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F L &F V Anesteticidelpassato: “spongiasoporifera”

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

In epoche diverse e presso differenti civiltà, per sedare il paziente e renderlo insensibile al dolore prima di pratica- re interventi chirurgici, si ricorreva a metodi empirici prati- cati attraverso l’uso di piante medicinali con proprietà ane- stetiche, narcotiche ed analgesiche. Con esse si preparava- no unguenti, pozioni, pillole, miscele da inalare e medica- menti vari; una delle preparazioni più utilizzate era la spon- gia soporifera.

In questo contributo, gli autori riferiscono notizie sulle piante anestetiche e narcotiche del passato e si soffermano in particolar modo su quelle utilizzate per la preparazione della ricordata spongia soporifera.

METODO DI STUDIO

Lo studio è stato condotto attraverso una mirata indagi- ne bibliografica attraverso cui è stato possibile reperire informazioni sulle piante note e adoperate, in passato, per le loro proprietà soporifere ed analgesiche. Le entità in ogget- to sono state esaminate sotto il profilo storico, botanico, chimico e farmaco-tossicologico. Per la nomenclatura e la descrizione botanica, si è fatto riferimento, alla “Flora d’Italia” di PIGNATTI(1982), tranne per qualche aggiorna- mento; per la distribuzione geografica alla “Nuova Flora Analitica d’Italia” di FIORI(1969) e alla “Flora Europaea”

di TUTIN& al. (1964-1980). Per quanto riguarda tutte le altre informazioni, si riportano, tra parentesi, nel testo, i riferimenti bibliografici.

PIANTE ANESTETICHE ED ANALGESICHE DEL PASSATO

Tra i rimedi anestesiologici del passato, il più conosciu- to ed utilizzato è la spongia soporifera, una spugna di mare

imbevuta di decotti concentrati di piante medicinali.

L’impiego di tale preparazione risale alla più remota anti- chità; già nel 3° secolo a.C. Ippocrate “per dare il sonno ai malati” indicava l’uso di una spugna impregnata di oppio e mandragora; Plinio consigliava “bibitur ante sectiones punctionesque ne sentiantur” e cioè: per non sentire il dolo- re bere, prima di un intervento operatorio, una bevanda a base di mandragora, oppio, infuso di papavero o di gius- quiamo, somministrati puri o mescolati tra loro o con altre sostanze (PENSO, 1985). Preparazioni analoghe venivano utilizzate dai chirurghi medioevali; un rimedio soporifero ad uso di chi doveva essere sottoposto ad un intervento chi- rurgico, si trova in un codice pergamenaceo di materia medica “Anonymi varia excerta”. Si tratta dell’Ypnoticum adiutorum, una singolare ricetta, trascritta, in lingua latina, da un ignoto amanuense di Montecassino, la cui traduzione così dice: “si prendano mezza oncia di oppio tebaico, 8 di succo di mandragora (tratto dalle foglie spremute), mezza oncia di succo della verde Matala e di succo verde di gius- quiamo; raccogli così, per mezzo di una spugna essiccata, un’unica pasta e diligentemente lascia asciugare; e quando vorrai farne uso immergila, per un’ora, in acqua calda e avvicinala alle narici del paziente che assorbendo quella essenza dormirà a lungo e, quando lo vorrai risvegliare, applicherai alle sue narici un’altra spugna imbevuta di aceto caldo e potrai, così, scacciare il sonno” (BELLUCCI &

TIENGO, 2005). Nella prima metà del XII secolo, con l’av- vento della Scuola Medica Salernitana, prima espressione della rinascita medica in Italia, si distingue la figura di Nicolò Salernitanus, erroneamente chiamato Praepositus per equivoco con il più tardo Nicolò Prevost (1500 circa). Il suo “Antidotarium” (1140 circa) è da considerarsi il più importante trattato di farmacologia e terapia medica dell’e- poca, un perfetto ricettario, per medici e farmacisti del tempo, elevato da Federico II a Farmacopea Ufficiale in Quad. Bot. Amb. Appl., 21 (2010): 253-260.

Anestetici del passato: “spongia soporifera”

FRANCA LENTINI& FRANCESCAVENZA

Dipartimento di Scienze Botaniche dell’Università degli Studi di Palermo, via Archirafi 88 – 90123 Palermo

ABSTRACT. – Analgesic of the past: “spongia soporifera” – In order to improve the knowledge of plants used in the past as analgesic and anaesthetic, the authors refer in the current contribute to results coming from a bibliographical research car- ried out on plants which constituted the ingredients of “spongia soporifera”, a preparation made of a see sponge together with concentrated decoctions of medical plants. The authors analyse the species used for the preparation of “spongia soporifera”, investigating them in historical, botanic, chemical, pharmacological and toxicological aspects.

Key words: history, analgesia, anaesthesia, medical plants.

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tutta Europa. In esso troviamo la formula di una spongia soporifera analoga a quella che compare nei codici cassine- si del IX secolo, ma con l’aggiunta di more acerbe, semi di lattuga, cicuta, succo di papavero e di edera. Una prepara- zione analoga, ma semplificata, per l’anestesia inalatoria è quella di Michele Scoto (1175-1223) che suggerisce di uti- lizzare oppio, mandragora e giusquiamo in parti uguali, pestate nel mortaio e mescolate con acqua. Al momento dell’ amputazione o dell’incisione, inzupparne uno straccio e mettetelo sotto le narici del paziente. Un’altra formula è la

“Confectio soporis” di Gilberto Angelico (1180-1250) a base di oppio, giusquiamo, papavero, mandragora, edera, more di rovo, lattuga e cuscuta, di cui imbevere una spugna.

Lo stesso consiglia, ma solo per uso orale: papavero, lattu- ga ed oppio (BELLUCCI,1983). SANTONI RUGIU & SYKES (2007), nel capitolo 6 “Some Notes on Anaesthesia“ della loro opera “A Hystory of Plastic Surgery”, fanno riferimen- to a una spongia soporifera preparata ed usata da Ugo dei Borgognoni e riportata nella “Cyrurgia” (1270) del figlio Teodorico, monaco domenicano, abile ed innovatore chirur- go. La ricetta di Teodorico viene considerata da BELLUCCI (1983), una riesumazione di quella di Montecassino o di quella di Nicolò Salernitanus ma con l’aggiunta di succo di coconidio e di semi di lapazio.

La ricetta così recita: «prendi oppio, succo di more acer- be, giusquiamo, succo di coconidio, succo di foglie di man- dragora, succo di edera, succo di mora silvestre, semi di lat- tuga, semi di lapazio che ha delle bacche dure e ritonde e cicuta nella quantità di un oncia per ciascuno dei suddetti.

Porre a rinvenire per un’ora sui vapori dell’acqua bollente e quindi applicarla sulle vie respiratorie del paziente che ne aspira gli effluvi [et ipso abdormentato faciunt operatio- nem]. Al fine di ottenere il risveglio viene usata un’altra spugna imbevuta di aceto o direttamente si applica sulle narici aceto o succo di finocchio o di ruta».

Arnhaldo da Villanova, alchimista del XIII secolo, sug- geriva di tritare e poi mescolare con acqua, oppio, radici di mandragora e giusquiamo in parti uguali, imbibire un panno di questo liquido e applicarlo su naso e fronte del paziente da amputare. Henry de Mandelville (1260-1320), per seda- re dolori intollerabili adoperava questo stesso miscuglio.

Nella seconda metà del’ 500 Gian Battista della Porta ideò alcune varianti della spongia soporifera che trasforma in

“pomum somnificum”, miscela di vari medicamenti, aroma- tizzati con muschio, e posti in “bussolette”, scatolette di piombo cribrate, da aprire e far fiutare al paziente. Giovanni Andrea della Croce nel suo trattato sulla chirurgia del 1573, afferma che solo se il dolore “…sarà insopportabi- le…bisogna usare i Narcotici, li quali o rendono il senno stupido o del tutto lo levano”. Egli attribuisce ad un prepa- rato: “l’olio rosato al calomelano”, la proprietà di lenire ogni dolore. Un metodo empirico, ma rischioso e praticato nelle marinerie dell’epoca, era quello di introdurre nel retto un grosso sigaro da cui derivava uno shock nicotinico di violenza tale da consentire di operare in stato di assoluta insensibilità. Paracelso (1493-1541), prescriveva libera- mente l’oppio; altri illustri medici a lui contemporanei sug- gerivano di aggiungere mandragora e giusquiamo per indurre un sonno profondo simile alla morte (BELLUCCI &

TIENGO, 2005).

L’uso di queste piante come ingredienti di preparazioni anestetiche-analgesiche continua anche nei secoli successi-

vi, alternato con un’analgesia da freddo ottenuta da applica- zioni perineali di ghiaccio o di neve. Successivamente, la scoperta del protossido d’azoto (1828), del cloroformio (1831), dell’etere (1864), apre la strada all’anestesia inala- toria e l’introduzione in terapia dell’ aspirina (1894), dei barbiturici (1903) e di altri medicamenti, modificano radi- calmente l’approccio al dolore sia chirurgico che medico.

INGREDIENTI DELLA SPONGIA SOPORIFERA.

Ingredienti della spongia soporifera sono l’oppio, il giusquiamo, la mandragora e talvolta anche la cicuta e/o l’e- dera, la lattuga, il lapazio, il coconidio, la cuscuta, l’erba verde di Matala e le more. L’oppio è il latice disseccato che sgorga dal frutto ancora immaturo del Papaver somniferum L. Come’è noto, questa è una specie la cui tassonomia risulta alquanto complessa; MOWAT& WALTERS, in TUTIN.

& al. (1964), descrivono per P. somniferum L., tre sottospe- cie: P. somniferum subsp. somniferum, P. somniferum subsp. songaricum Basil. e P. somniferum subsp. setigerum (DC) Corb. PIGNATTI(1982), non riporta alcuna sottospecie per P.somniferum e descrive P. setigerum DC. come specie a se stante. Si tratta di piante coltivate dall’uomo, da tempo immemorabile, per cui, si registrano numerose varietà e cul- tivar. Per P. somniferum, infatti, vengono indicate due o più varietà: P. somniferum var. album, coltivata in India, con fiori e semi bianchi e capsule prive di pori di deiscenza; P.

somniferum var. nigrum, coltivata in Europa, di dimensioni minori della varietà album (5-8 dm) ma con maggiore quan- tità di rami, di frutti e di fiori, con semi grigi e capsula più globosa che nella varietà album; infine P. somniferum var.

glabrum, coltivata in Asia minore, con fiori rossi, semi neri e capsule molto grosse (MAUGINI& al., 2006).

PAPAVERO

Questo nome nella “spongia soporifera” va riferito sia a Papaver somniferum L. sia a P. setigerum DC.

Papaver somniferum L. (Papaveraceae).

Nomi volgari italiani: Papavero domestico, Papavero bian- co o Papavero da oppio

Pianta erbacea annuale a fusto eretto, di 3-12 dm, subgabro. Ha foglie cauline ovate o lanceolate, lunghe 7-12 dm, alla base alter- ne, oblunghe amplessicauli; le inferiori pennatosette, le superiori dentate cordato-auricolate. I fiori, solitari, grandi, hanno calice con due sepali caduchi, corolla a quattro petali bianchi o roseo-viola- cei, a seconda della cultivar, stami numerosi, ovario supero sor- montato dallo stimma appiattito, sessile; frutto, una capsula porici- da. Fiorisce in primavera-estate.

Coltivata fin dall’antichità nella maggior parte d’Europa, ad eccezione dell’estremo nord, la specie è diffusa nella regione mediterranea. dove si è spesso naturalizzata.

Papaver setigerum DC. (Papaveraceae) Nome volgare italiano: Papavero setoloso

Pianta erbacea annuale, molto simile a Papaver somniferum ma notevolmente più gracile. Fiori, foglie e peduncoli con setole allungate; foglie minori con la lamina più stretta e lobi acuti, ter- minanti con una setola; disco stimmatico con 5-8 raggi; capsula 4- 5 cm. Fiorisce in primavera-estate.

L’areale della specie comprende la regione mediterranea. In Italia è comune lungo le coste occidentali dalla Liguria alla Calabria, in Sardegna e in Sicilia.

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Come risulta da antichi reperti di 4000 anni fa, l’uso del papavero come antidolorifico e sonnifero risale alla preisto- ria. Gli Assiri facevano ogni giorno uso del papavero e lo chiamavano pianta della gioia; Egizi e Greci lo utilizzavano sia a scopo curativo che voluttuario. Il fiore del papavero era sacro a Demetra, ad Afrodite, al dio della morte Thanatos e al dio del sonno Hypnos o Morpheus che viene raffigurato sempre con lo stelo o le teste di papavero in mano; anche la dea Cerere in molte raffigurazioni è attorniata da teste di papavero che pare abbia utilizzato per alleviare il dolore provocatole dal rapimento della figlia Proserpina. Del papa- vero si utilizzava soprattutto l’oppio. Dioscoride descrive, in un testo del 1° secolo dopo Cristo, il modo con cui l’op- pio doveva esser preparato per essere poi consumato duran- te riti magici e religiosi; l’oppio non veniva mai assunto puro ma sempre mescolato con altre sostanze per attenuare gli spiacevoli effetti secondari, soprattutto la costipazione.

Anche Omero fa riferimento a questo succo che entra nella composizione del “nepente” una bevanda a base di polvere di foglie e fiori di canapa, oppio, noce di areca, spezie e zuc- chero, bevuto dagli eroi dell’Iliade prima della presa di Troia, per rafforzare il coraggio. Tale miscela veniva usata e prescritta anche per sconfiggere il cattivo umore e gli stati ipocondriaci, oltre che per provocare estasi afrodisiache, per tranquillizzare e per disinibire. Nella prima metà del XIX secolo venne introdotta in Europa una formulazione nota come pillole della felicità o nepente, così chiamata con rife- rimento alla bevanda dell’oblio del periodo omerico (LEWIN, 1993).

Il papavero sonnifero fu conosciuto in Cina a partire dal VIII° secolo ed utilizzato sotto forma di decotto contro i dolori addominali e l’insonnia; l’oppio veniva fumato a scopo voluttuario prima di una avventura erotica allo scopo di intensificare la sensualità e le percezioni sensoriali. In Turchia vi era grande passione per l’oppio e se ne faceva largo uso sia in tempo di pace, a scopo voluttuario, che in tempo di guerra, per generare il coraggio e per affrontare meglio il dolore delle ferite (LEWIN,1993).

In Europa, nei secoli XVIII e XIX, per curare l’isteria i medici somministravano alle giovinette il laudano, una pre- parazione farmaceutica consistente nella macerazione in acqua ed alcool di una miscela di polvere di oppio, zaffera- no, cannella e chiodi di garofano. Esso risulta contenere l’1

% di morfina da cui derivano principalmente le proprietà antispastiche per le quali era considerato una vera panacea.

L’oppio ebbe ed ha influenze enormi nella vita dei popo- li. Un esempio importante è la guerra scoppiata in Cina nel 1839 e conclusasi nel 1842 e che proprio dall’oppio prende il nome.

L’oppio si presenta come un impasto gommoso di colo- re grigiastro o nerastro scuro a seconda del metodo di rac- colta e del processo di essiccazione. Contiene circa 40 alca- loidi; inoltre flavonoidi (kaempferolo), antocianidine (pelar- gonidina), acidi aromatici (caffeico, ferulico, ecc.), tannini, sali minerali, resine, gomme, enzimi (catalasi, perossidasi, ecc.). Gli alcaloidi variano nella quantità del 10-20%; a seconda dell’origine dell’oppio; i più importanti sono: mor- fina, il suo principale ed abbondante costituente (4-21%, generalmente il 12%), codeina, tebaina, papaverina, narcei- na, narcotina. L’oppio possiede proprietà analgesiche nar- cotiche come la morfina, Responsabile dell’analgesia è la morfina le cui dosi terapeutiche variano secondo le indica-

zioni, che vanno dalla medicazione preanestetica alla seda- zione del dolore acuto (postoperatorio, anginoso, da trauma) o cronico da affezioni incurabili. Segni tossici possono già comparire per dosi terapeutiche sotto forma di nausea, ano- ressia, costipazione difficoltà alla minzione, talora eccita- mento, confusione e vomito. Dosi di poco superiori a quel- le terapeutiche danno il quadro caratteristico di un atteggia- mento psichico di indifferenza e distacco dalla realtà ambientale, con bradipnea e miosi puntiforme. Per dosi ele- vate compare sonnolenza con possibile agitazione, che evol- ve in coma profondo con depressione respiratoria e rallenta- mento del ritmo cardiaco. L’intossicazione se non trattata porta alla morte per paralisi del centro della respirazione (MARRUBINIBOZZA& al., 1989). Del papavero da oppio si utilizzano anche i semi sia per aromatizzare il pane sia in pasticceria che per la produzione di olio commestibile.

MANDRAGORA.

Con questo nome vengono indicate due specie e precisa- mente:

Mandragora autumnalis Bertol. (Solanaceae).

Nome volgare italiano: Mandragora autunnale.

Mandragora officinarum L. (Solanaceae).

Nome volgare italiano: Mandragora primaverile.

Si tratta di due piante erbacee perenni, la prima alta 1-3 dm con radici ramificate antropomorfe, scure, fusto snello brevissimo, foglie glabre o quasi, oblanceolate- spatolate, fiori a corolla viola- cea inseriti al centro della rosetta su peduncoli pubescenti e frutto a bacca ellissoidale gialla o aranciata; la seconda 1-2 dm di altez- za con radice chiara molto simile alla precedente, foglie ispide generalmente sinuate, calice non accrescente, corolla bianco-ver- dognola, con lobi strettamente triangolari; bacca sferica gialla assai più lunga del calice. La fioritura avviene in autunno per M. autum- nalis e in primavera per M.officinarum. Quest’ultima è presente nella ex Jugoslavia e in Italia; la sua distribuzione è limitata però al Nord della Penisola dove è piuttosto rara. M. autumnalis, è molto diffusa tra le coste del Mediterraneo ed è presente anche nel Portogallo centro meridionale; in Italia, è rara e si trova nel Meridione e in Sardegna; è comune, invece, in Sicilia.

Entrambe le specie di mandragora sono state vittime della fantasia popolare che su di esse si è sbizzarrita attri- buendo loro magiche e segrete virtù ammaliatrici nonché poteri sovrannaturali.

Gli Egizi, come pure gli abitanti della Mesopotamia e gli ebrei le usavano come voluttuario ed afrodisiaco; tracce che testimoniano il loro uso sono presenti anche nella Bibbia.

Gli arabi ne impiegavano il succo per sfruttarne le attività sedative e soporifere e per indurre un certo grado di aneste- sia prima degli interventi chirurgici. Era usanza dei carnefi- ci meno crudeli somministrare decotti di radice di mandra- gora dall’azione sedativo-analgesica ai condannati a morte per crocifissione (PENSO,1986). Platearius riferisce che “le virtù della mandragora erba sono presenti soprattutto nella scorza della sua radice, nei piccoli frutti e nelle foglie. La scorza della radice si conserva per 4 anni dal momento in cui la si raccoglie. Essa possiede la virtù di raffreddare, astringere e di conciliare il sonno. Per favorire il sonno di un febbricitante si consiglia di mescolare la scorza della radice con il latte di donna e bianco dell’uovo ed applicare sulla fronte e sulle tempie; contro il mal di testa provocato dal calore triturare le foglie ed appoggiarle sulle tempie; per togliere ogni dolore e conciliare il sonno ungere la testa con olio di mandragora” (AA.VV., 1990).

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Per la forma antropomorfa delle sue radici è stata da sempre considerata adatta a fortificare l’uomo ed a favorire la riproduzione oltre che ad essere afrodisiaca. Secondo la leggenda esistono due tipi di mandragora che possiedono attività differenti: la mandragora maschio e la mandragora femmina. La prima veniva utilizzata per la sua azione seda- tiva, narcotica e medicinale, la seconda, invece, essendo femmina era indicata per stimolare la lussuria, potenziare le virtù amatorie dell’uomo e della donna e garantire la fecon- dità. La monaca erborista santa Ildegarda la considerava erba malefica dai poteri demoniaci, fonte di vizio e di cor- ruzione. Tetri racconti popolari raccontavano che il luogo dove la pianta nasceva era stato teatro di un omicidio o di una esecuzione (PENSO, 1986).

La mandragora era conosciuta nel Magreb oltre che come spongia soporifera anche come tintura ottima contro convulsioni, stati spasmodici, nevralgie, dolori generali, muscolatura contratta, come anti-ansia, antiepilettico e forte ipnotico (LEFLOCH, 1982).

Le radici contengono gli alcaloidi josciamina, joscina e atropina fortemente tossici capaci di provocare euforia, stor- dimento, allucinazioni e narcosi (SCHULTES & HOFFMANN, 1983). La joscina si usa per la pre-medicazione, prima degli interventi chirurgici per sedare il paziente, ridurre le secre- zioni bronchiali ed anche la nausea post operatoria (ROVERSI, 1977). La sua tossicità si manifesta con ipersen- sibilità sensoriale, depressione del SNC, prostrazione gene- rale, coma e morte (WOODWARD,1985).

GIUSQUIAMO

Hyoscyamus niger L. (Solanaceae) Nome volgare italiano: Giusquiamo nero

Pianta erbacea annuale o bienne di 3-8 dm, densamente villo- sa per peli brevi e peli patenti di 3 mm. Ha odore fortemente feti- do molto penetrante; fusto robusto e foglie tutte con picciolo di 2- 5(-10) cm; lamina ovata (6-8)cm nelle foglie inferiori, 1,5 x 2 cm nelle superiori, lobata. Fiori in spighe fogliose unilaterali; calice campanulato, corolla internamente con fondo bianco giallastro venato di violetto; calice fruttifero con denti mucronati e più o meno pungenti. Fiorisce in primavera-estate.

E’ presente dappertutto in Europa, eccezionalmente all’estre- mo nord.

Il giusquiamo è stato da sempre utilizzato come narcoti- co. Già nella Roma del 1° secolo dopo Cristo, la pianta era nota perché capace di produrre delirio, alienazione, visioni fantastiche ed ebbrezza, seguiti da profonda narcosi ed insensibilità al dolore (LEWIN,1993). Celso, Plinio e Galeno indicavano il succo di questa pianta come un rimedio ottimo per combattere il dolore, le nevriti ed il mal di denti (LO MAGNO,1994). Gli antichi Galli, conoscevano il giusquiamo come pianta altamente tossica nei cui estratti intingere le punte delle frecce: si narra addirittura che, a scopo di ven- detta durante una disputa tra Cesare e Pompeo, fosse stata avvelenata l’acqua delle milizie di Cesare con alte quantità di succo di giusquiamo. Anche per santa Ildegarda la pianta era un potente veleno e secondo Alberto Magno del XII secolo molte delle azioni magiche indotte da maghi e negro- manti erano da attribuire non tanto alla evocazione del dia- volo, ma all’azione tossica della pianta che è capace di generare confusione, alienazione, narcosi. Si ritiene infatti che associata alla datura (Datura stramonium L.) sia stata

usata come uno degli ingredienti attivi nelle pozioni delle streghe e di altri preparati tossici. (LEWIN,1993).

Durante il Medioevo per conciliare il sonno di un mala- to affetto da febbre acuta, si consigliava di scaldargli i piedi con un decotto di questa erba applicando contemporanea- mente, sulla fronte e sulle tempie, un impiastro preparato riducendo in polvere fine il seme, mescolarlo a bianco di uovo, latte di donna e aceto. In caso, invece, di mal di denti, triturare l’erba e porla in bocca, oppure cuocere la radice con aceto riducendo il volume del decotto a 2/3; fare con questo preparato un gargarismo. Per calmare ogni dolore su qualunque parte del corpo applicare sulla zona malata una pasta ottenuta macinando la pianta (AA.VV., 1990).

Il giusquiamo è conosciuto da tempi remotissimi anche in Tunisia e nei territori arabi dove è ancora considerato ottimo come calmante; si utilizzano a tal scopo il succo mescolato con il burro o le sommità ed i fiori macerati in olio bollente oppure l’infuso dei semi di H. albus L., “bizr el binj” o anco- ra le foglie, ”waraq el binj” e i fiori “zahr el binj” sotto forma di unguento o ancora di cataplasma. H.niger, invece, consi- derato troppo tossico e per questo utilizzato soltanto per fumigazioni anestetiche, sedative ed antispasmodiche. Il giusquiamo entra nella composizione di una preparazione analgesica nota come “olio di giusquiamo”costituita da tre foglie di giusquiamo o 2 foglie di mandragora, lasciate macerare in olio (LEFLOCH, 1982). Nel Beluchisthan e nel Punjab lo chiamavano “kohl-bang” e lo fumavano come l’haschish (Cannabis sativa L.) (LEWIN,1993).

Il giusquiamo venne usato per tutto l’800 come compo- nente del “Balsamo tranquillo” dall’azione antalgica, antispa- stica e sedativa (LOMAGNO, 1994). Viene anche segnalato l’uso del giusquiamo per eliminare i dolori al basso ventre. A tale scopo si utilizzavano supposte a base di semi di questa pianta, mentre con l’infuso degli stessi si preparava un pedi- luvio dalle spiccate proprietà narcotiche (DUKE, 1985).

La pianta contiene gli alcaloidi, iosciamina, atropina e scopolamina; questa ultima rappresenta circa la metà degli alcaloidi totali. Ha un uso analogo alla belladonna ma la presenza di una notevole quantità di scopolamina accentua le proprietà sedative della droga. Si usa in preparazioni omeopatiche come antinevralgico (MAUGINI & al., 2006).

La tossicità del giusquiamo nero si manifesta con salivazio- ne eccessiva, delirio, visione doppia, battito rapido, convul- sioni, coma. La sintomatologia è molto simile a quella della belladonna e quindi rossore al volto ed al collo, secchezza della fauci, midriasi, tachicardia, allucinazioni, delirio, con- vulsioni, coma; possibile la morte (WOODWARD, 1985).

CICUTA

Conium maculatum L. ( Apiaceae) Nome volgare italiano: Cicuta maggiore

E’ un’erba bienne, diffusa in terreni abbandonati e marginali di tutta l’Europa, l’Africa e l’America settentrionale. Ha un fusto di 1-2 metri di altezza, leggermente scannellato, con macchie rosso- violacee alla base, foglie tripennatosette, a lembo triangolare, fiori in ombrelle composte, frutti, diacheni ovoidali, grigiastri e amari.

Fiorisce da giugno a settembre.

Tutta la pianta, sfregata, emana odore sgradevole e ripu- gnante che ricorda quello dei topi. Per la sua elevata tossici- tà, più che come medicamento, veniva spesso utilizzata come veleno per i condannati a morte; la sintomatologia conseguente alla sua ingestione è perfettamente descritta da

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Platone nella “Morte di Socrate”. Contiene alcaloidi a strut- tura piperidinica tra cui il più importante è la coniina, ad azione nicotino- simile. Agisce sul parasimpatico che viene inizialmente eccitato e poi depresso; ha anche un’azione curarina intensa in quanto al pari del curaro ha un’azione paralizzante delle giunzioni neuro-muscolari. Agisce princi- palmente sui centri nervosi simpatici, parasimpatici e in par- ticolare sul vago procurando una paralisi ascendente e quin- di un blocco respiratorio e cardiaco.

I sintomi di intossicazione più evidenti sono nausea, vomito, diarrea, dolori addominali e malessere generale, sensazione di freddo, spasmi muscolari convulsioni, midria- si, alterazione del ritmo cardiaco, ed infine morte per arre- sto della respirazione (MARRUBINIBOZZA& al.,1989).

EDERA

Hedera helix L. (Araliaceae) Nome volgare italiano: Edera

E’ una pianta legnosa sempreverde il cui nome, dal greco “hel- lissein”= arrampicarsi, risalta il suo portamento rampicante. Ha un’altezza variabile; le foglie, a lamina ovale, lanceolata o palma- to lobata con base ottusa, tronca o cuoriforme e margine intero o diviso in 5 lobi ottusi, sono provviste di un lungo picciolo, soprat- tutto nei fusti striscianti al suolo. Fiori, piccoli, verdi riuniti in infiorescenze ad ombrella e frutto del tipo bacca ovoide di 4-6 mm di diametro, a maturità di colore violaceo o nerastro. Fiorisce in autunno e i suoi frutti completano la maturazione nella primavera successiva. Il suo areale comprende l’Europa, l’Asia media, il Giappone, l’Africa boreale e le Isole Canarie. In Italia è presente in tutto il territorio; cresce comunemente sugli alberi, sui muri, sulle rocce, nelle zone ombrose dal mare alla zona montana.

L’edera, in Grecia, era considerata simbolo di fedeltà ma anche di passione sfrenata e sensuale essendo stata consa- crata al dio Dionisio. Di questa pianta si cingevano la testa i seguaci del dio, le Menadi, durante le feste orgiastiche a lui dedicate. Dioscoride usava i fiori macerati nel vino contro la dissenteria e le foglie contro le malattie della milza. Durante il Medio Evo si consigliavano le foglie contro l’idropsia, il mal di testa e l’itterizia; la radice contro i disturbi della vista, i frutti nelle ulcere del naso, il mal di testa e l’epiles- sia. Notizie sul suo uso, in passato, come narcotico ma pre- valentemente come antalgico, sono riportate in DUKE (1985). Nella medicina tradizionale sarda, era conosciuta come sedativo-nervino e come antalgico (ATZEI, 2003).

Leclerc la considerava moderatrice della sensibilità dei nervi periferici, efficace nella cura delle nevriti (NEGRI,1971). Tutte le parti della pianta contengono sapo- nosidi triterpenici come l’alfa e beta ederina; altri principi attivi sono: sesquiterpeni (germacrene, beta elemene, elise- ne); flavonoidi (rutina e derivati del kaemferolo), polifenoli (acido clorogenico, acido caffeico); poliacetileni e l’alcaloi- de emetina (BRUNI,1999). L’edera gode di proprietà antalgi- che ed antispasmodiche, è vasoprotettrice ed antiedemigena.

Tutta la pianta è tossica ma soprattutto i frutti. La sua tossi- cità si manifesta con nausea, vomito, pallore, eccitamento e poi depressione del sistema nervoso centrale, coma e depressione respiratoria (MARRUBINIBOZZA& al., 1989).

LATTUGA

Lactuca virosa L. (Asteraceae)

Nome volgare italiano: Lattuga velenosa

E’ una pianta erbacea annuale e/o biennale con odore di papa- vero. Ha un fusto eretto, bianco osseo, glabro ma con isolate seto-

le subspinose, ramoso in alto. Foglie verde glauco fittamente den- tellate-spinulose sui bordi; foglie superiori ridotte a squame; ache- ni con corpo liscio privo di setole. L’areale della specie compren- de l’Europa media e meridionale; in Italia è rara spesso solo come relitto di antiche colture e in via di scomparsa. Fiorisce da giugno a settembre.

La lattuga virosa era conosciuta ed apprezzata dagli anti- chi che la distinguevano già dalle specie vicine perchè rite- nuta di attività narcotica più spiccata. E’ la “Tridax Agria” di Dioscoride. Nel Medio Evo se ne faceva largo uso soprattut- to dei suoi frutti, indicati contro l’insonnia, la febbre e l’in- continenza. Santa Ildegarda la considerava un potente vele- no. Nel 1700 fu quasi dimenticata ma ritornò come farmaco alla fine di questo secolo con il “lactucarium”, preparato con il latice estratto dalle foglie e dalla radice. Chiamato “oppio di lattuga” era usato come anestetico e sedativo della tosse ma anche per le sue proprietà narcotico e analgesiche, in sostituzione dell’oppio. Contiene acidi organici, zuccheri, e sostanze che deprimono il sistema nervoso centrale, lattuci- na e tracce di iosciamina (SENATORE, 2004).

LAPAZIO

Rumex crispus L.(Polygonaceae) Nome volgare italiano: Romice crespo

Questo nome potrebbe essere riferito a Rumex crispus (Polygonaceae) volgarmente noto anche come Lapazio. Si tratta di una pianta erbacea perenne con fusto cilindrico ascendente-striato.

Foglie con picciolo amplessicaule di 2-4 cm ed ocrea cilindrica, membranacea, avvolgente strettamente il fusto lunga fino a 3 cm;

Lamina lanceolata, ondulata sul margine. Valve triangolari, cuori- formi, intere e acute. Fiorisce da maggio a luglio. E’ presente nella maggior parte dell’ Europa; è comune negli incolti, ruderi e colti- vi dell’Italia continentale ed insulare, dalla costa fino al piano montano.

La radice contiene ferro in combinazione organica, ossi- metilantrachinone, emodina, etere emodinmonometilico, acido crisofanico, acido lapatinico, resine, sostanze tanni- che, olio etereo, ossalato di calcio. Se ne conosce l’uso, nelle clorosi e cloroanemie tubercolari. La sua somministra- zione ha dato risultati soddisfacenti, nell’aumentare le ema- zie e il tasso di emoglobina, il tutto constatato anche clini- camente. L’effetto costipante del ferro è corretto dall’azio- ne leggermente purgativa esercitata dalle piccole quantità di emodina e di acido crisofanico contenute nella droga (NEGRI,1971). Nella spongia soporifera, però, non si fa rife- rimento alla radice bensì ai semi di Lapazio. Non è da esclu- dere che anch’essi contengano gli stessi principi attivi la cui presenza ne giustificherebbe l’uso negli interventi chirurgi- ci durante i quali è inevitabile una perdita di sangue.

COCONIDIO

Daphne gnidium L. (Thymelaeaceae) Nome volgare italiano: Dafne gnidio

Daphne gnidium L. è nota anche con il nome di cocco conidio e quindi coconidio. Si tratta di un arbusto sempreverde con fusto eretto ramoso e foglie coriacee lineari, lanceolate acute. Fiori in cime contratte all’apice dei rami, frutto drupa subsferica rossa.

Fiorisce dal luglio a settembre.

E’ comune in tutto il bacino del Mediterraneo. In Italia è comu- ne dalla Liguria alla Calabria, Sicilia, Sardegna, e isole minori.

I suoi frutti erano usati dagli ippocratici come rimedio evacuante. La corteccia fresca pestata con alcool e macera-

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ta in olio, era ritenuta un forte vescicatorio. Tutta la pianta contiene una sostanza glucosidica acre, la dafnina, una cura- rina e una resina tossica: la mezereina. Le proprietà medici- nali attribuite a Dafne gnidio sono diaforetiche ed emoca- tartiche (NEGRI,1971). Nella tradizione popolare sarda il suo uso è noto anche come diuretico, purgativo ma soprat- tutto come antalgico (ATZEI, 2003). Probabilmente per la presenza di curarina, svolgeva anche un’azione curaro-simi- le e quindi agiva anche provocando una paralisi dei musco- li e quindi una più facile immobilizzazione del paziente.

MORE

Nella composizione di alcune spongie soporifere rien- trano anche le more indicate come mora silvestre e more acerbe. La prima va identificata come la mora del rovo sel- vatico; l’altra, invece, è da attribuire alla mora di gelso. In un manoscritto medioevale (AA.VV., 1990), viene indicato infatti come “mora selvatica” il frutto di Rubus fruticosus e come “mora celsi” il frutto di Morus nigra.

Rubus fruticosus L. (Rosaceae) Nome volgare italiano: Rovo

Si tratta di una pianta erbacea perenne cespugliosa con fusti generalmente spinosi. Foglie con 3-5 segmenti palmati ; sui rami fioriferi foglie con soli tre segmenti pagina superiore verde scuro, coriacea, subglabra, e pagina inferiore bianco-tomentosa.

Infiorescenza generalmente a pannocchia piramidata con tre sepa- li angolari bianco-tomentosi, alla fruttificazione ripiegati verso il basso, e petali ovati, rosei; stami e stili bianchi o rosei, circa egua- li in lunghezza. Frutto nero, lucido (1cm).

Secondo quanto riferisce GASTALDO(1987), è un entità smembrata in numerose specie (HESLOP-HARRISONin TUTIN et al.,1968), tra le quali R. ulmifolius Schott, è la più comu- ne in Italia.

I frutti sono ricchi di acidi organici quali ossalico, citri- co, malico e tartarico; sono provvisti, inoltre, di tannini, essenze e sostanze coloranti e godono di proprietà rinfre- scanti e leggermente lassative (GASTALDO,1987).

Morus nigra L. (Moraceae) Nome volgare italiano: Gelso nero

Comunemente chiamato Moro nero o gelso nero, una pianta arborea di 4-8 (20) m. con rami giovani glabri con corteccia verde- bruna e lenticelle longitudinali allungate (1mm).

Per i suoi frutti commestibili. La sua patria di origine pare sia la parte meridionale del Caucaso o addirittura i monti del Nepal.

Introdotto nella regione mediterranea è coltivato come pianta ornamentale per la sua chioma molto ombrosa e, per la sua rusticità, come albero da frutta. Le more del gelso nero contengono zuccheri, acidi organici, pectine, antociani e pure una cianidina: la morina. Il termine “ more acerbe” va proba- bilmente riferito a Plinio secondo il quale portando addosso le more, non ancora mature, si arrestavano le emorragie. In pas- sato, inoltre, era opinione diffusa che le more combattessero l’insonnia e la cefalea oltre a contrastare le malattie respirato- rie, espellere i vermi e depurare l’organismo.

CUSCUTA

Cuscuta L. sp. (Convolvulaceae)

Nome volgare italiano: Cuscuta, Erba ragna

Il nome erba ragna, perchè cresce attorcigliandosi su altre

piante, si indicano alcune piante parassite annuali del genere Cuscuta L., che si presentano con fusti filamentosi giallastri o ros- sastri formanti un denso intrico sulle piante ospiti. Hanno foglie ridotte a squame poco evidenti e fiori molto piccoli. Fioriscono in primavera-estate.

Secondo quanto riportato in un manoscritto medioevale (AA.VV., 1990), la cuscuta, raccolta in fiore, può essere conservata per due anni. Ha la proprietà di “purgare prima tutto l’umore melanconico, quindi la flemma”. Tutte le parti della pianta contengono un glucoside (cuscutina). Leclerc (1870-1955), attribuiva alla cuscuta un’azione colagoga e lassativa leggera, un effetto carminativo ed un migliora- mento generale del tono dell’intestino (NEGRI,1971). Un nome popolare della pianta è anche “capelli di strega” per- ché si riteneva che i suoi fusti lunghi fossero i capelli cadu- ti alle streghe.

La presenza della cuscuta in preparati analgesico-narco- tici forse è da correlare alla sua proprietà blandamente las- sativa che potrebbe contrastare l’azione costipante dell’op- pio e contribuire quindi a migliorare il tono muscolare del- l’intestino.

ERBA VERDE DIMATALA

Il nome va riferito a piante erbacee presenti a Matala una città della Grecia. Impossibile quindi risalire ad una specie precisa.

ALTRE PIANTE PRESENTI IN PREPARATI ANESTETICI-ANALGESICI. Narcotici e analgesici venivano preparati sotto le forme più svariate, dalle pozioni da bere, alle miscele da inalare, agli unguenti da massaggiare. Tra questi “l’unguento seda- tivo”, suggerito dai quattro maestri della Scuola Salernitana, a base di sugna e di solano (Solanum nigrum L.), una sola- nacea che contiene in tutte le sue parti la solanina, un alca- loide che agisce come narcotico sul cervello e sul midollo spinale paralizzando le terminazioni delle fibre sensitive e motorie. Famoso era anche “l’unguento populeo” a base di pioppo, (Populus L. sp.), belladonna (Atropa belladonna L.), oppio, stramonio (Datura stramonium L.), mandragora, giusquiamo e solano, usato anche come analgesico e sonni- fero fino al XVI secolo (RAITANO, 1995-96). Secondo una ricetta del 1376 per modificare lo stato di coscienza ed indurre il torpore nel paziente da operare, si somministrava una preparazione a base di polvere di giusquiamo, papavero nero (Papaver rhoeas L.), radice di peonia (Paeonia offici- nalis L.) e zizzania (Lolium temulentum L.).

Oltre alla presenza di solanacee e di oppio, dalle spicca- te proprietà analgesiche e narcotiche, figurano in questi pre- parati anche il papavero nero, anch’esso soporifero, anche se blando, la radice di peonia, pianta considerata magica e dalle proprietà narcotiche, e la zizzania, nota infestante le colture dei cereali. In Corsica, la pianta veniva somministrata in cibo ai cavalli per tenerli tranquilli (ATZEI, 2003).

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI

Da un confronto effettuato tra le piante che costituiscono gli ingredienti della spongia soporifera emerge che il loro effetto è correlato alla presenza di specifiche sostanze chimi- che che esplicano spiccate attività biologiche a livello del

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sistema nervoso centrale e autonomo determinando anche azione analgesica ed anestetica. Il papavero sonnifero, anzi il suo latice, l’oppio, infatti, deve la sua attività biologica alla morfina, il principale alcaloide in esso contenuto; il gius- quiamo e la mandragora, invece, agli alcaloidi tropanici; la cicuta alla coniina, la lattuga alla lattucina e così via.

Attraverso l’applicazione sulle narici della spongia soporifera, il paziente inalava, quindi, diverse sostanze che svolgevano un ruolo fondamentale nel favorire l’anestesia e combattere il dolore. L’effetto anestetico-analgesico che si manifestava con l’inalazione di tali droghe, non era tuttavia identico a quello prodotto dai principi attivi in esse conte- nuti; oppio e morfina infatti non hanno lo stesso comporta- mento, sia perché in esso sono presenti altri composti con azioni che si sovrappongono ed interferiscono con quelle della morfina, sia perché, nell’oppio, gli alcaloidi si trovano sotto forma di sali poco solubili in quanto generalmente salificati dall’acido meconico. Altrettanto si può dire per la mandragora, il giusquiamo e per altre solanacee presenti nella spongia; i loro principi attivi, interferendo con altre sostanze contenute nelle diverse droghe, modificavano sicu- ramente la loro azione terapeutica potenziandone l’effetto sedativo ed analgesico riducendo anche le secrezioni bron- chiali e la nausea. Per quanto riguarda la presenza di altri ingredienti più o meno ricorrenti nella spongia, sicuramente ad ognuno di essi venivano attribuite proprietà medicinali responsabili degli effetti anestesici ed analgesici. La cicuta, ad esempio, per la sua azione curaro-simile, contribuiva all’

immobilizzazione del paziente, l’edera e il cocconidio a combattere il dolore, la lattuga a sedarlo ulteriormente, la cuscuta a migliorare il tono dell’intestino e il lapazio, forse, ad evitare uno stato di anemia. Nulla si può invece dire sulla verde erba di Matala, visto che non si capisce bene di quale pianta si tratti. Per quanto riguarda invece le more, si può supporre che esse, per il loro contenuto in zuccheri, entras- sero nella composizione della spongia per correggere il sapore sgradevole della pozione e per limitare, grazie alla presenza di pectine e sali minerali ad azione lassativa, l’a- zione costipante delle altre droghe in essa presenti. Le more acerbe di gelso, inoltre, secondo quanto tramandato dalla medicina popolare medievale (AA.VV., 1990), pare contri- buissero ad evitare il rilassamento dell’ugola. Nei pazienti in posizione supina, infatti, subito dopo la perdita di coscienza, la mandibola si rilascia e cede mentre la lingua può creare un ostacolo al respiro (ROVERSI, 1977). E’ pro- babile quindi che la loro presenza, nella spongia, fosse dovuta a tale proprietà.

Dallo studio effettuato emerge che i medici del passato, basandosi soltanto su osservazioni empiriche si avvalevano di droghe vegetali in grado di inibire i riflessi vagali, dimi- nuire l’ansia e permettere una più facile e sicura anestesia che rendeva il paziente sedato e sonnolento evitando alcuni spiacevoli effetti collaterali. Solo successivamente, la ricer- ca scientifica ha dimostrato che giusquiamo e mandragora ed altre solanacee contengono principi attivi ad azione seda- tiva ed anche anticolinergica capaci di inibire le secrezioni salivare e bronchiale, ridurre gli effetti collaterali degli ane- stetici e stimolare il centro respiratorio. Ancora oggi, per creare uno stato di narcosi si ricorre come anche in passato, a sostanze anticolinergiche, come i principi attivi delle sola- nacee, ad un potente analgesico come la morfina e a sostan- ze capaci di diminuire l’attività motoria della muscolatura

scheletrica per determinare, nel paziente da sottoporre ad intervento chirurgico, un rilassamento muscolare. Visto che molti usi medicinali di un tempo hanno trovato conferma nel presente si deduce che l’esperienza del passato è oggi fondamentale per approfondire la ricerca fitochimica e far- macologica e che non esiste medicina del presente che non abbia le radici nel passato.

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RIASSUNTO – Allo scopo di approfondire la conoscenza delle piante utilizzate in passato come analgesiche ed anestetiche, gli autori riferiscono in questo con- tributo i risultati di una indagine bibliografica con- dotta sulle piante che costituivano gli ingredienti della spongia soporifera, una preparazione costitui- ta da una spugna di mare e da decotti concentrati di piante medicinali. Vengono analizzate le specie uti- lizzate per la sua realizzazione esaminandole sotto il profilo storico, botanico, chimico, farmacologico e tossicologico.

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