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V. NARRAZIONE/SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA ASSISTITA V.1. Psicoterapia come “patrimonio di storie che curano”

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264 V. NARRAZIONE/SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA ASSISTITA

V.1. Psicoterapia come “patrimonio di storie che curano”

Così come iniziarono ad interessarmi le ricerche e le pratiche della psicoanalisi. L’unica cultura che non avesse mai smesso di enfatizzare il ruolo della nostra soggettività, dell’inconscio, nei momenti diversi della ricerca sofferta, travagliata, sempre incompiuta di noi stessi.1

Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza.2

Nel primo capitolo abbiamo destinato ampio spazio alla trattazione di quella che è stata definita la crisi della soggettività moderna e contemporanea e che ha avuto come conseguenza principale la rottura degli argini della identificazione in senso tradizionale, tanto che neppure il corpo può essere considerato un approdo stabile alla domanda - Chi sono?

L’uomo che svetta sul mondo e sulla natura grazie alla sua coscienza illuminata precipita su rovi intrecciati fittissimamente e pericolosamente in cui pensieri, pulsioni, desideri, forze oscure e slancio vitale non possono più essere idealisticamente separati e setacciati.

È indubbio che la scoperta dell’inconscio abbia posto fine al lungo silenzio sulla natura intrinsecamente complessa e mai risolta della soggettività.

Ed è molto interessante constatare che la psicoanalisi sia nata nello stesso periodo della sessuologia, ma se quest’ultima ha tentato di spiegare il ruolo della sessualità a partire dalla base biologica, la psicoanalisi ha spostato l’attenzione su concetti chiave, quali psiche, vita mentale, inconscio e ricordi repressi. Ha così criticato l’enfasi posta dalla sessuologia sulla distinzione essenzialista e binaria maschio/femmina, nonché sul conseguente inevitabile postulato del piacere legato al funzionamento corretto dei

1 Demetrio D., Un nuovo paradigma, in Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, Noferi

A. (a cura di), edizione fuori commercio realizzata e stampata in proprio con il contributo della Banca di Anghiari e Stia, Sansepolcro (AR) 2009 p. 27

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265 comportamenti sessuali. La psicoanalisi ha posto dunque l’accento sulle inevitabili sofferenze legate alla sessualità.

Mentre l’una tentava di sradicare un modo di guardare riduzionista, l’altra riportava in auge, sottoforma di novità scientifica, la vecchia maniera di condurre i dati su un binario semplice, espressi in coppie antinomiche e/o complementari.

Abbiamo scelto, in questo paragrafo, proprio di iniziare dal tema ‛sessualità’, sia perché profondamente connesso con la questione ‛corpo’, che abbiamo più volte definito il nostro punto di vista su cui non possiamo avere punti di vista, o comunque come il perimetro ‛oggettivo’ del sé; ma anche per sottolineare l’importanza della psicoanalisi nel far emergere, in modo quasi rivoluzionario, la complessità della soggettività.

Nella prospettiva psicoanalitica, la sessualità è presente sin dall’infanzia, sottoforma di ricerca di soddisfazione dei bisogni primari, primo tra tutti, quello della fame. Per Freud qualunque parte del corpo o qualunque attività può diventare erotogena o fonte di istinto sessuale.3

Le manifestazioni fisiche sessuali hanno un oggetto, che una volta sparito, viene immediatamente interiorizzato e sostituito da una fantasia che stimola l’attività autoerotica.

E dunque, allargando il concetto di sessualità ed estendendolo all’infanzia, a partire da Freud viene negata la preesistenza di uno scopo o di un oggetto del desiderio sessuale, e più in generale della libido.

La sessualità adulta è centrale nella definizione della soggettività e trae origini dall’infanzia.

Scopo della riflessione freudiana era mettere in luce la natura precoce e complessa della sessualità, nel suo assumere diverse forme ed indirizzata verso differenti oggetti, e gli ostacoli che vi si frappongono; ostacoli che prendono la forma di repressione e contribuiscono alla formazione dell’inconscio, sede cruciale per la vita mentale dell’individuo.

La sessualità adulta sarebbe sempre frutto della repressione della sessualità infantile. La concezione della sessualità freudiana, legata alla ripetizione di piaceri passati, influenzati dalla paura e dalla sofferenza, è molto lontana dalla misurazione

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266 dell’orgasmo della sessuologia, basata su modelli biomedici e intenta a fornire conoscenze sulla base dell’ anatomia sessuale.

Rifiutando la riduzione della sessualità alla genitalità, la psicoanalisi ha messo in discussione anche l’equazione genere=sesso.

Sia il bambino che la bambina sperimentano, infatti, da molto presto i desideri sessuali attivi e passivi verso l’oggetto primario madre, ed in entrambi nasce una sorta di ego attraverso un processo di auto-amore che Freud chiama narcisismo primario. Il passaggio da una libido bisessuale del bambino ai comportamenti normativi adulti legati alla mascolinità e alla femminilità viene ‛risolto’ con il complesso di Edipo, che svolge un ruolo cruciale nella costituzione dell’inconscio.

E tuttavia non si può risolvere la questione differenza sessuale con la soddisfazione sessuale; la contrapposizione sessuale non ha basi biologiche ed è quindi instabile, sebbene l’opposizione paia inevitabile.

Il merito della psicoanalisi, e in primis di Freud ( nonostante sia stato tacciato di fallocentrismo per non essere riuscito appieno a sganciare la sessualità dalla genitalità, identificando nel pene il più grande desiderio di una bambina) è quello di avere iniziato a rendere conto della complessità della soggettività, qualcosa che si fa nella crescita, nello sviluppo, qualcosa a cui si accompagna il dolore e la sofferenza; riuscire a vedere nella sessualità la storia di un individuo e dei suoi desideri, la storia delle interazioni, prime tra tutte con la madre, essere stato in grado dunque di trovare una chiave comune per la lettura del desiderio, sganciata dal funzionamento degli organi genitali, ed allo stesso tempo estremamente individualizzata, potremmo dire incarnata, legata al vissuto fenomenico di ciascun individuo.

Tuttavia tale fallocentrismo è stato attaccato, anche all’interno della comunità psicoanalitica a partire dagli anni Venti, da Karen Horny a Melania Klein, nel tentativo di rivendicare una sessualità distinta femminile, tale non in relazione al fallo maschile. Freud è stato attaccato anche durante la seconda onda del femminismo negli anni Sessanta, perché accusato di sessismo e conservatorismo rispetto al ruolo della donna nella società.

Altre femministe invece sono tornate a studiarne i testi, trovandovi ispirazione per comprendere perché la divisione dei ruoli sessuali appaia più indistruttibile di altre divisioni sociali. Inoltre proprio l’assunto in psicoanalisi che la differenza sessuale sia

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267 intrinsecamente connotata da tensioni ed ambivalenza è stato ritenuto da diverse femministe come compatibile con la ricerca femminista.4

Negli anni Settanta del secolo scorso si assiste alla paradossale adozione del pensiero di Lacan da parte di numerose teoriche femministe, ritenuto capace di superare il presunto fallocentrismo biologico freudiano, dovendo però riconoscerne quello linguistico: il merito del filosofo sarebbe nell’aver postulato una soggettività linguistica, anziché biologica.

Come uno dei maggiori teorici dello strutturalismo francese, effettivamente Lacan avrebbe teorizzato che la soggettività si costruisce attraverso il linguaggio, che assegnerebbe un significato privilegiato al fallo;5 ciò avrebbe come conseguenza un ordine simbolico con unico sesso: maschio e non maschio.

Il linguaggio svolgerebbe, dunque, sin dall’infanzia, un’importanza primaria nell’assunzione e nell’interconnessione di significati convenzionali, da cui deriverebbero conseguentemente ruoli ed usanze di una società.

These two words have been combined in critiques of Lacanian psychoanalysis bringing together phallocentrism, where women are seen as playing the negative […] and Lacanian logocentrism, where the phallus is a linguistic non a bodily marker and the privileged arbiter of meaning and of truth.

This combination produces the term phallologocentrism.6

A differenza di Lacan, per Laplanche l’inconscio non è strutturato linguisticamente, ma un miscuglio disordinato e conflittuale di messaggi sessuali oscuri originati dai messaggi verbali e comportamentali che i genitori rivolgono ai figli nella relazione di cura.7

E quindi l’inconscio sarebbe radicalmente individuale, i cui significati enigmatici sarebbero solo riferibili al sé che li ha prodotti.

Il femminismo si è quindi trovato nella condizione di voler indagare, legittimare ed emancipare la categoria ‛donna’, prendendo le distanze dalla ‛femmina’ biologica della sessuologia e dovendo riconoscere il fatto storico e culturale del fallocentrismo.

4 Ibidem, p..199-200

5 Lacan J., The meaning of the phallus, in Mitchell J., Rose J. (eds) Feminine Sexuality: Jacques Lacan

and the école Freudienne, Macmillan, London 1982, p. 82

6 Segal L., Sexualities, cit., p.201

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268 De Lauretis, ad esempio, in un’ottica foucaultiana, ha tentato di sganciare la questione femminile dalla classica opposizione di genere, rilevando la complessità del soggetto incarnato, che è connotato anche dalla razza e dalla classe sociale, tanto quanto dal genere, appunto. Dunque un soggetto polimorfo e molto più contraddittorio che diviso.8 Queste riflessioni servono a far comprendere che, sebbene la psicoanalisi abbia rappresentato indubbiamente un grande passo avanti nella ricerca di una definizione più complessa e non riduttiva della soggettività, il contributo filosofico degli Altri, ha permesso di mettere in discussione questioni ancorate alla cultura dominante: in questo caso le femministe rispetto alla società fallocentrica.

Nonostante ciò, aver slegato la sessualità dalla genitalità ed averla posizionata nelle età più precoci del soggetto, lungo uno sviluppo contrassegnato da impulsi contraddittori e non sempre consci, rimane un merito indiscusso.

Anche in relazione ai sentimenti, la psicoanalisi è stata in grado di metterne in rilievo la natura ambivalente, quasi dicotomica.

Ed è per questo che nella relazione terapeutica d’aiuto, come afferma ad esempio Rogers, “Per aiutare il cliente a comprendere in modo più esatto se stesso e la propria situazione, il terapeuta deve sforzarsi di creare un rapporto permissivo ed astenersi perciò dal fornire qualsiasi orientamento.”9

In questo breve pensiero troviamo i concetti chiave dell’intera ricerca ivi intrapresa: la necessità di autocomprensione da parte del soggetto, dunque non un’interpretazione esterna, fornita dall’altro della relazione terapeutica; e quella della creazione delle giuste condizioni affinché il sé si senta libero di ricercarsi e di riverlarsi a se stesso.

La scoperta della complessità della soggettività in ambito psicologico non ha avuto solo delle conseguenze in ambito teorico, ma anche in ambito clinico: una vera e propria rivoluzione copernicana, potremmo definirla, laddove è il soggetto che chiede aiuto a tracciare la strada per ritrovarsi.

Nella sua opera del 1951, dal titolo davvero significativo, Client-Centered Therapy, nella ricerca di definizione dei criteri per quello che veniva denominato ‛non directive counseling’, l’attenzione passò da elementi più formali (come ad esempio fornire

8 De Lauretis T., Technologies of Gender: essays on theory, film and fiction, London, Macmillan 1987,

p.2

9 Rogers C.R., La terapia centrata-sul-cliente, Palmonari A., Rombauts J. (a cura di), tr. it. Carugati F.,

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269 risposte al cliente che aiutassero a chiarire quanto detto dallo stesso) al modo di porsi del terapeuta e che dovevano infondere nel cliente la sensazione di essere rispettato e accettato, ma anche investito di fiducia. A ciò ovviamente si doveva accompagnare sempre la chiara volontà empatica (empatia intesa come reflection of feelings) di riuscire assieme a sviscerare i problemi:

Gli “atteggiamenti fondamentali” del terapeuta vengono così descritti:

1) “genuinità” o “congruenza”: il terapeuta è, nella relazione, una persona reale e trasparente.

2) considerazione positiva incondizionata: il terapeuta accetta, rispetta, apprezza il cliente in modo incondizionato ed ha interesse per lui;

3) empatia: il terapeuta comprende i sentimenti del cliente dal “di dentro”, vede e vive il mondo del cliente come il cliente stesso lo percepisce.

Il cliente per essere “aiutato” terapeuticamente deve sperimentare questi “atteggiamenti fondamentali” del terapeuta. Ogni comportamento del terapeuta che comunichi al cliente questi atteggiamenti è considerato “di aiuto”.10

Nella relazione d’aiuto che pone al centro il cliente e che legittima il suo mondo e il suo punto di vista su esso, il terapeuta non è il mero e freddo esecutore di un decalogo di comportamenti corretti, ma entra appieno con il suo vissuto, laddove si dice chiaramente che è chiamato ad essere reale e trasparente, condizione che diviene principale affinché tutte le altre risultino efficaci, ovvero percepite dal cliente.

La relazione di aiuto si trasforma in un vero e proprio dialogo tra soggettività incarnate, in cui la asimmetria dovuta ai ruoli è ridimensionata dal coinvolgimento empatico e genuino del terapeuta, impegnato rispettosamente e solidalmente ad accompagnare il cliente nel suo viaggio introspettivo praticamente autocurativo.

La disponibilità all’autoanalisi, cioè la capacità autocritica, il sapersi mettere in discussione, l’accettare di porsi sotto la lente di ingrandimento insieme al soggetto che nella relazione asimmetrica è il più debole, non riguarda solo le competenze dell’analista, ma quelle di ogni figura con funzioni a carattere in qualche modo educativo.11

Cura di sé che per Rogers traccia il passaggio da “un funzionamento psicologico rigido e statico ad un funzionamento fluido e dinamicamente mutevole”.12

10 Ibidem, p. 14

11 Galanti M.A., Affetti ed empatia nella relazione educativa, Liguori , Napoli 2001, p.34 12 Rogers C.R., La terapia centrata-sul-cliente, cit., p.143

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270 Una modalità di guardare a se stessi e alla propria esistenza rigida è posta quindi alla base di un disturbo, di una sofferenza: l’incapacità di percepire il “fluire” dei sentimenti, di essere dentro all’esperienza attuale, conduce il soggetto lontano da se stesso, portandolo a concentrarsi su elementi esterni a sé, spesso non potendo riconoscere il proprio ruolo e la propria responsabilità nei fatti narrati.

Questo atteggiamento iniziale esclude, non solo la possibilità di vedere i problemi (o meglio, di riuscire a guardarli), ma anche l’altra, ovviamente connessa, di accettarsi. Nel percorso terapeutico l’evoluzione è rappresentata proprio dalla conquistata capacità di accettarsi e di darsi la libertà di “essere ciò che veramente si è”13, da intendersi ovviamente in senso fluido e non definitivo.

Questo è il presupposto, oltre che per una revisione più consapevole e tollerante verso il passato, per una maggiore apertura e fiducia nelle presenti e future esperienze.

Ma nella scoperta di aspetti del sé, tenuti inconsapevolmente fino a quel momento nella stanza più buia e recondita della propria anima, il soggetto deve sentire di essere accolto ed accettato mentre sperimenta una tale esperienza drammatica ed entusiasmante allo stesso tempo e che consente di rendersi conto che l’ “esperienza attuale è una risorsa, non un nemico spaventoso.”14

Questo è un punto davvero fondamentale. Abbiamo visto sino ad ora che è il presente il tempo in cui esperienza attuale, memoria del passato e proiezioni sul futuro si intersecano assecondando le istanze psichiche del soggetto, così com’è al momento. E dunque tornare ad avere fiducia in sé e nella propria condizione presente è la premessa per guardare al passato positivamente, in chiave di sviluppo e non di perdita, rimpianti e rimorsi; ed allo stesso tempo per poter progettare con fiducia il futuro. Accettare le proprie emozioni ritenute prima pericolose (come la rabbia e la paura) ha l’immediato risultato di annientarne il potenziale distruttivo: come a dire che la paura non fa più tanta paura.

Quanto più insomma egli è in grado di permettere a questi sentimenti di scorrere e di esistere in lui, tanto più essi assumono un loro posto appropriato nell’armonia globale della sua vita. […] I suoi sentimenti, quando li vive con intensità e li accetta nella loro complessità, operano in maniera costruttiva, invece di trascinarlo su una strada irrimediabilmente sbagliata.15

13 Ibidem, p.173 14 Ibidem, p.173 15 Ibidem, pp.177-178

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271 La cura consiste nel mettere a posto narrativamente ciò che prima minacciava l’armonia psichica e ciò che il cliente va sperimentando liberamente è in realtà determinato dal processo stesso, quindi prevedibile dal terapeuta.

Anche questo è un fattore molto importante: la genuinità del percorso di autoscoperta, contrassegnato anche da scelte in cui il cliente esercita veramente la sua più autentica libertà, è sorretta dalla competenza scientifica del terapeuta, che nell’adozione di determinati metodi di accompagnamento, è in grado di presumere, di ipotizzare, di immaginare in avanti il percorso terapeutico.

La sempre maggiore accettazione di sé e dei propri sentimenti si accompagna sempre, inoltre, ad una maggiore accettazione degli altri.

Mentre il cliente è sempre più a contatto coscientemente con il proprio sé, il terapeuta ha il compito di riflettere il processo in atto, evitando le proprie valutazioni o interpretazioni, che potrebbero inibire la maturazione psichica.

Secondo Rogers, quindi, il metro per misurare il progresso terapeutico è nel soggetto stesso e nella sua aumentata autostima, che non si traduce ovviamente nell’eliminazione della componente tensionale dell’esistenza.

Tutto sta nell’ incontro esistenziale:

Azzarderei l’ipotesi che, nel momento della relazione, la teoria particolare del terapeuta è poco importante ed anzi, se è presente nella sua coscienza in quel momento, danneggia probabilmente la terapia. Secondo me dunque solamente l’incontro esistenziale è importante: se la teoria occupa il campo della coscienza nel momento immediato della relazione terapeutica, non è in alcun modo utile.16

Gradualmente il soggetto si riorienta verso se stesso, smettendo di preoccuparsi ossessivamente delle aspettative altrui, rinunciando alle maschere indispensabili per essere ritenuto sempre adeguato alle richieste esterne.

È una svolta radicale, dove alla paura e al dovere, si sostituisce il desiderio di scoprire e di scoprirsi (sia nel senso di conoscersi, che in quello di spogliarsi di false attitudini):

Dirigersi da soli ha un valore positivo. […] Il proprio sé, i propri sentimenti tendono ad assumere un valore positivo. […] “Essere un processo” ha un valore positivo. Dal desiderio di mete rigide, prefissate, i clienti giungono a preferire l’avventura di essere un processo di potenzialità che si rinnova continuamente. […]

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272 Il cliente giunge forse a dar valore al di sopra di tutto all’apertura totale nei confronti di tutti gli aspetti della sua esperienza interna ed esterna. […] Alla sensibilità verso gli altri, all’accettazione degli altri, viene dato un valore positivo. […] Alle relazioni interpersonali profonde, infine, viene dato un valore positivo.17

Nella relazione di aiuto, quindi, l’ascolto e l’accettazione del cliente, producono sempre cambiamenti significativi, cosa che non accade quando si tenti di prescrivere al sé sofferente un sé sostitutivo, di ricambio, preconfezionato dall’esterno.

All’inizio della terapia non conoscenza e non accettazione di sé sembrano sinonimi, o quantomeno, strettamente collegati; il cliente fatica a parlare di sé, cerca cause esterne al proprio malessere ed è spaventato dalle relazioni (anche di quella terapeutica).

Nel corso della terapia il cliente si dimostra sempre più disposto ad accogliere la propria esperienza e quindi sempre più capace di conoscersi, di riconoscersi e di accettarsi. Le parole diventano sempre più autenticamente rivelatrici del sé, riuscendo a dotarlo di significato positivo e fluido, mai definitivo.

E il successo del percorso terapeutico si misura anche nel grado di soddisfazione espresso dal cliente nel riuscire ad accedere al proprio sé:

Uno dei fattori più importanti che avevo riscontrato nel mio precedente lavoro clinico era la spinta fortissima esercitata sul cliente dalla soddisfazione della scoperta di sé stesso. Per quanto “esterni” fossero gli argomenti di cui si interessava inizialmente (il comportamento della moglie o la scelta di una vocazione), una volta provata la soddisfazione, dolce e amara nello stesso tempo, di esplorare se stesso, questa diventava inevitabilmente il centro della terapia.18

Abbiamo dato ampio spazio alla riflessione teorica rogersiana perché nella sua terapia incentrata sul cliente incontriamo i principali assunti del nostro lavoro: il sé dota di significato il proprio vissuto attraverso la narrazione, sempre più autocentrata ed orientata all’accettazione di sé e ad una migliore modalità di relazionarsi con gli altri, oltre che a una generale maggiore fiducia rispetto all’esperienza.

Ma la narrazione come strumento di significazione per il sé è stato e continua ad essere utilizzato da diverse scuole di pensiero in ambito psicologico: anzi l’immagine popolare della seduta dallo psicologo è rappresentata dal cliente, seduto comodamente, che parla di sé al terapeuta, che ascolta attento ed in silenzio.

L’inizio si può ascrivere nuovamente a Freud e alla psicoanalisi.

17 Ibidem, pp.283-284 18 Ibidem, p.253

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273 Secondo Hillman19 il processo terapeutico può essere sintetizzato nel procedimento di scrittura o riscrittura di una storia dal potere curativo, in un rapporto di negoziazione tra cliente e terapeuta: memoria personale e narrazione stanno alla base del rapporto psicoterapeutico.

La psicoanalisi, con la scoperta dell’esistenza di vaste zone inesplorate di noi stessi ha reso di nuovo attuale la necessità di dubitare sempre, diffidando, anche o soprattutto, di ciò che appare indubitabile. Con la valorizzazione dell’empatia ha riaffermato il primato dell’ascoltare rispetto al guardare; del mondo interno rispetto all’esteriorità; del contenuto rispetto al contenitore. E questo assume un particolare significato epistemologico nell’epoca del trionfo dell’immagine, quando cioè è mostrabile – ciò che si può esibire, ciò di cui si hanno le prove evidenti – diviene significativo in maniera assoluta.20

Ma se la combinazione dei due elementi (memoria personale e narrazione) erano sottoposti al criterio di verità-efficacia freudiano, recentemente si è assistito al progredire di un orientamento più ermeneutico che pone fine alla questione stessa della ricerca di criteri di validità per focalizzare sul senso di autoefficacia del soggetto-paziente.

Questo mutamento di prospettiva ha contribuito ad un crescente interesse in ambito clinico verso i ricordi personali, soprattutto nella prospettiva di formare degli operatori capaci di favorire un clima adeguato all’emersione della narrazione di sé da parte dei pazienti.

Ma la natura scientifica stessa della psicoanalisi attinge a piene mani dalle parole degli stessi, spesso riferite al passato. E quindi da sempre il problema della memoria è centrale, così come dimostra l’opera di Freud.

Si può, in una prospettiva ermeneutica e narrativa di relativismo assoluto, abbandonare completamente la questione ‛verità’ in ambito terapeutico, oppure, sostenere con Calamari che, pur confermando la centralità della prospettiva soggettiva, solo un recupero consapevole volto alla modificazione positiva del sé, con l’implicita emersione di materiale apparentemente non disponibile, possa rappresentare una reale possibilità di cambiamento degli ‛schemi cognitivi’, e dunque una storia completamente inventata, ad esempio condizionata dall’effetto ‛transfert’ sul

19 Hillman J.(1983), Le storie che curano, Cortina, Milano 1994 20 Galanti M.A., Affetti ed empatia nella relazione educativa, cit., p.12

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274 terapeuta, non può avere gli stessi effetti di una autentica ricostruzione del proprio passato.

La strada giusta sarebbe, in questa seconda prospettiva, quella di un ritorno al passato per inquadrarlo in modo diverso, più consapevole appunto.

Il richiamo alla memoria del paziente mi sembra quindi finalizzato a una filosofia dell’ascolto ermeneutico del discorso dell’altro, nel senso del rispetto del testo che il paziente produce, che è già una deformazione narrativa di un’esperienza immediata inattingibile, ma che non deve essere ulteriormente alterato dall’intervento indiscreto dell’interprete. La narrazione sul sé è indubbiamente il prodotto della relazione, ma il richiamo al passato, alla storia di vita del paziente, fa da contrappeso al rischio che l’importanza del transfert e del controtransfert metta il terapeuta al centro dell’interesse, al posto del paziente.21

In ogni caso le terapie che credono nel cambiamento attraverso la parola, non possono che basarsi sulle parole del paziente, sul suo personalissimo modo di socializzare contenuti intimi rispetto al proprio vissuto e ai propri ricordi.

Non solo nel contenuto, ma anche nella forma, la narrazione in psicoterapia tende ad una progressiva assunzione sempre più personale: ad esempio, per quanto riguarda le emozioni, il percorso segue una traiettoria che va da esposizioni lontane a racconti sempre più densi del vissuto del soggetto, fatto che permette ovviamente maggiori opportunità di catarsi e di riorganizzazione armonica generale del piano emotivo.

Questo graduale avvicinarsi sempre più a se stessi richiama nuovamente il concetto di ciclo mnestico, per cui da ricordi che possono anche essere viziati da risposte difensive, si possa giungere gradualmente ad una riappropriazione più autentica del proprio vissuto:

La psicoterapia può essere intesa come un’esperienza di risocializzazione della memoria, ma anche di individualizzazione e di riappropriazione personale, al di là delle narrazioni difensive sul sé convenzionalizzate e inautentiche, della sostanza rappresentazionale del ricordo per immagini e degli schemi senso-motori dell’esperienza infantile, che possono essere ridescritti con gli strumenti rappresentativi e linguistici più evoluti a disposizione dell’adulto.

In questa prospettiva ho presentato sommariamente la proposta teorica di un ciclo mnestico, analogo al ciclo percettivo e ad esso collegato, che sfrutta l’esperienza della ripetizione, segnalata da deboli indizi come il falso riconoscimento, per cercare di rendere consapevole il referente mnestico e l’operazione di categorizzazione implicita effettuata, […].22

21 Calamari E., I ricordi personali – Psicologia della memoria autobiografica, ETS, Pisa 1995, p.171 22 Ibidem, p. 315

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275 Il racconto del paziente in ambito psicologico (da quello psicoanalitico a quello psichiatrico) ha sempre rivestito grande importanza, lo strumento principe sia per formulare una diagnosi che per la cura vera e propria.

Se l’utilizzo dell’indagine autobiografica in ambito clinico può essere fatto risalire già a Freud, con Foucault e la sua teorizzazione delle ‛tecnologie del sé’ come processi di autocomprensione legati ad una rivisitazione del passato, si giunge al suo utilizzo come strumento più proprio per ridefinire l’identità, sia pure in continuo divenire.23

L’espressione ‛storie che curano’ riferite ai processi psicoterapici si deve ad Hillman24 e sottolinea la natura intrinsecamente orientata sul soggetto di qualunque psicoterapia, un processo che continua al di là del rapporto clinico, laddove il soggetto abbia appreso, da solo, a modificare letture lesive e inibenti per il sé a favore di ristrutturazioni autobiografiche che promuovano una comprensione più favorevole e congrua al sé e al suo vissuto.

Nel rapporto terapeutico, come ha saputo ben sottolineare Starace25, il terapeuta si fa promotore dell’autoindagine narrativa del paziente, incoraggiondolo e raccogliendo il narrato, come un biografo vero e proprio.

Il cliente o paziente si impegna a destrutturare un sistema autoriflessivo potenzialmente distruttivo per il sé, attraverso una narrazione che per centri concentrici si avvicina sempre di più al vissuto più intimo, intriso di emozioni contrastanti, in cui riesce finalmente ad attribuirsi con clemenza la responsabilità della propria vita; se da una parte tale responsabilità implica smettere di attribuire a circostanze o a persone esterne colpe di situazioni ritenute inizialmente ingestibili, e quindi imparare ad accettarsi e a ridimensionare sentimenti negativi se pervasivi, come la colpa o il rimorso, dall’altra parte il soggetto vede finalmente che ha un potere su sé: se non sempre efficace sui fatti, quantomeno sempre in grado di legarli tra loro e di leggerli in una prospettiva evolutiva. La conseguente rinnovata fiducia in sé, e in generale nella vita e nei rapporti con gli altri, è il principale strumento per valutare il successo della terapia, ma che non può

23 Foucault M. et. al., Tecnologie del sé, Martin L.H., Gutman H., Hutton P.H. (a cura di), Bollati

Boringhieri, Torino 1992

24 Hillman J., Le storie che curano, cit.

25 Starace G., Il racconto della vita. Psicoanalisi e autobiografia, Bollati Boringhieri, Torino 2004,

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276 essere misurato oggettivamente dall’esterno: anche in questo caso è il soggetto stesso che valuta, si autovaluta, nel percorso intrapreso.

Ma se uno psicoterapeuta accetta la sfida professionale che implica ascolto empatico e rispettoso del discorso del paziente, rinunciando alla tentazione di interferire nel cammino di autoriscatto psichico, di cui può immaginare l’andamento, ma non avere la certezza dei passi che il paziente avrà la sensazione di compiere liberamente, non possiamo che pensare che alla base di qualunque psicoterapia ci debba essere una ben radicata fiducia nella capacità di qualunque soggetto di ritrovarsi:

La modificazione e la crescita della personalità nel corso della terapia sono spiegate facendo riferimento costante ad una “forza di base” presente nel cliente, definita “tendenza attualizzante”, considerata come la forza essenziale che è all’origine della crescita e dello sviluppo di ogni persona. È una forza regolatrice che permette alla persona di selezionare, in modo gerarchicamente ordinato, le esperienze vitali. Fine della terapia è quello di creare delle condizioni favorevoli che permettano a questa forza di operare, così che la persona possa crescere verso la propria autorealizzazione.26

Rogers la definisce “forza di base”, “tendenza attualizzante” ed è evidente dai brani che abbiamo riportato dalla sua opera così calorosamente ed entusiasticamente dalla parte del cliente, che in questo caso la fiducia sia totale e ontologicamente spiegata.

Ma in forme e con accezioni diverse non possiamo immaginare un bravo terapeuta che non sappia ascoltare con rispetto e che non accetti la sfida implicita nel suo stare ai margini per assistere con competenza il cammino accidentato, certo, e non sempre lineare, che contemporaneamente mira a ripristinare condizioni psichiche armoniche e ad acquisire nuove competenze cognitive connesse all’autoformazione.

È necessario avere fiducia che il cliente/paziente, anche quando fuori di sé, sfibrato e spaventato, sconnesso e sparpagliato, sappia quale sia la strada giusta da intraprendere, cosa cercare, dove andare e dove soffermarsi; che sappia infine guardare in faccia i problemi e raggiungere gli abissi più oscuri della memoria: la dimostrazione è che è lì, seduto, davanti al terapeuta, magari non sapendo da dove cominciare o non avendo la sicurezza che servirà a qualcosa; ma è lì, dopo aver assunto la libera decisione di dedicare un tempo prezioso ed assistito alla presa in carico di sé.

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277 Il cliente/paziente sa senza esserne inizialmente consapevole quale sia il suo bene ed il terapeuta sa consapevolmente e scientificamente che è proprio così.

Oso credere che, quando l’essere umano è intimamente libero di scegliere ciò cui attribuisce il valore più profondo, tenda a dar valore a quegli oggetti, a quelle esperienze ed a quelle mete che contribuiscono alla sua sopravvivenza, alla sua crescita, al suo sviluppo ed alla sopravvivenza ed allo sviluppo degli altri. Faccio l’ipotesi cioè che sia caratteristico dell’organismo umano, inserito in un clima che stimola lo sviluppo, preferire mete attualizzanti e socializzate.27

V.2. Dalla narrazione autobiografica nel rapporto clinico come “procedimento analitico assistito” alla consulenza autobiografica per la promozione della conoscenza del sé

Insomma anche Demetrio come i miei primi maestri mi valorizzò, questa valorizzazione che mi veniva da persone che stimavo moltissimo, che calcolavo miei mentori, dei maestri importanti, era di un calore eccezionale, riusciva a dare una “lustrata” a quell’io sfilacciato, per certi aspetti poco forte che avevo.28

Abbiamo precedentemente sostenuto che, mentre il cliente/paziente in psicoterapia sperimenta la reale esperienza di libertà di espressione e di scelta, il terapeuta è sostenuto scientificamente in una sorta di determinismo che gli permette ragionevolmente di supporre dove porterà il cammino dell’assistito.

E, in virtù di ciò, sebbene stia ai margini limitando il suo intervento per lasciare fluire liberamente i pensieri, i ricordi, che man mano vengono autonomamente riorganizzati dal soggetto narrante, svolge il suo ruolo in maniera attiva tentando di rintracciare ciò che è davvero importante, lasciando cadere gli interventi che si mostrino distanti dal sé per mettere in rilievo quegli spunti, seppur deboli e non del tutto consapevoli, che paiono cruciali per la ridefinizione del sé.

Nel farlo ovviamente deve attenersi allo schema narrativo di riferimento del paziente, incoraggiandolo ad osare secondo le sue possibilità e secondo soprattutto la sua prospettiva.

27 Ibidem, p.284

28 Carmellini B., La fondazione della Libera, in Noferi A. (a cura di), Libera Università

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278 Non si tratta quindi di definire una patologia e di prescrivere una cura, ma di aiutare il paziente a ridefinire il vissuto e a riattivare (o a crearne di nuove) le risorse personali per affrontarsi; e per riuscirci deve necessariamente stare dentro il suo mondo, indossare i suoi occhi.

Pur essendo in una relazione asimmetrica, definita non tanto dai ruoli, quanto dalla disparità emotiva, il terapeuta, come abbiamo già detto, deve credere nel cliente, capirlo, avere fiducia in lui e sforzarsi di fargli comprendere la sua disposizione accogliente.

Ogni fatto narrato, in quanto narrato dalla prospettiva soggettiva, deve essere ritenuto degno di interesse e significativo; ogni emozione, coerente, positiva o meno, ha diritto di essere accettata ed accolta.

Il terapeuta deve, in sostanza, mettere da parte la possibile ansia di controllo e di guida ed accettare la connotazione estremamente soggettiva dell’esperienza personale.

L’elemento essenziale, nuovamente, è da rintracciare nell’atteggiamento empatico che permette di comprendere l’altro senza essere l’altro, sentire i sentimenti dell’altro senza subirne le conseguenze.

Quando è in grado di orientarsi senza bussola nel mondo del paziente, allora il terapeuta può partecipare attivamente, in un autentico dialogo, restituendo al cliente quanto questi va scoprendo ed aiutandolo nella più importante funzione della narrazione, che è quella della assegnazione di senso ai fatti esposti.

Quanto detto vale, in modo più generale, per qualunque rapporto asimmetrico, in cui un individuo possa agevolare un altro, o un gruppo, nella valorizzazione di sé e delle proprie capacità allo scopo di conquistare una visione più positiva di sé e delle relazioni con gli altri; dunque, anche in ambito educativo, lo scopo principale deve essere sempre quello di aiutare il soggetto in via di sviluppo a riconoscere le proprie risorse e ad attivarne delle nuove per sentirsi in grado di affrontare le sfide della crescita e dell’apprendimento; e questo, ovviamente, è collegato con la legittimazione dell’espressione personale, del proprio vissuto e dei propri pensieri.

In ballo, però, ci sono anche i sentimenti e le emozioni del terapeuta, che possono talvolta essere apparentemente in evidente contrasto con quanto detto sopra: può capitare, ad esempio, che il terapeuta sia preso da preoccupazioni personali o che possa

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279 provare noia e distanza; l’unica via d’uscita è la stessa con cui accoglie le istanze del paziente, ovvero accettare questi dati, accettarsi:

Un modo di esprimere una tale regola, che potrebbe parere strano, è questo: se posso stabilire una relazione d’aiuto con me stesso, se posso cioè essere sensibilmente consapevole e ben disposto verso i miei stessi sentimenti, c’è una grande probabilità che possa stabilire una relazione di aiuto con gli altri. Ora, accettare di essere quello che sono, in questo senso, e permettere che questo appaia ad un’altra persona, è il compito più difficile che conosca, e uno di quelli che non ho mai del tutto assolto. Ma riconoscere che questo è il mio compito, mi è stato quanto mai utile poiché mi ha aiutato a trovare che cosa era stato sbagliato in relazioni interpersonali divenute aggrovigliate e confuse, ed a porle di nuovo su un piano costruttivo. Ciò significa che se voglio facilitare la crescita personale di altri in relazione con me, io stesso debbo crescere e questo, pur essendo spesso doloroso, mi arricchisce.29

Credere nell’altro, nella sua possibilità di crescita, avere fiducia nella sua narrazione e nel potenziale evolutivo intrinseco, non può prescindere dalla fiducia in sé e nella propria complessità:

[…] posso essere forte abbastanza, come persona, da essere profondamente rispettoso dei miei sentimenti, dei miei bisogni, così come dei suoi? Posso conoscere e, se necessario, esprimere i miei sentimenti come qualcosa che appartiene solamente a me, e che è distinto dai suoi sentimenti? Sono abbastanza forte ed abbastanza autonomo da non essere abbattuto dalla sua depressione, spaventato dalla sua paura, sopraffatto dalla sua dipendenza? È il mio Io saldo a sufficienza per riconoscere che non sono distrutto dalla sua ira, lusingato dal suo bisogno di dipendenza, asservito dal suo amore, ma che esisto distinto da lui con i miei sentimenti e con i miei diritti? Quando posso sentire liberamente la forza che mi deriva dall’essere una persona autonoma posso spingermi molto più a fondo nel capirlo e nell’accettarlo, perché non avrò timore di perdere in tal modo me stesso.30

La comprensione dell’altro non può prescindere dal rispetto verso l’altro, ma anche verso sé: dal rispetto per la propria complessità, il terapeuta può comprendere quella altrui e dimostrare il necessario rispetto nell’immettersi nel suo mondo intimo, riuscendo anche a scorgere significati importanti nascosti tra le pieghe della narrazione. L’io saldo, non monolitico e rigido, bensì fluido e aperto, del terapeuta, può entrare empaticamente in contatto con le emozioni più impegnative del paziente, senza esserne travolto; non intende giudicare, ma comprendere, anzi aiutare il paziente a

29 Rogers C.R., La terapia centrata-sul-cliente, cit., p.80 30 Ibidem, p.81

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280 comprendersi; e questo proprio in virtù del fatto che al centro della relazione sta un processo evolutivo di maturazione:

[…] posso riconoscere nell’altro una persona impegnata in un processo di “divenire”, o non sarò limitato nella mia percezione dal suo passato e dal mio passato? Se nel mio incontro con l’altro, lo tratto come un “bambino immaturo”, come uno “studente ignorante”, come una “personalità nevrotica”, come uno “psicopatico”, gli impedirò, in qualche modo, di essere tutto ciò che può essere, nella relazione.31

Processo evolutivo che, dunque, il bravo terapeuta deve anche riferire sempre a sé: solo considerando l’esistenza come un continuo processo in divenire di crescita, privo di mete definitive, ma ricco di continue opportunità, che talvolta possono presentarsi sottoforma di crisi, per ridefinirsi, riposizionarsi in modo sempre più ricco ed elaborato, è possibile avere una reale fiducia nell’altro, qualunque sia il punto di partenza dell’incontro terapeutico.

La presenza di schemi valoriali rigidi riferiti a bene/male, giusto/sbagliato, positivo/negativo, sebbene mascherati dal tentativo di mostrare un ascolto professionale, sono destinati ad emergere e a prendere il sopravvento, disturbando così il fragile cammino introspettivo del soggetto in terapia.

Con il termine congruenza Rogers intende proprio la capacità del terapeuta di permettere ai propri sentimenti di fluire liberamente, di contro all’autoimposizione di una maschera, che non può favorire la relazione terapeutica e dunque il processo di maturazione del paziente32: l’incontro va inteso innanzitutto come un incontro tra persone.

Il fatto di non indossare una maschera non significa che il fluire libero dei sentimenti debba essere gettato contro il paziente; ma, anzi, significa che il terapeuta, in contatto autentico con se stesso, è in grado di muoversi continuamente, di modificare il proprio atteggiamento durante l’intero arco dell’esperienza.

Secondo Rogers, il potenziale evolutivo racchiuso nell’esperienza terapeutica rappresenta una più generale connotazione degli esseri umani, che se realmente in condizioni di libertà di scelta, tendono allo sviluppo interiore:

31 Ibidem, p.84 32 Ibidem, p.90

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281 È stata per me un’esperienza sorprendente vedere come in terapia, ove si dà valore alla persona e le si assicura una grande libertà di sentire e di essere, emergano certi orientamenti di valore. Non sono orientamenti caotici, ma sorprendentemente simili. […] Mi piace pensare che questa somiglianza nell’orientamento dei valori sia dovuta al fatto che apparteniamo tutti alla stessa specie: che come un bambino tende, individualmente, a scegliere una dieta simile a quella scelta da altri bambini, così un cliente in terapia tende individualmente a scegliere orientamenti di valore simili a quelli scelti da altri clienti. Nella specie umana ci potrebbero dunque essere certi elementi di esperienza, capaci di contribuire allo sviluppo interiore, che sarebbero scelti da tutti, se tutti fossero autenticamente liberi di scegliere.33

Il rispetto per la dignità umana, che Rogers considera la condizione principale e, addirittura, quasi l’unica necessaria ed indispensabile nel rapporto terapeutico, Demetrio la definisce eterostima: in qualunque rapporto asimmetrico di supporto o di aiuto allo sviluppo e alla ricerca di sé (insegnanti/allievi, genitori/figli, terapeuti/clienti) è la capacità di far percepire al soggetto in terapia, o più in generale, in crescita, la propria disponibilità e il riconoscimento delle sue istanze ad essere la condizione primaria per il successo della relazione.34

La prima regola di un rapporto autenticamente dialogico, in cui entrambe le vite si intrecciano, come vite di persone, deve essere quella di creare un clima favorevole all’apertura del soggetto narrante.

La percezione di stima da parte dell’altro, che si manifesta nella capacità di saper ascoltare il racconto restituendolo in una trama ben tessuta e capace di offrire la possibilità al soggetto in evoluzione di “riconoscersi in quel che ha detto accettandolo o rifiutandolo”35, divenendo dunque una sorta di attento e preparato biografo, genera l’autostima, nel momento in cui la propria storia appare finalmente importante, degna di essere raccontata e dotata di senso.

La scoperta che la propria storia interessi a qualcuno crea nel soggetto ferito un nuovo atteggiamento verso la stessa, rendendolo più disposto ad addentrarsi con coraggio e fiducia tra i rovi del proprio io affranto e confuso.

E così come una ciliegia tira l’altra, l’incoraggiamento a far narrare di sé implementa le storie da raccontare, facendole emergere magari da un oblio forzato e necessario, ritenuto prima indispensabile per sopravvivere.

33 Ibidem, p.283

34 Demetrio D. (a cura di), L’educatore auto(bio)grafo – Il metodo delle storie di vita nelle relazioni

d’aiuto, Unicopli 1999

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282 La prospettiva educativa e terapeutica incentrata sul racconto di sé ha come presupposto ineliminabile che il racconto sia sempre una produzione soggettiva di un individuo alle prese con la sua dimensione e le sue voci interne.

“Proprio lo spazio intermedio tra realtà psichica e realtà fattuale, in cui prende forma l’artefatto autobiografico, è dunque il luogo privilegiato dell’incontro tra educatore e narratore.”36

Solo sperimentando su sé l’esperienza autobiografica si può essere realmente in grado di divenire biografi di altri, organizzando situazioni autoformative volte al miglioramento del rapporto con se stessi e con gli altri.

L’utilizzo del metodo autobiografico assistito va inteso dunque in due forme: nel rapporto terapeutico vero e proprio, laddove il senso di sé sia compromesso e ci sia una sofferenza che richieda un’assistenza globale alla cura del malessere in atto; oppure sottoforma di guida metodologica, ove l’eventuale crisi non abbia compromesso in maniera significativa l’amore per se stessi e per la propria esistenza, in assenza cioè di patologie.

Nel primo caso, almeno inizialmente, non è possibile di conseguenza chiedere al soggetto che ha bisogno di ricucire la propria storia, che svolga quella parte di lavoro che invece nel secondo caso è fondamentale e che consiste in momenti di ricerca autonoma e solitaria.

in qualunque caso, sia che avvenga in maniera completamente autonoma, che in forma assistita, secondo Demetrio la scrittura autobiografica non può che essere definita “un’attività clinica”:

La scrittura autobiografica – che, […], accentua tali procedure autoanalitiche, di autocontrollo, di automonitoraggio, non può che darsi, quindi, se non come un’attività clinica, anche se sui generis: il narratore pur godendo di ottima salute si reclina verso di sé; il suo “giaciglio” – in tal caso – saranno le pagine che andrà scrivendo, lo stetoscopio la sua penna.37

Clinica nel senso che il soggetto mette in campo le sue capacità di “resistenza”, “autorealizzazione”, “riscatto”, “emancipazione e liberazione”38 e tutto questo

36 Ibidem, p.35

37 Demetrio D., La scrittura clinica – Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Raffaello

Cortina, Milano 2008, pp.19-20

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283 attraverso la narrazione, ovvero attraverso la trasformazione verbale del magma interiore cacofonico e caotico.

La scrittura autobiografica assistita diviene cioè un modo per promuovere il desiderio di conoscersi e di assoggettare il sapere al proprio io, sia che si tratti di soggetti fragili in un percorso terapeutico, sia nella prospettiva educativa, ad esempio all’interno del sistema d’istruzione, dal momento che le risposte cognitive che si ottengono nei processi di autoformazione possono essere strumenti importanti per la vita stessa.

È in atto, a livello globale, un’aumentata sensibilità verso questo dispositivo autoformativo, soprattutto in relazione al mondo degli adulti; e questo perché la scrittura ha il potere di umanizzare i contenuti esistenziali, rendendoli strumenti favorevoli per lo sviluppo cognitivo ed emotivo.

Ciascun individuo è destinato, in certi momenti critici della propria esistenza, a sentirsi fragile: ma questo stato può essere l’occasione per riorientarsi ed aprirsi, più forti, al confronto con gli altri; può essere l’occasione imperdibile di ravvedere nei punti di domanda la possibilità di accettare la mancanza di risposte definitive, e trovare quest’ultimo fatto come nuova modalità di affrontare il cammino esistenziale, all’insegna dell’avventura e del dubbio come luogo di libero pensiero e di infinite possibilità.

Nei gruppi di scrittura assistita deve essere prevista una figura che si occupi di prendere appunti durante le attività di gruppo, di cui restituirà il contenuto valutando diversi fattori: il raggiungimento dell’obiettivo di tessitura della propria vita in una trama narrativa coerente; l’emersione del piano valoriale e del profilo umano dai fatti narrati; la necessaria problematizzazione delle situazioni critiche; l’accenno a situazioni che necessitino ulteriore approfondimento e la presenza di una teleologia retrospettiva che metta in luce quello che per il soggetto narrante è il piano di maturazione avvenuto nel corso del tempo.

Il supervisore, formatore, secondo Demetrio, deve cioè scoprire se l’apprendista autobiografo sia stato in grado di ricomporre la propria storia, di autorispecchiarsi, di aver elaborato un sistema filosofico-argomentativo, di essere stato capace di seminare degli indizi per ulteriore ricerca, ed infine che abbia centrato il criterio della maturatività interiore.39

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284 Dopo aver verificato tali criteri, è importante rivelare quale forma stilistica emerga dalle narrazioni dei partecipanti alle attività: il racconto può essere molto centrato sulla cronologia, o sulla dimensione interiore, o apparentemente senza criterio; può avere una forte coloritura storico-sociale, oppure più filosofica (nel primo caso i fatti sono collegati o inquadrati nel tempo in cui sono occorsi; mentre nel secondo si oltrepassa la dimensione individuale ed anche quella sociale per indagare in senso assoluto temi universali); ma anche poetica, dove la coerenza cercata è creata dalla bellezza dell’esposizione e delle parole utilizzate; c’è chi desidera soprattutto lasciare un’autentica testimonianza personale o, mettendosi ai margini nel racconto, dare voce ad un gruppo più ampio, come la famiglia ad esempio.

Sarà data importanza anche ai luoghi e a come essi siano rappresentati nel racconto, alla connessione che il soggetto narrante stabilisce tra essi ed il proprio sé; al tempo, sia nel senso di ricordi precisi o meno di determinati fatti, sia come assetto narrativo generale (periodi, anni, ecc.); alla concatenazione dei fatti (causale o casuale, rilevanza di fatti salienti o meno).

E poi, nel rapporto dialogico con l’ipotetico lettore, mettere in rilievo lo scopo della comunicazione: far conoscere la propria storia, lasciare una testimonianza storica, trasmettere emozioni e pensieri; oppure semplicemente il desiderio di scrivere, trovando nella propria avventura un’ottima opportunità per filosofeggiare.

Addentrandosi poi nel linguaggio specifico di ciascun autore, sarà indagato l’uso di figure retoriche, quali similitudini e metafore; la ricerca di parole desuete; la capacità di drammatizzare e quella di stare a debita distanza dai fatti narrati.

Si può inoltre rintracciare la presenza di una sorta di morale della favola, della capacità di aver messo in rilievo quanto appreso nel proprio percorso, della connessione stabilita tra l’io di allora e l’io del presente, del confronto tra quello che si desiderava e ciò che si è diventati, di quello che si potrebbe raccontare ancora, di ciò che si è chiuso definitivamente e di ciò che invece ancora chiede di essere affrontato; di cosa costantemente ritorna, di cosa si percepisca il valore essenziale e ovviamente in cosa la scrittura autobiografica si sia rivelata importante per l’autoindagine.

E, infine, se dalla narrazione emerga un modello di stabilità o, al contrario, di mutamento.

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285 Alla base della scelta di intraprendere il percorso di formazione per aiutare, attraverso l’approccio autobiografico, chi senta il desiderio di fare una ricerca su sé, c’è:

una concezione umanistica e filosofica delle pratiche di cura, che reputano lo sviluppo della conoscenza (di sé o del mondo) una via in grado di offrire, oltre a un benessere – momentaneo o di maggior durata – un’occasione autoformativa che rafforzi l’io. […] La scrittura offre, specie se applicata a se stessi, emozioni autogratificanti e vissuti autoestimativi come poche altre soluzioni, anche laddove non sia in corso un programma di formazione.40

La formazione di coloro che intraprendono questa strada non può prescindere dunque dall’avvicinamento alla letteratura, alla filosofia e alla pedagogia, dal cui intersecarsi emerge un’idea di benessere incentrata sul processo per acquisirla e sul soggetto impegnato nel farlo: anche laddove la sofferenza individuale implichi, necessiti, il supporto medico, l’idea centrale è che sostare a riflettere per scrivere di sé e tentare di trovare un senso possa essere un’importante sostegno autocurativo.

Comprensione e cambiamento sono le parole-chiave dell’approccio clinico alla scrittura autobiografica: comprensione nel senso della necessità di dispiegare vecchie e nuove competenze cognitive per affrontare la specifica domanda inerente alla peculiarità irriducibile di una soggettività, con tutto il suo personale vissuto; ma tale comprensione, ricercata inizialmente a causa di un disagio, implica poi la possibilità di sentirsi sollevati, curati.

È evidente l’implicazione educativa che coinvolge entrambi i soggetti della relazione clinica: non solo l’individuo alla ricerca di sé, ma anche l’accompagnatore è costretto a guardarsi dentro e a riflettere sul proprio modo di guardare l’altro, in modo da incrementare la capacità di ascoltare in un atteggiamento autenticamente aperto e dunque non disturbato dal desiderio di dominare, controllare e condizionare il percorso del soggetto in cammino: chi aiuta un individuo nel ricucirsi attraverso la propria storia non può che fare altrettanto con la propria, con il proprio vissuto, con il proprio modo di conoscere e di porsi in relazione.

La clinica è perciò, in questi termini, non uno spazio esclusivo (degli uni o degli altri) bensì la terra di mezzo di un incontro esperienziale, fondato sulla mediazione

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286 di una parola vissuta – tanto come pratica di ascolto che di interlocuzione – e sul reciproco sentirsi presenti nella vicinanza.41

L’approccio autobiografico diviene la sede di un’esperienza unica ed irripetibile, poiché in campo ci sono due soggettività particolari e non assimilabili ad altri, coinvolte in una relazione non determinata a priori, ma sostenuta dal desiderio e dall’obiettivo di cura del sé ferito o semplicemente smarrito:

Poiché lo spazio, il tempo, i corpi de-personalizzati, privati del loro potere-diritto a dire di sé non hanno senso alcuno, dal momento che è il loro incarnarsi in una mente biograficamente esistente, pulsante nel presente a costituire la ragione d’essere della clinica. Non può dunque istituirsi una clinica della storia, ma solo del passato che in quell’istante presente viene narrato; né delle idee, ma solo dell’ideare in quel momento particolare che qualcuno ascolta, trascrive, registra. La clinica è di conseguenza l’apice del relativo e del contingente, che la storia delle diverse cliniche, la cui conoscenza è cruciale, pur non è chiamata a ordinare e classificare in modelli, tipologie casistiche, bensì a reinterpretare e a rimettere in discussione ogni volta dinanzi a un nuovo caso.42

Nell’approccio clinico l’individuo si fa crocevia di riflessioni filosofiche, liriche e scientifiche volte a tentare di svelare quali combinazioni lo portino a definirsi in un determinato modo ed al contempo a difenderlo dal pericolo di rarefazione connesso alla tentazione perennemente alla porta di adattarsi a modelli estrinseci.

La soggettività è il pilastro attorno a cui l’approccio clinico costituisce l’ascolto dell’altro, ma anche la metodologia e gli scopi.

Più che su principi teorici, l’approccio clinico è prevalentemente incentrato sull’atteggiamento pratico teso, nell’ascolto, a porre al centro la soggettività e a rispondere alla sua domanda di evoluzione in termini di benessere attraverso l’autoindagine, a cui va riconosciuto il valore di esperienza unica ed irriducibile.

Questo vale, per me, anche nella mia professione. Nella relazione di aiuto la mia visione, il mio stare, il mio esserci, parte dalla storia narrata con la quale inizio a lavorare, dall’ascolto e non dalla teoria che ho appreso. La storia soggettiva, unica ed irripetibile diviene catalizzatore del pensiero riflessivo sul quale si intersecano, di seguito, i diversi miei saperi e conoscenze maturate. È interessante dunque per

41 Ibidem, p.321 42 Ibidem, p. 322

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287 me dare avvio alla relazione con “raccontami di te” anziché ti dico io chi sei a partire dalla raccolta anamnestica o dalla diagnosi clinica.43

Ci sono situazioni in cui l’approccio farmacologico può essere spropositato, laddove si tratti di circostanze esistenziali oggettivamente destabilizzanti, come ad esempio lutti o separazioni, che invece se non cementate nella rassicurante e rapida via della medicina in senso tradizionale, possono divenire fonti preziose di crescita, se si accetta che sia parte del vivere attraversare fasi di disorientamento.

Non si tratta tanto di guarire, quindi, quanto di non aver più timore di vivere: l’approccio medico è smantellato da quello educativo, che mira ad accompagnare l’individuo fino alla fine dei suoi giorni.

“La clinica si configura perciò nel suo essere una via di assistenza, di ausilio, di sostegno spirituale laico, di speranza e pacificazione con se stessi nei momenti luttuosi o quando questi vadano avvicinandosi.”44

Il soggetto che, in solitudine o guidato, intenda attraverso la retrospezione e l’introspezione scandagliare il proprio vissuto per diradare la nebbia interiore e far luce così sul proprio passato, ma anche sul proprio presente, rintracciando continuità e discontinuità, si trova anche a riflettere sul proprio modo di apprendere e di organizzare i saperi; motivo per cui l’attività autoformativa dell’indagine di sé si rivela anche una forma di conoscenza metacognitiva che offre l’opportunità di scoprire molto di se stessi. Nel caso specifico di ‛consulenza clinica non terapeutica’45 lo scopo diviene:

restituire l’individuo alla materialità del suo essere stato al mondo: al senso di dignità di aver comunque vissuto, amato, contato qualcosa, di poter ancora essere utile sia a sé sia agli altri. […] La fiducia che tali strategie cliniche pongono nel valore emancipativo della intelligenza devoluta fino all’ultimo alla conoscenza, alla memoria personale, all’esperienza sensibile, o per meglio dire, al valore della presa di coscienza, trascura forse le ragioni dell’inconscio.46

La fiducia cioè nella capacità del soggetto di trovare la propria strada per riconnettersi a sé e alla propria storia non contempla l’indagine intrusiva di ciò che viene omesso;

43 Holzknecht O., Il senso di questa esperienza è dunque trovare un nuovo senso, in Noferi A. (a cura di),

Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, cit., pp.574-575

44 Demetrio D., La scrittura clinica – Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, cit., p. 324 45 Ibidem, pp. 325-326

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288 bensì la certezza che un dialogo rispettoso, consapevole e sincero possano agevolare il processo di maturazione implicito nelle fasi critiche della vita.

Dal punto di vista metodologico e deontologico questa puntualizzazione è fondamentale, poiché spingersi nella dimensione inconscia potrebbe confondere e invalidare gli scopi di un’attività che vuole differenziarsi da quella psicoanalitica tradizionale.

E, di conseguenza, altro punto fondamentale dell’approccio clinico è che non ci sia nessuna verità da scoprire, da rivelare, da far emergere: il soggetto che intraprenda tale percorso ha la libertà assoluta circa il dire e il non dire, il rivelare e l’omettere; mentre chi guida il percorso non ha altro compito che tentare di spingere alla scrittura inserendo la possibilità del dubbio, per giungere ad una narrazione complessa e coerente della propria esistenza.

Scoprire che si ha diritto al segreto e che tale segreto si fondi sull’accettazione dei propri limiti, questo è uno degli obiettivi dell’approccio clinico non terapeutico, che quindi si differenzia sostanzialmente da quello terapeutico: non si cerca la guarigione, bensì l’instaurazione di un atteggiamento filosofico verso l’esistenza.

In ciò, come abbiamo più volte sostenuto, si rivela comunque un dispositivo di cura, sebbene non terapeutico, nel senso di rinnovato interesse e amore verso sé e verso la propria storia, in un tempo finalmente ritrovato per ascoltare le domande interiori e nel tentare di darvi una possibile risposta provvisoria soddisfacente.

Una via che risponde all’esigenza tutta umana di pensare alla vita come ipotesi e quindi come altro da sé e contemporaneamente di dare un assetto coerente e sensato a ciò che si è, distanziandosi dall’immanenza dell’essere.

L’attività del linguaggio […] costituisce un metodo che travalica definitivamente il mero intento terapeutico; poiché riaffida ai soggetti poteri cognitivi, di esplorazione e di disciplina delle emozioni, pur compromessi, attraverso l’elaborazione dei fatti realmente accaduti in forme dell’immaginario: in letteratura, poesia, musica, corporeità, teatralità, ecc.47

Ovviamente perché il percorso centri gli obiettivi prefissati è necessario che da parte del soggetto che inizi questo percorso ci sia la disponibilità a scrivere con costanza, a

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289 sforzarsi di ricordare mettendo in connessione passato e presente, e ad accettare, immaginare, un lettore delle proprie scritture.

Scrivendo di sé si scopre l’unicità della propria esistenza, verso cui si rinnova l’amore e si scopre anche il valore educativo dell’apprendere da essa, fatto che non eliminerà la sofferenza o il disagio, ma certamente porterà ad una maggiore consapevolezza ed accettazione.

La scrittura assume valore clinico in quanto non può che riferirsi all’esperienza unica del soggetto che la intraprenda e dunque non può essere standardizzata e generalizzata; l’esito è direttamente proporzionale all’impegno da parte del soggetto scrivente nello scandagliarsi allo scopo di ricavarne un artefatto soddisfacente sia sul piano narrativo che estetico; perché nella relazione di aiuto lo scambio personale fondato sul metodo autobiografico si pone lo scopo di oltrepassare modi precedenti di rappresentarsi a sé, per giungere al romanzo della propria vita che si riallaccia alle origini in modo nuovo e che al contempo si affaccia al presente e al futuro con rinnovato interesse verso l’ignoto. Quella clinica si presenta dunque come relazione ‛dia-logica’ (scambio circolare di parole), ‛dia-mnestica’ (condivisione di conoscenze) e ‛dia-grafica’ (la scrittura è un mezzo di scambio); una relazione in cui entrambi i soggetti hanno da imparare qualcosa ciascuno dall’altro e da se stessi.48

Si può considerare concluso il processo analitico assistito quando nel soggetto che abbia iniziato il percorso si sia formato un ‛narratore interno competente’49 capace di rielaborare rendendo tollerabili i contenuti che via via si presentino intrisi d’ansia o dolore, accettando l’impossibilità di controllo totale e di conseguenza i propri limiti. Un narratore competente che abbia fiducia nelle proprie capacità di auto indagine, ma anche maturato dal punto di vista cognitivo, nel senso cioè di essere in grado di fare di sé altro da sé, personaggio di una storia provvisoria e plausibile in cui i pezzi di vita nell’essere ricomposti sono anche trattati creativamente allo scopo di divenire accettabili e sensati.

La continua oscillazione tra narratore, personaggio principale e non, consente di approcciare la verità, anzi le verità, soprattutto quelle più dolorose con atteggiamento

48 Ibidem, pp. 330-331 49 Ibidem, p.342

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290 drammaturgico, anziché drammatico, laddove lo sforzo narrativo viene a lenire l’impatto emotivo dei fatti così come si presentano alla memoria.

La consulenza clinica che si pone come obiettivo di aiutare i soggetti che non siano in grado di percorrere la strada autobiografica da soli e che al contempo non siano affetti però da patologie tali da richiedere l’intervento di altri specialisti, a trovare un senso provvisorio alla propria esistenza attraverso appunto la creazione di un romanzo autobiografico, prende avvio dall’importante patto autobiografico che impegna entrambe le parti alla trasparenza e alla sincerità; non deve prevedere più di 10 incontri, ciascuno contraddistinto da un titolo, e organizzati in gruppi da tre ravvicinati temporalmente, seguiti da una pausa, e che possono essere comparati alle parti fondamentali di un racconto: ‛premessa’ (in cui avviene la preliminare conoscenza tra consulente e assistito, allo scopo anche di valutare il percorso più adeguato); ‛introduzione’ ( in cui si inizia il lavoro di scrittura guidato dalle domande del consulente rispetto alla storia dell’assistito e a cui, a conclusione, sarebbe opportuno che venisse donato un quaderno, un diario su cui inizierà ad annotare frammentariamente quanto verrà richiesto durante le sedute); ‛incipit ed exit’ (ogni seduta prenderà avvio dalle annotazioni scritte sul diario e la conclusione della seduta non deve essere un’interruzione brusca); ‛sviluppo tematico’ ( in cui si inizia a dare forma al romanzo della propria vita, secondo lo stile e il gusto del soggetto narrante); ‛conclusione’ (è il momento in cui entrambi i soggetti della relazione considerano conclusa la scrittura e raggiunto l’obiettivo di trasformare il vissuto in un racconto coerente e dotato di senso); ‛congedo’ (è il momento del distacco tra consulente ed autobiografo, momento che ovviamente non deve apparire come una rottura); ‛lettura dell’autobiografia’ e ‛restituzione’ (dalla lettura attenta del testo autobiografico il consulente deve essere in grado di restituire all’assistito quanto la scrittura sia stata in grado di lenire il dolore, di aver indagato il passato allo scopo di chiarire il presente, ma anche di accettare quanto accaduto).50

Riuscire a tratteggiare un ritratto dell’assistito congruente con quanto lo sforzo narrativo dello stesso abbia tentato di fare, torniamo a ribadire, è frutto della capacità empatica di ascoltare e di entrare nel vissuto dell’altro come se fosse il proprio; l’atteggiamento

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291 empatico è l’unica garanzia contro ogni tentazione di riduzione dell’altro ai propri giudizi e schemi cognitivi:

Conoscere l’altro, risvegliargli uno spazio nella propria mente, è possibile solo identificandosi, seppure transitoriamente, con lui. È grazie all’empatia, cioè alla capacità di provare i sentimenti dell’altro attraverso il ricorso all’autoanalisi e la ricerca, nella propria esperienza, di qualcosa di analogo a ciò che l’interlocutore sta in quel momento vivendo, che è possibile comprenderlo. Anche in un rapporto di formazione è necessario che il formatore abbia capacità empatiche per poter conoscere il soggetto in formazione.51

E l’unico modo per sviluppare tale atteggiamento empatico consiste nella volontà pratica di accettare anche la propria irriducibile soggettività, con le sue fragilità ed ansie, di comprendere l’importanza di guardarsi dentro per riuscire a scorgere le interiorità altrui:

Perché sia possibile un coinvolgimento realmente empatico è però necessario che ci si senta disponibili all’introspezione autocritica, al mettersi in gioco, allo scoprirsi, al far riaffiorare da molto lontano ricordi o esperienze anche dolorose e che ci sembrava di essere riusciti a rinchiudere per sempre nella dimensione del passato.52

L’empatia implica la possibilità di comprendere le emozioni e i sentimenti altrui, fatto che richiede la disponibilità a mettere in gioco in qualunque relazione di aiuto e/o educativa la propria emotività, abbandonando il porto sicuro degli schemi razionali con cui solitamente si giudica il mondo, a favore di un atteggiamento accogliente ed esplorativo.

V.3. Dall’Archivio diaristico di Pieve di Santo Stefano alla Libera Università di Anghiari, e oltre

Siamo approdati alla scrittura di sé assistita, ovvero in una relazione logica e dia-grafica in cui i due termini dello scambio contribuiscono circolarmente e reciprocamente alla trasformazione di un vissuto in un romanzo di vita.

51 Galanti M.A., Affetti ed empatia nella relazione educativa, cit., p.92 52 Ibidem, p.119

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