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Telelavoro e servizi per l’impiego nella grande tra-sformazione del lavoro*

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Academic year: 2021

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@bollettinoADAPT, 21 maggio 2013

Telelavoro e servizi per l’impiego nella grande

tra-sformazione del lavoro

*

di Michele Tiraboschi

Tag: #telelavoro #serviziperlimpiego #trasformazionedellavoro #ework

Quello dei servizi pubblici per l’impiego è un tema molto tecnico. Prima di tutto, è opportuno co-gliere la connessione tra i servizi pubblici per l’impiego e il telelavoro, che non è un tema di parti-colare attualità in Italia. È vero che recenti provvedimenti normativi (l’Agenda Digitale, il cosiddet-to Decrecosiddet-to 2.0) fanno dei rapidi cenni al telelavoro, però non è un tema particolarmente discusso e dibattuto. Lo dimostrano anche i dati sull’utilizzo del telelavoro in Italia. Recenti studi dicono che il telelavoro non supera il 2% della popolazione lavorativa attiva (lavoro pubblico, lavoro privato, la-voro dipendente, lala-voro autonomo), a fronte invece di percentuali ben più ampie in Europa con una media del 7-8%, con delle punte molto alte nel nord Europa (20-25%), per raggiungere , secondo alcune stime, il 30% negli Stati Uniti. Da giurista non mi interessa entrare nello specifico dei dati statistici. Quello che emerge è però certamente l’idea della non attualità, in Italia del fenomeno del telelavoro. Più attuale è invece il tema dei centri per l’impiego. Lo ha detto recentemente il neo Mi-nistro per il lavoro Giovannini che, se proprio tra le tantissime priorità e criticità ne dovesse sce-gliere una, per lui questa è proprio l’inefficienza dei centri per l’impiego pubblici, che non funzio-nano, non sono presenti, hanno pochi finanziamenti. Ma neppure è tanto questione di quantità. Dell’Arriga stimava che i centri pubblici italiani ricevono 500 milioni di euro, mentre quelli europei circa 5 miliardi. Il tema quindi è anche la qualità dell’uso delle risorse. Ringrazio quindi Luigi Cal per l’ospitalità in questa bellissima sala, che poi si riempie di emozione, di passione, come visto ne-gli interventi precedenti. Ma devo ringraziare anche Il Ministero argentino, e in particolare Viviana Diaz, ma non a livello formale come si fa nei convegni, bensì proprio per l’impostazione che ci dà, quella cioè di provare a ragionare se uno dei tanti limiti che noi abbiamo nell’utilizzo di questa for-ma di lavoro, non sia solo un limite, come molti pensano, tecnico, giuridico, norfor-mativo, sindacale o culturale, che pure è un aspetto molto importante. Se io lavorassi in un ufficio in questa sede, ci penserei due volte a telelavorare dalla mia casa: vorrei venire qui tutti i giorni. Però poi magari il traffico, che mi fa perdere ogni giorno due o tre ore della mia vita potrebbe portare a farmi riflettere. Si tratta dunque di un tema dibattuto. Mentre questa connessione tra centri per l’impiego e telelavo-ro è una grandissima novità per noi. Non ci era mai venuto in mente che potesse essere questa un’angolazione nuova, una nuova prospettiva per leggere alcune criticità e magari, con la passione messa in questo progetto anche da Italia Lavoro, provare a realizzare qualcosa di più. Già il titolo di quest’incontro rappresenta dunque una connessione molto importante. Del resto, proprio in Italia e in Europa, sul tema del lavoro decente, del lavoro in particolare per i nostri giovani, che sono colpiti da tassi di disoccupazione molto importanti, si sta discutendo di una prospettiva, di un piano di azione che viene definito come la Youth Guarantee, che è molto sostenuta dalle istituzioni europee

* Sbobinatura dell’intervento effettuato al convegno “Lancio del programma italo-argentino su telelavoro nell’ambito

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e anche dalle parti sociali in Italia (lo stesso Governo sta segnalando l’intenzione di andare in quella direzione). Però anche in questo caso, queste iniziative volte a garantire qualcosa (un colloquio, un’opportunità di tirocinio, un bilancio delle competenze), se manca una struttura di centri e servizi per il lavoro, non funzionano. È stato interessante scoprire che la piattaforma pensata per la nostra borsa lavoro, che in Italia non ha mai funzionato, in Argentina ha invece funzionato benissimo, quindi può darsi che fosse un problema culturale, di resistenza, di sovrapposizione di competenze. Noi abbiamo un sistema misto centro-regioni, quindi macroaree che vogliono governare, e poi non siamo in prossimità, in vicinanza. Quindi il centro per l’impiego forse non va visto in sé, come ne-cessità di costruire chissà quali strutture ed edifici, ma come nene-cessità impellente: meglio riempire subito i primi uffici che si trovano, e soprattutto metterli in connessione con i servizi, come ad esempio il telelavoro.

Dico questo in un ragionamento che vorrei fosse anche di prospettiva. Abbiamo voluto usare, nell’organizzare questa iniziativa, questi termini precisi, forse anche un po’ vecchi, da un lato, cen-tri pubblici per l’impiego – da noi un po’ spaventa la parola “pubblico” – e dall’altro il termine tele-lavoro, forse anche questo un po’ vecchio. È vero che non c’è una grande storia dietro, è vero che è un tema relativamente nuovo anche da noi, che non c’è una produzione a livello internazionale. Ci sono degli accordi, poche leggi, addirittura prima Luigi citava il lavoro a domicilio, che è la fatti-specie normativa in cui il nostro sistema giuridico inquadra il telelavoro. Però naturalmente i termi-ni del futuro sono diversi in questa connessione. Non credo che in futuro si parlerà ancora di telela-voro, ma piuttosto di lavoro da remoto: con il cellulare, con i tablet, da qualunque postazione io posso essere in contatto con il mondo del lavoro, e qui cambia completamente prospettiva, perché un conto è l’idea di un telelavoro in cui il datore dice al lavoratore di stare a casa, risolvendo così i problemi della mobilità, i problemi legati agli spazi aziendali, che significa costi per l’azienda ecc. Ma ormai l’azienda non c’è più, o se c’è è una parte di entrata-uscita di persone che transitano ma che poi lavorano attraverso la strumentazione che la tecnologia mette a loro disposizione.

Alla luce di queste considerazioni, sarebbe allora forse opportuno sviluppare un ragionamento volto a far evolvere questa fattispecie del telelavoro, parlando di tutto quel lavoro che ha a che fare con le tecnologie che consentono di utilizzare meglio spazi, tempi, luoghi di lavoro, ma anche la socialità, i rapporti con la famiglia.

Questo dunque è un primo orizzonte.

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certificazione del modello contrattuale. Se io oggi sono un’impresa, faccio fatica a capire come classificare e inquadrare giuridicamente l’utilizzo delle tecnologie. Qual è il confine che mi porta a dire che quello è telelavoro in senso stretto, oppure lavoro da remoto, oppure il lavoro di chi è fisi-camente sta qui, però si autogestisce, si autogoverna i tempi e le modalità organizzative del lavoro attraverso il dominio che ha della tecnologia? Quindi il tema è che sta un po’ entrando in crisi que-sta vecchia rappresentazione del mondo del lavoro come se fosse fatto - a livello giuridico e di rap-presentazione di quello che avviene nella realtà - di logiche di subordinazione, di lavoro dipendente. Il mondo del lavoro si sta allargando. Se noi vogliamo dare prospettive ai nostri ragazzi, ai nostri giovani e alle loro famiglie attraverso l’accesso a un’occupazione vera, solida, stabile, dobbiamo capire come è cambiato il mondo del lavoro, ma soprattutto come è cambiata un’epoca.

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rifor-ma, la legge Treu, ben prima ancora dei cambiamenti nella nostra Costituzione che hanno dato maggiori competenze alle regioni, fece passare dal centro ai territori, nello specifico alle province, queste competenze. Questo avvenne nel 1997, più per richiesta della Corte di Giustizia che diceva come questo fosse monopolio pubblico, non più legittimo, perché vietava ai privati senza offrire al contempo alcun servizio. Le percentuali di lavoro intermediato dal pubblico erano, e sono ancora oggi, infatti, molto basse. La riforma andava quindi nell’ottica dei territori, della sussidiarietà, dell’avvicinarsi, con la convinzione che dopo qualche anno intervenne una riforma di legge, ma la competenza è delle regioni, non delle province. E quindi le regioni faticano a fare leggi, a costruire una rete di servizi. Peraltro noi abbiamo – e questo la legge Biagi lo chiarisce in modo ancora più preciso – una logica per cui comunque è l’attore pubblico che domina il mercato del lavoro. E que-sto perché è vietato organizzare servizi di incontro tra domanda e offerta di lavoro se non si è auto-rizzati. Ma autorizzare vuol dire che quell’attività è brutta, è negativa, se data ai privati, e lo può fa-re solo un soggetto che è autorizzato. Ma da noi l’autorizzazione dunque segue di nuovo una logica amministrativa-burocratica: non vado a vedere quello che tu fai sul territorio, i servizi che eroghi, ma vado a vedere la tua struttura, la tua organizzazione, se hai dei requisiti, degli standard per rea-lizzare questa attività. Se si vanno a guardare i raffronti internazionali degli operatori privati, non interessa se è pubblico o privato il modello prevalente.

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Funzio-na ancora questa logica per cui l’impresa la fanno gli amministratori e i vertici e gli altri sono dei subordinati e quindi degli esecutori di direttive altrui? Io credo che la dignità del lavoro stia anche in questo, ed entra qui una parola molto importante, che è quella della partecipazione, come singolo, come persona, ma anche attraverso la rappresentanza. Il lavoratore non è più un mero esecutore. Se io ho il dominio della tecnica perché so utilizzare la tecnologia – da casa, non da casa, poco importa – io non sono più un esecutore, ma sono partecipe del processo produttivo, sono un protagonista, con la mia autonomia, la mia fantasia, la mia creatività. E ho bisogno che qualcuno me la valorizzi. Questo rompe però tutte le logiche giuridiche. Una simile rivoluzione aiuterebbe ad esempio il tema del telelavoro perché non si tratterebbe più del dove o del come si svolge il lavoro, ma il tema sa-rebbe quello di come si qualifica e rappresenta il lavoro, che oggi è spaccato a metà: non solo tra chi è dentro o chi è fuori dal mondo del lavoro, fra stabili e precari, ma anche fra autonomi e subordina-ti. Il tema dell’autonomia, della valorizzazione della persona, delle sue competenze credo che di-venti centrale. E allora qui il terminale è proprio il servizio di domanda e offerta di lavoro. È lì che devo costruire il futuro del lavoro, il futuro delle imprese, delle nostre famiglie, e dei nostri figli. È quella una sede sensibilissima, che ha contatto con questa realtà che sta cambiando. Non si governa dall’alto con piani per il lavoro e per il cambiamento. Il cambiamento viene dalla base, giorno per giorno. Sono cambiamenti che non appena intuiti sono già modificati, così come le tecnologie, nuo-ve, ma il giorno dopo già obsolete. Lo stesso vale per i mestieri. Questo è il futuro, e non lo si può più tutelare con le tecniche del passato. Non importa dunque più il pubblico o il privato, ma serve un pluralismo di soggetti che lavorino a sistema, con un protagonismo delle rappresentanze datoriali e sindacali, dove l’attore pubblico ha una sua presenza di controllo, di indirizzo e di prospettiva.

Michele Tiraboschi Direttore scientifico di ADAPT

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