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Rassegna bibliografica

25 aprile Memoria e democrazia

Simone Neri Serneri

Molti e diversi possono essere i motivi per i qua­

li un saggio si fa apprezzare. Nel caso di La guer­

ra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi (Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 355, euro 20) l’interesse del lettore è determinato anzitutto dalle molte do­

mande suscitate dalla ricerca di Filippo Focar- di. E tra le molte domande, una preme forse più di altre. È la domanda di fondo, che chiama gli storici a misurarsi con il dibattito pubblico at­

tuale: perché si discute ancora del 25 aprile, a sessant’anni di distanza?

Ebbene, si discute ancora del 25 aprile, per affermarne o per negarne il valore civile e iden- titario, perché quella data è ancora vitale e gra­

vida di senso. Sono almeno due le ragioni profonde della sua vitalità. La prima è la sua va­

lenza plurima. Il 25 aprile è giorno propriamente di festa, perché suggellò all’epoca e ha ricorda­

to, di anno in anno, la liberazione, salutando la fine della guerra degli eserciti, la fine della dram­

matica epopea partigiana, la fine dell ’ incubo na­

zifascista. Ma quella festa fu ed è plurima an­

che per la molteplicità di protagonisti, che la vis­

sero come approdo di una varietà di percorsi per­

sonali e collettivi e di una pluralità di progetti che via via erano confluiti nel movimento di re­

sistenza all’occupazione e nella sconfitta di que- st’ultima celebravano il proprio successo. La vi­

talità deriva, perciò, anche dal fatto che sogget­

ti diversi attribuiscono un comune valore sim­

bolico a quell’anniversario.

Da questo punto di vista, la consapevolezza del carattere plurimo del 25 aprile deve però in­

durci a considerarlo non solo l’esito dell’espe­

rienza antifascista, ma anche il punto di par­

tenza degli ulteriori percorsi che quei diversi soggetti intrapresero nei mesi e negli anni suc­

cessivi e che trovarono nella fondazione della Repubblica e nell’elaborazione della Carta Co­

stituzionale un nuovo e, non meno decisivo, compimento. Ma su questo tornerò, limitando­

mi ora a notare che una considerazione, per co­

sì dire, prospettica del 25 aprile non comporta, però, una cessione di rilevanza simbolica a fa­

vore del 2 giugno 1946. Perché il 2 giugno si configura come evento di transizione, privo di autonomi valori fondanti, in quanto le sue ra­

dici politiche ed emozionali stanno tutte dentro l’insurrezione del 25 aprile, così come la sua pregnanza istituzionale scaturisce dal configu­

rarsi del movimento di resistenza tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945. Perquesto, il sug­

gello della Repubblica risiede — assai più che nel referendum istituzionale — nell’approva­

zione della Costituzione, il cui valore simboli­

co, però, rimase storicamente offuscato dalla contesa elettorale del 1948 e dal divampare del­

la guerra fredda.

Il secondo motivo di vitalità del 25 aprile di­

scende, evidentemente, dal fatto che i valori sim­

boleggiati da quell’anniversario sono conside­

rati ancora attuali e, pertanto, sono oggetto di disputa, dagli uni difesi e da altri contestati. Per i primi, dunque, il 25 aprile veicola la memoria di eventi individuati come depositari di valori, che perciò sono riproposti come esemplari, uti­

lizzati come strumento di comprensione del pas­

sato e della genesi della propria identità collet­

tiva e, infine, additati come criterio definitorio

‘Italia contemporanea”, giugno-settembre 2005,n.239-240

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dei soggetti e dei progetti costitutivi dell’arena politica nel tempo presente.

È un’operazione di costruzione della memo­

ria, di reinterpretazione del passato e di proposta per il presente e il futuro che procede in modo non lineare e a opera di soggetti diversi per na­

tura, orientamento ideale e ruolo istituzionale. Un ruolo di grande rilievo in questa elaborazione col­

lettiva gioca quella che Focardi definisce la “nar­

razione egemonica”: tale è quella narrazione che intende spiegare storicamente e politicamente il passato, rendendo “giustizia” ai protagonisti e in­

troducendo una gerarchia di rilevanza e di “ve­

rità” tra le memorie individuali. E, nel nostro ca­

so, la “narrazione” che accomuna i principali pro­

tagonisti e depositari della memoria resistenzia­

le e della sua eredità politica, nonostante le tor­

sioni più o meno marcate impresse da ciascuno di loro a quel racconto, per renderlo meglio con­

facente alle specificità della propria identità po­

litica. È la narrazione che ha posto a fondamen­

to delle istituzioni democratiche e della Costitu­

zione repubblicana la rivendicazione dell’espe­

rienza e dei valori della Resistenza. È una narra­

zione “egemonica” perché in grado di attivare processi di identificazione profondi, tali da con­

ferirle i tratti di una memoria collettiva capace di superare la frantumazione delle memorie indivi­

duali. È, anche, “egemonica” perché, espressa o veicolata tra l’altro dalle massime autorità isti­

tuzionali e politiche, anche dell’opposizione di orientamento antifascista, è maggioritaria, anche se non dominante né tanto meno esclusiva, nel discorso pubblico.

Seguendo soprattutto le prese di posizione delle massime autorità istituzionali, Focardi ri­

percorre il profilo e le fasi salienti di questa “nar­

razione egemonica”, le colloca nel contesto del­

la storia repubblicana e ne segnala il mutare di accenti e il palesarsi di tensioni o di evidenti con­

traddizioni, tutti fenomeni che, peraltro, sono correttamente intesi come conferme delle mo­

dalità competitive del processo di elaborazione collettiva di quella narrazione e della sua vita­

lità attraverso il succedersi dei diversi assetti po­

litici e sociali.

La ricostruzione procede agile e, accompa­

gnata da un'ampia silloge di testi, restituisce con efficacia, seppur sinteticamente, gli assi temati­

ci e gli snodi cruciali di quella narrazione. Per quanto talora si sarebbe forse giovata di una ri­

flessione più meditata circa l’effettiva portata

“egemonica” di quella narrazione, il saggio di Focardi delinea felicemente una periodizzazio- ne del discorso resistenziale, scandita da alcuni tratti più marcati che via via intervengono sulla continuità dei temi di fondo.

Già nella prima stagione, tra 1 ’ estate del 1943 e il referendum istituzionale, tanto da parte mo­

narchica, quanto da parte ciellenistica, ci si pre­

murò di distinguere le responsabilità italiane da quelle tedesche, per ridimensionare con le pri­

me anche l’accusa di tradimento, al fine di mo­

bilitare con più efficacia il paese nella guerra an­

titedesca e rivendicare lo status di cobelligeran­

te. Focardi vede qui l’origine dell’oblio disceso da allora sul nodo del consenso al fascismo e al­

la guerra: una debolezza cruciale della narra­

zione antifascista che dal 1946 fu tacitamente confermata con la polemica contrapposizione tra il sostegno popolare alla Resistenza e le re­

sponsabilità della monarchia e degli alti comandi militari nella condotta della guerra e nel man­

cato contrasto dell’occupazione tedesca.

Tra il 1948 e il 1953, invece, la narrazione egemonica conobbe una crisi profonda, indotta dalla convergenza in chiave anticomunista tra le destre e i partiti moderati, deploranti in modo più o meno sguaiato una “politicizzazione” o partitizzazione della Resistenza, e, d’altro can­

to, dalla radicalizzazione delle sinistre che, en­

fatizzandone il carattere popolare e democrati­

co, adesso sottolineavano con forza quei risvol­

ti sociali che sarebbero stati “sacrificati” o ri­

masti “incompiuti”, giungendo a inneggiare al­

la “rivoluzione interrotta”. Emerge, così, come sia occorso circa un decennio prima che la nar­

razione egemonica si consolidasse senza incer­

tezze, liquidando i residui delle eredità fasciste

“moderate”, che, più o meno travisate, vivac­

chiavano all’ombra dell’anticomunismo della guerra fredda. Ciò accadde solo quando De Ga-

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speri ebbe finalmente ragione di quanti, anche all’interno del suo partito e del mondo cattoli­

co, coltivando quelle eredità finivano, in realtà, per mettere in discussione non solo gli ideali, ma l’esistenza stessa della De. Era ormai chia­

ro, d’altronde, che il partito di maggioranza re­

lativa non si sarebbe mai pienamente accredita­

to presso gli alleati europei, fintantoché si fos­

se presentato spalleggiato da ex fascisti in tona­

ca o doppiopetto.

Si dispiegò da allora e fino al 1960 la stagio­

ne del rilancio della narrazione resistenziale, ani­

mata, al di là dei diversi accenti, dal motivo del riscatto popolare coronato dalla Costituzione.

Nei due decenni successivi, tra i fatti del 1960 e la crisi politica del 1978, quella narrazione si consolidò, fino a configurarsi come un vero e proprio “paradigma antifascista”, griglia inter­

pretativa al cui interno competevano una plura­

lità di soggetti e progetti disposti o polarizzati tra i due estremi riferimenti della Resistenza

“rossa” e della Resistenza “tricolore”. L’istitu­

zionalizzazione della narrazione resistenziale — tra l’altro con l’attuazione della festività del 25 aprile, l’accesso ai programmi televisivi e sco­

lastici, la celebrazione del secondo decennale dell’8 settembre — ne rafforzò il carattere di di­

scorso egemonico unitario, senza per questo ri­

dimensionare le variabili partitiche, che, anzi, trassero nuova vitalità forse proprio da quella istituzionalizzazione. D’altronde, il carattere propriamente egemonico della narrazione resi­

stenziale fu allora dimostrato dalla coltivazione di una propria “Resistenza” anche da parte del movimento di contestazione giovanile e stu­

dentesca: seppur piegata attraverso la radicaliz- zazione dei valori e delle esperienze, che si vo­

levano in qualche modo perpetuare tra l’altro nella pratica dell’antifascismo “militante”, la Resistenza assunse a prototipo di una pratica di liberazione vincente, rimasta però incompiuta e dunque ancora disponibile come progetto di azione politica.

A ben vedere, tuttavia, nell’arco temporale dominato dal “paradigma antifascista” si deve registrare un sostanziale mutamento di accento.

Alla metà degli anni sessanta, la tendenza alla polarizzazione — all’interno del “paradigma”, ma pure tra chi riconosceva e chi rifiutava i va­

lori dell’antifascismo — parve ricomporsi, in una prospettiva efficacemente codificata nel di­

scorso del presidente della Repubblica Saragat in occasione del ventennale. In quel testo, la ce­

lebrazione della lotta “di popolo” esprimeva una recisa condanna a tutto campo del fascismo ma, al tempo stesso, aveva la forza per sostenere re­

toricamente, ma anche politicamente, l’invito ri­

volto all’insieme della cittadinanza — dunque anche a chi non partecipava degli ideali antifa­

scisti — a riconoscersi nelle istituzioni demo­

cratiche, fondate dalla Resistenza. Invece, nel corso degli anni settanta il discorso sul 25 apri­

le e sulla Resistenza conobbe una lacerazione crescente, riflesso palese della debolezza del si­

stema politico e in specie della difficoltà del par­

tito di maggioranza relativa a garantire piena­

mente il carattere democratico e la legittima­

zione popolare delle istituzioni.

Il nuovo clima maturato negli anni ottanta fu in buona misura l’esito di quelle debolezze e dif­

ficoltà. La sfida alla memoria pubblica dell’an­

tifascismo, le polemiche attorno all’uso della violenza, nella guerra partigiana e all’indomani della liberazione, le critiche al preteso carattere minoritario del movimento di resistenza, l’i­

dentificazione della coalizione ciellenistica co­

me archetipo del “consociativismo” o, peggio, della “partitocrazia”, o, peggio ancora, come so­

stanziale continuatore — in forma plurima — dell’autoritarismo partitico inaugurato dal fa­

scismo, maturarono tutte sull ’ onda della crisi de­

gli assetti fino ad allora dominanti il sistema po­

litico italiano ed erano più o meno palesemente volte a sostenere i tentativi di ridefinire — an­

che tramite riforme del sistema istituzionale — i rapporti tra i partiti, esterni e interni allo schie­

ramento già “antifascista”. In questa fase, l’o­

biettivo polemico principale fu l’allora Partito comunista, bersaglio della insistita distinzione tra antifascismo e democrazia, sulla quale si vo­

leva fondare una narrazione “egemonica” rin­

novata perché non più viziata dall’ambigua con­

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nivenza tra valori della democrazia e “doppiez­

za comunista”. Negli anni novanta, la crisi del­

la cosiddetta “prima repubblica” e il conseguente drastico rinnovamento della platea degli attori politici e partitici rilanciarono la messa in di­

scussione a tutto campo della narrazione ege­

monica imperniata sui nessi tra Resistenza an­

tifascista, dettato costituzionale e istituzioni re­

pubblicane. In gioco, abbastanza esplicitamen­

te, era la legittimazione delle diverse forze po­

litiche e la rappresentatività dei vari soggetti isti­

tuzionali. Il campo della narrazione divenne per­

ciò aperto alle scorrerie di chi confidava di po­

ter approfittare della demolizione di quei nessi per conquistare posizioni migliori.

Le argomentazioni critiche principali furono due. Da un lato, investirono il nesso tra antifa­

scismo e democrazia, allorché si sostenne non solo che l’uno era incapace di alimentare l’altra e, anzi, aveva arbitrariamente legittimato come democratiche forze intrinsecamente autoritarie ed eversive, ma che la stessa definizione di “an­

tifascismo” dovesse essere profondamente rifor­

mulata, per includervi una ben più larga serie di comportamenti riconducibili a forme di “resi­

stenza” al fascismo, ma finora arbitrariamente misconosciuti nel loro rilievo storico e ideale.

Dall’altro, si sostenne che il carattere ege­

monico della narrazione dovesse reggersi — an­

ziché sulla selezione e gerarchia delle memorie

— sulla ricomposizione della pluralità delle me­

morie individuali o collettive, comprese quelle dei “vinti”, in seno a una memoria “pacificata”, perché “condivisa” e dunque capace di colma­

re le fratture create dal fascismo, dalla guerra e dallo stesso antifascismo. Cosicché la narrazio­

ne egemonica non sarebbe più scaturita dal pri­

mato dei valori dell’antifascismo, ma dalla so­

stanziale parificazione delle memorie in nome del primato di superiori valori “comuni” — nel doppio senso di diffusi e banali — quali la pa­

tria, anzi le patrie, gli ideali, i comportamenti coerenti, le sofferenze patite, ecc.

Si trattava di proposizioni di grande rilevan­

za, anche sul piano storiografico, che alla metà degli anni novanta suscitarono un ampio dibat­

tito, cui parteciparono, tra gli altri, pure storici come Claudio Pavone, Renzo De Felice, Erne­

sto Galli della Loggia, Nicola Tranfaglia, Pietro Scoppola e politologi come Gian Enrico Ru­

sconi. Se non è questa la sede per tornare sul profilo storiografico, sul piano della memoria pubblica, vale a dire sul piano civile e politico, non si può non segnalare — con Focardi — che, sulla scia della implicita relativizzazione degli ideali e dei comportamenti, sottesa a questa rie­

laborazione narrativa, riemerse la tradizionale vulgata neofascista. Lungi dal convergere ver­

so il punto medio — impossibile — della “me­

moria condivisa”, essa riaffermò baldanzosa­

mente il proprio punto di vista, ben connotato e nient’affatto originale, che della Rsi fa il ba­

luardo della patria in guerra, del tradimento mo­

narchico e della Resistenza le cause della “guer­

ra civile”, della pretesa “élite salotina” l’unico alfiere di valori genuini ed esemplari.

Negli ultimi anni, il presidente della repub­

blica Ciampi si è opposto a queste derive con par­

ticolare dedizione. Anch’egli si è fatto propu­

gnatore di una rinnovata narrazione egemonica, che, come Focardi ben documenta, si incentra sul recupero della dimensione patriottica della Resi­

stenza o, per meglio dire, mira a recuperare il va­

lore della Resistenza in quanto parte rilevante, ma non esclusiva, di una più vasta ricostruzione del patriottismo nazionale e costituzionale.

Nella proposta di Ciampi è evidente ed ap­

prezzabile lo sforzo di ampliare le fondamenta della narrazione egemonica, superando un cer­

to esclusivismo della memoria resistenziale, ol­

tretutto sempre meno condivisibile dalle nuove generazioni, e ricercando il dialogo con coloro che, pur esterni alla cultura antifascista, condi­

vidono i valori del patriottismo. Il punto più de­

bole di questa proposta, esplicitamente rimar­

cato da Focardi, è l’elusione, in nome del pa­

triottismo, delle gravi responsabilità italiane nel­

la condotta della guerra, anzitutto nei confronti delle popolazioni civili nei territori occupati. Un

“buco nero” che perpetua ulteriormente quel si­

lenzio sul coinvolgimento della società italiana nel fascismo e nella guerra fascista che, come

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Rassegna bibliografica 363

abbiamo visto, fin dal 1943 fu tacitamente ac­

colto nella narrazione egemonica della Resi­

stenza e dell’antifascismo. Un “buco nero”, si deve aggiungere, il cui superamento può forse dare un contributo risolutivo al superamento del­

la rigidità delle memorie contrapposte, non ver­

so la loro “conciliazione”, bensì verso l’elabo­

razione di una memoria pubblica più consape­

vole e articolata.

Una rinsaldata narrazione egemonica non può infatti scaturire da una qualche giustapposizione più o meno selettiva delle memorie individuali e collettive, o dalla edulcorazione delle tragicità agite e subite dai protagonisti. Può prodursi sol­

tanto se le memorie — intese come rielabora­

zione ininterrotta del vissuto di quelle esperien­

ze — accettano di confrontarsi con l’intero ven­

taglio degli interrogativi e degli esiti della ricer­

ca storica e, dopo essersene nutrite, tornano a in­

terrogare se stesse per concorrere, poi, a elabo­

rare una memoria “civile”, ovvero coerente con i propri valori politici e costituzionali.

Il nodo cruciale, nella discussione attorno al 25 aprile, resta dunque quello del nesso tra l’espe­

rienza storica della Resistenza e la costruzione dell’assetto costituzionale. La ricorrente messa in discussione del 25 aprile come data simboli­

ca punta a spezzare quel nesso, la stessa dire­

zione in cui procede l’asserita necessità di di­

stinguere tra Resistenza e democrazia, che, di fatto, muove dalla non coincidenza tra i due ter­

mini per giungere di fatto a contrapporli, sulla base della transitività delle identificazioni tra Resistenza e antifascismo, tra antifascismo e co­

muniSmo e, infine, tra comuniSmo e totalitari­

smo, sottintendendo così la collusione tra Resi­

stenza e “totalitarismo comunista”. Una trasla­

zione alla quale, come ha rilevato Sergio Luz- zatto, la sinistra ha reagito con scarsa convin­

zione, forse per non doversi misurare appieno con l’esperienza coeva dello stalinismo.

Chi chiede di sostituire l’antifascismo con l’antitotalitarismo intende, assai più che am­

pliare, destoricizzare i fondamenti ideali delle istituzioni democratiche e dunque, per un ver­

so, allentarne i nessi con i progetti di democra­

zia partecipata scaturiti dall’esperienza resi­

stenziale e dalla contrapposizione all’autoritari­

smo plebiscitario e carismatico, nazionalista e oligarchico del fascismo, per l’altro cancellare i riferimenti identitari che sorreggono la “me­

moria civile”, la narrazione egemonica che ra­

dica nell’esperienza storica la legittimazione dei valori e degli istituti costituzionali.

Al contrario, la narrazione della Resistenza antifascista non solo rimanda all’esperienza sto­

rica della mobilitazione da cui scaturirono le isti­

tuzioni democratiche e, ancor prima, alle scelte ideali che le hanno nutrite — anzitutto il rifiuto della guerra, della gerarchizzazione degli inte­

ressi sociali e del prevalere dei valori nazionali su quelli democratici —, ma ricorda come l’e­

laborazione costituzionale sia stata l’esito di un intenso confronto tra una pluralità di orienta­

menti ideali e di progetti politici, a sua volta espresso da un variegato tessuto di istituzioni politiche, di organizzazioni partitiche e di sog­

getti della “società civile”.

Ancora, mantenere fermo il nesso tra istitu­

zioni democratiche e Resistenza significa non cessare di chiedersi cosa fu il fascismo. Signifi­

ca non eludere — accantonando il 25 aprile — gli interrogativi sul ruolo del fascismo nella sto­

ria d’Italia. È la domanda che toma nelle ultime pagine di Focardi, alla quale la storiografia ne­

gli ultimi anni ha tributato nuove importanti ri­

cerche, in singolare, ma non casuale, contrasto con la disattenzione prevalente nei grandi orga­

ni di informazione.

“Consegnare il fascismo alla storia”, come vanno chiedendo autorevoli esponenti politici

— una storia che, in realtà, i mass media trop­

po spesso riducono a pettegolezzo e scandali­

smo — non può certo intendersi come invito a svincolare la narrazione egemonica dalla storia della Resistenza e del fascismo. Perché spezza­

re quel nesso significherebbe, al contrario, elu­

dere il significato storico del fascismo, accan­

tonando i misfatti del nazionalismo e del razzi­

smo e il nodo del consenso alla dittatura, della rappresentatività della dittatura, delle capacità

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Rassegna bibliografica

suggestive dei poteri istituzionali. E infatti, Fo- cardi individua in questi passaggi le sfide ine­

ludibili che il patriottismo resistenziale di Ciam­

pi è chiamato ad affrontare.

Quanto esso possa essere all’altezza di quel­

le sfide, resta, però, dubbio. Gli stretti binari su cui è obbligata la narrazione “neo-patriottica”

portano a scolorire le differenze politiche e idea­

li presenti all’interno del movimento di Resi­

stenza e, specialmente, a negarne il carattere di

“guerra civile”, vale a dire di guerra tra “citta­

dini” per la definizione ultima dell’ordine poli­

tico. Due tratti che furono, invece, i presuppo­

sti fondamentali dell’elaborazione costituziona­

le. Il rischio conseguente è che la narrazione la­

sci in secondo piano, addirittura rispetto al rac­

conto degli anni sessanta, la valenza democra­

tica della Resistenza, a vantaggio di quella na­

zionale e patriottica. Notoriamente, rivendicare il carattere nazionale e non minoritario della Re­

sistenza risponde alla duplice esigenza di con­

trastare le derive localiste e separatiste, ben espresse dal leghismo, e di propone un terreno di convergenza all’opinione politica insensibile alla tradizione antifascista. È una risposta ade­

guata? Rifondare la narrazione resistenziale sui valori del patriottismo significa scendere sul ter­

reno della destra individuando il denominatore ideale e politico comune nella nazione, anziché nella democrazia. Significa privilegiare proprio quel tema dell’interesse nazionale che, come ab­

biamo visto, cela il “buco nero” che la storio­

grafia è chiamata a riempire. Significa far pro­

prio il vessillo della nazione, un vessillo peri­

coloso nel mondo attuale, troppo spesso sven­

tolato da chi ha in spregio i valori della demo­

crazia o ne alimenta più o meno esplicitamente una inaccettabile concezione “identitaria”.

Dunque, una risposta debole. Un risposta che, guardando al 25 aprile, apre la strada alla distin­

zione tra la Resistenza “patriottica” e l’antifasci­

smo, che sarebbe da accantonare perché di parte.

Ancora una volta per rigettare, con la questione dell’antifascismo, il nodo del consenso al regime e, a un tempo, per ridurre l’essenza del fascismo alla negazione delle libertà, anziché alla mobili­

tazione contro la democrazia. La Resistenza, in­

vece, fu la mobilitazione che permise la nascita delle istituzioni democratiche nel nostro paese e, per questo, fu una stagione fondamentale e riso­

lutiva del processo di democratizzazione avviato nel primo dopoguerra, fecondato dall’antifasci­

smo e conclusosi con l’Assemblea costituente.

Simone Neri Serneri

Ferruccio Parri

La nazione perduta e la ricerca della democrazia

Giambattista Scirè

Il volume di Luca Polese Remaggi, La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italia­

no (Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 405, euro 28) si va ad aggiungere ai due precedenti lavori più rappresentativi sull’argomento, curati rispetti­

vamente da Enzo Collotti e Giorgio Rochat {Ferruccio Parri. Scritti 1915/1975, Milano, Feltrinelli, 1976), e da Guido Quazza {Ferruc­

cio Parri. Sessantanni di storia italiana, in­

troduzione di Luigi Anderlini, Bari, De Dona­

to, 1983). L’autore si propone, prescindendo da miti e celebrazioni, di restituire la figura del ce­

lebre capo partigiano “Maurizio” a una circo­

lazione culturale più vasta di quella dell’antifa­

scismo, che affondi le sue radici in un back­

ground storico-politico più profondo. A scanso di equivoci va detto che si tratta di un buon li­

bro, ricco di informazioni, che va a colmare al­

cune precedenti lacune sull’attività politica e culturale di Parri. Eppure, come si evince dallo stesso titolo, esso si sofferma quasi esclusiva- mente sul periodo che va dagli anni venti ai qua­

ranta, trattando solo di sfuggita la sua attività di organizzatore della memoria della Resistenza e

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