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I. Il Carmide: struttura drammatica e peculiarità Il

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I. Il Carmide: struttura drammatica e peculiarità

Il Carmide fa parte della V tetralogia del corpus, insieme a Teagete, Lachete e Liside. Si tratta di dialoghi aporetici ascritti alla prima fase della produzione di Platone6 . L’indagine si svolge nel tentativo di definire il concetto di sophrosyne7 , anche se presenta

una serie di risvolti e di implicazioni aggiuntive per le quali sarebbe semplicistico ingabbiare il dialogo entro un rigido schema. La forma narrativa è quella indiretta, ma sarebbe più corretto parlare di forma mista, dato il carattere fortemente mimetico della dialettica8 . Gli interlocutori di Socrate sono due: Carmide, giovane di straordinaria bellezza, e il maturo Crizia9 , parente e tutore di Carmide. Il Carmide è un dialogo complesso, vario nelle argomentazioni e a volte difficile da ricostruire nei suoi nessi logici, cosa che ha generato una mole di sforzi interpretativi che si rivolgono nelle più disparate direzioni: se da un lato si cerca di connettere logicamente i passaggi che legano le varie sezioni del dialogo, senza tener in giusta considerazione il contesto storico-culturale di riferimento e l’identità degli interlocutori, dall’altro ci si focalizza esclusivamente sul dettaglio storico-politico, senza considerare l’aspetto filosofico e letterario del Carmide10

. La nostra interpretazione metterà al centro la dimensione letteraria del dialogo. All’interno di questa dimensione trova posto la storia, quella del contesto, dei personaggi e dell’epoca il cui il dialogo fu scritto.

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Per alcune considerazioni sui dialoghi c.d. socratici v. E. J. I. P. S. 2009, 1-29.

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Sul concetto di sophrosyne v. North 1966; Fouchard 1997, 167 ss.; 211; 229 ss.; 254. Per la sophrosyne in Platone v. Gastaldi 1998b.

8

Per la teorizzazione delle forme narrative cf. Rp. 392 a ss.

9

Nel dialogo Crizia sottolinea la parentela con Carmide (154 b). La vicenda biografica di Carmide è affine a quella di Crizia. Come Crizia, Carmide ebbe un ruolo di primo piano nel governo dei Trenta, morendo insieme a Crizia nella battaglia sul colle di Munichia nel 403 a.C. Nel corpus di Platone Carmide compare fugacemente nel Protagora, in una scena che lo ritrae mentre passeggia accanto a Protagora nel primo portico (315 a 1), nel Teage (128 e) e nell’Assioco.

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L’aspetto politico viene sottolineato in particolare da Notomi 2000, 237-250; per l’aspetto storico e in particolare il rilievo del contesto in cui Platone scrisse il Carmide v. Dušanić 2000, 53-63. Per quest’ultimo nel Carmide ci sarebbe un’apologia di Crizia. Tra i commentari del Carmide ricordiamo: Dieterle 1966; Tuckey 1968; Witte 1970; Van der Ben 1985; contributi monografici più recenti sono quelli di Schimid 1998; Tuozzo 2011. Ricordiamo inoltre le edizioni con traduzione e commento di Centrone 1997, punto di riferimento per la lettura ragionata del dialogo che segue; Dorion 2004. Sul testo del Carmide v. recentemente Murphy 2002; Id. 2007.

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9 Osservare il dialogo come un’opera letteraria permette inoltre di apprezzarne la sua natura fortemente drammatica11 . All’interno del dramma si muovono maschere dotate di forte verosimiglianza. Osservare da vicino la maschera di Crizia, confrontandola con la sua reale identità, è lo scopo del presente lavoro. Ma prima di focalizzarci su Crizia è necessario dare uno sguardo agli snodi fondamentali del dialogo: la scena iniziale dai toni fortemente realistici, in cui il dettaglio storico assume un peso non indifferente e in cui fanno il loro ingresso i personaggi; l’avvio dell’elencos con Carmide, volto a trovare una corretta definizione della sophrosyne; la seconda, più complessa, dialettica tra Crizia e Socrate, che porterà all’aporia finale. Questa prima lettura del dialogo sarà un punto di riferimento per i successivi rinvii al testo e al contempo consentirà di mettere in rilievo la fitta rete di allusioni che il dialogo contiene.

I.1 La ricerca della sophrosyne: struttura drammatica del Carmide

L’incipit del Carmide (153 a) non lascia spazio ad equivoci. Il riferimento è al 432 a.C., anno della battaglia di Potidea, alla quale partecipa lo stesso Socrate. La scena iniziale è molto vivace. Socrate racconta del suo ingresso nella palestra Taurea, piena di gente, la maggior parte familiare. Cherefonte, μανικὸς ὤν (153 b2), sempre esagitato, accoglie Socrate e lo prega di raccontare la battaglia, facendolo sedere accanto a Crizia (153 c7) che fa il suo ingresso nel dialogo. Socrate viene sommerso da domande sulla battaglia (153 d). Dopo aver appagato tutti con le sui risposte Socrate interroga sui fatti di Atene, sulla filosofia e sui giovani, se sia venuto fuori qualcuno che si distingua ἢ σοφίᾳ ἢ κάλλει ἢ ἀμφοτέροις (153 d 4-5), definendo in questo modo il suo raggio di interessi. Crizia loda la bellezza di Carmide e anche il suo essere kalos kai agathos. Questa nobiltà d’animo del giovane è ricondotta da Socrate all’appartenenza alla stessa famiglia di Crizia (154 e)12

, ovvero la famiglia di Platone13 . Crizia, nel lodare Carmide, lo definisce φιλόσοφός καὶ πάνυ ποιητικός (155 a)14

. Questa caratteristica è dovuta, secondo Socrate, alla parentela con Solone15 . Crizia e Socrate fanno un accordo: dal momento che Carmide soffre di un

11

Sulla natura drammatico - letteraria dei dialoghi e sulla relazione tra aspetto letterario e filosofico v. Frede 1992, 201-219; Nightingale 1995; Kahn 1996; Halliwell 2002 (ma anche 2005 e 2011b); Wolfsdorf 2004a; Giuliano 2004; id. 2005; Szlezák 2004; Arrighetti 2006; McCabe 2008.

12

v. McCabe 2007, 1-19.

13

A proposito si veda Rosenmeyer 1949; Davies 1971, 323 ss.; Tulli 1994. Per alcune riflessioni sull’eredità di Crizia in Platone v. infra, § II. 2.1.

14

Ch. 155 a 1, καὶ πάνυ γε, ἔφη ὁ Κριτίας, ἐπεί τοι καὶ ἔστιν φιλόσοφός τε καί, ὡς δοκεῖ ἄλλοις τε καὶ ἑαυτῷ, πάνυ ποιητικός.

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10 appesantimento alla testa al mattino, Socrate dovrebbe fingere di possedere un pharmakon (155 b 9) per curare questo male. L’ingresso di Carmide è fortemente teatrale e a tratti comico. Gli uomini presenti, infatti, si spingono a vicenda per far posto al giovane, che alla fine siederà tra Socrate e Crizia. Celebre è la scena che segue, unicum nel corpus. Lo sguardo di Carmide, ἀμήχανόν τι 155 d 1, è talmente irresistibile che Socrate si lascia andare a pensieri eroticamente connotati: vidi ciò che era dentro il mantello e avvampai (εἶδόν τε τὰ ἐντὸς τοῦ ἱματίου καὶ ἐφλεγόμην, 155 d 3-4). Passato l’impatto iniziale, Socrate riacquista il controllo di sé. Nel far credere a Carmide di possedere un pharmakon per il dolore alla testa, Socrate sottolinea come per il funzionamento del pharmakon sia necessario un’epode, un incantesimo appreso in battaglia da uno dei medici Traci di Zalmossi (156 d), capaci anche di rendere immortali16 : ἀπαθανατίζειν (156 d 6) è il verbo utilizzato17 . Più avanti si comprende come l’incantesimo consista di fatto nei kaloi logoi.

θεραπεύεσθαι δὲ τὴν ψυχὴν ἔφη, ὦ μακάριε, ἐπῳδαῖς τισιν, τὰς δ᾽ ἐπῳδὰς ταύτας τοὺς λόγους εἶναι τοὺς καλούς (Ch. 157 a 4 – 5)

I bei discorsi infatti sono in grado di curare l’anima, a cui il corpo è collegato. Da tali discorsi si genera la sophrosyne e una volta che la sophrosyne insorga, allora da essa si ottiene la salute sia nella testa che nel resto del corpo. Questo l’insegnamento di Zalmossi. Dunque la predisposizione a lasciarsi incantare l’anima è la condizione che Socrate pone18

. Dalla prospettiva di Crizia, Carmide possiede già quella sophrosyne che dovrebbe costituire l’oggetto dell’incantesimo. Infatti egli si distingue tra i suoi coetanei non solo per la bellezza esteriore, ma anche perché dotato di sophrosyne. Socrate si mostra ironicamente consenziente e riconduce ciò nuovamente alle origini familiari. In 157 e - 158 a torna infatti il motivo genealogico, che già era comparso precedentemente (155a). La casata di Crizia - Carmide è stata lodata da Anacreonte e Solone, citato per la seconda volta19 , e molti altri poeti (ἥ τε γὰρ πατρῴα ὑμῖν οἰκία, ἡ Κριτίου τοῦ Δρωπίδου, καὶ ὑπὸ Ἀνακρέοντος καὶ ὑπὸ

16

Quest’episodio e il significato filosofico che cela al di là di quello letterale è messo in rilievo da McCabe 2008, 11-14. La questione verrà ripresa infra, § IV.2.1.

17

A proposito Murphy 2000, 287-295, che conclude I suspect then that Plato uses the doctor of Zalmoxis as a mask for so-called Bacchic cultists of Pythagoreans. Sui Traci e Zalmossi cf. Hdt. IV 93-96.

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Più avanti (infra, § IV.2.1) si vedrà come il riferimento all’epode sia pieno di implicazioni. Per il ruolo dell’incantesimo nella Repubblica in relazione alla poetica di Platone si veda Halliwell 2011b. Sull’educazione dei caratteri come educazione dell’anima vista come un tutto v. Gill 1985, 1-26, con focus sulla Repubblica.

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L’insistenza sulle radici genealogiche non è casuale, così come la presenza del verbo enkomiazein. Per la centralità di Anacreonte anche in rapporto a Crizia v. infra, § III.2.1. Per l’importanza dell’encomio nella definizione di un’identità aristocratica v. infra, § III.2.2 (Prodico). Com’è noto l’encomio è l’unica forma di mimesis, accanto all’inno, consentita da Platone nella città ideale (Rp. X , 606 a- 607 a).

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11 Σόλωνος καὶ ὑπ᾽ ἄλλων πολλῶν ποιητῶν ἐγκεκωμιασμένη παραδέδοται ἡμῖν, 157 e 5 - 7). Socrate allora si rivolge direttamente a Carmide (158 c - e), chiedendogli se già partecipi della sophrosyne. Il ragazzo, arrossendo, risponde οὐκ ἀγεννῶς. Da un lato, infatti, ammettere di possedere la saggezza sarebbe un atto di presunzione, dall’altro negare ciò significherebbe negare verità alle parole di Crizia. Da qui parte l’indagine (κοινῇ ἂν εἴη σκεπτέον 158 d 8) volta a trovare una definizione di sophrosyne. Le articolazioni dell’indagine sono le seguenti:

a) I definizione di Carmide (159 b 2 - 6): a)159 b 2 – 6 I definizione di Carmide

τὸ κοσμίως πάντα πράττειν καὶ ἡσυχῇ = ἡσυχιότης τις b) 160 e 2 – 5 II def. di Car.

δοκεῖ τοίνυν μοι (…) εἶναι ὅπερ αἰδὼς ἡ σωφροσύνη c) 161 b 5 – 6 III def. di Car.

ἄρτι γὰρ ἀνεμνήσθην - ὃ ἤδη του ἤκουσα λέγοντος - ὅτι σωφροσύνη ἂν εἴη τὸ τὰ ἑαυτοῦ πράττειν

d) 162 c sgg. I def. di Crizia= III def. di Car.

Crizia diventa il principale interlocutore del dialogo

e) 163 e 10 II def.di Cri.

(…) τὴν γὰρ τῶν ἀγαθῶν πρᾶξιν σωφροσύνην εἶναι σαφῶς σοι διορίζομαι f) 164 d 3 – 4 III def. di Cri.

(…) αὐτὸ τοῦτό φημι εἶναι σωφροσύνην, τὸ γιγνώσκειν ἑαυτόν

g) 166 c 1-2 IV def. di Cri.:

(…) ἡ δὲ μόνη τῶν τε ἄλλων ἐπιστημῶν ἐπιστήμη ἐστὶ καὶ αὐτὴ ἑαυτῆς. h) 169 c 2 – d 1 L’aporein di Crizia

i) 171 b 5 -172 a L’utopia del buon governo l) 173 a 7- d 5 Il sogno di Socrate

m) 174 b10 e sgg. IV def. di Cri.

sophrosyne come scienza del bene e del male

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12 ἔπειτα μέντοι εἶπεν ὅτι οἷ δοκοῖ σωφροσύνη εἶναι τὸ κοσμίως πάντα πράττειν καὶ ἡσυχῇ, ἔν τε ταῖς ὁδοῖς βαδίζειν καὶ διαλέγεσθαι, καὶ τὰ ἄλλα πάντα ὡσαύτως ποιεῖν. καί μοι δοκεῖ, ἔφη, συλλήβδην ἡσυχιότης τις εἶναι ὃ ἐρωτᾷς.

Come è evidente, Carmide pone l’accento su un comportamento esteriore. L’allusione all’agire kosmios, in maniera ordinata, riflette la visione tradizionale della virtù presa in esame20 . Un tale tipo di azione ha come risultato visibile hesychiotes tis, una certa pacatezza. Nonostante il carattere esteriore della definizione di Carmide si apprezza uno sforzo nella direzione dell’astrazione a proposito del termine ἡσυχιότης. La confutazione socratica è incentrata sul fatto che in molte azioni come scrivere, suonare, correre, capire, la velocità è migliore della pacatezza.

b) II definizione di Carmide (160 e 2 - 5):

δοκεῖ τοίνυν μοι, ἔφη, αἰσχύνεσθαι ποιεῖν ἡ σωφροσύνη καὶ αἰσχυντηλὸν τὸν ἄνθρωπον, καὶ εἶναι ὅπερ αἰδὼς ἡ σωφροσύνη.

La sophrosyne è definita come pudore21 . La confutazione avviene questa volta attraverso la citazione di un verso di Omero, Od. XVII 347: αἰδὼς δ᾽ οὐκ ἀγαθὴ κεχρημένῳ ἀνδρὶ παρεῖναι. L’uso di Omero come autorità in sede confutatoria ha una valenza ironica, come nota Centrone22 . Lo stesso verso lo si trova in Esiodo (Op. 317-19) all’interno di una valutazione tra un pudore buono e uno cattivo. Dunque la valutazione negativa di Socrate, così come la definizione di Carmide, sono perfettamente in linea con la tradizione23 .

c) III definizione di Carmide (161 b 5-6) ἄρτι γὰρ ἀνεμνήσθην—ὃ ἤδη του ἤκουσα λέγοντος— ὅτι σωφροσύνη ἂν εἴη τὸ τὰ ἑαυτοῦ πράττειν. La sophrosyne come il fare le proprie cose, τὸ τὰ ἑαυτοῦ πράττειν. Questa definizione, che segue di poco la precedente, non è riportata come opinione personale, ma come opinione - ὃ ἤδη του ἤκουσα λέγοντος - 20 Cf. Phed. 68 c 8 – 12. 21 Cf. Plat. Plt. 307 e. 22

Centrone 1997 997, 249 n.36. In Odissea XVII 347 è Telemaco a pronunciare il verso, comandando al porcaio di recare un cesto di pane al mendicante (Ulisse): per un uomo bisognoso di cibo non è bene vergognarsi. L’utilizzo in questa sezione del dialogo di questo tipo di confutazione da parte di Socrate fornisce indizi sulla caratterizzazione di Socrate nella dialettica con Carmide come si vedrà in seguito (infra, § IV.2.2). Sull’ambiguità dell’ironia di Socrate e più in generale in Platone v. Halliwell 2008, 276-302, che si discosta dal Socrate di Vlastos (1991, 21-44) per cui si veda Giannantoni 1993.

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Erler 1991, 291 n. 40 rimanda a Sofocle, fr. 928 Radt (1977) ed Euripide, Hip, 385 e sgg., per l’ambiguità di aidos. Per la connessone tra aidos e sofrosyne cf. Hom. Il. XXI, 462; Thgn., 479-483 West; Tuc. I 84. Sull’aidos nella letteratura greca v. Cairns 1993 (sull’aidos in Platone, 370-78 ).

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sentita dire da qualcuno. Che dietro questo qualcuno si nasconda Crizia è subito detto,

come ad anticipare il vicino ingresso di Crizia nell’indagine e la sua sostituzione a Carmide come principale interlocutore del dialogo. Crizia nega la paternità della massima, cosa che dopo verrà dallo stesso smentita attraverso un atteggiamento d’ira24

. Il carattere ambiguo della massima viene da subito messo in rilievo da Socrate (161 c 8-9): αἰνίγματι γάρ τινι ἔοικεν. Socrate calca più volte l’enigmaticità della sentenza che identifica il fare le proprie cose con l’essenza della saggezza (162 a 10- b 4)25

. Il significato di essa deve essere cercato in una dimensione che superi quella letterale. L’interpretazione più scontata e superficiale, infatti, viene subito confutata. Si noti il richiamo all’elemento politico in 161 e 10 - 13:

τί οὖν; ἦν δ᾽ ἐγώ, δοκεῖ ἄν σοι πόλις εὖ οἰκεῖσθαι ὑπὸ τούτου τοῦ νόμου τοῦ κελεύοντος τὸ ἑαυτοῦ ἱμάτιον ἕκαστον ὑφαίνειν καὶ πλύνειν, καὶ ὑποδήματα σκυτοτομεῖν, καὶ λήκυθον καὶ στλεγγίδα (…);

L’elemento politico sarà centrale nella seconda parte del dialogo e sarà, come si vedrà in seguito, sempre connesso al personaggio di Socrate26 . Qui Socrate argomenta: è impossibile che una città in cui domini un principio di tipo egoistico, la cui legge esorti ciascuno a creare le proprie cose, sia una città ben amministrata (πόλις εὖ οἰκεῖσθαι)27 . Il momento di arresto dell’indagine, che si potrebbe definire a buon diritto aporetico, viene superato grazie a Carmide che, mettendo da parte quell’aidos che lo aveva caratterizzato nella sezione iniziale, lancia un’efficace provocazione. Nulla vieta che colui che abbia enunciato la sentenza non ne conosca il vero significato:

24

Come si vedrà, quest’atteggiamento contribuirà a connotarlo teatralmente. La caratterizzazione di Crizia nel Carmide infatti non è priva di elementi umoristici, che fanno del dialogo un pezzo drammatico. v. infra, § IV.2.

25

Le allusioni di Socrate a superare una dimensione superficiale e letterale della massima e ad indagarne il senso profondo assumono un grande spessore se si considera che la stessa massima ricompare nella Repubblica, IV 441d-444a, come definizione di dikaiosyne. Tra il passo della Repubblica e quello del Carmide, s’inserisce il Fedone. In Phaed. 82 a 10 –b 3, infatti, la sophrosyne è associata alla dikaiosyne ed entrambe rientrano nell’ambito di quella politike arete che è oggetto di ricerca nel Protagora. Il Fedone connette inoltre queste virtù politiche con il concetto di misura (Phed. 82 b 8) e di kosmos, ordine (Phed. 68 c 8-2). Si tratta di visioni tradizionali ampiamente condivise. La massima del fare le proprie cose compare anche in Tim. 72 a e similmente in Xen. Mem. 3.7. Per implicazioni della massima, il significato e il contesto nel quale si origina v. infra, § II.2.1.

26

infra, § IV.2.2-3.

27

Non deve stupire che il motivo politico compaia all’interno di una riflessione etica sulla sophrosyne. Infatti il richiamo di Socrate al governo di una città, che compare più volte nel dialogo, tradisce la connotazione politica del concetto di sophrosyne, espressione di un’ideologia del potere aristocratica.

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14 ἀλλ᾽ ἴσως οὐδὲν κωλύει μηδὲ τὸν λέγοντα μηδὲν εἰδέναι ὅτι ἐνόει. καὶ ἅμα ταῦτα λέγων ὑπεγέλα τε καὶ εἰς τὸν Κριτίαν ἀπέβλεπεν (Ch. 162 b 9-11)

d) I definizione di Crizia: sophrosyne come il fare le proprie cose. Crizia entra nella discussione pungolato da Carmide (ὑπεκίνει αὐτὸν ἐκεῖνον, 162 d 1). Il suo ingresso nella logica del dialogo, e dunque nell’indagine, non è privo di una forte componente teatrale. Crizia è desideroso di gareggiare e desideroso di guadagnarsi la stima di Carmide e dei presenti ( ἀγωνιῶν καὶ φιλοτίμως πρός τε τὸν Χαρμίδην καὶ πρὸς τοὺς παρόντας ἔχων, 162 c 1-2). A stento, chiamato precedentemente in causa, si era trattenuto, finché, dinanzi all’ennesima provocazione, non resiste. La sua ira è paragonata da Socrate a quella di un poeta nei confronti di un cattivo interprete della sua opera (ἀλλά μοι ἔδοξεν ὀργισθῆναι αὐτῷ ὥσπερ ποιητὴς ὑποκριτῇ κακῶς διατιθέντι τὰ ἑαυτοῦ ποιήματα, 162 d 2 - 3)28

. Si noti come il teatrale ingresso di Crizia sia lontano dalla sophrosyne intesa come pacatezza. Socrate, nell’invitare Crizia ad entrare nella discussione, sottolinea la cura, ἐπιμελεία, dedicata da Crizia a cose di tal genere29 . Nel riformulare la definizione Socrate sostituisce al verbo prattein il verbo poiein, cosa che fornisce a Crizia un appiglio per la confutazione. Applicando il metodo della diairesis ton onomaton, attribuito a Prodico, Crizia opera una distinzione tra poiein e prattein. Il prattein viene accostato al campo semantico di

ergazesthai. Prattein ed ergazesthai sarebbero connotati positivamente. Ancora una volta a

dare legittimità alle argomentazioni, vengono chiamati in causa i poeti arcaici30 . Il verso citato da Crizia è di Esiodo, Op. 31131 .

ἔργον δ᾽ οὐδὲν εἶναι ὄνειδος (Ch. 163 b 4) =

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Il paragone assume un senso se si riflette sull’attività poetica di Crizia e sul nesso molto forte che lega la poesia alla politica e che è possibile cogliere nella produzione del tiranno. Non si deve dimenticare che anche Crizia, nel definire Carmide, lo aveva chiamato poietikos. Torneremo nei capp. III e IV sulla figura di Crizia poeta.

29

L’importanza dell’epimeleia accompagnata dalla physis è sottolineata da un frammento di Crizia, 88 B9 DK = 7 GP² (ἐκ μελἐτης πλείους ἠ φύσεως ἀγαθοί) v. Mosconi 2008, 15. infra, § III.1.4.

30

Si noti la capacità di Crizia di utilizzare strumenti di critica letteraria per sostenere la sua tesi (v. infra, § III.1.4 – III.2.1 – III.2.2). Anche nel Protagora, nel contesto dell’interpretazione del carme simonideo (338 e e sgg.), si cita Esiodo come autorità e si applica il metodo della sinonimica di Prodico. Per l’interpretazione del carme simonideo nel Protagora v. Most 1994, 127-152 (1995, 137-169); Giuliano 1994, 105-90 (2004, 1-86).

31

Centrone B. 1997, 76 sottolinea l’intento apologetico di Platone nel citare Esiodo, Op. 311. Il verso è citato da Libanio, principale fonte per la ricostruzione dell’invettiva post mortem di Policrate contro Socrate. Secondo Libanio (I 86) infatti Socrate avrebbe citato il verso per dimostrare la dannosità di un errata interpretazione dei poeti e per confutare coloro che accettavano acriticamente la loro autorità. Sempre secondo Libanio, Anito avrebbe distorto l’argomentazione socratica arrivando a sostenere che Socrate incitava i giovani alle cattive azioni. Anche Senofonte nei Memorabili cita lo stesso verso con intento apologetico. Il rapporto Policrate-Platone-Senofonte è ricostruito da Witte 1970, 80-81. A proposito cf. recentemente Graziosi 2010, 120-125.

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15 ἔργον δ᾽ οὐδὲν ὄνειδος, ἀεργίη δέ τ᾽ ὄνειδος (Hes. Erga 311)

L’ergon non costituisce una vergogna. Gli erga sarebbero quindi le opere prodotte καλῶς τε καὶ ὠφελίμως (163 c 3), ovvero, ἐργασίας τε καὶ πράξεις. Crizia si caratterizza come aristocratico attraverso l’uso di termini che pertengono alla sfera degli aristoi e che sono espressione di un etica codificata32 . L’interpretazione del verso di Esiodo è chiaramente di natura aristocratica. Infatti mestieri come calzolaio, pescivendolo, proprietario di bordello sono nell’ottica di Crizia vergognosi33

.

e) II definizione di Crizia:

(…) τὴν γὰρ τῶν ἀγαθῶν πρᾶξιν σωφροσύνην εἶναι σαφῶς σοι διορίζομαι (Ch. 163 e 10 - 11)

La sophrosyne è definita come τὴν τῶν ἀγαθῶν πρᾶξιν, come il fare cose buone. A questa definizione Crizia giunge stimolato da Socrate. Infatti essa è strettamente connessa alla I definizione. L’elenchos socratico entra in una dimensione gnoseologica: s’introduce il problema della consapevolezza di fare il bene da parte di colui che lo compie. Ossia la consapevolezza di essere saggio da parte di chi agisce saggiamente. Contemporaneamente Socrate mette in gioco la questione dell’ophelia, dell’utilità della virtù in esame (164 b ss.). E’ possibile, avanza Socrate, che il medico nel curare non sia a conoscenza dell’utilità della sua cura. Ovvero non sia in grado di valutare se essa sia utile o meno. La prospettiva socratica consiste nel considerare come conoscenza un tipo di sapere tecnico, un’abilità. Dal momento che la conversazione declina fino a sfiorare il paradosso34 Crizia avanza una III definizione.

32

Termini che si connotano aristocraticamente sono, tra gli altri, gli avverbi ophelimos e kalos, il richiamo all’epimeleia e alla poesia e le stesse definizioni di Carmide. Questo complesso di valori è messo ben in evidenza da Mosconi 2008, il quale dimostra come l’elemento musicale fosse un elemento identificativo della paideia aristocratica.

33

L’importanza di questo piccolo catalogo dei mestieri è cruciale per la caratterizzazione di Crizia nel segno di un’autenticità di fondo. Si veda a proposito, infra, § III.1.4.

34

Ch. 164 c 5 – 7, οὐκοῦν, ὡς ἔοικεν, ἐνίοτε ὠφελίμως πράξας πράττει μὲν σωφρόνως καὶ σωφρονεῖ, ἀγνοεῖ δ᾽ ἑαυτὸν ὅτι σωφρονεῖ; Il paradosso si genera a causa della difficoltà di distinguere l’azione di per sé, dalla consapevolezza di tale azione. Su questo passo in relazione a Crizia v. infra, § III.2.2; § IV.2.3.

(9)

16 f) III definizione di Crizia: sophrosyne come τὸ γιγνώσκειν ἑαυτόν, conoscere sé stessi (164 d 4)35 . La dimensione dell’elenchos ripiega verso l’interno a dimostrare la correttezza delle intuizioni di Crizia. Egli asserisce infatti la presenza di un sapere, la conoscenza di sé, che sia al dì là del sapere tecnico. È stato notato che questa facilità nel passaggio da una definizione all’altra denoti un atteggiamento di sostanziale superficialità da parte di Crizia36 . Di fatto, come si vedrà meglio in seguito37 , fino a questo momento della discussione le definizioni di Crizia sono legate l’una all’altra ed estremamente in linea con il suo pensiero. Il motto delfico si caratterizza per una certa enigmaticità (αἰνιγματωδέστερον δὲ δή, ὡς μάντις, λέγει 164 e 6): ritorna il motivo dell’enigma, questa volta sottolineato da Crizia. Nel richiamo a Delfi Crizia si pone ancora una volta in continuità con la tradizione e in particolare all’interno di un sistema di valori aristocratici che dialoga con la tradizione per definire la sua identità38 . Il solco che divide Socrate da Crizia, l’ostentata sicurezza di Crizia e la consapevolezza di non sapere di Socrate, si colgono nello scambio di battute in 165 a 8 ss. Crizia è consapevole di disporre degli strumenti per imporre la propria argomentazione. Socrate al contrario parte da una stato di ignoranza, base del metodo dialettico:

τὰ μὲν ἔμπροσθέν σοι πάντα ἀφίημι - ἴσως μὲν γάρ τι σὺ ἔλεγες περὶ αὐτῶν ὀρθότερον, ἴσως δ᾽ ἐγώ, σαφὲς δ᾽ οὐδὲν πάνυ ἦν ὧν ἐλέγομεν - νῦν δ᾽ ἐθέλω τούτου σοι διδόναι λόγον, εἰ μὴ ὁμολογεῖς σωφροσύνην εἶναι τὸ γιγνώσκειν αὐτὸν ἑαυτόν. ἀλλ᾽, ἦν δ᾽ ἐγώ, ὦ Κριτία, σὺ μὲν ὡς φάσκοντος ἐμοῦ εἰδέναι περὶ ὧν ἐρωτῶ προσφέρῃ πρός με, καὶ ἐὰν δὴ βούλωμαι, ὁμολογήσοντός σοι: τὸ δ᾽ οὐχ οὕτως ἔχει, ἀλλὰ ζητῶ γὰρ μετὰ σοῦ ἀεὶ τὸ προτιθέμενον διὰ τὸ μὴ αὐτὸςεἰδέναι. (Ch. 165 a 8 - c 1) 39 35

La stessa definizione la si trova in Plat. Alc. I 131b; 133c. In virtù di questo ripiegamento verso l’interno il Carmide è considerato da Rowe 2007, 120 a paramount example of Socratic self-examination, ovvero un modello in cui si realizza la missione che Socrate enuncia chiaramente nell’Apologia, 37 e 3 – 38 a 6. Su Socrate e la self-knowledge v. anche Tsouna 2001.

36

Erler 1991, 303-304.

37

Questi passaggi e la loro coerenza interna saranno approfonditi in seguito. infra, § IV.2.3.

38

Gastaldi (1998b) ricostruisce la storia del termine sophrosyne e mostra come il concetto diventi espressione dell’etica nobiliare. Emerge come ogni definizione di Carmide prima e di Crizia poi sia perfettamente in linea con questo complesso di valori.

39

Cf. Ap.21 d 3, (…) πρὸς ἐμαυτὸν δ᾽ οὖν ἀπιὼν ἐλογιζόμην ὅτι τούτου μὲν τοῦ ἀνθρώπου ἐγὼ σοφώτερός εἰμι: κινδυνεύει μὲν γὰρ ἡμῶν οὐδέτερος οὐδὲν καλὸν κἀγαθὸν εἰδέναι, ἀλλ᾽ οὗτος μὲν οἴεταί τι εἰδέναι οὐκ εἰδώς, ἐγὼ δέ, ὥσπερ οὖν οὐκ οἶδα, οὐδὲ οἴομαι: ἔοικα γοῦν τούτου γε σμικρῷ τινι αὐτῷ τούτῳ σοφώτερος εἶναι, ὅτι ἃ μὴ οἶδα οὐδὲ οἴομαι εἰδέναι. ἐντεῦθεν ἐπ᾽ ἄλλον ᾖα τῶν ἐκείνου δοκούντων σοφωτέρων εἶναι (…). Alla luce di questo passo si capisce la definizione di Socrate in 166 e 7-8: καὶ ἀνεπιστημοσύνης ἐπιστήμη ἂν εἴη, εἴπερ καὶ ἐπιστήμης. Questo l’atteggiamento alla base della dialettica. Riflessioni sul processo dialettico

(10)

17 Crizia si dimostra disposto a concedere a Socrate le cose dette in precedenza. Se da un lato Crizia non esita ad ammettere di aver potenzialmente detto qualcosa di sbagliato, ed in questo sta il suo merito, dall’altro si pone nei confronti di Socrate con un atteggiamento agonistico. Al nucleo di sapere di Crizia, che non verrà mai messo in discussione, si contrappone il non sapere di Socrate, la sua totale sincerità.

g) IV definizione di Crizia (166 c 1-2):

(…) ἡ δὲ μόνη τῶν τε ἄλλων ἐπιστημῶν ἐπιστήμη ἐστὶ καὶ αὐτὴ ἑαυτῆς.

La sophrosyne come scienza delle altre scienze e di se stessa. Questa definizione si genera sotto il pungolo socratico a definire l’oggetto specifico di questa scienza. Ancora una volta l’intuizione di Crizia è corretta. Si tratta di un episteme da porre su un piano superiore rispetto ai saperi tecnici40 . Ma se da un lato Crizia ha un buon intuito, dall’altro è privo dell’atteggiamento del filosofo dialettico. L’unico atteggiamento, in altre parole, che gli consentirebbe di sperimentare in senso profondo la verità delle sue definizioni . Il comportamento di Crizia, la sua caratterizzazione, vanifica la portata di verità delle sue parole.

Procedendo passo dopo passo nell’elenchos socratico, Socrate afferma 1. che la scienza in questione potrebbe essere anche scienza della non scienza (καὶ ἀνεπιστημοσύνης ἐπιστήμη ἂν εἴη, εἴπερ καὶ ἐπιστήμης 166 e 7-8)41

, introducendo il sapere negativo, cruciale per il successivo sviluppo del dialogo; 2. che il sophron avrà la consapevolezza, lui solo, di ciò che sa ma anche di ciò che non sa. A questa consapevolezza si affianca quella relativa alla conoscenza di ciò che gli altri sanno e non sanno42 . La descrizione del sophron

nel Carmide e sulla chiusura di Crizia nei confronti della ricerca si leggono in Schmid 1981; id. 2002. Altre allusioni di metodo si trovano in 166 c 7 e sgg. la centralità del sapere negativo sarà messa in evidenza nel cap. IV.

40

Cf. Ch. 165 e 3-5: οὐ γὰρ ὁμοία αὕτη πέφυκεν ταῖς ἄλλαις ἐπιστήμαις, οὐδέ γε αἱ ἄλλαι ἀλλήλαις; similmente più avanti Ch. 166 b 7, σὺ δὲ ὁμοιότητά τινα ζητεῖς αὐτῆς ταῖς ἄλλαις. τὸ δ᾽ οὐκ ἔστιν οὕτως, ἀλλ᾽ αἱ μὲν ἄλλαι πᾶσαι ἄλλου εἰσὶν ἐπιστῆμαι, ἑαυτῶν δ᾽ οὔ, ἡ δὲ μόνη τῶν τε ἄλλων ἐπιστημῶν ἐπιστήμη ἐστὶ καὶ αὐτὴ ἑαυτῆς. Da cui si deduce la correttezza dell’intuizione di Crizia, che pone una tale scienza al di sopra delle altre. Che la scienza in questione sia la dialettica è avanzato da Erler M. 1991, 308. In essa sono contenuti i fondamenti delle altre scienze. Il riferimento è a Rep. VII 533 c 2 e sgg.

41

Si veda a proposito Centrone 1997, 272 n.57 che rimanda giustamente a Ion. 531e; Phd. 97 d. Questo passo segna una svolta nella dinamica dialogica, come si vedrà successivamente (infra, § IV.2.3).

42

Ch. 167 a 1 – 5, ὁ ἄρα σώφρων μόνος αὐτός τε ἑαυτὸν γνώσεται καὶ οἷός τε ἔσται ἐξετάσαι τί τε τυγχάνει εἰδὼς καὶ τί μή, καὶ τοὺς ἄλλους ὡσαύτως δυνατὸς ἔσται ἐπισκοπεῖν τί τις οἶδεν καὶ οἴεται, εἴπερ οἶδεν, καὶ τί αὖ οἴεται μὲν εἰδέναι, οἶδεν δ᾽ οὔ, τῶν δὲ ἄλλων οὐδείς.

(11)

18 corrisponde nella sostanza alla sophia di Socrate, quale si legge in Apologia 21 a 22 e43 . Già da ora s’intuisce che ciò che manca a Crizia per incarnare a pieno l’ideale di sophrosyne è l’incapacità di riconoscere i propri limiti e dunque di ammettere ciò che non si sa.

Con l’espressione τὸ τρίτον τῷ σωτῆρι, la terza al salvatore (167 a 9) Platone indica che l’argomentazione che seguirà sarà quella essenziale44

. Non a caso, subito dopo, Socrate ammette di essere in aporia (ἐγὼ μὲν γὰρ ἀπορῶ, 167 b 6). Che l’aporia qui sia punto di partenza della ricerca e anzi ponga le basi per la ricerca stessa è stato giustamente osservato da Politis45 . I termini della ricerca sono posti in 167 b 1 - 4:

ἀρχῆς ἐπισκεψώμεθα πρῶτον μὲν εἰ δυνατόν ἐστιν τοῦτ᾽ εἶναι ἢ οὔ - τὸ ἃ οἶδεν καὶ ἃ μὴ οἶδεν εἰδέναι <ὅτι οἶδε καὶ>46

ὅτι οὐκ οἶδεν - ἔπειτα εἰ ὅτι μάλιστα δυνατόν, τίς ἂν εἴη ἡμῖν ὠφελία εἰδόσιν αὐτό47

.

Se così fosse, aggiunge Socrate, ciò comporterebbe l’esistenza di una scienza che oltre ad essere scienza di se stessa che delle altre scienze, sia anche scienza della non scienza. Per provare questa definizione, la cui verità è da Socrate presentita48 , egli utilizza il metodo dell’analogia, prendendo esempi dal mondo sensibile, come vista, udito, sensazioni in generale, per poi rivolgersi al desiderio, alla volontà, all’amore, alla paura e alle opinioni. In tutti questi casi è impossibile che l’oggetto in questione, come ad esempio la vista, sia vista di se stessa delle altre viste e contemporaneamente delle non viste49 . Siamo sull’orlo del

43

v. supra, n. 39.

44

La terza libagione nei simposi era quella dedicata a Zeus Soter, come la terza vittoria nelle gare olimpiche. v. Centrone 1997, 272. L’espressione la si trova ad esempio in Rp. IX 583 b; Phil. 66 d (interessante notare che in entrambi i passi la discussione verte sull’edone, sul vero piacere che coincide col bene e che pertiene all’uomo phronimos); Ep. VII 334 d (il passo può essere messo in rapporto ai precedenti: si parla della tirannide, del suo carattere rovinoso, olethrios, e si esorta, di contro, a seguire il bene supremo); Ep. VII 340 a.; Lg. III 692 a (ancora una volta il leitmotiv del potere che genera passioni, ὁ δὲ τρίτος σωτὴρ ὑμῖν ἔτι σπαργῶσαν καὶ θυμουμένην τὴν ἀρχὴν ὁρῶν). Su un uso diverso dell’espressione idiomatica nel III delle Leggi v. Ferrari Poli 2005, 288 n. 51.

45

Politis 2008, 1-34. Il lavoro è incentrato sull’aporia nella seconda parte del Carmide ed è volto a dimostrare come questa ponga le basi della ricerca piuttosto che costituire un limite. il contributo si pone contro coloro che vedono l’aporia come un limite della ricerca (es. Wolfsdorf 2004, 15-40). Politis se da un lato si discosta da Kahn 1988 per la visione dell’aporia, dall’altro ne condivide l’idea di fondo: l’aporia come punto di partenza e stimolo per la ricerca.

46

Burnet segnala l’aggiunta dei recentiores.

47

Centrone 1997, 273 traduce: esaminiamo per prima cosa se è possibile sapere ciò che si sa e ciò che non si sa, <che lo sa e> che non lo sa, poi, ammesso che sia in assoluto possibile, quale utilità ne conseguirebbe per noi. C. rifiuta ogni integrazione in 167 b 2 ed rifiuta l’integrazione dei recentiores <oti ouk oiden>. v. Centrone 1997, 273 n. 60. La questione è posta nuovamente e negli stessi termini in 169 b 5 ss.

48

Cf. Ch. 168 a 10; 169 b 5; e ancora più avanti, 175 e 6-7, in cui si ribadisce che la scienza in questione è un bene, al di là delle conclusioni paradossali.

49

Per quanto riguarda la riflessività dell’opsis un parallelo lo si trova nell’Alcibiade I, (Dunque quando un occhio osserva un occhio e guarda in esso ciò che appunto esso ha di più bello, e con cui vede, in tal caso potrebbe vedere se stesso). Per quanto riguarda l’eros cf. Phdr. 255 b - d.

(12)

19 paradosso. A fomentare il paradosso dell’autoriflessività l’uso di concetti presi dal mondo della fisica come maggiore, minore, doppio50 .

Problematica risulta la menzione alla fine del catalogo, 168 e 9-10, di κίνησις καὶ θερμότης in rapporto all’autoriflessività:

ἀκοὴ δ᾽ αὖ καὶ ὄψις καὶ ἔτι γε κίνησις αὐτὴ ἑαυτὴν κινεῖν, καὶ θερμότης κάειν, καὶ πάντα αὖ τὰ τοιαῦτα τοῖς μὲν ἀπιστίαν ἂν παράσχοι, ἴσως δέ τισιν οὔ. (Ch. 168 e 9-169 a 1)

Sia il movimento che il calore sono infatti assenti dal precedente catalogo delle sensazioni-affezioni. Da qui la proposta di Müller51 di espungere il passo. Centrone52 riconosce che la comparsa improvvisa di queste due qualità lascia perplessi anche da un punto di vista grammaticale, dal momento che al nominativo (κίνησις) seguirebbe un’infinitiva (ἑαυτὴν κινεῖν). Convincenti le argomentazioni di Murphy53

a favore dell’autenticità del passo. In particolare Murphy valuta correttamente come i due nominativi, κίνησις e θερμότης, siano connessi ad altri due nominativi, ἀκοὴ καὶ ὄψις, e come tutti siano soggetti della frase retta da παράσχοι, confluendo in quel πάντα τὰ τοιαῦτα. Socrate cercherebbe così di unire due costruzioni: la principale retta dall’ottativo potenziale (ἂν παράσχοι) e le due infinitive (κίνησις αὐτὴ ἑαυτὴν κινεῖν, καὶ θερμότης κάειν). Un indizio a favore dell’autenticità del passo è costituito dalla presenza del movimento che muove se stesso in Fedro (245 d) e

Leggi (895 a 8-b1) come definizione dell’anima54 .

S’ipotizza l’esistenza di un grand’uomo, megalou andros55 , capace di operare queste

distinzioni (μεγάλου δή τινος, ὦ φίλε, ἀνδρὸς δεῖ, ὅστις τοῦτο κατὰ πάντων ἱκανῶς διαιρήσεται, 169 a 1-3). Interessante notare che sebbene la questione resti sostanzialmente

50

Centrone 1997, 276 n. 61 nota come già von Arim 1914 avesse intuito che solo di episteme e doxa non viene specificato l’oggetto. Tale oggetto infatti pertiene ad un livello superiore rispetto a quello a cui si attesta la conversazione nel Carmide: er hätte sie nicht angeben können, ohne sich in tiefgehende philosophischen Untersuchungen einzulassen, welche den Gang der vorliegenden Untersuchung unterbrochen und die künsterliche Einheit des “Charmides” aufgehoben hätte (p. 114-115). Il riferimento alla künsterliche Einheit del dialogo, ovvero alla sua unitä artistica, indica una consapevolezza da parte di von Arim di un dialogo come pezzo drammatico.

51

Müller 1976, 149-150. Diversamente Eisenstadt 1981, 126-128 e

52

Centrone 1997, 280 n. 64.

53

Murphy 2007, 224.

54

Per quanto riguarda il calore v. Witte 1970, 121 n. 46.

55

Per Szlezák 2000, 345, il quale mette in relazione il passo del Carmide 169 a 1-2 con Ep. VII 345 c 1 – 2; 341 d 2 -3; 345 b 5 - 7, in cui Platone elogia se stesso, dietro questo megalos aner si celerebbe lo stesso Platone. Contro l’autorefenzialità Kahn 1996, 196 n. 22. L’allusione è sottile se si considera che lo stesso Crizia aveva effettuato delle distinzioni tra gnome ed aistheseis, stando alla testimonianza di Galeno (88 B 40 DK). v. infra, § III.2.2.

(13)

20 sospesa, essa sia presagita come vera, utile, buona: τὴν γὰρ οὖν δὴ σωφροσύνην ὠφέλιμόν τι καὶ ἀγαθὸν μαντεύομαι εἶναι 169 b 4-5. Socrate utilizza il verbo μαντεύομαι ad indicare il presentimento della profonda verità di ciò che si dice.

h) L’aporia di Crizia (169 c 2 – d 1): καὶ ὁ Κριτίας ἀκούσας ταῦτα καὶ ἰδών με ἀποροῦντα, ὥσπερ οἱ τοὺς χασμωμένους καταντικρὺ ὁρῶντες ταὐτὸν τοῦτο συμπάσχουσιν, κἀκεῖνος ἔδοξέ μοι ὑπ᾽ ἐμοῦ ἀποροῦντος ἀναγκασθῆναι καὶ αὐτὸς ἁλῶναι ὑπὸ ἀπορίας. ἅτε οὖν εὐδοκιμῶν ἑκάστοτε, ᾐσχύνετο τοὺς παρόντας, καὶ οὔτε συγχωρῆσαί μοι ἤθελεν ἀδύνατος εἶναι διελέσθαι ἃ προυκαλούμην αὐτόν, ἔλεγέν τε οὐδὲν σαφές, ἐπικαλύπτων τὴν ἀπορίαν.

Crizia, a contatto con l’aporia di Socrate, viene conseguentemente preso da aporia, come coloro che, vedendo qualcuno sbadigliare, sbadigliano a loro volta. L’aporia di Crizia è di forte impatto. Egli infatti è abituato ad essere apprezzato in ogni occasione (εὐδοκιμῶν ἑκάστοτε). La potenza visiva della descrizione è notevole. Crizia prova vergogna e balbetta qualcosa di non chiaro, non volendo ammettere la sua incapacità a rispondere alle domande di Socrate. Egli nasconde l’aporia (ἐπικαλύπτων τὴν ἀπορίαν 169 d 1). In questo passo gioca un ruolo essenziale l’ironia drammatica. La mancanza di modestia, ovvero di consapevolezza dei propri limiti, impedisce a Crizia di entrare nell’autentico spirito dialettico della ricerca. La centralità di questa sezione del dialogo, in cui viene drammatizzata l’aporia di Crizia, è messa in risalto da un’evidenza lessicale: in 169 c 2 - d 1 compaiono con insistenza i seguenti termini: ἀποροῦντα (162 c 2), ἀποροῦντος (162 c 5), ἀπορίας al rigo successivo, ἀπορίαν (169 d 1). La presenza ripetuta a breve distanza del participio di aporein e del sostantivo aporia mette l’accento sulla caratterizzazione del personaggio come chiave di comprensione del dialogo. In altre parole si sottolinea il rapporto tra il personaggio di Crizia e il limite della ricerca, l’impossibilità della stessa di andare avanti, superando l’impasse. Crizia mette l’accento sul sapere positivo: se uno possiede la scienza che conosce se stessa, egli sarà come la scienza che possiede: conoscerà se stesso (169 e). Socrate non obietta questo, ovvero che chi possieda la scienza di se stessa conoscerà se stesso. L’obiezione si spinge più a fondo: che necessità vi è che chi abbia ciò

sappia ciò che sa e ciò che non sa? (169 e 7-8). Ora, Crizia non coglie la sfumatura e mette

(14)

21 anche ciò che non si sa) che a lui manca (170 a 1). Socrate insiste nel porre le dovute differenze con la seguente obiezione:

ἴσως, ἔφην, ἀλλ᾽ ἐγὼ κινδυνεύω ἀεὶ ὅμοιος εἶναι: οὐ γὰρ αὖ μανθάνω ὡς ἔστιν τὸ αὐτό, ἃ οἶδεν εἰδέναι καὶ ἅ τις μὴ οἶδεν εἰδέναι.

Burnet segnala l’espunzione di [ἃ οἶδεν … εἰδέναι] da parte di Hoenebeek Hissik, confermata da Centrone che nota l’assenza di te nella clausola, a differenza delle analoghe espressioni che compaiono nel dialogo56 . L’espunzione potrebbe essere accolta se si considera la logica del passo, chiarita bene da Murphy57 . Si potrebbe pensare, con Witte, Schmid e Hazebroucq58 , che τὸ αὐτό implichi l’infinitiva seguente (ἃ οἶδεν εἰδέναι καὶ ἅ τις μὴ οἶδεν εἰδέναι). In questo modo il senso sarebbe: non capisco come siano la stessa cosa

sapere ciò che si sa e ciò che non si sa. Da un punto di vista sintattico il discorso potrebbe

quadrare. Ma se si allarga la prospettiva alle battute immediatamente precedenti e successive si capisce che il significato è un altro. Ciò che Socrate finge di non afferrare è come possa essere lo stesso il conoscere se stesso che la scienza implica e il conoscere ciò

che si sa e che non si sa, come risulta ben chiaro da 169 e 6-8. La differenza è da porsi

dunque non tra ciò che si sa e che non si sa, ma tra conoscere se stesso da un lato e sapere ciò che si sa e ciò che non si sa dall’altro. Crizia non coglie questa sfumatura e Socrate chiarisce il concetto:

πῶς λέγεις, ἔφη;

ὧδε, ἦν δ᾽ ἐγώ. ἐπιστήμη που ἐπιστήμης οὖσα ἆρα πλέον τι οἵα τ᾽ ἔσται διαιρεῖν, ἢ ὅτι τούτων τόδε μὲν ἐπιστήμη, τόδε δ᾽ οὐκ ἐπιστήμη; (170 a 6-8)

In che modo dunque la scienza di se stessa può distinguere il sapere dal non sapere? Nonostante la sua natura pleonastica Murphy non espunge la frase considerandola epesegetica e trovando un parallelo in Phd. 109 d 8-e 1. L’ipotesi è convincente.

Socrate cerca di scandagliare la questione ponendo delle differenze tra il piano della scienza di se stessa e i vari saperi tecnici, arrivando a mettere in discussione la superiorità di questa virtù e il vantaggio che ne consegue. Il possesso della sophrosyne comporta la capacità di saper distinguere ciò che si sa e ciò che non si sa. Ciò non significa, però, che

56

V. Centrone 1997, 274 n. 78; Van der Ben 1985, 60-3. Contrario Witte 1979, 126.

57

Murphy 2007, 225-226.

58

(15)

22 questa virtù implichi la conoscenza di che cosa sia tecnicamente il sapere di cui si ha la

consapevolezza di avere il possesso. Qui si allude al fatto che la consapevolezza di sapere e

di non sapere, unita alla conoscenza di sé, si trovano su un piano superiore rispetto al sapere tecnico, un piano che pertiene all’anima. Socrate cerca di mettere Crizia davanti all’evidenza che solo il riconoscimento dei propri limiti può costituire un vantaggio e lo fa con una continua intersezione dell’ambito tecnico (170 b 6 ss.). Se la saggezza si trova su un piano superiore, essa non può prescindere dal sapere tecnico e da coloro che sono in possesso di questo sapere (170 b 12). Essa deve necessariamente includere il non sapere. L’allusione è chiara in 170 b 12 ss.

ὅτι δὲ γιγνώσκει, ταύτῃ τῇ ἐπιστήμῃ πῶς εἴσεται; γιγνώσκει γὰρ δὴ τὸ μὲν ὑγιεινὸν τῇ ἰατρικῇ ἀλλ᾽ οὐ σωφροσύνῃ, τὸ δ᾽ ἁρμονικὸν μουσικῇ ἀλλ᾽ οὐ σωφροσύνῃ, τὸ δ᾽ οἰκοδομικὸν οἰκοδομικῇ ἀλλ᾽ οὐ σωφροσύνῃ, καὶ οὕτω πάντα: ἢ οὔ;

L’ὅτι presenta qualche problema. Se si considera, infatti, che poco prima Crizia aveva affermato come cosa certa che il sophron conosce se stesso (169 e) la frase non potrebbe suonare: che conosce, però, come lo saprà mediante questa scienza? Per questa ragione Müller e Van der Ben hanno congetturato ὄ al posto di ὅτι59 : ciò che conosce, come lo

saprà mediante questa scienza? Ora, è stato notato60 che difficilmente questa ipotesi può essere accettata, dal momento che quell’ ὅτι δὲ è correlato con un ὅτι μέν di poco precedente (170 b 7). La congettura più adeguata alla logica dell’argomentazione è quella di Tuckey61 che integra dopo ὅτι δὲ γιγνώσκει < τὸ ὑγιεινὸν ἢ τὸ οἰκοδομικόν >.

La questione che si pone successivamente è quella di capire come possa il saggio conoscere oltre che se stesso e la scienza di cui è in possesso anche la scienza degli altri (170 d 5 ss.). Come può essere in grado di distinguere chi sa da chi non sa, un bravo medico da un millantatore? Il problema è molto sottile e gravido di implicazioni politiche. Si discute infatti sul criterio in base al quale il saggio possa governare, su ciò che legittima la sua capacità di controllare e giudicare l’agire degli altri, di coloro che sono sì possessori di un sapere, ma di un sapere tecnico, come la scienza medica62 . L‘impossibilità di distinguere tra i diversi piani genera il paradosso: i saggi non sanno che guardare sé stessi e coloro che

59

Müller 1976, 152 n.17; Van der Ber 1985, 66-8.

60

Centrone 1997, 285 n. 69.

61

Tuckey 1968, 56.

62

Si ritornerà su questo passo (infra, § IV.2.3). Per il momento si può notare come la questione politica sia sempre introdotta da Socrate e mai da Crizia.

(16)

23 hanno la stessa arte (τὸν αὑτοῦ ὁμότεχνον, 171 c 8). Se fossero in grado di discernere chi è in possesso dell’arte medica da chi non lo è, sarebbero medici, oltre che saggi (171 c 1).

i) La tensione che si genera tra il paradosso del ragionamento e l’intuizione socratica più volte marcata (ovvero sull’utilità e il bene che deriva dall’essere saggi) emerge in tutta la sua forza con l’utopia del buon governo (171 d 5 e sgg.)63 . L’utopia può essere considerata il cuore del dialogo. Socrate immagina un governo di gente in possesso della

sophrosyne. Un tale sistema sarebbe auspicabile, in quanto i governati sarebbero in grado di

assegnare a ciascuno i propri compiti, ovvero ciò di cui hanno scienza . Se così fosse allora, eliminato l’errore, la casa, come la città, sarebbero amministrate al meglio e da ciò deriverebbe eudaimonia (ἁμαρτίας γὰρ ἐξῃρημένης, ὀρθότητος δὲ ἡγουμένης, ἐν πάσῃ πράξει καλῶς καὶ εὖ πράττειν ἀναγκαῖον τοὺς οὕτω διακειμένους, τοὺς δὲ εὖ πράττοντας εὐδαίμονας εἶναι, 172 a 1 - 3)64

.

L’utopia socratica del buon governo ha il merito di focalizzare l’attenzione sull’elemento politico, ovvero l’elemento a cui tende l’intero dialogo attraverso la scelta e la caratterizzazione dei personaggi. Inoltre si fornisce qui una indiretta spiegazione della I definizione di Crizia. Si capisce in sostanza che fare le proprie cose non deve essere interpretato nel segno dell’egoismo, ma nel segno di fare ciò di cui si possiede scienza. Da qui il buon funzionamento della società. Compito del governante, il phylax della

Repubblica, sarebbe quello di consentire che ognuno faccia le proprie cose, ovvero porti a

compimento e manifestazione il proprio episteme. Da ciò la felicità65 . Che il quadro appena prospettato sia l’esito positivo derivante dal possesso di questa virtù sembra un punto fermo per lo stesso Socrate (Ch. 168 a 10; 169 b 5; 175 b). Ad essere messo in discussione non è tanto il vantaggio della virtù, ma le ragioni che ne determinano il vantaggio. Nel capitolo successivo si vedrà come lo stesso Platone sia legato a quest’ideologia e come il fallimento

63 Ch. 171 d 2-172 a 3, εἰ μὲν γάρ, ὃ ἐξ ἀρχῆς ὑπετιθέμεθα, ᾔδει ὁ σώφρων ἅ τε ᾔδει καὶ ἃ μὴ ᾔδει, τὰ μὲν ὅτι οἶδεν, τὰ δ᾽ ὅτι οὐκ οἶδεν, καὶ ἄλλον ταὐτὸν τοῦτο πεπονθότα ἐπισκέψασθαι οἷός τ᾽ ἦν, μεγαλωστὶ ἂν ἡμῖν, φαμέν, ὠφέλιμον ἦν σώφροσιν εἶναι: ἀναμάρτητοι γὰρ ἂν τὸν βίον διεζῶμεν αὐτοί τε καὶ οἱ τὴν σωφροσύνην ἔχοντες καὶ οἱ ἄλλοι πάντες ὅσοι ὑφ᾽ ἡμῶν ἤρχοντο. οὔτε γὰρ ἂν αὐτοὶ ἐπεχειροῦμεν πράττειν ἃ μὴ ἠπιστάμεθα, ἀλλ᾽ ἐξευρίσκοντες τοὺς ἐπισταμένους ἐκείνοις ἂν παρεδίδομεν, οὔτε τοῖς ἄλλοις ἐπετρέπομεν, ὧν ἤρχομεν, ἄλλο τι πράττειν ἢ ὅτι πράττοντες ὀρθῶς ἔμελλον πράξειν—τοῦτο δ᾽ ἦν ἄν, οὗ ἐπιστήμην εἶχον—καὶ οὕτω δὴ ὑπὸ σωφροσύνης οἰκία τε οἰκουμένη ἔμελλεν καλῶς οἰκεῖσθαι, πόλις τε πολιτευομένη, καὶ ἄλλο πᾶν οὗ σωφροσύνη ἄρχοι: ἁμαρτίας γὰρ ἐξῃρημένης, ὀρθότητος δὲ ἡγουμένης, ἐν πάσῃ πράξει καλῶς καὶ εὖ πράττειν ἀναγκαῖον τοὺς οὕτω διακειμένους, τοὺς δὲ εὖ πράττοντας εὐδαίμονας εἶναι. v. Erler M. 1991, 322 e sgg.; Witte 1970, 128; Dieterle 1966, 265 e ss. 64

Per il passaggio da eu prattein ad eudaimonein v. Ch. 173 d 4; Alc. I 116 b.

65

Erler 2006, 110. La divisione del lavoro come condizione per una buona organizzazione dello stato è un concetto cardine nella Repubblica. Cf. Rep. 369 b - 372 a; 433 a – d.

(17)

24 di essa abbia costituito per lui una bruciante delusione66 . Sul carattere positivo dell’ideologia mette l’accento Notomi67

. Dal suo punto di vista attraverso le tensioni interne al dialogo si esamina un’ideologia politica condivisa indagando la causa del fallimento della messa in atto di questa ideologia. L’ideale che si fa prassi, la parola che si fa politica, genera il fallimento68 .

l) All’utopia del buon governo segue il sogno di Socrate (173 a 7- d 5). Il riferimento è ad Od. XIX 535-69. Il sogno può essere vero, se entrato da un a porta di corno, come può essere falso, se entrato da una porta di avorio. Esso si lega all’utopia, ma da una prospettiva differente: quella tecnica. Se a governare fossero i saggi ne conseguirebbe che le varie arti, come timoniere, medico, stratego, sarebbero esercitate con la massima competenza. La stessa mantica, sotto la direzione della sophrosyne, sarebbe solo vera mantica e non ciarlataneria. La sophrosyne in sostanza opererebbe facendo opera di sorveglianza (φυλάττουσα 173 d 2). Sarebbe impossibile non leggere il sogno di Socrate in continuità con l’utopia, di cui ne definisce i termini. Altrettanto impossibile sarebbe non scorgere nell’impiego del verbo phylattein una chiara allusione all’opera dei phylakes nella

Repubblica.

Ad essere felice, dunque, argomenta Socrate, non può essere soltanto colui che agisce secondo scienza (ἐπιστημόνως, 173 d 7), perché allora anche il calzolaio, in quanto possessore della scienza di fare le scarpe, sarebbe felice. Allora, avanza Socrate, è felice colui che agisce secondo la scienza di alcune cose, suggerendo il questo modo la differenza di piani. Ma quali sarebbero, dunque, le scienze foriere di felicità? Incalzato da Socrate Crizia giunge alla V definizione.

m) V definizione di Crizia: sophrosyne come scienza del bene e del male (174 b 10 e sgg.)69 . L’errore interpretativo nasce dal fatto che se la scienza in esame fosse quella del bene e del male, essa priverebbe le altre scienze di questa caratteristica, facendole degenerare. Questo andrebbe a discapito dell’utilità delle altre scienze e di quella suprema. Tale ragionamento porta Socrate ad affermare:

66 infra, § II.2.2. 67 Notomi 2000, 237-250. 68

Per le vicende biografiche di Crizia v. infra, § III.1.2.

69

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25 οὐχ αὕτη δέ γε, ὡς ἔοικεν, ἐστὶν ἡ σωφροσύνη, ἀλλ᾽ ἧς ἔργον ἐστὶν τὸ ὠφελεῖν ἡμᾶς. οὐ γὰρ ἐπιστημῶν γε καὶ ἀνεπιστημοσυνῶν ἡ ἐπιστήμη ἐστίν, ἀλλὰ ἀγαθοῦ τε καὶ κακοῦ: ὥστε εἰ αὕτη ἐστὶν ὠφέλιμος, ἡ σωφροσύνη ἄλλο τι ἂν εἴη [ἡ ὠφελίμη] ἡμῖν. (174 d 3-7) .

Il passo presenta qualche problema. A fare difficoltà la presenza dell’articolo davanti a σωφροσύνη. Se ἡ σωφροσύνη è il soggetto della frase, difficile diventa giustificare l’avversativa ἀλλά che introduce la proposizione relativa. Diverse ipotesi sono state fatte. Già Madvig aveva proposto di espungere ἀλλά e considerare ἡ σωφροσύνη regolare soggetto. In questo modo si avrebbe: la saggezza non è questa scienza, la cui opera etc. Murphy70 recentemente ha accolto la proposta di Madvig. Radicale Müller71 il quale, per evitare queste difficoltà, ha proposto di espungere l’intero periodo. Una diversa soluzione propone Centrone72 considerando αὕτη soggetto della frase. In questo modo si tradurrebbe:

questa scienza allora (la scienza del bene e del male), a quanto pare, non è la saggezza.

Come giustificare la presenza dell’articolo davanti a σωφροσύνη che ne farebbe soggetto della frase? Tale presenza sarebbe giustificata sulla base di un diverso uso dell’articolo. In questo caso l’articolo non indicherebbe il soggetto, ma la presenza di un rapporto di identità tra αὕτη e σωφροσύνη 73 . Ora, tra le diverse ipotesi sarebbe più naturale mantenere, con

Murphy, σωφροσύνη come soggetto della frase: la saggezza non è questo. Murphy nota infatti che qui la sophrosyne ritorna come Topic, punto centrale dell’indagine. La struttura sintattica richiama molto da vicino Euthd. 289d8-9. Da un punto di vista contenutistico qui Socrate avanza, coerentemente con quanto precede, che la sophrosyne non risulta più una scienza vantaggiosa (premessa precedente), ma viene a coincidere con la scienza del bene e

del male. Da qui la consecutiva: ὥστε εἰ αὕτη ἐστὶν ὠφέλιμος, ἡ σωφροσύνη ἄλλο τι ἂν εἴη

[ἡ ὠφελίμη] ἡμῖν, se quest’ultima (la scienza del bene e del male) risulta vantaggiosa, la

sophrosyne sarà per noi qualcos’altro74 .

A generare il paradosso è la difficoltà di capire il rapporto tra la sophrosyne e le altre scienze. Se si confermasse, infatti, la definizione iniziale di Crizia - la sophrosyne come scienza solo della scienza e della non scienza - non si capirebbe in che modo questo possa

70 Murphy 2007, 229-230. 71 Müller, 1567. 72 Centrone 1997, 302 n.83 73 v. Humbert 1960, 45. 74

Madvig per primo ha proposto l’espunzione di ὠφελίμη, seguito da Murphy. Schleiermacher alternativamente aveva proposto di leggere ἢ disgiunzione piuttosto che ἡ articolo.

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26 costituire un vantaggio per le altre technai (174 e 3 e sgg.). Ciò che manca è l’elemento negativo, il non sapere75 .

Le valutazioni finali di Socrate (175 a 9 e sgg.) si pongono nel segno di una consapevolezza delle conclusioni paradossali a cui si giunge, più volte rimarcata. Contemporaneamente Socrate prende sulle sue spalle la sconfitta, assumendo di essere un cattivo ricercatore (ταῦτ᾽ οὖν πάνυ μὲν οὖν οὐκ οἴομαι οὕτως ἔχειν, ἀλλ᾽ ἐμὲ φαῦλον εἶναι ζητητήν,175 e 5 - 6). Il suo rammarico è tutto nei confronti di Carmide, se davvero quella

sophrosyne non dovesse essergli di alcuna utilità. Con una Ringkomposition a fine dialogo

ritorna in scena Carmide insieme al motivo dell’incantesimo di Zalmossi, di cui il giovane si dichiara bisognoso76 . Nonostante l’apertura alla ricerca di Carmide, momento culminante delle tensioni della precedente dialettica, il dialogo si chiude all’ombra della violenza, infausto, veritiero presagio. Socrate si trova costretto ad impartire i suoi insegnamenti (ἀλλ᾽ οὐδεμία, ἔφην ἐγώ, λείπεται βουλή)77

. Il riferimento a bia compare non a caso tre volte in pochissime battute: βιάσῃ ἄρα, ἦν δ᾽ ἐγώ, καὶ οὐδ᾽ ἀνάκρισίν μοι δώσεις; ὡς βιασομένου, ἔφη, ἐπειδήπερ ὅδε γε ἐπιτάττει: πρὸς ταῦτα σὺ αὖ βουλεύου ὅτι ποιήσεις. ἀλλ᾽ οὐδεμία, ἔφην ἐγώ, λείπεται βουλή: σοὶ γὰρ ἐπιχειροῦντι πράττειν ὁτιοῦν καὶ βιαζομένῳ οὐδεὶς οἷός τ᾽ ἔσται ἐναντιοῦσθαι ἀνθρώπων. (Ch. 176 c 7 – d 3). βιάσῃ, 176 c 7; βιασομένου, 176 c 8; βιαζομένῳ, 176 d 2: quest’insistenza martellante in chiusura non può essere casuale, così come non poteva essere casuale l’insistenza sull’aporein di Crizia e Socrate in 169 c 2 - d 1. La violenza costituirà infatti lo sviluppo fattuale dell’ideologia di Crizia, a cui Carmide si dimostra fedele fino alla fine.

75

Si ritornerà su questo in riferimento alla caratterizzazione di Crizia (infra, § IV.2.3).

76

Sull’importanza dell’incantesimo in rapporto a Carmide v. infra, § IV.2.4.

77

Di fatto Socrate si troverà realmente costretto da Crizia e Carmide a divenire complice del regime, ma alla costrizione Socrate opporrà un netto rifiuto (v. infra, § II.2.2).

Riferimenti

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