1. La missione di Socrate.
Al fine di ricostruire il messaggio di Socrate è più che necessario considerare le sue vicende biografiche, e lo faremo attraverso l’ Apologia di Socrate di Platone, cioè quel discorso che Socrate avrebbe tenuto in sua difesa prima di essere condannato a morte. Vedremo anche il suo atteggiamento alla vigilia dell’esecuzione della condanna a morte. Socrate si dedicò alla ricerca filosofica come un’incessante esame di sé stessi e degli altri, tralasciando ogni attività di tipo pratico. Come egli stesso osserva nell’Apologia di Platone, si è sempre preoccupato di curare la sua anima più di ogni bene materiale, cercando di convincere gli altri a seguirlo; trascorreva le giornate a predicare il motto delfico
"conosci te stesso", un invito a riconoscere e curare la propria capacità. La conoscenza di sé è prerequisito di una vita buona e condizione preliminare per esercitare la cura di sé: il modo sbagliato di prendersi cura di sé stessi è prendersi cura del proprio corpo e non di sé. Il Socrate che incontriamo nel' Apologia platonica è un Socrate intento a smentire le false accuse che gli sono state intentate, come quella di aver esercitato la professione di “maestro” accogliendo allievi a pagamento.
Socrate racconta che il suo amico Cherefonte decise di recarsi a Delfi per
chiedere all'oracolo se ci fosse qualcuno più sapiente di Socrate. Cherefonte ebbe
la risposta che egli stesso aveva direttamente sollecitato. Secondo la versione che
ci viene data (Plat. Apol., 21 a ) la missione fu il diretto risultato dell'oracolo reso
da Apollo. Socrate spiega che egli fu subito meravigliato dell'opinione che il dio
aveva di lui, poiché era ben consapevole di non possedere qualche particolare saggezza. Così si mise all'opera per provare la veridicità o meno dell'oracolo, interrogando tutti quegli uomini che nella città di Atene avevano la nomina di essere sapienti. Indagò tra i politici, tra i poeti e tra gli artigiani e fu ovunque invano: essi tutti credevano di sapere ma non sapevano. Socrate dice:
«(…)invece io non sapevo ma neanche presumevo di sapere: mi sembrava perciò di essere, come minimo, più sapiente di lui per il semplice fatto che, quel che non so, neanche m’illudo di saperlo.» (Plat. Apol., 21 d).
Ciò che rende Socrate superiore in sapienza rispetto a quelli che la città riteneva sapienti, mette in evidenza l’insufficienza delle altre forme di sapere; la differenza tra Socrate e i detentori di una di quelle particolari forme di sapere consiste nel fatto che questi cosiddetti sapienti incorrevano nello stesso errore:
«(per il fatto di saper esercitare bene la propria arte, ognuno si credeva bravissimo anche in materie di massima importanza), con una presunzione che finiva per offuscare il loro effettivo sapere.(…)» (Plat. Apol., 22 d).
Il sapere più difficile e importante riguarda l’uomo e il suo bene, ed esso non è posseduto né dai politici, né dai poeti e né dagli artigiani, perché consiste nel presumere di sapere ciò che non si sa e che in verità non può essere saputo.
Infatti il bene umano non può essere definito una volta per tutte e per tutti, ma
può solo essere trovato individualmente da ciascuno, e ogni volta attraverso la
ricerca personale, che ognuno deve condurre per tutta la vita.
Socrate è dunque presentato come eccezione in mezzo a uomini che ignorano l'unica cosa che sarebbe doveroso conoscere, cioè come condurre la propria vita curando l'anima.
Ma con queste indagini Socrate si attirò la malevolenza del popolo ateniese, colpevole di aver smascherato l’ignoranza di tutti coloro che nella città si arrogavano, a torto, la capacità di guidare ed educare i cittadini. Come potevano infatti i politici guidare il popolo se non conoscevano cosa è l’uomo?
Come a un imponente cavallo di razza, che è però per la sua mole un po’ pigro e bisognoso di essere stuzzicato da un qualche tafano: così, mi pare, il dio mi ha attaccato alla città con la funzione di svegliarvi, persuadervi e rimbrottarvi uno per uno, intrufolandomi dovunque incessantemente per tutto il giorno . (Plat. Apol., 30e - 31a).
A ciò fanno capo le accuse che a Socrate vengono rivolte, accuse nuove che
celano quelle vecchie, ben radicate nelle menti degli Ateniesi e ben rappresentate
dalle Nuvole di Aristofane, in cui Socrate viene dipinto come uomo sapiente che
specula sulle cose celesti ed esplora i segreti di sotterra. Da queste sono nate le
nuove accuse e in particolare quella di empietà, perché chi investiga su tali cose
è considerato come un uomo che vuole mettersi al pari del dio. Socrate fu
dichiarato colpevole di non rispettare gli dei della città e di introdurre nuove
divinità e corrompere i giovani. Durante il suo discorso all’assemblea, Socrate
parla del suo “demone”, ma fu Socrate stesso a parlarne, infatti nessun accenno al
demone era stato fatto dagli accusatori perché l'accusa di introdurre nuove divinità non si collega direttamente al “demone” socratico:
c'è in me qualcosa di divino e demoniaco .(...) mi capita fin da quando ero ragazzo, sotto forma di una specie di voce che, quando si fa sentire, è sempre per distogliermi dal fare quel che sto per fare, mai per incitarmi . (Plat. Apol. 31 d).
Questo demone socratico era dunque una sorta di voce divina che gli vietava di fare determinate cose e Socrate lo interpretava come un privilegio che lo salvò più volte da situazioni di pericolo.
Si tratta, quindi, di un fatto che riguarda l’individuo Socrate e gli eventi particolari della sua esistenza: era un “segno” che, come abbiamo detto, lo distoglieva dal fare cose particolari, da cui avrebbe tratto nocumento.
Insomma, il demone è qualcosa che riguarda l’eccezionale personalità di Socrate e la sua funzione è da collegare con certi momenti d’intensissima concentrazione, assai vicini a rapimenti estatici, in cui Socrate qualche volta s’immergeva e che duravano talora a lungo. A tal riguardo, ricordiamo un passo del Simposio:
Aveva preso a meditare su qualcosa e si era fermato in piedi fin dall'alba nello stesso posto a riflettere, e siccome la cosa non gli riusciva, non lasciava perdere e rimaneva fermo in piedi a indagare. Era ormai mezzogiorno e gli uomini se ne accorgevano e meravigliati si dicevano l'un l'altro che Socrate fin dall'alba era fermo in piedi a pensare. (…) E lui restò lì fermo in piedi finché arrivò l'alba e sorse il sole.
1(Plat. Symp., 220 c - d).
1 Platone, Simposio, trad. di M. Nucci, Einaudi, Torino, 2009.