Rassegna bibliografica
25 aprile Memoria e democrazia
Simone Neri Serneri
Molti e diversi possono essere i motivi per i qua
li un saggio si fa apprezzare. Nel caso di La guer
ra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi (Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 355, euro 20) l’interesse del lettore è determinato anzitutto dalle molte do
mande suscitate dalla ricerca di Filippo Focar- di. E tra le molte domande, una preme forse più di altre. È la domanda di fondo, che chiama gli storici a misurarsi con il dibattito pubblico at
tuale: perché si discute ancora del 25 aprile, a sessant’anni di distanza?
Ebbene, si discute ancora del 25 aprile, per affermarne o per negarne il valore civile e iden- titario, perché quella data è ancora vitale e gra
vida di senso. Sono almeno due le ragioni profonde della sua vitalità. La prima è la sua va
lenza plurima. Il 25 aprile è giorno propriamente di festa, perché suggellò all’epoca e ha ricorda
to, di anno in anno, la liberazione, salutando la fine della guerra degli eserciti, la fine della dram
matica epopea partigiana, la fine dell ’ incubo na
zifascista. Ma quella festa fu ed è plurima an
che per la molteplicità di protagonisti, che la vis
sero come approdo di una varietà di percorsi per
sonali e collettivi e di una pluralità di progetti che via via erano confluiti nel movimento di re
sistenza all’occupazione e nella sconfitta di que- st’ultima celebravano il proprio successo. La vi
talità deriva, perciò, anche dal fatto che sogget
ti diversi attribuiscono un comune valore sim
bolico a quell’anniversario.
Da questo punto di vista, la consapevolezza del carattere plurimo del 25 aprile deve però in
durci a considerarlo non solo l’esito dell’espe
rienza antifascista, ma anche il punto di par
tenza degli ulteriori percorsi che quei diversi soggetti intrapresero nei mesi e negli anni suc
cessivi e che trovarono nella fondazione della Repubblica e nell’elaborazione della Carta Co
stituzionale un nuovo e, non meno decisivo, compimento. Ma su questo tornerò, limitando
mi ora a notare che una considerazione, per co
sì dire, prospettica del 25 aprile non comporta, però, una cessione di rilevanza simbolica a fa
vore del 2 giugno 1946. Perché il 2 giugno si configura come evento di transizione, privo di autonomi valori fondanti, in quanto le sue ra
dici politiche ed emozionali stanno tutte dentro l’insurrezione del 25 aprile, così come la sua pregnanza istituzionale scaturisce dal configu
rarsi del movimento di resistenza tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945. Perquesto, il sug
gello della Repubblica risiede — assai più che nel referendum istituzionale — nell’approva
zione della Costituzione, il cui valore simboli
co, però, rimase storicamente offuscato dalla contesa elettorale del 1948 e dal divampare del
la guerra fredda.
Il secondo motivo di vitalità del 25 aprile di
scende, evidentemente, dal fatto che i valori sim
boleggiati da quell’anniversario sono conside
rati ancora attuali e, pertanto, sono oggetto di disputa, dagli uni difesi e da altri contestati. Per i primi, dunque, il 25 aprile veicola la memoria di eventi individuati come depositari di valori, che perciò sono riproposti come esemplari, uti
lizzati come strumento di comprensione del pas
sato e della genesi della propria identità collet
tiva e, infine, additati come criterio definitorio
‘Italia contemporanea”, giugno-settembre 2005,n.239-240
dei soggetti e dei progetti costitutivi dell’arena politica nel tempo presente.
È un’operazione di costruzione della memo
ria, di reinterpretazione del passato e di proposta per il presente e il futuro che procede in modo non lineare e a opera di soggetti diversi per na
tura, orientamento ideale e ruolo istituzionale. Un ruolo di grande rilievo in questa elaborazione col
lettiva gioca quella che Focardi definisce la “nar
razione egemonica”: tale è quella narrazione che intende spiegare storicamente e politicamente il passato, rendendo “giustizia” ai protagonisti e in
troducendo una gerarchia di rilevanza e di “ve
rità” tra le memorie individuali. E, nel nostro ca
so, la “narrazione” che accomuna i principali pro
tagonisti e depositari della memoria resistenzia
le e della sua eredità politica, nonostante le tor
sioni più o meno marcate impresse da ciascuno di loro a quel racconto, per renderlo meglio con
facente alle specificità della propria identità po
litica. È la narrazione che ha posto a fondamen
to delle istituzioni democratiche e della Costitu
zione repubblicana la rivendicazione dell’espe
rienza e dei valori della Resistenza. È una narra
zione “egemonica” perché in grado di attivare processi di identificazione profondi, tali da con
ferirle i tratti di una memoria collettiva capace di superare la frantumazione delle memorie indivi
duali. È, anche, “egemonica” perché, espressa o veicolata tra l’altro dalle massime autorità isti
tuzionali e politiche, anche dell’opposizione di orientamento antifascista, è maggioritaria, anche se non dominante né tanto meno esclusiva, nel discorso pubblico.
Seguendo soprattutto le prese di posizione delle massime autorità istituzionali, Focardi ri
percorre il profilo e le fasi salienti di questa “nar
razione egemonica”, le colloca nel contesto del
la storia repubblicana e ne segnala il mutare di accenti e il palesarsi di tensioni o di evidenti con
traddizioni, tutti fenomeni che, peraltro, sono correttamente intesi come conferme delle mo
dalità competitive del processo di elaborazione collettiva di quella narrazione e della sua vita
lità attraverso il succedersi dei diversi assetti po
litici e sociali.
La ricostruzione procede agile e, accompa
gnata da un'ampia silloge di testi, restituisce con efficacia, seppur sinteticamente, gli assi temati
ci e gli snodi cruciali di quella narrazione. Per quanto talora si sarebbe forse giovata di una ri
flessione più meditata circa l’effettiva portata
“egemonica” di quella narrazione, il saggio di Focardi delinea felicemente una periodizzazio- ne del discorso resistenziale, scandita da alcuni tratti più marcati che via via intervengono sulla continuità dei temi di fondo.
Già nella prima stagione, tra 1 ’ estate del 1943 e il referendum istituzionale, tanto da parte mo
narchica, quanto da parte ciellenistica, ci si pre
murò di distinguere le responsabilità italiane da quelle tedesche, per ridimensionare con le pri
me anche l’accusa di tradimento, al fine di mo
bilitare con più efficacia il paese nella guerra an
titedesca e rivendicare lo status di cobelligeran
te. Focardi vede qui l’origine dell’oblio disceso da allora sul nodo del consenso al fascismo e al
la guerra: una debolezza cruciale della narra
zione antifascista che dal 1946 fu tacitamente confermata con la polemica contrapposizione tra il sostegno popolare alla Resistenza e le re
sponsabilità della monarchia e degli alti comandi militari nella condotta della guerra e nel man
cato contrasto dell’occupazione tedesca.
Tra il 1948 e il 1953, invece, la narrazione egemonica conobbe una crisi profonda, indotta dalla convergenza in chiave anticomunista tra le destre e i partiti moderati, deploranti in modo più o meno sguaiato una “politicizzazione” o partitizzazione della Resistenza, e, d’altro can
to, dalla radicalizzazione delle sinistre che, en
fatizzandone il carattere popolare e democrati
co, adesso sottolineavano con forza quei risvol
ti sociali che sarebbero stati “sacrificati” o ri
masti “incompiuti”, giungendo a inneggiare al
la “rivoluzione interrotta”. Emerge, così, come sia occorso circa un decennio prima che la nar
razione egemonica si consolidasse senza incer
tezze, liquidando i residui delle eredità fasciste
“moderate”, che, più o meno travisate, vivac
chiavano all’ombra dell’anticomunismo della guerra fredda. Ciò accadde solo quando De Ga-
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speri ebbe finalmente ragione di quanti, anche all’interno del suo partito e del mondo cattoli
co, coltivando quelle eredità finivano, in realtà, per mettere in discussione non solo gli ideali, ma l’esistenza stessa della De. Era ormai chia
ro, d’altronde, che il partito di maggioranza re
lativa non si sarebbe mai pienamente accredita
to presso gli alleati europei, fintantoché si fos
se presentato spalleggiato da ex fascisti in tona
ca o doppiopetto.
Si dispiegò da allora e fino al 1960 la stagio
ne del rilancio della narrazione resistenziale, ani
mata, al di là dei diversi accenti, dal motivo del riscatto popolare coronato dalla Costituzione.
Nei due decenni successivi, tra i fatti del 1960 e la crisi politica del 1978, quella narrazione si consolidò, fino a configurarsi come un vero e proprio “paradigma antifascista”, griglia inter
pretativa al cui interno competevano una plura
lità di soggetti e progetti disposti o polarizzati tra i due estremi riferimenti della Resistenza
“rossa” e della Resistenza “tricolore”. L’istitu
zionalizzazione della narrazione resistenziale — tra l’altro con l’attuazione della festività del 25 aprile, l’accesso ai programmi televisivi e sco
lastici, la celebrazione del secondo decennale dell’8 settembre — ne rafforzò il carattere di di
scorso egemonico unitario, senza per questo ri
dimensionare le variabili partitiche, che, anzi, trassero nuova vitalità forse proprio da quella istituzionalizzazione. D’altronde, il carattere propriamente egemonico della narrazione resi
stenziale fu allora dimostrato dalla coltivazione di una propria “Resistenza” anche da parte del movimento di contestazione giovanile e stu
dentesca: seppur piegata attraverso la radicaliz- zazione dei valori e delle esperienze, che si vo
levano in qualche modo perpetuare tra l’altro nella pratica dell’antifascismo “militante”, la Resistenza assunse a prototipo di una pratica di liberazione vincente, rimasta però incompiuta e dunque ancora disponibile come progetto di azione politica.
A ben vedere, tuttavia, nell’arco temporale dominato dal “paradigma antifascista” si deve registrare un sostanziale mutamento di accento.
Alla metà degli anni sessanta, la tendenza alla polarizzazione — all’interno del “paradigma”, ma pure tra chi riconosceva e chi rifiutava i va
lori dell’antifascismo — parve ricomporsi, in una prospettiva efficacemente codificata nel di
scorso del presidente della Repubblica Saragat in occasione del ventennale. In quel testo, la ce
lebrazione della lotta “di popolo” esprimeva una recisa condanna a tutto campo del fascismo ma, al tempo stesso, aveva la forza per sostenere re
toricamente, ma anche politicamente, l’invito ri
volto all’insieme della cittadinanza — dunque anche a chi non partecipava degli ideali antifa
scisti — a riconoscersi nelle istituzioni demo
cratiche, fondate dalla Resistenza. Invece, nel corso degli anni settanta il discorso sul 25 apri
le e sulla Resistenza conobbe una lacerazione crescente, riflesso palese della debolezza del si
stema politico e in specie della difficoltà del par
tito di maggioranza relativa a garantire piena
mente il carattere democratico e la legittima
zione popolare delle istituzioni.
Il nuovo clima maturato negli anni ottanta fu in buona misura l’esito di quelle debolezze e dif
ficoltà. La sfida alla memoria pubblica dell’an
tifascismo, le polemiche attorno all’uso della violenza, nella guerra partigiana e all’indomani della liberazione, le critiche al preteso carattere minoritario del movimento di resistenza, l’i
dentificazione della coalizione ciellenistica co
me archetipo del “consociativismo” o, peggio, della “partitocrazia”, o, peggio ancora, come so
stanziale continuatore — in forma plurima — dell’autoritarismo partitico inaugurato dal fa
scismo, maturarono tutte sull ’ onda della crisi de
gli assetti fino ad allora dominanti il sistema po
litico italiano ed erano più o meno palesemente volte a sostenere i tentativi di ridefinire — an
che tramite riforme del sistema istituzionale — i rapporti tra i partiti, esterni e interni allo schie
ramento già “antifascista”. In questa fase, l’o
biettivo polemico principale fu l’allora Partito comunista, bersaglio della insistita distinzione tra antifascismo e democrazia, sulla quale si vo
leva fondare una narrazione “egemonica” rin
novata perché non più viziata dall’ambigua con
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nivenza tra valori della democrazia e “doppiez
za comunista”. Negli anni novanta, la crisi del
la cosiddetta “prima repubblica” e il conseguente drastico rinnovamento della platea degli attori politici e partitici rilanciarono la messa in di
scussione a tutto campo della narrazione ege
monica imperniata sui nessi tra Resistenza an
tifascista, dettato costituzionale e istituzioni re
pubblicane. In gioco, abbastanza esplicitamen
te, era la legittimazione delle diverse forze po
litiche e la rappresentatività dei vari soggetti isti
tuzionali. Il campo della narrazione divenne per
ciò aperto alle scorrerie di chi confidava di po
ter approfittare della demolizione di quei nessi per conquistare posizioni migliori.
Le argomentazioni critiche principali furono due. Da un lato, investirono il nesso tra antifa
scismo e democrazia, allorché si sostenne non solo che l’uno era incapace di alimentare l’altra e, anzi, aveva arbitrariamente legittimato come democratiche forze intrinsecamente autoritarie ed eversive, ma che la stessa definizione di “an
tifascismo” dovesse essere profondamente rifor
mulata, per includervi una ben più larga serie di comportamenti riconducibili a forme di “resi
stenza” al fascismo, ma finora arbitrariamente misconosciuti nel loro rilievo storico e ideale.
Dall’altro, si sostenne che il carattere ege
monico della narrazione dovesse reggersi — an
ziché sulla selezione e gerarchia delle memorie
— sulla ricomposizione della pluralità delle me
morie individuali o collettive, comprese quelle dei “vinti”, in seno a una memoria “pacificata”, perché “condivisa” e dunque capace di colma
re le fratture create dal fascismo, dalla guerra e dallo stesso antifascismo. Cosicché la narrazio
ne egemonica non sarebbe più scaturita dal pri
mato dei valori dell’antifascismo, ma dalla so
stanziale parificazione delle memorie in nome del primato di superiori valori “comuni” — nel doppio senso di diffusi e banali — quali la pa
tria, anzi le patrie, gli ideali, i comportamenti coerenti, le sofferenze patite, ecc.
Si trattava di proposizioni di grande rilevan
za, anche sul piano storiografico, che alla metà degli anni novanta suscitarono un ampio dibat
tito, cui parteciparono, tra gli altri, pure storici come Claudio Pavone, Renzo De Felice, Erne
sto Galli della Loggia, Nicola Tranfaglia, Pietro Scoppola e politologi come Gian Enrico Ru
sconi. Se non è questa la sede per tornare sul profilo storiografico, sul piano della memoria pubblica, vale a dire sul piano civile e politico, non si può non segnalare — con Focardi — che, sulla scia della implicita relativizzazione degli ideali e dei comportamenti, sottesa a questa rie
laborazione narrativa, riemerse la tradizionale vulgata neofascista. Lungi dal convergere ver
so il punto medio — impossibile — della “me
moria condivisa”, essa riaffermò baldanzosa
mente il proprio punto di vista, ben connotato e nient’affatto originale, che della Rsi fa il ba
luardo della patria in guerra, del tradimento mo
narchico e della Resistenza le cause della “guer
ra civile”, della pretesa “élite salotina” l’unico alfiere di valori genuini ed esemplari.
Negli ultimi anni, il presidente della repub
blica Ciampi si è opposto a queste derive con par
ticolare dedizione. Anch’egli si è fatto propu
gnatore di una rinnovata narrazione egemonica, che, come Focardi ben documenta, si incentra sul recupero della dimensione patriottica della Resi
stenza o, per meglio dire, mira a recuperare il va
lore della Resistenza in quanto parte rilevante, ma non esclusiva, di una più vasta ricostruzione del patriottismo nazionale e costituzionale.
Nella proposta di Ciampi è evidente ed ap
prezzabile lo sforzo di ampliare le fondamenta della narrazione egemonica, superando un cer
to esclusivismo della memoria resistenziale, ol
tretutto sempre meno condivisibile dalle nuove generazioni, e ricercando il dialogo con coloro che, pur esterni alla cultura antifascista, condi
vidono i valori del patriottismo. Il punto più de
bole di questa proposta, esplicitamente rimar
cato da Focardi, è l’elusione, in nome del pa
triottismo, delle gravi responsabilità italiane nel
la condotta della guerra, anzitutto nei confronti delle popolazioni civili nei territori occupati. Un
“buco nero” che perpetua ulteriormente quel si
lenzio sul coinvolgimento della società italiana nel fascismo e nella guerra fascista che, come
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abbiamo visto, fin dal 1943 fu tacitamente ac
colto nella narrazione egemonica della Resi
stenza e dell’antifascismo. Un “buco nero”, si deve aggiungere, il cui superamento può forse dare un contributo risolutivo al superamento del
la rigidità delle memorie contrapposte, non ver
so la loro “conciliazione”, bensì verso l’elabo
razione di una memoria pubblica più consape
vole e articolata.
Una rinsaldata narrazione egemonica non può infatti scaturire da una qualche giustapposizione più o meno selettiva delle memorie individuali e collettive, o dalla edulcorazione delle tragicità agite e subite dai protagonisti. Può prodursi sol
tanto se le memorie — intese come rielabora
zione ininterrotta del vissuto di quelle esperien
ze — accettano di confrontarsi con l’intero ven
taglio degli interrogativi e degli esiti della ricer
ca storica e, dopo essersene nutrite, tornano a in
terrogare se stesse per concorrere, poi, a elabo
rare una memoria “civile”, ovvero coerente con i propri valori politici e costituzionali.
Il nodo cruciale, nella discussione attorno al 25 aprile, resta dunque quello del nesso tra l’espe
rienza storica della Resistenza e la costruzione dell’assetto costituzionale. La ricorrente messa in discussione del 25 aprile come data simboli
ca punta a spezzare quel nesso, la stessa dire
zione in cui procede l’asserita necessità di di
stinguere tra Resistenza e democrazia, che, di fatto, muove dalla non coincidenza tra i due ter
mini per giungere di fatto a contrapporli, sulla base della transitività delle identificazioni tra Resistenza e antifascismo, tra antifascismo e co
muniSmo e, infine, tra comuniSmo e totalitari
smo, sottintendendo così la collusione tra Resi
stenza e “totalitarismo comunista”. Una trasla
zione alla quale, come ha rilevato Sergio Luz- zatto, la sinistra ha reagito con scarsa convin
zione, forse per non doversi misurare appieno con l’esperienza coeva dello stalinismo.
Chi chiede di sostituire l’antifascismo con l’antitotalitarismo intende, assai più che am
pliare, destoricizzare i fondamenti ideali delle istituzioni democratiche e dunque, per un ver
so, allentarne i nessi con i progetti di democra
zia partecipata scaturiti dall’esperienza resi
stenziale e dalla contrapposizione all’autoritari
smo plebiscitario e carismatico, nazionalista e oligarchico del fascismo, per l’altro cancellare i riferimenti identitari che sorreggono la “me
moria civile”, la narrazione egemonica che ra
dica nell’esperienza storica la legittimazione dei valori e degli istituti costituzionali.
Al contrario, la narrazione della Resistenza antifascista non solo rimanda all’esperienza sto
rica della mobilitazione da cui scaturirono le isti
tuzioni democratiche e, ancor prima, alle scelte ideali che le hanno nutrite — anzitutto il rifiuto della guerra, della gerarchizzazione degli inte
ressi sociali e del prevalere dei valori nazionali su quelli democratici —, ma ricorda come l’e
laborazione costituzionale sia stata l’esito di un intenso confronto tra una pluralità di orienta
menti ideali e di progetti politici, a sua volta espresso da un variegato tessuto di istituzioni politiche, di organizzazioni partitiche e di sog
getti della “società civile”.
Ancora, mantenere fermo il nesso tra istitu
zioni democratiche e Resistenza significa non cessare di chiedersi cosa fu il fascismo. Signifi
ca non eludere — accantonando il 25 aprile — gli interrogativi sul ruolo del fascismo nella sto
ria d’Italia. È la domanda che toma nelle ultime pagine di Focardi, alla quale la storiografia ne
gli ultimi anni ha tributato nuove importanti ri
cerche, in singolare, ma non casuale, contrasto con la disattenzione prevalente nei grandi orga
ni di informazione.
“Consegnare il fascismo alla storia”, come vanno chiedendo autorevoli esponenti politici
— una storia che, in realtà, i mass media trop
po spesso riducono a pettegolezzo e scandali
smo — non può certo intendersi come invito a svincolare la narrazione egemonica dalla storia della Resistenza e del fascismo. Perché spezza
re quel nesso significherebbe, al contrario, elu
dere il significato storico del fascismo, accan
tonando i misfatti del nazionalismo e del razzi
smo e il nodo del consenso alla dittatura, della rappresentatività della dittatura, delle capacità
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suggestive dei poteri istituzionali. E infatti, Fo- cardi individua in questi passaggi le sfide ine
ludibili che il patriottismo resistenziale di Ciam
pi è chiamato ad affrontare.
Quanto esso possa essere all’altezza di quel
le sfide, resta, però, dubbio. Gli stretti binari su cui è obbligata la narrazione “neo-patriottica”
portano a scolorire le differenze politiche e idea
li presenti all’interno del movimento di Resi
stenza e, specialmente, a negarne il carattere di
“guerra civile”, vale a dire di guerra tra “citta
dini” per la definizione ultima dell’ordine poli
tico. Due tratti che furono, invece, i presuppo
sti fondamentali dell’elaborazione costituziona
le. Il rischio conseguente è che la narrazione la
sci in secondo piano, addirittura rispetto al rac
conto degli anni sessanta, la valenza democra
tica della Resistenza, a vantaggio di quella na
zionale e patriottica. Notoriamente, rivendicare il carattere nazionale e non minoritario della Re
sistenza risponde alla duplice esigenza di con
trastare le derive localiste e separatiste, ben espresse dal leghismo, e di propone un terreno di convergenza all’opinione politica insensibile alla tradizione antifascista. È una risposta ade
guata? Rifondare la narrazione resistenziale sui valori del patriottismo significa scendere sul ter
reno della destra individuando il denominatore ideale e politico comune nella nazione, anziché nella democrazia. Significa privilegiare proprio quel tema dell’interesse nazionale che, come ab
biamo visto, cela il “buco nero” che la storio
grafia è chiamata a riempire. Significa far pro
prio il vessillo della nazione, un vessillo peri
coloso nel mondo attuale, troppo spesso sven
tolato da chi ha in spregio i valori della demo
crazia o ne alimenta più o meno esplicitamente una inaccettabile concezione “identitaria”.
Dunque, una risposta debole. Un risposta che, guardando al 25 aprile, apre la strada alla distin
zione tra la Resistenza “patriottica” e l’antifasci
smo, che sarebbe da accantonare perché di parte.
Ancora una volta per rigettare, con la questione dell’antifascismo, il nodo del consenso al regime e, a un tempo, per ridurre l’essenza del fascismo alla negazione delle libertà, anziché alla mobili
tazione contro la democrazia. La Resistenza, in
vece, fu la mobilitazione che permise la nascita delle istituzioni democratiche nel nostro paese e, per questo, fu una stagione fondamentale e riso
lutiva del processo di democratizzazione avviato nel primo dopoguerra, fecondato dall’antifasci
smo e conclusosi con l’Assemblea costituente.
Simone Neri Serneri
Ferruccio Parri
La nazione perduta e la ricerca della democrazia
Giambattista ScirèIl volume di Luca Polese Remaggi, La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italia
no (Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 405, euro 28) si va ad aggiungere ai due precedenti lavori più rappresentativi sull’argomento, curati rispetti
vamente da Enzo Collotti e Giorgio Rochat {Ferruccio Parri. Scritti 1915/1975, Milano, Feltrinelli, 1976), e da Guido Quazza {Ferruc
cio Parri. Sessantanni di storia italiana, in
troduzione di Luigi Anderlini, Bari, De Dona
to, 1983). L’autore si propone, prescindendo da miti e celebrazioni, di restituire la figura del ce
lebre capo partigiano “Maurizio” a una circo
lazione culturale più vasta di quella dell’antifa
scismo, che affondi le sue radici in un back
ground storico-politico più profondo. A scanso di equivoci va detto che si tratta di un buon li
bro, ricco di informazioni, che va a colmare al
cune precedenti lacune sull’attività politica e culturale di Parri. Eppure, come si evince dallo stesso titolo, esso si sofferma quasi esclusiva- mente sul periodo che va dagli anni venti ai qua
ranta, trattando solo di sfuggita la sua attività di organizzatore della memoria della Resistenza e