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- Capitolo II - Publio Rutilio Rufo, “troppo onesto per il suo tempo”.

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- Capitolo II -

Publio Rutilio Rufo, “troppo onesto per il suo tempo”.

____________________________________________________________

I frammenti dell’autobiografia di Publio Rutilio Rufo risultano, per certi versi, ancor più avari di notizie rispetto a quelli di Marco Emilio Scauro. In realtà, prima di ricorrere all’analisi dei singoli passi superstiti, si rende necessario per questo personaggio un discorso tutto peculiare di metodo e di sostanza, per evitare il rischio di rimanere bloccati in un garbuglio incoerente di dati e nozioni.

Publio Rutilio Rufo nacque attorno al 155 a. C.1 Secondo la tradizione fu un autentico

homo novus, proveniente da una famiglia che non vantava magistrati di alto rango fra i suoi antenati. La sua giovinezza è comprensibilmente avvolta nel mistero, se non per quel poco che si conosce sul tribunato militare e per alcune notizie ricavabili da Cicerone. Quel che appare certo è che faticò non poco per arrivare al consolato, perdendo le elezioni nell’anno 116 (ricordiamo che fu Marco Emilio Scauro a vincerle) e giungendo alla magistratura suprema solo dieci anni dopo, nel 105. Negli anni successivi, al fianco del proconsole d’Asia Mucio Scevola, dà il via a un processo di moralizzazione nello sfruttamento di quella provincia e, forse proprio in seguito al fastidio sorto per questi tentativi, viene messo sotto accusa per peculato, processato e condannato. Recatosi proprio in Asia, in una sorta di esilio volontario, là morirà senza far mai più ritorno a Roma. Furono proprio gli ultimi anni della vita, lontano dalla politica e da Roma, che Rufo dedicò allo studio e alla scrittura; i titoli che la tradizione ci ha lasciatosono due: il De vita sua e le Historiae.

La prima cosa da fare a questo proposito è proprio affrontare e analizzare la presenza di queste due opere, cercando di interpretare le poche notizie che la tradizione ci offre e, contestualmente, confutando quanto gli studiosi hanno finora concluso circa l’intera opera di Publio Rutilio Rufo.

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Anticipiamo subito che la tendenza generale della critica è ad avvicinare per contenuti le due opere, fino a considerarle addirittura l’una la traduzione dell’altra: infatti le Historiae furono scritte in greco, l’autobiografia in latino. Questa “fluidità” del materiale a disposizione crea delle difficoltà innanzitutto di metodo; dal momento che il presente lavoro si propone di contribuire alla ricostruzione dell’autobiografia, sarebbe opportuno mirare a quei frammenti che si orientano esclusivamente in questa direzione. Ci muoviamo però in un campo insidioso, e ci esponiamo al rischio di modellare e incanalare le fonti così da accomodarle in schemi comodi ma fuorvianti. Il primo passo da fare è una valutazione globale del materiale a disposizione, tenendo presente il fatto che Rufo potrebbe aver scritto due opere dal tema distinto, oppure un’unica opera in greco seguita dalla traduzione latina; naturalmente, anche ammettendo l’esistenza di due opere ben diverse fra loro, l’attribuzione dei vari frammenti non è sempre certa e delineata, e questo è un

ulteriore elemento di difficoltà. Andando ad analizzare le raccolte dei frammenti, partiamo con il lavoro più recente, quello della Chassignet, già citato ed utilizzato in precedenza. Questa raccolta è strutturalmente divisa in due parti: la prima contiene i brani degli storici, la seconda quelli di argomento autobiografico. Le due parti di cui è composto il lavoro sono, per così dire, complementari e ben distinte, avendo anche ciascuna la sua introduzione specifica.

Davanti alla complessità del materiale relativo a Rufo, la Chassignet si comporta così: inserisce sei frammenti nella prima parte della sua raccolta, sotto la dicitura Historiae2;

immediatamente di seguito pone due brani provenienti da Granio Liciniano, brani in cui il nome stesso “Rutilio” risulta da integrazioni. Nella seconda parte della raccolta invece, quella dedicata alle autobiografie, inserisce nove frammenti attribuiti con sicurezza al De vita sua3 e quattro sotto la dicitura Incerta aut incertae sedis4.

Si tratta certamente di una suddivisione piuttosto schematica, semplice da seguire finché i frammenti restituiscono una collocazione sicura, ma poco soddisfacente quando questa collocazione non sia sostenuta da dati certi. Questo è assolutamente accettabile perché la Chassignet offre uno schema di ricostruzione di base senza voler per forza sistemare e incasellare ogni brano al suo posto a scapito della correttezza scientifica: nei casi in cui non sia possibile attribuire un frammento a un’opera piuttosto che a un’altra, la questione viene semplicemente lasciata aperta, pronta per sviluppi futuri. Attraverso questo schema “aperto”, la studiosa lascia trasparire varie possibilità interpretative sui frammenti di più difficile collocazione. In conclusione, la Chassignet include nella sua raccolta un numero cospicuo di brani riconducibili a Rufo, alcuni di collocazione certa e

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confermabile, altri problematici, riservandosi via via la possibilità di spiegare le motivazioni delle sue scelte.

Nel 1870 il Peter aveva seguito un’impostazione non dissimile da quella che sarà della Chassignet: dava inizio al capitolo su Rufo con i sei frammenti nettamente attribuibili alle Historiae, naturalmente gli stessi sei che si trovano nella prima parte del lavoro della studiosa francese, senza differenze di collocazione. A seguire troviamo nove brani tutti complessivamente riferibili all’opera De vita sua, o perché contengono una citazione precisa, o perché fanno riferimento diretto al titolo. Questa edizione del 1870 si conclude così, con un totale di quindici frammenti analizzati.

Nel 1883 il Peter pubblica una seconda edizione che presenta alcune novità. Ai quindici frammenti di cui sopra vengono premessi altri sei, con numerazione indipendente. Non si tratta di frammenti veri e propri, piuttosto di passi contenenti riferimenti vari a Rufo, riferimenti da ritenersi rilevanti per la ricostruzione del personaggio, raccolti sotto la nomenclatura di Testimonia. Lo stesso procedimento viene seguito da Peter per tutti gli autori antichi di cui si sta occupando, nella misura in cui è possibile. Secondo quanto affermato dallo stesso studioso nella prefazione all’opera del 1883, questa integrazione rispetto a quanto aveva concluso nel 1870 è divenuta necessaria dopo dodici anni di studi ulteriori5. In questa seconda edizione compaiono dunque nuove tracce, nuove notizie sui

personaggi, si riducono le annotazioni al testo e non ci sono i prolegomena presenti nell’edizione del ’70. Dunque siamo davanti ad una vera e propria aggiunta, ad un ampliamento del materiale di studio che nulla toglie a quanto affermato nella prima stesura e che nulla cambia a livello metodologico, ma che semplicemente arricchisce il quadro per una più ampia riflessione. Infatti la complessità con cui Peter ha avuto inevitabilmente a che fare trapela a proposito dei testimonia 4 e 5: sono rimandi ai frammenti 4 e 5 delle Historiae, e cioè a due passi di Plutarco, rispettivamente Mar. 28, 8 e Pomp. 37,4.

Si tratta di due brani la cui appartenenza alle Historiae viene, per così dire, messa in dubbio dal Peter dopo dodici anni di studi e riflessioni, certamente non per rendere più debole o invalidare tutta la ricerca pregressa, ma per allargare l’orizzonte delle possibilità. In sostanza lo studioso tedesco prende consapevolezza di come, di per sé, le espressioni ἱστορεῖ e Ῥουτίλιου λόγον contenute rispettivamente nei framm. 4 e 5 delle Historiae avrebbero potuto anche avere un significato non del tutto letterale, non indicando quindi al di là di ogni dubbio solo ed esclusivamente un’opera storica. Comunque non se la sente di scorporare questi due frammenti dal gruppo di quelli delle Historiae; da qui la doppia collocazione. A proposito di questi due frammenti la Chassignet terrà un atteggiamento un

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po’ differente: quello relativo alla vita di Pompeo verrà inserito fra quelli delle Historiae come numero 5; quello invece che fa riferimento a Mario compare addirittura due volte nella raccolta curata dalla studiosa francese: come possibile parte delle Historiae (numero 4) e come frammento 13 fra gli incerta aut incertae sedis, subito dopo i frammenti sicuri del De vita sua. Tutto ciò come ad indicare una doppia possibilità di derivazione per il passo della vita di Mario, tanto dalle Historiae quanto da un punto non chiaro dell’autobiografia. La scelta formale di riportare uno stesso frammento in due parti diverse della raccolta, scelta operata come abbiamo visto già da Peter nel 1883, crea qualche imbarazzo nell’analisi, ma è semplicemente uno scrupolo del recensore per non escludere nuove possibilità di interpretazione.

La Chassignet colloca il frammento dalla vita di Pompeo fra le Historiae seguendo un’idea che fu già di Pais e Bates; invece, riguardo al passo dalla vita di Mario, ritiene che il linguaggio sia troppo generico per dare un’attribuzione sicura. In sostanza la studiosa non prende una posizione netta.

Un’ulteriore differenza rispetto ai lavori del Peter risiede nella scelta della Chassignet di inserire, sempre tra i frammenti incerta aut incertae sedis collegati al De vita sua, altri tre brani: si tratta di Cicerone, Brutus, 85-876, Granio Liciniano, XXXIII, 16-177, e

Appiano, Guerre Iberiche, 888. I primi due, lasciati fuori dal Peter, furono invece presi in

considerazione da Jakoby9, ma non come parte del De vita sua; il terzo è una novità della

Chassignet. A questo punto si rende necessario chiarire il quadro in maniera specifica. Jacoby segue questa classificazione: a) testimonia; sono undici notizie sul personaggio-Rufo e la sua opera10. Fra i testimonia riferiti in questa sede e quelli riportati

invece da Peter ci sono profonde differenze e assai pochi punti in comune. b) Frammenti veri e propri suddivisi in: 1. “Storia dei Romani”; sono gli stessi frammenti considerati da Peter e dalla Chassignet. 2. De vita sua: nove frammenti, come per Peter e Chassignet. 3. “Unsicheres”, incerti. Sono tre brani: quello del Brutus e e due di Granio Liciniano, uno inserito dalla Chassignet solo nella sezione incertae delle Historiae, l’altro inserito sia lì sia fra quelli incerta aut incertae sedis del De vita sua.

Dal canto suo Jacoby include nella sua raccolta un repertorio di testimonianze piuttosto ricco. Tutta questa complicata articolazione, nonché le scelte anche molto diverse operate dai critici nel corso dei decenni, ci fanno capire come in realtà definire cosa sia realmente opera di Rufo e cosa sia solo semplice aneddotica slegata dall’autore è cosa tutt’altro che facile. Nel tempo gli studiosi hanno trattato il materiale incerto o di incerta

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collocazione con atteggiamenti diversi, cercando sempre di lasciare degli spiragli interpretativi, e avendo mano più o meno libera nella scelta dei citati testimonia.

In realtà “avere mano libera” non significa scegliere in maniera arbitraria, naturalmente. La Chassignet per esempio segue in parte la linea di pensiero già di Pais e di Bates. Pais11 riteneva già ai primi del Novecento che ai frammenti editi dal Peter dovessero

esserne aggiunti altri: “Considerando il carattere strettamente personale di alcune di codeste notizie; tenendo presente che talune di esse non possono derivare che da uno scritto autobiografico, io reputo assai probabile che ai frammenti delle storie e delle autobiografie già raccolti dal Peter si debbano pertanto aggiungere anche i seguenti”. I brani in questione sono, secondo Pais, Appiano Ib. 88 (quello stesso brano che la Chassignet, come abbiamo visto, introdurrà nella sua edizione critica); il frammento 97 di Dione Cassio; Diodoro De virtute et vitio, XXXVII, 5; Posidonio apud Ateneo IV, p. 168d; Ateneo VI p. 274d; Granio Liciniano fol. VIII, 2; alcune citazioni da Valerio Massimo: II, 3, 2; II, 10, 5; VI, 4, 4; Appiano, Mithrid., 60. Permane qualche dubbio invece sulla possibile collocazione di altri tre brani, a parere di Pais riferibili al De vita sua o comunque all’opera di Rutilio, senza tuttavia che se ne possa avere la certezza: Pseudo-Frontino IV, 1, 12; Frontino IV, 2, 2 e Seneca, De beneficiis, VI, 37, 2. In sostanza però mancano gli elementi per dire una parola decisiva su queste scelte: Pais non ne fornisce molti; il “carattere personale” delle notizie in base al quale “esse non possono derivare che da uno scritto autobiografico” appare insufficiente per definire con certezza cosa è autobiografia e cosa non lo è. Addirittura Pais parla di “storie e autobiografie”, in maniera cumulativa, talvolta senza specificare esattamente a quale opera di Rutilio andrebbero attribuiti i brani presi in considerazione. Tuttavia non è lecito aspettarsi di più: il lavoro dei filologi e degli storici, negli studi qui citati, è stato essenzialmente quello di raccogliere elementi e testi letterari di vario genere per fornire indicazioni sul personaggio, cercando dove possibile, grazie al loro lavoro critico, di attribuire un frammento a Rutilio Rufo in generale, e non in maniera specifica a questa o a quell’opera. Nel lavoro presente lo scopo è esattamente il contrario: il proposito è quello di partire dal personaggio, dalla sua realtà storica e da quel che resta dei suoi scritti per dare indicazioni, almeno tratteggiate, su quella che fu una sua opera precisa. In definitiva ciò che per Peter, Pais, Jacoby e, in tempi più recenti, per la Chassignet è stata una ricchezza (quanti più testi si possono raccogliere e includere nella recensione tanto più ricco diviene l’orizzonte di studio, e lo studioso non è obbligato a dire una parola definitiva su ciò che vuole includere), rischia in questa sede di falsificare i risultati stessi della ricerca: i frammenti che contengono solo notizie biografiche aiutano a far luce sul personaggio, ma

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non è a partire da questi che si può fare un discorso sui contenuti del De vita sua12, perché ne

risulterebbe un quadro troppo incerto.

Da qui la scelta di analizzare, per la ricostruzione del de vita sua, i soli frammenti con citazione almeno del titolo dell’opera; secondariamente di quelli che lasciano sospettare fortemente un’appartenenza all’autobiografia; per gli altri ci limiteremo a parlarne solo nel limite in cui avranno interesse per la presente trattazione.

Dei nove frammenti sicuramente attribuibili al de vita sua, sette portano l’indicazione esatta del libro di provenienza, per un totale di cinque libri segnalati. Qui siamo davanti a una prima difficoltà: in nessuno dei testi che abbiamo si trovano indicazioni circa il numero complessivo dei libri. Erano almeno cinque, certamente, ma forse non solo cinque; questo non piccolo dettaglio impedisce sostanzialmente di tentare una ricostruzione strutturale, su modello di quella fatta per Scauro. Per quanto le ipotesi siano sempre fattibili, qui mancano i punti di riferimento essenziali. Tuttavia già il primo frammento può fornire, se non altro, la traccia di un riferimento cronologico:

frammento 1 (1 C = 7 P1 e 2 = 7 J)

Charis., Ars gramm. II, p. 254 Barwick: Artificiose P.Rutiliu Rufus De vita sua libro I:

Pompeius elaborauit, uti populum Romanum nosset eumque artificiose salutaret.

Artificiose dice Publio Rutilio Rufo nel primo libro de vita sua: Pompeo lavorò con

impegno per conoscere il popolo romano e salutarlo con abilità

Un’ipotesi generalmente accettata è che il personaggio indicato sia Quinto Pompeo, il console del 141 a.C., collega di Cneo Servilio Cepione13. Il Pompeo in questione sarebbe

cioè quello che, trovandosi ad affrontare la questione dei Celtiberi a Numanzia, concluse frettolosamente una pace poco vantaggiosa per i Romani, e cercò poi di minimizzare le sue responsabilità; fu perciò sottoposto al giudizio del Senato, mentre la situazione nella penisola Iberica non ebbe alcuna svolta fino all’arrivo di Scipione. Ora, dal momento che Publio Rutilio Rufo prestò servizio come tribuno militare proprio a Numanzia sotto Scipione, è naturalmente possibile che avesse maturato un’opinione del tutto negativa su Quinto Pompeo e sul suo modo di accostarsi alla politica, e quindi il frammento sia da interpretare in senso leggermente spregiativo. Ovviamente, mancando del tutto il contesto,

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l’accento critico di Rufo nei confronti del console del 141 deve essere attentamente verificato e valutato analizzando con cura il testo e le sue possibili traduzioni.

Il frammento proviene da Carisio, dal libro II, parte xiii (intitolata de adverbio). La parola che interessa al grammatico è artificiose. Il frammento 1 si trova subito all’inizio del capoverso; immediatamente a seguire troviamo qualche altra indicazione:

frammento 1 - integrazione

Asellio quoque rerum romanarum XL: ‘tam pulchrum opus tamque artificiose factum passus est dirui’; ubi Fl. Caper ‘quamvis artificiosus dici non possit, ut malitiosus’. Anche Asellione nel libro XL delle Res Romanae: ‘lasciò che fosse distrutta un’opera tanto bella e fatta con arte’; come Flavio Capro: ‘sebbene non possa esser detto artificioso, quanto malizioso’.

In latino sono presenti almeno due avverbi, artificiose e artificialiter, generalmente traducibili con espressioni tipo “a regola d’arte”, “ad arte”, “secondo l’arte”; certamente anche “artificiosamente” e “artificialmente” sono traduzioni possibili a seconda del contesto. Ora, nel nostro caso è proprio il contesto che ci manca per scegliere la giusta sfumatura, e si capisce come fra l’idea di far qualcosa “artificiosamente” oppure “a regola d’arte” ci sia una differenza abbastanza netta. Si tratta di una sottigliezza che nella lingua italiana lascia l’espressione “a regola d’arte” in un campo di valutazione essenzialmente neutro, ma relega l’avverbio “artificiosamente” fra le connotazioni negative, tirando in ballo la falsificazione, lo sforzarsi per dare l’impressione di essere diversi da come si è. Non si tratta, è bene ribadirlo, di due significati troppo diversi, ma di una sfumatura diversa che vale la pena di sottolineare, e che forse era già avvertita dai parlanti latino. A ben vedere infatti, se si accettano le traduzioni proposte sopra per l’integrazione al frammento 1, sembra che Asellione utilizzi l’avverbio in senso positivo, o quantomeno neutro; per nostra sfortuna anche questo brano è solo un frammento, e non ci fornisce una contestualizzazione completa. Però si capisce che l’opus andata distrutta, per quanto del tutto ignota, era qualcosa di bello, di “fatto ad arte”, o anche “ingegnosamente”.

Anche la frase successiva, quella attribuita a Flavio Capro, da un piccolo contributo per allargare l’orizzonte: qui viene utilizzato l’aggettivo corrispondente, artificiosus, e la connotazione appare maggiormente negativa. Tuttavia artificiosus viene messo in leggera opposizione con malitiosus, cioè “furbo”, “ingannatore”, “malizioso”. Il che significa,

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evidentemente, che artificiosus (e artificiose di conseguenza), non dovrebbe avere, almeno qui, la stessa intensità espressiva di malitiosus: chi è artificiosus o agisce artificiose, in sostanza, mette in atto qualcosa che pur non corrispondendo alla pura verità delle cose, non è del tutto ingannevole. Insomma siamo davanti a significati simili a quel che abbiamo in italiano e che prospettavamo prima: artificiose è un’espressione che assume un significato negativo o positivo a seconda del contesto.

Del resto però l’avverbio è una specificazione, un approfondimento di ciò che esprime il verbo, e forse è proprio qui che dovremmo cercare qualche lume. Nel nostro caso il verbo è ovviamente salutaret, da saluto; il significato è un po’ più ampio di quel che ha poi assunto in italiano. L’atto del saluto, al di là del valore che poi assumerà nei confronti dell’imperatore, era già in età repubblicana un gesto di omaggio: dal semplice saluto informale fra conoscenti, al far visita a qualcuno in segno di ossequio, all’acclamazione, fino al vero e proprio atto di inchinarsi.

Un termine di confronto interessante è costituito da un passo di Sallustio, nella parte iniziale del Bellum Iugurthinum14:

«Atque ego credo fore qui, quia decrevi procul a re publica aetatem agere, tanto tamque utili labori meo nomen inertiae imponant, certe quibus maxuma industria videtur salutare plebem et conviviis gratiam quaerere».

«Ed io penso che ci saranno di quelli che, poiché ho ritenuto di trascorrere il mio tempo lontano dalla cosa pubblica, daranno al mio lavoro – così utile e di valore – il nome di ‘inattività’, e saranno certamente coloro per i quali la maggiore occupazione è omaggiare il popolo e ricercare consenso coi banchetti».

Sallustio, in questa fase della trattazione, sta ancora introducendo l’argomento, e parla della sua decisione di dedicarsi alla scrittura, del suo allontanamento dalla res publica; se poi qualcuno avesse voluto rimproverare a Sallustio il suo otium declassandolo a inertia, egli rispose con un accento leggermente ironico, sferzante, additando il malcostume di quanti si impegnano a ingraziarsi la plebe più che a ricercare progetti politici di sostanza.

In effetti questo passo di Sallustio e il frammento 1 di Rufo fanno riferimento a un medesimo modo di agire, ad uno stesso atteggiamento tenuto da membri della classe di potere nei confronti della plebs. Non si tratta solo dell’utilizzo delle stesse parole, ma anche di un’azione compiuta sempre nei confronti dello stesso referente – la massa, l’opinione pubblica, il popolo – da soggetti assimilabili: un generico qui, nel testo di Sallustio, indica in

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ogni caso persone che devono procurarsi un consenso; invece per il testo di Rufo, sia che si accetti l’identificazione di quel Pompeus con il console del 141, sia che si avanzino altre ipotesi, dovrà pur sempre essere qualcuno che cerca di ottenere il potere.

In realtà c’è un significato dell’espressione plebem salutare che abbiamo trascurato, e che porterebbe a fare ulteriori considerazioni: il verbo saluto in latino viene talvolta tradotto anche come “inchinarsi”, quindi avremmo “inchinarsi davanti alla plebe”. Traducendo secondo questa interpretazione il passo del Bellum Iugurthinum otterremmo qualcosa di questo genere:

«[...] Saranno certamente coloro per i quali la maggiore occupazione è inchinarsi davanti al popolo e ricercare consenso coi banchetti».

Se Sallustio aveva intenzione di usare solo un’immagine emblematica per indicare il desiderio di ingraziarsi la plebe da parte di certi personaggi, allora il suo salutare plebem significa in sostanza rendere omaggio al popolo con un saluto, e poco importa se ciò venga fatto con un inchino o con un qualunque atteggiamento del corpo, magari attentamente studiato per apparire affabili.

Altra cosa è se l’inchinarsi viene inteso in senso figurato: il politico che vuole il consenso del popolo, non solo curerà il suo modo di rapportarsi con la folla, ma si prostrerà metaforicamente davanti alla plebe, o meglio piegherà il suo agire politico ai desideri e alle esigenze di coloro che devono sostenerlo. In effetti ciò che si trova subito dopo, e cioè il riferimento ai banchetti promossi per crearsi il consenso, rimanderebbe ad azioni concrete messe in atto per farsi pubblicità; l’argomento però non è certo sufficiente. Tanto più che in una simile accezione, forse, sarebbe stato più normale trovare ad esempio un’espressione come obsequi plebi, più specifica per rendere un’idea di questo tipo. É evidente però che ci muoviamo sul piano delle congetture, mentre è d’obbligo attenersi a ciò che il testo dice.

frammento 2 (2C= 8P1et2 = 8J)

CHARIS. Ars Grammatica I, p 159 B.: Constante […] P. Rutilius Rufus De uita sua II:

Animo, inquit, constante.

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L’espressione in esame è ampiamente diffusa nella lingua latina, attestata attraverso vari autori in un lungo lasso di tempo15.

Bardon diede già nella sua opera una valutazione qualitativa del pensiero di Publio Rutilio Rufo citando proprio questo frammento di Carisio: «La grande energia dell’uomo, il suo stoicismo, dovevano aver fruttato una maggiore asprezza a un’opera destinata a riscrivere la storia di una vita onesta ma mal ricompensata […]. Noi termineremo questo studio su Rutilio citando un breve frammento, tramandatoci da Carisio: queste due parole del secondo libro definiscono, per una curiosa combinazione, una delle qualità principali dello stoico, troppo onesto per il suo tempo: con fermezza, animo constante»16.

Bates collega il frammento con le vicende militari della vita di Rufo, in particolare con la campagna nella penisola Iberica: «È suggestiva l’idea di considerare lo scarno frammento preservato dal libro secondo dell’autobiografia, animo constante, come appartenente a questo episodio17, non solo perché il secondo libro sembra il miglior

candidato per contenere un resoconto degli eventi numantini, ma perché la frase stessa fa riferimento a uomini che fronteggiano l’impeto del nemico con risolutezza»18.

Queste considerazioni danno un’idea di quante suggestioni possono nascere da un pur così breve frammento. Volendo fare anche qui qualche ipotesi valida, ovviamente la campagna di Numanzia – quando Rufo era tribunus militum sotto il comando dell’Emiliano – ebbe grande peso nella vicenda umana del nostro personaggio. Tuttavia non fu questa l’unica occasione che Rufo eventualmente ebbe per mostrare la risolutezza sua o dei suoi soldati. Non va infatti dimenticato l’episodio della guerra contro Giugurta19: nel 109 Rufo è

legato di Quinto Metello. Quest’ultimo è appostato con i soldati presso una collina, dove i Numidi hanno trovato rifugio. Temendo un assedio logorante, anche per le caratteristiche del luogo, il console invia parte dell’esercito verso un fiume – sotto la guida di Rufo – per stabilire l’accampamento. La parte di esercito rimasta con Metello è costretta a scontrarsi con i soldati di Giugurta e la battaglia va avanti con fasi alterne e esito incerto fino alla fine. Stando al racconto di Sallustio, solo la grande virtù e costanza dei Romani faranno sì che che i Numidi siano messi in fuga. Nel frattempo Bomilcare, luogotenente di Giugurta, guida i suoi verso il campo di Rufo. L’attacco si risolverà comunque in una disfatta per l’esercito di Bomilcare, il quale poteva certo contare sull’effetto-sorpresa, ma non sul valore dei suoi soldati. Sallustio infatti tiene a precisare per ben due volte nel corso del racconto come i condottieri Numidi siano stati costretti a sfruttare piuttosto le condizioni del campo di battaglia e la disposizione delle schiere che non la virtus dei propri soldati:

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«Metello virtus militum erat, locus advorsus; Iugurthae alia omnia praeter milites opportuna»20.

E ancora oltre:

«Interea Bomilcar […] ne legatus cognita re laborantibus suis auxilio foret, aciem, quam diffidens virtuti militum arte statuerat, quo hostium itineri officeret, latius porrigit eoque modo ad Rutili castra procedit»21.

Se in un primo momento i soldati di Metello hanno avuto delle incertezze, secondo Sallustio ciò sarebbe da attribuire alla superiorità dei Numidi e al loro attacco feroce e inaspettato. I Romani vengono incalzati e dice ancora Sallustio:

«Quorum etiam qui firmioribus animis obvii hostibus fuerant, ludificati incerto proelio ipsi modo eminus sauciabantur, neque contra feriundi aut conserundi manum copia erat»22.

È impossibile non notare l’espressione usata da Sallustio, firmioribus animis. Effettivamente firmus ha significato per buona parte del tutto analogo a constans: saldo, stabile, tenace, costante, forte, valoroso, fedele…

Inoltre vale la pena di sottolineare come Sallustio – per scrivere sia il Bellum Iugurthinum che le Historiae – si potrebbe esser basato, tra le altre fonti, anche sugli scritti di Publio Rutilio Rufo, testimone diretto dei fatti in questione. Certamente, come abbiamo già visto, espressioni come animo constante dovevano essere piuttosto comuni nell’uso linguistico23 e non è possibile motivare con certezza la scelta linguistica di Sallustio con una

derivazione da Rufo. Le riflessioni fatte fin qui hanno l’unico scopo di chiarire nel miglior modo possibile il senso delle parole di Rufo e il contesto nel quale poterono essere utilizzate.

Uno degli ambiti possibili di utilizzo di un’espressione come animo constante nella vita di Rufo è senz’altro costituito dalle fasi del processo, della condanna e dell’esilio. Chiaramente il riferimento sarebbe alla condizione psicologica con la quale il nostro personaggio avrebbe affrontato una condanna da molti ritenuta ingiusta. L’unico punto debole di questa ipotesi è il fatto che l’espressione si trovi solo nel secondo dei ben cinque libri scritti da Publio Rutilio Rufo: siamo cioè in un punto dell’opera adatto alla trattazione della giovinezza, al massimo della prima età adulta, magari proprio accennando alle prime

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avventure militari. Il processo, con ogni probabilità, non sarà stato raccontato prima della seconda metà dell’opera; ad ogni modo non bisogna essere troppo rigidi nella schematizzazione, specialmente quando ci si trova davanti a frammenti così esigui: non si può escludere che Rufo, anche in una sezione cronologicamente “alta” della sua autobiografia, faccia riferimento a vicende e situazioni personali più recenti.

Passando alla forma grammaticale del frammento, Carisio inserisce il testo nel libro I della sua Ars Grammatica, laddove viene proposta una lunga carrellata di sostantivi con casi che si formano per analogia e – in particolare – troviamo un gran numero di ablativi con le indicazioni su come sia più corretto formarli, se in -i oppure in -e. Constante è l’ablativo singolare di constans, participio presente di consto. Come in molti altri casi, la voce verbale ha acquisito pienamente la funzione di aggettivo.

frammento 2 – integrazione

Constante. Cum cognomen erit, hoc velut eius modi a praesente innocente sapiente nitente prudente clemente dicemus, ait Plinius, nec interest ens an ans nominativo singulari claudantur. Sed enim P. Rutilius […].

Constante. Dal momento che si trattava di un cognome, questo pronunceremo come da sua norma in analogia con innocente sapiente nitente prudente clemente, come sostiene Plinio, e non fa alcuna differenza che al nominativo singolare in -ens o in -ans. Ma in realtà P.Rutilio […].

Il problema evidenziato da Carisio è il seguente: constans è come abbiamo visto un participio presente e si declina seguendo gli aggettivi della seconda classe. Questi aggettivi escono all’ablativo singolare in -i. Ma il participio – generalmente quando veniva utilizzato nella sua funzione verbale – seguiva una declinazione uguale a quella dei sostantivi imparisillabi della terza, quindi con ablativo singolare in -e24. Carisio ricorda anche

l’esistenza di un cognomen derivato dal verbo, in uso fra i Romani; la flessione da seguire sarebbe perciò correttamente quella nominale. Ernout ha sottolineato come sia ben attestata la presenza di due flessioni che distinguono l’uso aggettivale del participio da quello più prettamente verbale25. Casualmente, Ernout riporta proprio l’espressione

constanti animo come esempio del primo utilizzo, cioè “con animo fermo”, “sicuro” ecc... In definitiva, sia nell’originale latino che nella traduzione italiana, non sembrerebbe affatto

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che la scelta dell’una o dell’altra forma comporti alcun cambiamento notevole di significato: il parlante-latino – così come il parlante-italiano – non distingueva fra un costanti/e verbo oppure aggettivo.

Per i frammenti a seguire, indicati come 3, 4 e 5 nell’edizione della Chassignet, valgono le stesse considerazioni fatte per il 2. Nel numero 3 troviamo – tra le righe – una considerazione notevole fatta dal grammatico Carisio:

frammento 3 (3 C, 9 P1 et 2, 9 J)

CHARIS., Ars gramm. I, p 166 B : Familiare, ab hoc familiare, si de nomine, familiari, si de re […]. Familiare recte P. Rutilius Rufus De uita sua libro III : Pro Lucio

familiare ueniebam.

Familiare, da questo: familiare se riguarda una persona; familiari se riguarda una cosa. Familiare (ha scritto) correttamente Publio Rutilio Rufo nel terzo libro della sua autobiografia: Venivo per il mio amico Lucio.

Le parole di Carisio sono chiare: l’ablativo singolare è in -e se si tratta di una persona; in -i se invece si sta parlando di una cosa. Publio Rutilio Rufo – sottolinea ancora il grammatico – usa la forma corretta, dal momento che il discorso riguarda un certo Lucio. Ancora una volta Carisio cerca la via di una ars prescrittiva, che salvaguardi la lingua “pura” dalle contaminazioni e dagli errori reiterati. A ben guardare però l’intero passo del manuale di grammatica non si può fare a meno di notare un fatto:

frammento 3 – integrazione

Familiare, ab hoc familiare, si de homine; familiari, si de re. Familiari pro familiare Brutus ad Caesarem, ’a Scaptio familiari meo’; Cicero quoque de divinatione libro I in Aesopo familiari tuo; familiare pro familiari Varro ad Neronem, a Lare familiare;

familiare recte P. Rutilius etc...

[…] Usa familiari al posto di familiare Bruto nei confronti di Cesare: Dal mio amico Scapzio; anche Cicerone nel primo libro de divinatione: in Esopo, tuo amico. Usa familiare al posto di familiari Varrone verso Nerone, dal Lare familiare […].

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Il frammento 3 – così come il 2, il 4, il 5 e il 6 – proviene da una sezione dell’Ars grammatica titolata “De analogia, ut ait Romanus”.

Anche in questo caso – come per il frammento precedente – il diverso utilizzo linguistico va di pari passo con la doppia natura del termine familiaris: molto utilizzato come aggettivo (a due uscite: familiaris, -e), trova larga applicazione anche come aggettivo sostantivato con il significato di “amico intimo” e – in buona misura – di “servo”. Nelle intenzioni di Carisio c’era dunque il desiderio di fare chiarezza su questo punto. Bruto, Cicerone e Varrone fanno – in apparenza – un uso per così dire “scorretto” del termine; tuttavia la differenza grammaticale e concettuale tra aggettivo e aggettivo sostantivato poteva probabilmente sfuggire nell’uso corrente o non essere ritenuta essenziale, anche da parte di personalità letterarie di tutto rispetto.

Varrone sembrerebbe l’unico ad aver utilizzato un ablativo in -e per l’aggettivo26;

dato comunque che si tratta – ancora una volta – di un testo frammentario, si potrebbe anche ipotizzare che Varrone non abbia voluto per forza usare uno “strano” ablativo dell’espressione comune Lar familiaris (dove il Lare è proprio “familiare”, “domestico”), ma abbia voluto indicare più genericamente un Lare “amico”. Certamente, l’argomentazione è debole e poco utile alla presente trattazione.

Più attestati sono gli ablativi in -i per il sostantivo27; un esempio per tutti si trova

ancora in Cicerone, De Oratore, 1, 256:

«Reliqua […] a viro optimo et istis rebus instructissimo familiari meo Congo mutuabor».

«Per tutte le altre cose […] farò riferimento al mio amico Congo, uomo eccellente e assai dotto su queste cose».

Nel brano l’espressione familiari meo non può essere tradotta altro che con “mio amico”, trattando familiari da predicativo del soggetto. Siamo insomma davanti ad una espressione grammaticale che mescola la natura del sostantivo e quella dell’aggettivo.

Un discorso a parte riguarda l’identità del “Lucio” cui Rufo fa riferimento. Sempre secondo Bates28 si potrebbe appoggiare la congettura del filologo tedesco Conrad

Cichorius29, che propose di cambiare il nome “Lucio” in “Lucilio”. L’ambito sarebbe quello

della difesa di Lucilio da parte di Rufo nel momento in cui il primo si trova davanti al Senato a difendere la lex Thoria agraria.

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La Chassignet30 rifiuta però la vecchia lettura di Cichorius, sottolineando come la

tradizione manoscritta non venga mai a sostegno di una simile ipotesi. Inoltre, nel sistema onomastico romano sono ben presenti e distinti il praenomen Lucio e il gentilizio Lucilio e non vi è modo di dimostrare che nel framento 3 Rufo stia utilizzando il primo come una sorta di “soprannome” per il secondo.

Anche la circostanza della difesa davanti al Senato presenta qualche difficoltà: la sola preposizione pro richiama all’ambito processuale ed è poco per fare ipotesi fondate.

Ad ogni modo, per rendere giustizia alla tesi di Cichorius, va sottolineato che Rufo era contemporaneo di un noto e influente Lucilio – Gaio Lucilio il satirico – e che con ogni probabilità lo conobbe, come sembra di poter capire da Cicerone:

«Nec vero, ut noster Lucilius, recusabo quo minus omnes mea legant. Utinam esset ille Persius! Scipio vero et Rutilius multo etiam magis; quorum ille iudicium reformidans Tarentinis ait se et Cosentinis et Siculis scribere»31.

Tuttavia circa una eventuale, salda amicizia non ci sono prove a sostegno.

Il frammento 4 è lo stesso già trattato nel capitolo su Marco Emilio Scauro, e lì numerato come frammento 1.

I frammenti 5 e 6 - ancora una volta di carattere “grammaticale” - provengono sempre da quella parte dell’opera di Carisio denominata De analogia, ut ait Romanus:

frammento 5 (5 C = 11 P1 e 2 = 11 J)

CHARIS., Ars gramm. I, p. 176 B : Orbi pro orbe Cicerone […] sed et Publium Rutilium

De uita sua libro V: Ex orbi terrarum […] ita locutos Plinius […] libro VI notat. Plinio annota nel libro VI che Cicerone dice orbi anziché orbe, ma anche Publio Rutilio nel quinto libro dell’autobiografia: Da tutta la terra.

frammento 6 (6 C = 12 P1 e 2 = 12 J)

CHARIS., Ars gramm. I, p. 154 B: Aedile, ab hoc aedile, non aedili, P. Rutilium De uita

sua V * 32

Quanto a questo, aedile e non aedili (scrive ndt) Rutilio nel quinto libro dell’autobiografia.

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Per quanto riguarda il 5, il primo omissis contiene la citazione esatta di Cicerone: de Re publica libro V ’orbi terrarum comprehensos. É poi necessario integrare ulteriormente il frammento, aggiungendo il contenuto delle altre due lacune, per capire meglio il discorso di Plinio cui Carisio fa riferimento:

frammento 5 – integrazione

[…] et frequenter antiquos ita locutos Plinius eodem libro VI notat: quia consuetudo melior – inquit – quae faciat ex orbe, non sine ratione, quam in nomine rure diximus.

Plinio annota nello stesso libro VI che […] anche gli antichi di frequente si esprimono così: poiché – dice – è una consuetudine migliore che faccia ex orbe, secondo la regola, come abbiamo detto per il nome rure.

Già dall’esame del frammento 3 è apparso come l’argomento in questione sia la declinazione di alcuni nomi e aggettivi. Carisio sta facendo una carrellata di forme che, pur essendo soggette a regole grammaticali, costituiscono eccezione per analogia con altri termini.

L’opera di Plinio indicata da Carisio è quella che comunemente viene definita Dubius sermo, secondo la classificazione che Plinio il Giovane fece degli scritti dello zio. Carisio la cita per undici volte33.

Un problema sorge proprio dall’interpretazione del frammento di Plinio.

La Della Casa offre un quadro leggermente diverso. Il quae del frammento 5 – integrazione, presente nelle edizioni di Carisio curate da Keil, Barwick e Mazzarino, deriva da un segno difficilmente intellegibile dal codice preso in esame. La Della Casa preferisce quam e traduce:

«[...] Perché è preferibile la consuetudine, piuttosto che dire ex orbe, secondo la ratio che abbiamo detto per il nome rure»34.

La scelta è motivata a partire dall’opposizione concettuale fra consuetudo e ratio: nelle versioni di Keil, Barwick e Mazzarino «la frase non avrebbe senso perché orbe è la forma voluta dalla ratio e non dalla consuetudo» sostiene la Della Casa. Ciò che segue è abbreviato in N quū, dove la linea superiore sottintende una m, dunque quum. Ma sarà quindi opportuno

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correggere in quam e intenderlo come secondo termine di paragone dopo melior: Plinio legge nelle opere degli antichi orbi e ritiene che sia meglio seguirlo secondo la consuetudine, piuttosto che declinare ex orbe come vorrebbe la ratio.La posizione della Della Casa è del tutto condivisibile: il comparativo melior prevede la presenza di un secondo termine di paragone, introdotto da quam e non certo da quae. E poiché il senso complessivo del discorso impedisce di riconoscere questa funzione in quam in nomine ’rure’ diximus, è ovvio che la scelta debba cadere su quel quū della tradizione manoscritta, da emendare in quā, cioè quam.

Ciò che non lascia dubbi è proprio il fatto che orbi fosse – per Plinio – una versione utilizzata spesso e volentieri da personaggi “del passato”, fra i quali avrebbe potuto a buon diritto inserire Publio Rutilio Rufo, un uomo vissuto centocinquanta anni prima di lui. Orbi più che un arcaismo è per Plinio un termine usato da un uomo “arcaico”, almeno visto dalla sua posizione di studioso del I secolo della nostra era.

Non va poi dimenticato un fatto di importanza fondamentale, notato dalla Della Casa35: Plinio scrisse di grammatica, ma non era un grammatico. Non aveva neppure

l’attitudine dello studioso di filologia36; tutto ciò anche in omaggio al ben noto disprezzo

stoico per la grammatica formale, pur in un periodo in cui le ricerche in questo campo «appaiono come un rifugio dalla vita politica, ma in realtà rappresentano anche la voce della libertà e il solo campo dove si possa attuare e sostenere un principio filosofico»37.

Ancora una volta, circa il contesto di riferimento delle parole di Publio Rutilio Rufo si possono fare poco più che delle ipotesi. C’è un richiamo a una dimensione “universale”. Non va dimenticato che Rufo scrive tra la fine del II e l’inizio del I secolo, all’indomani di un’epoca che – più di altre – ha visto la crescita esponenziale del numero dei territori assoggettati da Roma. Può darsi che l’autore faccia riferimento a quel che sta succedendo nella società romana: il movimento di uomini e merci, il contatto sempre più stretto con nuovi popoli, l’afflusso a Roma di beni “da tutto il mondo”; oppure può darsi che dalla sua dimora asiatica Rufo abbia modo di osservare uno dei crocevia commerciali più importanti del mondo antico, e la sua espressione sia riferita ai traffici dell’Asia Minore.

Anche qui, l’indicazione del libro di provenienza – il quinto – può aiutare a tratte qualche seppur debole conclusione: a meno che Rufo non stia parlando di fatti accaduti in un passato più lontano, può darsi che si stia riferendo a una situazione attuale di Roma; forse un cenno alla decadenza portata dall’espansione e dall’afflusso di beni “da tutto il mondo”?

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Anche per il frammento 6 si rende necessario un allargamento del quadro di indagine, con l’aggiunta del paragrafo immediatamente successivo al testo:

frammento 6 – integrazione

Et Varro de Originibus scaenicis II a Claudio Pulchro aedile. Quod cum ratione dictum esse monstrabis, ut ait Secundus Sermonis dubii libro VI, quod nomina quaecumque genetivo singulari is syllaba finiuntur, exceptis his quae similiter faciunt nominativo, oportet ablativo singulari e littera terminari, a prudente, ab homine. Quod si adicias aliquid, idem in eodem Plinius, per i debet dici, a prudenti consilio.

Anche Varrone, nel secondo libro Sulle origini del teatro, (dice): dall’edile Claudio Pulcro. Cosa che mostrerai essere affermata nel rispetto della regola, come afferma Plinio Secondo nel VI libro del Dubius sermo, e cioè che qualsiasi nome finisca al genitivo singolare con la sillaba -is – tranne quelli che abbiano similmente in -is anche il nominativo singolare – debba finire all’ablativo singolare con la lettera -e (a prudente, ab homine). Ma se aggiungerai un’altra parola – come dice Plinio nello stesso passo – bisogna terminare per -i (a prudenti consilio).

Nelle raccolte di frammenti questo viene sempre collocato dopo il 5. Ma nell’opera di Carisio (strutturata in ordine alfabetico) il lemma Aedile viene prima di Orbi; anche tra i frammenti di Plinio questo è quello che dà inizio alla carrellata sugli ablativi singolari di terza declinazione.

Questa volta le parole di Plinio sono estremamente chiare: la regola generale vuole una -e per i sostantivi imparisillabi. Ma se anziché un nome si sta utilizzando un aggettivo, l’ablativo singolare sarà allora in -i. Questa norma è talmente ricorrente che la si apprende anche oggi, nel primo studio della grammatica latina, a proposito degli aggettivi cosiddetti della seconda classe.

Aedilis, -is è un parisillabo e – talvolta – può essere utilizzato come aggettivo: Varrone e Rufo non hanno rispettato le “regole”. O siamo davanti a forme che veramente non presentavano grandi differenze davanti all’uditorio latino, oppure Publio Rutilio Rufo utilizzava un linguaggio particolare, avvertito come insolito un secolo dopo la sua morte; può perciò essere a buon diritto inserito nella categoria di coloro che già Plinio sentiva come antiqui38.

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Qui finiscono i frammenti di Rufo contenenti l’indicazione del libro di provenienza. Di contro, il frammento 7 si discosta dagli argomenti grammaticali; dà perciò qualche opportunità in più di parlare delle vicende personali dell’autore.

frammento 7 ( 7 C = 13 P1 e 2 = 13 J)

ISID., Orig. XX, 11, 4: Lecticae, siue plutei lecti. De quo Rutilius Rufus De uita sua Primum, inquit, contra consuetudinem imperatorum ipse pro lectis lecticis utebatur.

Lettighe oppure spalliere o letti. A questo proposito Rutilio Rufo nel De uita sua: Per

primo – dice – contro la consuetudine dei comandanti, egli utilizzò lettighe anziché letti.

L’opera di provenienza del frammento sono gli Etymologiarum Originum libri XX, di Isidoro di Siviglia. Nel capitolo in questione – intitolato De lecticis et sellis – Isidoro descrive l’origine della parola lectica e ripercorre la storia materiale dell’oggetto:

«Lecticae a lectis herbis vocatae. Stratus ab sternendo dictus, quasi storiatus. In his solis antiqui ad dormiendum adcubabant, nondum laneis stramentis repertis. Storia, quod sit terra strata. Cama est brevis et circa terram; Graeci enim χαμαὶ breve dicunt. Cubile est cubandi locus. Grabatum graecum est. Baianula est lectus qui in itinere baiolatur, a baiolando, id est deportando. Pulvinar lectus divitum est: inde et pulvillus. Spingae sunt in quibus sunt spingatae effigies, quos nos gryphos dicimus. Punicani lecti parvi et humiles primum a Cartagine advecti, et inde nominati».

«Le lettighe prendono nome dalle erbe raccolte. La coperta ha nome dallo stendere, come una stuoia. Gli antichi per dormire si accomodavano su queste superfici, non avendo ancora introdotto le coperte in lana. Usavano la storea, cioè la terra sparsa. La cama è corta e a contatto con la terra: infatti i greci per dire “brevemente” dicono χαμαὶ. Cubile è il luogo dove si giace. Il grabatus (lettuccio) è greco. La portantina è un letto che viene spostato, da ’portando in spalla’ cioè ’trasportando’. Il pulvinar è

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un letto di lusso e quindi lo è anche il pulvillus (piccolo pulvinar). Le spingae sono quei letti su cui ci sono le immagini spingatae, che noi chiamiamo “grifi”. I letti punici – piccoli e semplici – sono stati importati da Cartagine: di qui il loro nome».

Segue il testo per noi indicato come frammento 7; quindi Isidoro continua la sua trattazione:

«Sponda autem exterior pars lecti, pluteus interior».

«Inoltre la sponda è la parte esterna del letto mentre il pluteo è quella interna». E così via, descrivendo nei dettagli i letti, i giacigli et similia. Rutilio sembrerebbe voler porre l’accento sulla qualità semplice, quasi spartana del giaciglio. La grande varietà di mobili descritti da Isidoro ci dà l’opportunità, se non altro, di sapere che Rufo faceva riferimento qui ad un particolarissimo tipo di letto, a quello e non ad un altro; ad un modello di mobile immediatamente riconoscibile dal lettore.

In realtà la rassegna di Isidoro risulta piuttosto disordinata: gli oggetti in questione non sono raggruppati secondo la loro tipologia, perciò non è dato di sapere se l’argomento sono, per esempio “i letti il più possibile frugali”. Parte della comprensione del testo passa necessariamente da quel siue: congiunzione assai comune nella lingua latina, potrebbe avere qui un valore fortemente oppositivo o più debolmente coordinativo: volendo si potrebbe far spaziare la traduzione da “Lettighe, o se vuoi spalliere o letti” a “Lettighe oppure spalliere o letti”. É chiaro come nel primo caso la lettiga indichi un oggetto tutto sommato simile al letto ordinario; nel secondo gli oggetti sono più marcatamente distinti.

Due sono i dati sicuri: nel testo di Isidoro la lettiga fa parte delle suppellettili atte al sedersi e non è certamente un letto di lusso, indicato a chiare lettere come pulvinar o pulvillus, a seconda delle dimensioni. In secondo luogo Rutilio dice esattamente che il personaggio “usò lettighe anziché letti” oppure – per rendere ragione a quel pro - “usò lettighe a mo’ di letti”. Inoltre, da una parte Varrone39 ha dato una sua descrizione storica e

etimologica di cosa fosse una lectica (da notare, tra l’altro, il riferimento al contesto militare); dall’altra, l’intera tradizione antica porta a pensare ad un oggetto particolare, atto sì al sedersi ma – soprattutto – al trasporto40.

Esaminando il frammento 7 Peter credette di poter individuare un aneddoto relativo a Scipione l’Emiliano, all’epoca dell’assedio di Numanzia. Base per questa affermazione fu il racconto di Appiano41: secondo lo storico di Alessandria, l’Emiliano fu a capo di una vera e

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propria campagna di moralizzazione dei costumi e delle abitudini dei soldati, fino ad arrivare a proibire il possesso di letti propriamente detti, a favore dell’uso dei più frugali pagliericci. Questa sembra una buona traduzione per κλίνας e στιβαδων. Perché se κλίνη è un termine abbastanza generico per indicare un letto, στιβαδων fa riferimento inequivocabilmente a un giaciglio di paglia, foglie, canne...a un pagliericcio insomma. Certamente, se pensiamo alla lettiga come mezzo di trasporto, ecco una leggera stonatura con il testo di Appiano, che immediatamente di seguito aggiunge:

«ἀπεῖπε δὲ καὶ ὁδεύοντας ἡμιόνοις ἐπικαθέζεσθαι: τί γὰρ ἐν πολέμῳ προσδοκᾶν ἔϕη παρ’ἀνδρὸς οὐδὲ βαδίζειν δυναμένου;».

«Vietò anche di avanzare in groppa ai muli quando marciavano: che cosa mai puoi aspettarti in guerra – diceva – da un uomo che non è neppure capace di camminare?».

Si può conciliare il divieto per il soldati di utilizzare muli e l’utilizzo – per sé – di una portantina? Probabilmente sì, a voler leggere i testi con attenzione: le fonti potrebbero indicare un comandante che – anche nel momento del riposo, del banchetto, del sonno... - è sempre pronto a farsi condurre sul campo.

C’è di più: non va dimenticata – nella carriera di Rufo – la sua importante partecipazione alla campagna di Numanzia, proprio a fianco dell’Emiliano42. Dai risultati

degli scavi di Schulten43 , pare che Scipione l’Emiliano disponesse a Numanzia di un triclinio,

cioè di una sala per banchetti. Con l’arrivo di Scipione nella penisola Iberica – come rileva Simon44: «Furono ordinati incisivi cambiamenti nello stile di vita […]. Con lodi risparmiate

[…] ma senza punizioni; tutta quella marmaglia inerte che brulicava nel campo invernale fu cacciata via […]. Egli (scil. Scipione l’Emiliano, ndt) trattava gli ufficiali con la più pungente ironia. Più tardi, come ebbe in mano un esercito solido, Scipione però non mantenne i modi di vita spartani delle origini».

Certamente il triclinio è un elemento che rimanda ad abitudini lussuose; ma non per questo le parole di Appiano o di Rufo perdono validità: senza soffermarsi sugli aspetti politici e sociali del banchetto – che giustificherebbero probabilmente la presenza di una sala nel Pretorio di Numanzia – può darsi che anche in quel contesto Scipione mantenesse (o magari ostentasse) un habitus di sobrietà, accontentandosi di sedere su una lettiga improvvisata – anziché su un lussuoso letto di bronzo o d’avorio, secondo la moda

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ellenistica ben nota dai rinvenimenti archeologici – e mostrandosi sempre pronto a farsi portare sul campo di battaglia. Quel che è certo è che Rufo era fisicamente presente a Numanzia: avrà perciò saputo compiutamente quali erano i mezzi e le suppellettili a disposizione del comandante.

Simon – sempre appoggiandosi alle ricerche di Schulten – annota anche che il Pretorio di Scipione a Numanzia era costituito da un peristilio greco di età ellenistica e aveva anche un triclinio e alloggi per i tribuni. Valerio Massimo e Plutarco45 riferiscono di

un banchetto celebrato per festeggiare i successi di Mario.

L’atteggiamento apparentemente ambivalente di Scipione dunque non presenta problemi: come si può arguire dalle parole di Simon, nel comportamento complessivo del generale potrebbe anche esserci stata un’evoluzione; e così – mentre in un primo momento l’Emiliano aveva proceduto a una moralizzazione dei costumi per riportare nei ranghi un esercito fiacco e demotivato – una volta presa in mano la situazione e ottenuti i primi risultati tangibili Scipione può aver pensato che fosse giunto il momento di rilassarsi e godersi i meritati festeggiamenti, tributando ai vincitori gli onori dovuti. É a questa fase che farebbero riferimento autori antichi e studiosi moderni quando descrivono allestimenti piuttosto sofisticati.

Restano ancora due frammenti attribuibili con certezza all’autobiografia di Publio Rutilio Rufo e nessuno dei due riporta l’indicazione del libro di provenienza. Dobbiamo la loro tradizione al grammatico Diomede, che ce li riporta nella sua opera, a breve distanza l’uno dall’altro.

frammento 8 (8C = 14 P 1 et 2 = 13J)

DIOM. I p.374 K: Sino siui, ut Publius Rutilius De uita sua: Quod si me inuitum abire siuissent[...].

Sino siui, come (dice ndt) Publio Rutilio nell’autobiografia: perché se avessero

lasciato che io me ne andassi controvoglia [...].

A Diomede interessa, come di consueto e come avverrà anche per il prossimo frammento, l’aspetto grammaticale. Ci troviamo qui in un punto dell’Ars grammatica che abbiamo già avuto modo di trattare parlando di un frammento di Marco Emilio Scauro46 e

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Il contenuto della frase di Rufo fa già sentire ad una prima lettura tutta la precarietà del frammento: siamo davanti ad una protasi, introdotta naturalmente da si, ma non abbiamo idea alcuna di quale fosse l’apodosi conseguente.

Tra i vari tipi di proposizioni condizionali, nella lingua latina l’imperfetto congiuntivo (siuissent) è caratteristico del periodo ipotetico dell’irrealtà. Molto probabilmente dunque il nostro personaggio sta dando descrizione di una circostanza possibile – in senso assoluto – ma che nella realtà non avrebbe mai potuto verificarsi.

Sempre da un punto di vista formale, è giusto segnalare pure la lacuna segnalata subito dopo il frammento di Rufo nelle edizioni critiche. Keil ipotizza che Diomede riportasse un breve periodo dell’Andromaca di Terenzio47: «dum tempus ad eam rem tulit,

sini animum ut expleret suum».

La domanda più ovvia da farsi è: ammesso e non concesso che Rufo stia parlando di se stesso e non stia – per esempio – riportando un discorso di un altro personaggio in prima persona, a quale episodio sta facendo riferimento?

Qui si entra veramente nell’ambito delle congetture, anche perché alcuni dati che abbiamo sulla vita di Rufo sono stati ricavati negli anni proprio dai frammenti dell’autobiografia: il rischio è quello di finire in uno sterile circolo vizioso.

Per quanto sappiamo il nostro personaggio si spostò abbastanza di frequente nel corso della sua lunga vita. Naturalmente – associando una partenza con un’azione commessa controvoglia – il primo pensiero va all’episodio dell’esilio a cui Rufo si autocondannò: questo fatto non poteva che avere una grande rilevanza nell’autobiografia. L’esilio è naturalmente anche una delle vicende più raccontate dalle fonti: ecco cosa dice Valerio Massimo48:

«Mentre partiva per raggiungere l’Asia tutte le città di quella provincia gli mandarono incontro delle ambascerie che aspettavano la sua ritirata».

L’aneddoto è senza dubbio interessante e descritto in maniera vivace e precisa; pare quasi al lettore di assistere ad una specie di ’sfilata’ di Rufo da Roma – luogo dove ha subito il “rifiuto” da parte della classe politica dominante – all’Asia, provincia in cui gode davvero buona fama.

Quale era esattamente il ruolo di queste ambascerie? Forse offrire ospitalità da parte della città che le inviava? O semplicemente manifestare un consenso e scortare

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pomposamente Rufo verso la sua destinazione definitiva? Aggiunge Valerio Massimo di seguito:

«In questo caso è più giusto parlare di trionfo che di esilio»49.

È sempre possibile associare questo “corteo” attraverso l’Asia – con tanto di ambascerie al seguito – con l’idea di una partenza controvoglia, ma gli argomenti sono davvero debolissimi.

Non va poi dimenticata la sintassi della frase: Rufo dice «se mi avessero lasciato andare» ma è sottinteso che ciò non si è mai verificato e che i soggetti di siuissent, chiunque fossero, non lo hanno mai lasciato andare: nel periodo ipotetico di terzo tipo – come abbiamo visto – la circostanza espressa nella protasi non è reale.

Nell’impossibilità di fare ipotesi convincenti sull’identità dei soggetti e sul contenuto di un’apodosi che non ci è pervenuta, non rimane che analizzare nella maniera più compiuta possibile le parole di Rufo ripercorrendo di pari passo alcuni aspetti dell’episodio più probabile per l’attribuzione di un simile frammento, quello del processo, della condanna e dell’esilio.

Molte fonti concordano nell’individuare – nella decisione del tribunale di condannare Rufo dopo un’accusa di crimen de repetundis – una sorta di vendetta da parte dei pubblicani, risentiti per il modo rigoroso e trasparente che il nostro personaggio ebbe nel gestire la provincia d’Asia50. Dietro a queste figure di pubblicani si affaccia naturalmente la

figura di Gaio Mario. Gli attriti fra Mario e Rutilio Rufo hanno radici profonde, si può comunque far risalire il loro dissidio al contenuto della riforma militare mariana, alla diversa concezione circa l’atteggiamento da tenersi da parte di un comandante e alla più generica appartenenza a ceti e gruppi politici diversi.

Come giustamente sottolineato da Marta Sordi51, fra le intenzioni di Mario c’era

sicuramente quella di dare un appoggio significativo al popolo, invocando spesso i diritti da ascrivere alla naturale virtus dell’individuo, piuttosto che quelli dovuti per nascita52. Il

modo in cui un esercito essenzialmente plebeo e proveniente dai più bassi gradini della scala sociale poteva essere mantenuto fedele e compatto nella difesa della res publica era un punto critico: come poteva un comandante mantenersi vicini i soldati se non disponeva di una cospicua quantità di beni e di denaro? Questo fu uno dei nodi della disputa fra Mario e i suoi avversari; in questo scenario è facile intuire da che parte stesse un ottimate quale

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Publio Rutilio Rufo53. Del resto – sempre come sottolinea Marta Sordi – il nostro non fu

particolarmente vicino neppure a Silla: «Rutilio […] non lesinava però le sue critiche neppure nei confronti di Silla […] e non esitava a riconoscere che era stato Silla a sfruttare per primo, nel modo più pericoloso per lo Stato, la riforma militare di Mario. In effetti la demagogia verso i soldati […] fu attuata da Silla che si servì delle sue legioni nell’ 88 per marciare su Roma e vendicarsi dei suoi nemici, non da Mario che per recuperare il potere dopo la partenza di Silla arruolò gli Etruschi». Rispetto ai due protagonisti della guerra civile Rufo sembra – anche qui – un “uomo d’altri tempi”, che non si riconosceva nell’operato di Mario e che non si sarebbe riconosciuto appieno neppure in quello di Silla, sebbene politicamente più vicino a quest’ultimo. Ad ogni buon conto, nel suo dramma personale a Rufo non mancarono sostenitori. Se si vuole vedere nell’esilio del nostro autore la vendetta dei mariani verso un pericoloso oppositore, i loro argomenti contro Rufo devono essersi sviluppati già negli anni precedenti la condanna (92 a.C.). Forse è necessario risalire al periodo immediatamente successivo alla riforma dell’esercito, o ancora prima, all’epoca del servizio militare a Numanzia e nella campagna contro Giugurta.

Marta Sordi ha addirittura ritenuto di poter identificare nel passo citato dalla vita plutarchea di Silla un nuovo frammento da attribuire a Rufo54.

Queste riflessioni non aiutano tanto a mettere in relazione il frammento 8 con un momento particolare della vita di Rufo, con l’esilio per esempio. Però fissano il quadro entro cui si consumò la vicenda e ci fanno capire come la condanna del nostro autore non fu certo un fatto marginale nella storia di quegli anni; non fu dovuto alla contesa fra politici di piccolo calibro, bensì fu un evento dei più significativi nel clima turbolento della prima guerra civile, fin dalle prime avvisaglie del conflitto.

Quel verbo abire certamente non può che solleticare l’immaginazione del lettore nell’individuare una partenza, un esilio. Ma mancano troppi elementi: manca innanzitutto la certezza che il verbo si riferisca proprio a una partenza e – nella fattispecie – a una partenza per l’Asia. Quanto a siuissent, manca il soggetto che – da solo – aggiungerebbe un elemento interpretativo importante.

Rimane da esaminare la parola invitum, “controvoglia”, “malvolentieri”. In realtà, l’esilio di Rufo fu volontario o imposto dalla condanna? Se fu lui, per sdegno e orgoglio, a voler andare in Asia dopo un esito processuale così clamoroso, un simile avverbio sembra un po’ stridente.

Alexander55 ha puntualmente stabilito come data della condanna di Rufo l’anno 92.

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patrocinare la difesa dell’ex console furono Quinto Mucio Scevola e Gaio Aurelio Cotta, console nel 75 a.C., nipote dell’imputato, mentre l’accusa fu portata attraverso tale Apicio57.

Dal frammento 97 di Dione Cassio58 apprendiamo che «Rutilio – che era un uomo

virtuoso – fu condannato nel modo più ingiusto possibile. Fu portato infatti davanti al tribunale con l’accusa di concussione, grazie ad un intrigo degli equites […] e venne privato da loro dei propri beni. Fecero queste cose preoccupati nel loro cuore, perché Rutilio li aveva colti in fallo parecchie volte nella riscossione delle tasse. Così egli si difese nel modo più nobile possibile e non disse nient’altro se non ciò che avrebbe detto un brav’uomo quando è calunniato; gridò a gran voce lamentandosi più per la situazione dello Stato che per la sua. Ad ogni modo fu sconfitto e subito privato delle sue cose».

Il resto è testimoniato da Valerio Massimo: Rufo, condannato, «huic voci consentanea illa propter illi opera quod magis ordinum dissensione quam ulla culpa sua reus factus nec insignia senatoris deposuit nec supplices ad genua indicum manus tetendit . atque etiam cum ei reditum in patria sullana victoria praestaret in exilio ne quid adversus leges faceret remansit»59.

A proposito di questo testo dice Alexander: «Val. Max. notes that the defendant refused to return in Rome ne quid adversus leges faceret. Dio says he was under compulsion to leave Rome60».

Senza soffermarsi troppo sul significato di compulsion, è sufficiente per la nostra ricerca prestare attenzione alle parole di Dione, il quale dice chiaramente che Rufo lasciò Roma μηδενὸς ἀναγκάζοντος, senza – cioè – che niente o nessuno lo obbligasse. Infatti anche Earnest Cary, nell’edizione Loeb61, traduce: «though under no compulsion». Dopo la

condanna, la confisca dei beni e la scoperta dell’esiguità di quanto Rufo aveva accumulato negli anni, l’esilio sembrerebbe in definitiva un atto del tutto volontario, dettato dall’amarezza, dallo sdegno per la piega che la politica stava prendendo a Roma. Se ci fu una compulsion dovette essere di ordine essenzialmente morale; un obbligo sentito intimamente da Rufo per sottrarsi alla vista dello scempio.

Quanto alle parole di Valerio Massimo62, per sottolineare lo spessore morale di

Rutilio Rufo abbiamo visto che – davanti all’invito di Silla – non volle tornare a Roma “per non commettere nulla che andasse contro le leggi. E che cosa prevedevano le leggi?

Un possibile testo di riferimento è quello – abbiamo detto – della lex Servilia Glaucia de repetundis, che reintroduceva i Cavalieri nella quaestio perpetua de repetundis63. La legge

prevedeva senz’altro la confisca dei beni, la restituzione del maltolto, eventualmente l’esilio o la pena capitale. Forse agli avversari di Rufo bastava – in quel momento – liberarsi del loro

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nemico lanciandolo nel discredito dell’opinione pubblica, senza necessariamente allontanarlo dalla città, ma semplicemente colpendolo laddove lui aveva colpito i pubblicani: nei beni ottenuti per via di malversazioni. Quel che poi Rufo ha deciso di fare successivamente potrebbe essere la scelta personale di un politico di lungo corso che vede tramontare – al tempo stesso – la sua persona e il suo modo di occuparsi della cosa pubblica. Bisogna sottolineare comunque che nel frammento si parla di leges e non di una legge in particolare; quello di Rufo potrebbe essere non un riferimento alla legge in base alla quale era stato condannato, ma un appunto contro il degrado della vita politica a Roma: ritornare nel “gioco” politico era ormai impossibile per chi – come Rufo – volesse mantenersi onesto e rispettare – in senso lato – le leggi.

Comunque il contesto del frammento 8 potrebbe essere questo: rispetto a una possibilità di ritorno dallʼesilio in Asia – caldeggiato addirittura dal vincitore Silla – Rufo scrive: «Se avessero lasciato che io me ne andassi controvoglia». Ciò spiegherebbe l’utilizzo del verbo abire, dell’avverbio invitum e del periodo ipotetico dell’irrealtà: Rufo morirà a Smirne, senza mai più metter piede a Roma né in Italia.

frammento 9 (9C = 15P1 et 2 = 14J)

DIOM. I, p 376K: “Ostendor ostentus, quoniam sit tendor tentus; nam ostentatus

est frequens P.Rutilius Rufus De uita sua: Uni una ostentata est.

Ostendor, ostentus, dal momento che -tendor fa tentus. Ma è frequente anche la forma ostentatus: Publio Rutilio Rufo nell’autobiografia: una cosa è stata presentata a uno

solo.

Davvero poche sono le considerazioni che si possono fare attorno a queste parole. Non si conosce con esattezza il soggetto dell’azione, né chi sia l’unus coinvolto. La frase ha il sapore della massima conclusiva o esplicativa, ma è completamente decontestualizzata. La stessa forma verbale ostentata si presterebbe a più traduzioni.

Per prima cosa questo participio rimanda a due verbi attestati: ostendo e ostento. Nella pratica della traduzione questi verbi hanno un campo semantico molto simile, per non dire identico, e l’utilizzo dell’uno o dell’altro non dovrebbe comportare significative scelte di senso. Lo stesso Diomede ci fa capire che ostentatus è forma frequentemente attestata come participio di ostendo. Il grammatico sta parlando, in questa sezione della sua opera, dei verbi con terminazione in -r e dei loro participi; spiega semplicemente che ostentus è il participio

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