedia di Dante, nella quale s’inserisce un esempio di favola esopica, Il topo e la ranocchia, impiegata per illustrare la rissa tra Alichino e Calcabrina nel XXIII canto dell’Inferno.

Tra il 1490 e il 1493 Leonardo Da Vinci scrive cinquantaquattro favole inedite fino al XIX secolo, le quali meritano di essere ricordate perché, sebbene prescindano dalla tradizione greco-latina, propongono una morale laica basata sulla conoscenza naturale. Al centro delle favole troviamo lo scontro fra animali, piante, pietre, metalli e una natura enigmatica e ingannevole. Si tratta di racconti scientifici capaci di suscitare meraviglia e di spostare l’interesse dal noto all’ignoto per giungere all’interrogazione del caso e alla valutazione finale.

Agnolo Firenzuola opera nel segno del nuovo, e nella Prima veste de’ discorsi degli

animali adatta liberamente il Panchatantra indiano. Questo testo è stato scritto in

indiano nel II secolo a.C. e tradotto in arabo nell’VIII secolo come Kalila wa Dimna-

Calila e Dimna o Favole di Bidpai, il Panchatantra viene tradotto in latino intorno al

1280 dall’ebreo convertito Giovanni di Capua come Itinerario della vita umana. Firenzuola spostando l’ambientazione in Toscana presenta una struttura complicata, in cui le favole svolgono un ruolo accessorio, tuttavia gli va riconosciuto il merito di aver rielaborato apologhi di tono marcatamente politico fino ad allora poco noti. Nella Prima veste de’ discorsi degli animali si inseriscono venticinque favole e quattro novelle, raccontate da personaggi zoomorfici o umani, in una struttura a scatole cinesi del tutto nuova rispetto alla tradizione classica.

Un secolo dopo Emanuele Tesauro utilizza il materiale esopico in senso politico pubblicando la Politica di Esopo frigio, ovvero la traduzione de Les fables d‘Esope

phrygien di Jean Baudoin, ricca di discorsi morali, politici e filosofici. Per ogni

favola Tesauro inventa un aforisma sulle qualità del principe e sull’arte di regnare che riunirà in un opuscolo introduttivo intitolato Aforismi politici fondati sopra le

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competenze per sperimentare una nuova forma di scrittura allusiva. A tal fine, da una parte indugia nella descrizione psicologica dei personaggi, mentre dall’altra corregge questa dilatazione anticipando e isolando gli aforismi. La favola permette a Tesauro di affrontare l’argomento politico senza lasciarsi coinvolgere troppo, sfruttando il distacco che il genere garantisce.

Accanto ai tentativi di ammodernamento la storia della favola conosce anche esperimenti di rielaborazione conservativa. Nel Cinquecento il filologo Gabriele Faerno compone le Fabulae centum ex antiquis auctoribus delectae et a Gabriele

Faerno cremonensi carminibus explicatae, ovvero le Cento favole, compiendo

un’operazione di riscrittura in versi della tradizione esopica caratterizzata da equilibrio fra narrazione e morale e da un intento pedagogico secondo la volontà della corte pontificia di papa Pio IV. L’autore stesso, in una lettera del 1558 indirizzata a padre Onofrio Panvinio scrive che alle favole ha dato un’«economia» tale che «spesso anche le antique parono nove»24; l’”economia” a cui si riferisce Faerno non è altro che la ripulitura stilistica e ideologica della favola, interpretata in maniera sempre più soggettiva attraverso l’occhio polemico del pensiero protestante. Bartolomeo Camerario, sostenitore dell’educazione di tipo erasmiano tanto criticata da Lutero, mette in evidenza il duplice valore delle Cento favole, le quali coniugano il bello della letteratura all’utile della morale. L’efficacia pedagogica di quest’opera, inclusa nei programmi scolastici della Controriforma, è testimoniata da Silvio Antoniano che ne curò la prima edizione su incarico di Carlo Borromeo, al quale è dedicata. L’Antoniano ricorderà ancora l’opera del Faerno nei suoi Tre libri

dell’educazione cristiana dei figliuoli, un trattato destinato a diventare lo strumento

ufficiale dell’educazione cattolica dei ragazzi. In effetti, considerando che nel 1929 papa Pio IX citerà l’opera dell’Antoniano nella sua enciclica sull’educazione cristiana, possiamo dedurre che generazioni di studenti siano state educate con le favole nella versione del Faerno.

24 CERETTI 1953, p. 328.

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La favola secentesca di Jean de La Fontaine

Non possiamo parlare della favola senza ricordare Jean de La Fontaine, al quale si riconosce il merito di aver rilanciato un genere fino ad allora riservato all’interesse scolastico di eruditi e studenti, ed è stato il primo ad avvertire l’esigenza di elaborare una teoria della favola in grado di motivare un genere caduto in discredito nonostante le sue origini classiche.

Jean de La Fontaine nacque a Chateau Thierry nel 1621 da una famiglia borghese. Il padre, sovraintendente delle acque e delle foreste di Chateau Thierry lo spinse ad una carriera ecclesiastica dalla quale si allontanò dopo circa un anno per dedicarsi allo studio del diritto. A trent’anni il giovane La Fontaine, sposato e con un lavoro amministrativo che gli garantiva delle entrate, iniziò a dedicarsi alla letteratura approfondendo lo studio dei classici e di scrittori francesi e italiani di età medievale. Nel 1658 si trasferì a Parigi, dove si avvicinò a Nicolas Fouquet, un potente uomo politico al culmine del suo successo. Il potente mecenate suscitò ben presto le preoccupazioni del ministro Colbert e dello stesso Luigi XIV, i quali, sentendosi minacciati dalla sua fama, lo fecero arrestare nel 1661. La Fontaine, nel tentativo di difendere il suo protettore, compose L’elegie aux ninphes de vaux attirando a sé la rovina. Diventò allora gentiluomo servente di Madame d’Orleans di Lussemburgo prima, e di Madame de la Sablière in seguito. Quest’ultima lo introdusse in ambienti culturalmente stimolanti frequentati dai più brillanti ingegni dell’epoca, tra i quali Jean Racine, Molière e Madame de la Fayette. Nel 1683 diventa membro dell’

Accademie Française grazie alla sua vasta produzione, della quale consideriamo le Fables, pubblicate a Parigi nel 1668. Queste sono ispirate oltre che a Esopo e a Fedro

anche al Romulus, alle raccolte di exempla medievali, ai favolisti del XV e del XVI secolo e al Libro dei lumi attribuito all’indiano Bidpai:

C’è chi sostiene che questo libro abbia girato il mondo ancor più della Bibbia, visto che nel corso dei secoli è stato tradotto ovunque, dall’Etiopia alla Cina […] Di sicuro i racconti di Bidpai si ritrovano nella cultura popolare della maggior parte dei Paesi europei, almeno quanto in quella orientale. Alcuni sono stati modificati da La Fontaine […] e le favole di Esopo devono molto al

Kalila.25

25 WOOD 2007, p. 16.

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Le favole sono raggruppate in dodici libri molto diversi fra loro: i primi sei sono ancora legati al modello didattico e moralistico della favola destinata ai bambini; i rimanenti, pubblicati fra il 1679 e il 1694, presentano temi etico-politici più vasti. I personaggi mostrano la loro vera natura senza camuffamenti ed emerge tutta la simpatia che La Fontaine nutre per il popolo, lontano dall’ipocrisia degli altri ceti. La favola con La Fontaine raggiunge la grandezza grazie all’impiego di uno stile semplice, leggero e umoristico, con il quale l’autore posa il suo sguardo lucido sui rapporti di potere e sulla natura umana. In secoli in cui predomina la legge del più forte, i suoi animali antropomorfizzati sono lo specchio di una società in cui primeggia la cupidigia, la vanità, il capriccio, l’astuzia e l’opportunismo.

Sebbene il suo intento fosse quello di istruire divertendo, quella di La Fontaine è una rassegnata critica a una certa condotta dominante, le sue favole mostrano un autore consapevole del fatto che ognuno di noi agisce secondo la propria natura e che questa è una forza difficile da controllare. Il suo spirito inquieto trovò appagamento nelle teorie di Pierre Gassendi, le quali resero sempre più epicuree, scettiche e libertine la sua visione del mondo e della vita. Inoltre, attinse dalla grande lezione di Rebelais, infatti, le sue favole perpetuano una tradizione medievale di storie comiche e satiriche sui costumi sociali, in cui i protagonisti sono soprattutto animali. La morte è uno degli elementi più ricorrenti, che insieme al diritto del più forte e al senso di solidarietà e pietà verso gli infelici trova risoluzione in una delle morali più frequenti, e maggiormente riassuntive di tutta la produzione del favolista: l’accettazione completa della propria natura umana, che è difficile e praticamente impossibile mutare. Il coraggio, quando contrasta con l’ordine della natura, si risolve in una situazione ridicola e buffa, come il gonfiarsi della rana. Dunque la principale caratteristica dell’apologo lafontaniano è la presenza di bestie umanizzate che impartiscono sorridenti lezioni di vita in uno linguaggio tanto semplice quanto leggero.

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La favola settecentesca di Lessing

Gotthold Ephraim Lessing è stato un erudito, un filosofo, un teorico di estetica, un critico letterario e un drammaturgo. I suoi studi sulla favola mostrano il rifiuto dei costumi e delle regole tradizionali, i quali conducono alla riforma di un genere destinato a cadere nell’estetismo dopo il successo di La Fontaine.

Nel 1759 Lessing pubblica trenta nuove favole in tre libri e mostra la volontà di distinguersi dai modelli recenti rifacendosi direttamente ad Esopo, al quale attribuisce “la laconicità semplice e rigorosa che garantirebbe il valore euristico di un genere più filosofico che poetico”26.

La Fontaine e tutti i suoi imitatori provano l’esperienza del mio Uomo con arco27 che, non accontentandosi di un oggetto semplicemente levigato, vi fece

intagliare degli ornamenti da un artista di gusto esperto che disegnò una scena di caccia. Ma quando l’uomo vuole provare l’arco, questo si spezza. Colpa dell’artista o dell’uomo che utilizza ancora lo strumento per scoccare le frecce, mentre avrebbe dovuto appenderlo nell’armeria a nutrimento degli occhi? Impossibile sottoporre l’arco al compito precedente.28

A Lessing sta a cuore non tanto una questione di stile bensì di scopo della letteratura, Esopo è infatti il modello al quale ispirarsi per orientare la narrazione filosofica in senso morale. Nel 1759 pubblica i Trattati sulla favola, cinque saggi nei quali tratta vari aspetti caratteristici del genere: Delle caratteristiche essenziali della favola,

Dell’uso degli animali nella favola, Della classificazione delle favole, Della narrazione favolistica e Della particolare utilità delle favole nelle scuole. In queste

pagine giunge all’elaborazione di una chiara definizione della favola capace di mostrare i rapporti con i generi affini come l’emblema, l’indovinello, il dramma, la parabola e l’esempio.

Se noi riconduciamo una massima morale universale a un caso particolare, se conferiamo a questo caso carattere di realtà e lo trasformiamo in un’azione che fa cogliere con immediatezza e in modo intuitivo questa massima universale, allora la nostra invenzione si chiama favola.29

26 RODLER 2004, p. 7.

27 SCANNI 1990, p. 69. 28 RODLER 2004, p. 123. 29 Ivi. p. 81.

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L’obiettivo principale di Lessing è intrecciare con la letteratura la filosofia morale, nel tentativo di restituire dignità al genere. L’ideale stilistico della concisione rifletterebbe quello filosofico della comprensione intuitiva e della verità morale. Ogni «orpello» ostacola questo tipo di comprensione che invece è promosso dall’impiego di animali «tanto noti che la sola menzione del nome evoca un intero carattere, illuminando qualità che richiederebbero altrimenti troppe parole»30.

Nel secondo trattato affronta la questione dell’«azione», la quale deve essere evidente anche agli uomini poco istruiti, affinché possano trarne «istantaneo convincimento» e «decisa influenza sulla volontà»31. Ogni favola crea delle relazioni fra personaggi e azioni in grado di elaborare uno schema applicabile al quotidiano di ogni lettore, ciò spiega l’impiego di animali antropomorfizzati, collegati durante il XVIII secolo, alla fisiognomica, cioè la scienza che studia il rapporto fra anima e corpo, aspetto fisico e tendenze caratteriali attraverso lo studio comparato di uomini e bestie. Le fondamenta di questa dottrina sono attribuite ad Aristotele, il quale notando che gli animali manifestano le proprie caratteristiche fisiche e psicologiche in maniera più sincera rispetto agli esseri morali, senza alcuna alterazione o filtro, pone la zoologia alla base dell’etica. Lessing affronta la verosimiglianza delle figure zoomorfiche su un piano letterario, infatti «rispetto alla fisiognomica o alla querelle

des betes, la favola deve presentare animali parlanti in situazione, cioè liberi e

dinamici e non figurativamente allegorici»32. La favola zoomorfica fonda la sua forza sulla persuasività degli animali e sulla semplicità d’immagini efficaci ed evidenti che garantirebbero la comprensione etica della narrazione. Nel quinto ed ultimo trattato Lessing si occupa dell’impiego didattico di questo genere, ritiene che «la favola costituisca un utile esercizio di riduzione, richiedendo una conoscenza del particolare appresa anche attraverso lo studio dei modelli antichi»33. Del medesimo argomento si occupano anche altri filosofi, John Locke considera la favola un utile strumento per riempiere la mente dei bambini con buone lezioni di morale, contrariamente a Jean Jacques Rousseau che invece la detesta per le sottigliezze incomprensibili al pubblico infantile. In questo quadro Lessing assume una posizione intermedia e

30 Ivi. p. 121. 31 Ivi. p. 59.

32 RODLER 2004, p. 9. 33 Ivi. p. 17.

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giudica la favola «una sorta di strumento maieutico che attiva intuitivamente l’intelligenza morale latente nell’uomo»34. Dai trattati lessinghiani emergono anche, in modo involontario, i limiti e le contraddizioni del genere, «azione libera e determinismo fisiognomico, ragione universale e narrazione singolare, tendenza allegorica e tensione realistica»35. Tuttavia a Lessing va riconosciuto il merito di un’analisi che ha saputo affrontare le difficoltà dello zoomorfismo nel momento in cui si è sviluppata una sensibilità scientifica verso il mondo animale considerato autonomo rispetto all’uomo. A partire dal XIX secolo, nonostante i tentativi lessinghiani di rivalutazione della favola, questo genere sembra limitato alla letteratura didattica per l’infanzia e subordinato al meraviglioso della fiaba, sebbene ci siano significative eccezioni.

La favola nel XIX e nel XX secolo

Nell’Ottocento e nel Novecento la favola non ha vita facile perché subisce la concorrenza della fiaba e del romanzo, due generi anticlassici e quindi privi dei modelli e delle regole del passato. Fiaba e romanzo, in modo diverso, mostrano al lettore una realtà più complessa, stratificata e inquietante rispetto al passato, nella quale il comportamento deve fondarsi sulla reattività al nuovo in tutte le sue forme. Per il critico tedesco Harald Weinrich36 la favola ricercherebbe la verità morale atemporale sempre più introvabile in un mondo soggetto a continui cambiamenti economici, politici e sociali. La favola ottocentesca rimane un genere di retroguardia destinato ai bambini, prima degli ulteriori sviluppi novecenteschi che conducono allo straniamento della tradizione e alla “romanzizzazione” dell’apologo in forme nuove che includono elementi fiabeschi.

Tra il 1812 e il 1815 i fratelli Jakob e Wilhelm Grimm pubblicano i primi due volumi di Fiabe per bambini e famiglie destinato a diventare il punto di riferimento europeo della fiaba. Negli anni in cui i Grimm pubblicano le loro raccolte, l’eredità esopiana

34 Ivi. p. 18. 35 Ivi, p. 19.

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è accolta dal giornalista e drammaturgo russo Ivan A. Krylov, il quale ispirandosi al modello classico e a quello lafontainiano compone sette volumi di favole che sviluppano il genere in senso narrativo e popolare, in linea con il gusto letterario ottocentesco. Le favole di Krylov sono caratterizzate da una coloritura realistica che le separa dal modello francese, da uno stile parlato, frutto di una precisa scelta retorica, dall’inserimento di elementi folclorici; questi appaiono aspetti importanti ma secondari se consideriamo la qualità narrativa elementare e la fedeltà alla tradizione favolistica che determineranno lo straordinario successo europeo.

Nel Novecento la favola fornisce materiali ad una letteratura anticlassica, in questo periodo hanno una grande importanza gli autori che decostruiscono la tradizione, capovolgendone l’etica o frammentandone la struttura. Allo straniamento del repertorio esopico contribuisce anzitutto Trilussa, ossia il poeta romano Carlo Alberto Salustri che all’inizio del Novecento presenta una nuova versione capovolta de La cicala e la formica di Esopo. La novità della favola non consiste solo nella dissacrazione della morale, ma nella contaminazione di generi e nell’uso del dialetto romanesco. Trilussa usa lo stesso occhio deformante sia per leggere i classici che per guardare la realtà che lo circonda, in effetti attraverso la parodia e la caricatura, ovvero distorcendo e semplificando i comportamenti osservati, riesce a scrivere anche durante il periodo fascista.

Leonardo Sciascia propone un altro tipo di approccio nelle Favole della dittatura del 1950, una raccolta di ventisette brevi componimenti in prosa che descrive gli effetti della violenza in un mondo pieno di pregiudizi. Queste favole sono molto originali grazie all’uso della citazione e alla scelta dell’autore di procedere per sottrazione. La reticenza sospende il riferimento intertestuale creando delle favole poco semplici, nelle quali lo sforzo di semplificare la realtà produce soluzioni provvisorie, soggettive e arbitrarie; i forti continuano a schiacciare i deboli ma la denuncia della paura espressa dall’autore rinnova il valore della parola.

Il primo libro delle favole è una raccolta di centoottantasei racconti di Carlo Emilio

Gadda, ingegnere, poeta e uno degli scrittori che ha saputo rinnovare maggiormente la letteratura italiana del Novecento.

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Codeste favole, ciò è fave o vero minimissime favuzze […] sonsi accestite come le foglie pazze di un cavolo d’attorno il grumolino qual principiomi germigliar del capo a Panettopoli.37

L’autore usa queste parole per descrivere le sue favole, la cui spinta originalità induce l’autore a precisare sulla fascetta editoriale per Neri Pozza: «Stampalo grande: Favole per adulti, ché qualche padre non ti comperi il libro ad occhi chiusi per donarlo al suo figlioletto». Il titolo originario Favole diventò successivamente Il

primo libro delle favole, poiché l’esclusione da quest’ultimo di sedici racconti spinse

l’autore a meditare una seconda raccolta mai composta.

Nonostante l’opera fosse pronta per la pubblicazione già nel 1942 vide la stampa solo dieci anni più tardi a causa della stesura dell’introduzione, la quale si mostrerà fondamentale per la lettura e la comprensione dell’intera raccolta.

Il legame delle favole gaddiane con la tradizione del genere è presente nell’esigenza morale e nella necessità costante di un giudizio. Ogni racconto svolge una funzione dissacrante ed irrisoria, che unita alla patina fiorentina arcaizzante del linguaggio, sembra rispondere all’esigenza di una «presa di distanza da un’esperienza ancora bruciante»38. Inoltre, le favole offrono una chiave di lettura per comprendere a fondo «la produzione di più decisivo impegno»39 di Gadda. Claudio Vela40, curatore di una nuova edizione dell’opera, nel tentativo di ricercare ragioni più profonde nelle favole, ritiene che la novità di quest’ultime risieda nel compito loro affidato di «illustrare in rebus i procedimenti del modus operandi connaturato a Gadda»41. Il professor Emilio Manzotti ritiene che Vela sia rimasto comprensibilmente affascinato dalle scoperte che riservano le pagine gaddiane, le quali però non confermano quanto sostenuto dal curatore.

Nella produzione gaddiana, la semantica del termine favola si amplia notevolmente, tra gli impieghi più peculiari abbiamo la favola intesa come sogno e illusione, «Si compiaceva che altri ed altre avessero a poter raccogliere il senso vitale della favola illusi ancora, nel loro caldo sangue, a crederla verità necessaria»42, e ancora «Il 37 GADDA 1952. 38 MANZOTTI 2007. 39 Ibid. 40 GADDA 1952. 41 MANZOTTI 2007.

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mondo delle cosiddette verità, filosofò, non è che un contesto di favole: di brutti sogni. Talché soltanto la fumea dei sogni e delle favole può aver nome verità»43. Il termine favola è impiegato anche con il significato di bugia «Don Ciccio sudò freddo. Tutta la storia, teoricamente, gli puzzava di favola»44. Abbiamo anche la favola-favola intesa come narrazione di una porzione di realtà, la favola come esemplare forma linguistica o di pensiero, come “favilla” intellettuale diventata lingua intorno ad un frammento di realtà e come “atellana”, “fascennino” e “fava” le quali diventano strumento di calcolata licenziosità. Prescindendo comunque da questi impieghi, il termine favola è collegato in primo luogo alla semplicità, infatti quando è associato al romanzo diventa «favolone».

A partire dall’Ottocento e poi per tutto il Novecento si è assistito ad un fenomeno di ibridazione dei generi che ha visto la favola intrecciarsi con il romanzo. Michail Bachtin45 ritiene che il grande successo del romanzo sia dovuto al suo carattere inclusivo, plurilinguistico e indifferente alle regole classiche. Nel 1945 lo scrittore britannico George Orwell pubblica Animal farm. A fairy story, un romanzo distopico i cui protagonisti sono gli animali di una fattoria. In questo novel lo spirito della favola è rintracciabile nella semplificazione dei luoghi (la fattoria) e delle azioni (comandare e ubbidire), e nelle tipizzazioni della mentalità collettiva (il corvo addomesticato, Mosè, rappresenta la chiesa ortodossa perché assente durante la ribellione riapparirà nella fattoria dopo molti anni). Nella Prefazione alla traduzione ucraina del testo, Orwell spiega di aver cercato di rappresentare una vicenda socio-politica universale attraverso un caso particolare rielaborato sulla base dell’esperienza del linguaggio facilmente comprensibile dello zoomorfismo, proprio come Lessing suggeriva di fare.46

43 TERZOLI 2015, p. 473.

44 Ibid.

45 BACHTIN 1975. 46 RODLER 2007, p. 109.

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LA FIABA

La storia della fiaba s’intreccia a quella della favola a partire dall’etimologia del termine, anche se le sue origine sono molto più antiche. Le fiabe presentano un’innata contraddittorietà: i volumi che le raccolgono si riferiscono generalmente ad uno spazio preciso, il quale si rifà ad una localizzazione nazionale, regionale, sub-regionale o campanilistica, eppure, appena si cerca di interpretare una fiaba confrontandola con le altre il campo d’indagine si amplia vertiginosamente. Si scopre che lo stesso racconto esiste a migliaia di chilometri di distanza. Per questo motivo si è pensato ad un’origine comune, ad un’archi-favola dalla quale derivano le altre, attraverso un processo che ha conosciuto interferenze e contaminazioni di temi e motivi. Si potrebbe anche pensare ad uno sviluppo poligenetico che ha prodotto storie uguali o analoghe attraverso l’invenzione casuale, in luoghi diversi in base alla stessa capacità d’invenzione propria degli uomini. Già alla fine dell’Ottocento lo studioso francese Joseph Bédier, nel suo libro Les fabliaux. Etude de littérature

populaire et d’histoire lettéraire du Moyen Age47 criticava questa teoria delle

coincidenze accidentali, secondo la quale uno stesso racconto sarebbe stato inventato molte volte in luoghi diversi. Bédier osservava che effettivamente può essere verosimile che la creatività umana riproduca in tempi e paesi diversi la stessa idea, tuttavia è molto improbabile che si sia creata la medesima identica storia, con gli stessi precisi particolari, per i quali sembra più logico pensare a reali situazioni di scambio tra i popoli.

Un altro studioso della fine dell’Ottocento, l’inglese Edward Clodd osservava che: Dove le coincidenze fra le novelle popolari s’estendono a minuti particolari, si può ammettere una origine comune, mentre […] dove v’è solo un’idea simile come motivo principale, senza corrispondenza nei particolari, è probabile l’origine indipendente.48

Le teorie psicanalitiche hanno cercato di spiegare l’origine della fiaba a partire dal sogno e dall’inconscio, ma prescindendo dalla reale storicità dei racconti propongono spesso una chiave di lettura generale e generica. Tuttavia le analisi psicanalitiche

47 BEDIER 1925.

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ispirate alle ricerche di Jung riportano l’origine delle fiabe agli archetipi psicologici collettivi, tra i quali emerge l’archetipo del sé che rappresenta la totalità e l’unità della psiche sulla quale esercita un effetto ordinatore. Esso si manifesta nelle visioni, nei sogni, nei miti e nelle fiabe come personalità di grado superiore, ad esempio come figura regale o eroica.

Al problema dell’origine della fiaba si mescolano facilmente altre questioni quali l’origine delle lingue e dei popoli, la creazione dei miti, il fondamento della capacità d’inventare storie fantastiche attribuendo loro significati profondi, religiosi e simboli. Studiare la fiaba significa entrare in un laboratorio dove s’individuano meglio che altrove problemi di grande portata storica e antropologica.

L’interesse per le fiabe intese come oggetti degni di attenzione nacque solo nel XIX secolo in pieno periodo romantico, grazie ad una raccolta di fiabe destinata ad avere uno straordinario successo, Kinder- und Hausmarchen dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm. I due fratelli si erano dedicati a ricerche relative all’antica letteratura germanica e alla raccolta di testi che, affidati alla tradizione orale, sembravano prosecuzione dell’antica letteratura nazionale.

Le ricerche sulla fiaba nell’Ottocento si collegano alla rivalutazione della nazione germanica e delle sue basi popolari. In quegli anni, si andava imponendo la linguistica comparata, che con le sue classificazioni dimostrava la parentela delle lingue europee. Fu proprio la linguistica, infatti, a guidare i Grimm nella spiegazione della fiaba popolare. La classificazione delle lingue europee era fondata sul riconoscimento del ruolo del sanscrito, l’antico idioma dell’India, al quale Friedrich von Schlegel49 aveva attribuito un primato assoluto di antichità e perfezione naturale. La relazione fra lingue europee e il sanscrito aveva dato luogo al riconoscimento della parentela indoeuropea e l’India aveva finito per rappresentare la culla della civiltà. Il riferimento a questa luogo mitico aveva cambiato il punto di vista a cui si era abituati da secoli di classicismo, perciò per individuare gli archetipi della cultura non si guardava più al mondo greco-romano, come si era fatto dall’Umanesimo in avanti, bensì all’Oriente.

Nel 1856, nella riedizione della raccolta di fiabe tedesche, Wilhelm Grimm affronta il problema della loro origine e spiega che la comunanza del patrimonio di fiabe

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doveva essere ricondotta ad una proprietà comune a tutti i popoli, meglio conservata presso il popolo tedesco. Nell’introduzione alla traduzione tedesca del Panchatantra, l’orientalista Theodor Benfey50 riprese in maniera più radicale la teoria dell’origine indoeuropea di tutte le fiabe. Tale teoria può essere definita monogenetica poiché individua una sola zona di origine geografica dalla quale le fiabe si sarebbero diffuse. Secondo Benfey era sufficiente ripercorrere a ritroso la storia di ogni racconto fiabesco per arrivare all’India. L’interesse per la cultura dell’India diede luogo a interpretazione talvolta azzardate le quali devono il loro successo alla nascita della mitologia comparata verso la fine dell’Ottocento. Questo nuovo ambito di studi porta alle estreme conseguenze l’eredità mitica dell’antico patrimonio indoeuropeo. Gli studiosi sostenevano che al momento della dispersione delle tribù ariane il patrimonio di fiabe fosse formato al punto da divenire fonte di miti e racconti comuni. Angelo De Gubernatis guardava all’antico Rigveda51 indiano come all’archetipo di molti racconti europei mitici e fiabeschi. Nel 1883 pubblicò un libro dedicato alla Storia delle novelline popolari, settimo volume della Storia universale

della letteratura, nel quale tutte le storie erano ricondotte all’origine dei miti solari

indiani. Inoltre De Gubernatis collegava tra loro racconti provenienti da aree molto distanti fra loro, creando delle relazioni interessanti, per rendere evidenti:

Non tanto l’affinità de’ miti ellenici con gli indiani, che non può ormai più essere messa in dubbio, ma altra verità non meno schietta, che pure si dura ancora molta fatica ad ammettere, la presenza ne’ miti greco-latini della maggior parte dei motivi che formano tuttora il fondo delle nostre novelle popolari.52

Fiaba e mito venivano legati strettamente e ricondotti ad una stessa origine. Nel tempo, il ricorso alla mitologia vedica è stato ridimensionato come dimostra il Piano

generale di una critica della teoria indianista inserito da Bédier nel suo libro sui Fabliaux. L’obiettivo era quello di riportare alla giusta misura le esagerazioni di

coloro che volevano ricondurre tutto ad un’influenza orientale.

50 BENFEY 1859.

51 Il Ṛigveda è una delle quattro suddivisioni canoniche dei Veda. Il nome può essere reso con "Inni dei Veda" o "Inni della Conoscenza", essendo il sostantivo ṛgveda composto da ṛc ("inni" o "strofe"), e veda ("sapienza" o "conoscenza"): il riferimento è ai versi recitati durante le cerimonie, (differenti dai sāman, versi cantati).

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Le radici storiche e antropologiche della fiaba

Un metodo d’indagine per lo studio della fiaba consolidato nel XIX secolo, aveva abituato gli studiosi ad isolare singoli motivi fiabeschi per scoprirne le apparizioni in luoghi e tempi lontani.

Lo studioso russo Vladimir Ja. Propp nel 1946 pubblicò il libro Istoriceskie korni

volsebnoj skazki, in italiano Le radici storiche dei racconti di fate, nel quale elaborò

un nuovo procedimento. Quando diede alle stampe questo lavoro, Propp aveva già pubblicato un’altra opera, Morfologia della fiaba, e fuori dalla Russia il successo delle Radici storiche precedette quello della Morfologia. Inoltre, la distanza cronologica tra le due opere e i tempi diversi del loro successo fecero apprezzare i due libri, non tanto come due lavori successivi dello stesso autore, bensì come due metodi di indagine opposti e pieni di contraddizioni. Per queste ragioni Propp insistette molto sulla continuità tra le due ricerche, affermando che la Morfologia aveva definito il genere, mentre le Radici storiche avevano individuato l’origine. Ne Le radici storiche dei racconti di fate Propp isola alcuni particolari elementi o passaggi narrativi della fiaba all’interno di una visione unitaria, storica e strutturale. All’inizio della fiaba ricorrono varie forme di divieto rivolte ai figli, le quali, secondo Propp, devono essere ricollegate ai tabù e ai divieti imposti nelle società primitive ai membri delle famiglie reali. Altri passaggi tipici della fiaba vengono spiegati ricorrendo alla memoria dei riti d’iniziazione delle società tribali. Gli animali magici non sono altro che animali totemici e l’aiuto che forniscono all’eroe deve essere ricondotto anch’esso ad antichissimi riti d’iniziazione. Secondo Propp, il motivo del drago deriva anch’esso dai riti d’iniziazione e sarebbe il risultato di una commistione di animali diversi operata successivamente. La negatività attribuita a questa creatura è piuttosto recente e frutto dell’incapacità di interpretare correttamente i significati di riti ormai scomparsi. Insomma, secondo le indagini di Propp la fiaba risulta essere il ricordo di antiche tradizioni proprie di una società di cacciatori totemici, i cui elementi caratteristici si sono trasformati perdendo le motivazioni originarie, e su cui si sono stratificati significati sempre più moderni. Propp ha saputo dimostrare che la fiaba è nata da antiche credenze, e in quanto tale

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diventa una delle poche possibilità date all’uomo moderno di rintracciare elementi della propria preistoria.

La Scuola Finnica

Man mano che l’interesse per la fiaba cresceva, le ricerche che la ponevano al centro dell’indagine avevano assunto una dimensione sovranazionale e nessuno poteva indagare seriamente origine e sviluppo di un racconto senza uscire dai confini di una singola nazione. Un contributo decisivo venne dalla Finlandia con la scuola finnica. In Finlandia si era sviluppato lo studio del Kalevala53 ed era stato messo a punto un metodo che può essere definito storico-geografico. Kaarle Krohn applicò tale metodo alle fiabe e si convinse che il loro esame doveva procedere tenendo presente un universo addirittura mondiale, non soltanto europeo o indoeuropeo. Antti A. Aarne fu un suo discepolo, a lui si deve un catalogo di tipi della fiaba destinato a grande fortuna, tanto da essere lo strumento principale a cui oggi si ricorre per la classificazione. Lo scopo degli studi di Krohn e di Aarne era quello di allestire un catalogo di tipi54 che fosse uno strumento di consultazione valido per una classificazione generale delle fiabe. La classificazione ottenuta propone tre gruppi principali: fiabe animali, che si classificano in base all’animale presente; fiabe normali, le quali si dividono in fiabe magiche, meravigliose, religiose e romantiche; fiabe umoristiche che consistono in facezie e aneddoti.

Nel 1923, alla morte di Aarne, il professor Krohn invitò l’americano Stith Thompson a completare il progetto e nel 1928 fu pubblicato il volume The types of the

Folk-tale. A Classification and Bibliography, sotto il nome di Aarne e Thompson.

Dopo gli studi di Propp sulla Morfologia della fiaba si è ritenuto che la classificazione di Aarne-Thompson fosse troppo empirica e soggettiva, priva cioè di

53 È un poema epico composto da Elias Lonnrot nella metà dell'Ottocento, sulla base di poemi e canti popolari della Finlandia (soprattutto in careliano, un dialetto strettamente correlato al finlandese). Significa letteralmente "Terra di Kaleva", ossia la Finlandia, Kaleva è infatti il nome del mitico progenitore e patriarca della stirpe finnica, ricordato sia in questo testo che nella saga estone del Kalevinoeg. Il Kalevala è dunque l'epopea nazionale finlandese.

54 È considerato tipo una fiaba con un’esistenza indipendente, riconoscibile per la presenza di un certo numero di motivi in combinazione relativamente fissa. Il motivo, invece, è un piccolo elemento del racconto, costituito da una personaggio, un animale, un oggetto magico, un particolare episodio.

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rigore analitico. Tuttavia una buona classificazione delle fiabe ha molte probabilità di durare più a lungo di una teoria, e permette agli studiosi di far riferimento alle fiabe stesse in maniera pratica.

Temi e motivi fiabeschi

Gli studi dei folcloristi hanno dimostrato che gli ingredienti della fiaba sono relativamente semplici e monotoni e le situazioni sono spesso prevedibili e riconducibili ad un repertorio fisso. Questo avvienenon a causa di una mancanza di fantasia - anzi, la fiaba è il regno del fantastico, bensì a causa delle regole di funzionamento della fiaba stessa, le quali sono più meccaniche e prevedibili rispetto a altri generi letterari. In genere, l’avvio della fiaba avviene in un luogo le cui condizioni sono vicine, in maniera realistica, al vero mondo contadino: i protagonisti sono poveri, non hanno sufficienti mezzi di sostentamento, i figli da mantenere sono troppi e manca qualcosa di necessario alla vita quotidiana. Questa situazione iniziale, eventualmente complicata da qualche errore o disobbedienza, provoca l’inizio della vicenda. Si tratterà di cercare qualche oggetto magico o qualche persona rapita e di andare verso terre lontane dove sarà necessario combattere contro personaggi pericolosi. Oppure l’eroe si guadagnerà l’alleanza di aiutanti magici, i quali forniranno gli strumenti per superare le prove, mentre in altri casi l’aiuto verrà dall’uso di oggetti fatati.

Una regola fondamentale della fiaba è la presenza del lieto fine rappresentato solitamente dal trionfo del protagonista sugli avversari e dal miglioramento della situazione iniziale. Tra la partenza iniziale e il felice ritorno possono collocarsi molti eventi riconducibili però ad una serie fissa. Elemento importante è la contaminazione, la quale permette al meccanismo narrativo di innovarsi, non secondo la libera immaginazione del narratore, bensì combinando quanto offre la tradizione. La contaminazione avviene in vari modi, può essere involontaria e determinata da un difetto di memoria o dall’inserimento di un intero racconto o di un frammento di esso in un’altra fiaba. Dal punto di vista narrativo il danno è minimo, o addirittura c’è un vantaggio, perché le fiabe danno l’impressione di essere composte da segmenti interscambiabili. Un cambiamento può dipendere anche da un processo

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di adeguamento, per esempio la presenza di elementi cristiani all’interno di una fiaba è spesso un’attualizzazione o una sostituzione di elementi preesistenti.

Un altro elemento costante della fiaba è l’inganno, il quale può essere a fin di bene o a fin di male, a seconda che sia usato pro o contro il protagonista.

Un quadro della letterarietà fiabesca è stato fornito anche da Max Luthi nel suo celebre libro La fiaba popolare europea, nel quale individua cinque costanti riscontrabili in tutte le fiabe: unidimensionalità, mancanza di una prospettiva, stile astratto, isolamento e collegamenti universali e sublimazione e contenuti universali. Con unidimensionalità s’intende l’assenza di timore, paura e curiosità di fronte al soprannaturale: l’eroe, infatti, non si meraviglia quasi mai, «tutto gli sembra alla stessa dimensione»55. Per quanto riguarda il secondo punto è messa in evidenza l’assenza di qualsiasi strutturazione di profondità all’interno della fiaba. La Todorovic Redaelli spiega che «i personaggi sono figure senza corpo, senza mondo interiore, senza un vero ambiente che li circondi. Manca ogni rapporto con il mondo passato e il mondo futuro, insomma, con il tempo”56. L’eliminazione di ogni prospettiva allontana la fiaba dalla realtà. Fin dall’inizio, la fiaba non mira a dare forma al mondo concreto con le sue molteplici dimensioni, piuttosto le trasforma. Incanta gli elementi per creare un mondo proprio, all’interno del quale personaggi, creature, luoghi e oggetti vengono menzionati ma non descritti. Questo modo scarno di menzionare le cose è definito da Luthi “stile astratto”, volto a conferire alla fiaba quella determinatezza di forme alla quale mira tutto lo stile. Nel quarto punto sono analizzati due elementi fondamentali: l’isolamento e i collegamenti universali. L’assenza di stupore e la mancanza di curiosità di fronte al soprannaturale mostrano quanto i personaggi della fiaba siano isolati e estranei a qualsiasi tipo di rapporto. «Creature terrene isolate e esseri soprannaturali isolati si incontrano, si congiungono e si separano»57, senza che esistano fra loro elementi che ci lascino pensare ad un rapporto permanente. La fiaba predilige ciò che è raro, prezioso ed estremo, cioè isolato. Oro, argento, perle, pietre preziose, velluto e seta, ma anche il figlio unico, il minore, la figliastra e l’orfana sono espressioni dell’isolamento. «Figure isolate si

55 TODOROVIC REDAELLI, Che cos’è la fiaba, https://www.sbt.ti.ch/dep/bclu/definizionefiaba.pdf. 56 Ibid.

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inseriscono guidate da una mano invisibile in un armonioso gioco d’insieme».58 Questi due fattori sono interdipendenti l’isolamento infatti acquista senso solo se si dimostra capace di rapporti universali. Lo stile astratto e isolato della fiaba sublima tutti i motivi, gli oggetti e le persone, le quali perdono le loro caratteristiche individuali e diventano figure eteree e trasparenti. Ecco allora presentato il quinto punto, il quale vede nei motivi che popolano la fiaba dei semplici motivi sociali sviluppati fuori dal racconto fiabesco: la ricerca e la conquista di una sposa, le nozze, la povertà, la perdita dei genitori, la vedovanza, la mancanza di figli, il loro abbandono, la discordia fra fratelli, la fedeltà di un fratello, di un amico, di un servo. Queste situazioni rispecchiano i rapporti fra uomo e uomo, uomo e animale, uomo e mondo circostante. Probabilmente, in un primo momento sono diventati narrazioni i fatti realmente accaduti e solo successivamente le fiabe hanno affiancato ai motivi profani altri di carattere magico. «La fiaba recepisce questi motivi come fa con quelli profani, conferendo ad entrambi una forma a lei confacente e riuscendo così a sublimarli in motivi fiabeschi»59. Nella fiaba anche i motivi mitici, sessuali ed erotici vengono trasformati e sublimati diventando una vera e propria narrazione con contenuti universali, dal momento che tocca tutte le componenti essenziali dell’esistenza umana. «Già la singola fiaba contiene in genere il piccolo e il grande, avvenimenti privati e pubblici, relazioni terrene e soprannaturali; se poi ne consideriamo quattro o cinque si apre davanti a noi la pienezza delle possibilità umane».60

Morfologia della fiaba

L’interpretazione morfologica della fiaba è nata con il libro di Vladimir Ja. Propp, Morfologija skazki (in italiano Morfologia della fiaba), pubblicato a Leningrado nel 1928. Il libro ottenne un successo tale da porlo come uno dei punti di riferimento dell’analisi semiologica nella seconda metà del Novecento. Nella prefazione l’autore spiega il metodo della sua analisi ispirata alla classificazione

58 Ibid. 59 Ibid. 60 Ibid.

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delle piante. Così come era stato possibile classificare le piante osservando le loro forme e individuando i loro rapporti reciproci, allo stesso modo Propp intendeva stabilire i principi di base della fiaba ricavandoli dallo stesso materiale fiabesco. Si trattava dunque di classificare in maniera rigorosa la pluralità delle fiabe esistenti partendo dalla critica della classificazione di Aarne e della scuola finnica basata sui “tipi” e sui “motivi”. Propp riteneva che la classificazione avesse enorme valore pratico per la sua utilità ai fini della consultazione, ma esiguo valore scientifico vista la frequente sovrapposizione di tipi e motivi dunque rintracciò la soluzione nell’individuazione di alcune costanti che definì “funzioni” narrative. Per lo studioso russo non contano i nomi dei personaggi o la loro identità, bensì ciò che i personaggi fanno, cioè la loro funzione, la quale diventa la chiave di lettura per ricondurre all’unità e all’ordine la fiaba apparentemente caratterizzata dalla multiformità e dall’eterogeneità. Altra regola fondamentale nel sistema della Morfologia è quella secondo la quale la successione delle funzioni è sempre la medesima. Sono poche le fiabe che contengono tutte le funzioni, ma l’assenza di alcune di esse non cambia la disposizione delle altre. Ogni fiaba segue la seguente struttura, all’interno della quale si inseriscono le funzioni: situazione iniziale, la quale precede le varie funzioni narrative (composizione della famiglia, determinazione temporale e spaziale ecc.); parte preparatoria, con le sette funzioni che avviano il racconto (I. Allontanamento

-e, II. Proibizione q, III. Violazione -b, IV. Investigazione -v, V. Delazion-e, VI –w,

Perfidia g, VII. Complicità j); esordio della fiaba (VIII. e VIIIa. Danneggiamento

-X, IX. Momento di connessione –B, X. Reazione incipiente –W, XI. Partenza da

casa dell’eroe -↑); seguito della fiaba e conclusione (interviene nella fiaba un nuovo personaggio che Propp chiama “donatore”, XII. Prima funzione del donatore –D, XIII. Reazione dell’eroe –G, XIV. Fornitura e ottenimento dell’oggetto magico –Z, XV. Trasferimento spaziale fra due regni –R, XVI. Lotta –Q, XVII. Marchiatura –

K, XVIII. Vittoria dell’eroe –M, XIX. Rimozione della mancanza iniziale –L, XX.

Ritorno dell’eroe -↓, XXI. Persecuzione dell’eroe –Pr, XXII. Salvezza -Sp, XXIII. Arrivo dell’eroe in incognito -°, XXIV. Pretese infondate del falso eroe -F, XXV. Difficile compito dell’eroe -S, XXVI. Il compito è assolto -P, XXVII. Riconoscimento dell’eroe -Y, XXVIII. Smascheramento del falso eroe -O, XXIX. Trasfigurazione dell’eroe -T, XXX. Punizione del cattivo -H, XXXI. Matrimonio e

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