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359/2013 La potenza del falso

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359

luglio settembre 2013

La potenza del falso

Premessa [D.C.] 3

Pierangelo Di Vittorio Come pesci nell’acqua.

Prospettive genealogiche

sulla mediatizzazione del quotidiano 9 Raoul Kirchmayr Spettralità del falso.

Hegel, Freud e al di là 27

Antonello Sciacchitano O contraddittorio o non dimostrato o… Per l’epistemologia

del falso 45

Renato Moglia La verifica incerta 63 Damiano Cantone Una richiesta di innocenza

per il falso. A partire dalla “mimesis”

di Platone 73

Massimiliano Roveretto Lo specchio e il velo.

Paradigmi del falso 91

Alessandro Dal Lago, Serena Giordano Giochi di verità. O il contributo dei cosiddetti

falsari all’arte 109

Boris Groys Iconoclastia come strumento

artistico. Strategie iconoclaste nel cinema 133 Roy Menarini Strategie del falso nell’epoca

del post-cinema 151

Paolo Fabbri “Yes, we (Zombies) can”:

attualità mordace del Non Morto 163 Telmo Pievani Ingannare e ingannarsi:

le ragioni del falso in natura 177 Marcello Ghilardi Il vero, il falso, il Dao 191

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto,

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Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

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collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com

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Finito di stampare nel luglio 2013

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Premessa

O ccuparsi del falso può apparire oggi una battaglia di retroguardia, addirittura nostalgica se non reazionaria. Siamo tutti ben consapevoli di vivere in una realtà intessuta di finzione, alla quale possiamo credere fino a un certo punto: lo abbiamo ormai accettato e ci siamo adattati. Da decenni con cinico buon senso ci ripetiamo che non possiamo credere a tutto quello che vediamo o sentiamo, e l’ingenuità di quanti rimangono vittime delle apparen- ze, siano migranti che vengono – forse è meglio dire venivano – in Italia sedotti dalla nostra televisione o elettori che non smettono di credere alle promesse dei demagoghi, non ci spinge più in là di uno stupore infastidito. Diamo per scontate la finzione e la simu- lazione, e del resto la storia degli ultimi due secoli (l’invenzione della fotografia risale proprio al secondo decennio dell’Ottocen- to) è il racconto di come le immagini abbiano progressivamente sostituito le cose nella nostra esperienza del mondo. Certo le immagini accompagnano l’umanità da ben prima che nascesse la scrittura e di conseguenza la storia, eppure solo la possibilità della loro riproduzione tecnica e seriale, mettendo fuori gioco la mano dell’uomo, ne ha scatenato la potenza omnipervasiva che le ha rese progressivamente un perfetto sostituto dell’esperienza.

Il cinema, la televisione e poi il computer e gli smartphones

presentano diverse versioni di uno schermo che cattura il nostro

sguardo, le nostre attività coscienti e le nostre emozioni, occupando

un tempo progressivamente crescente delle nostre vite. Lo schermo

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4

è l’oggetto della moderna contemplazione interattiva che di volta in volta definiamo lavoro, divertimento, amicizia, amore, gioco ecc.

Come sottolinea Di Vittorio nel suo articolo, la vecchia coppia di nemici, realtà e finzione, si è trasformata in un groviglio di reality e fiction difficile da separare. Un groviglio permeabile e a prima vista a-problematico, nel quale ci muoviamo perfettamente a no- stro agio, fino a essere “i primi medium della nostra suggestione”.

Sappiamo benissimo che i nostri amici su Facebook non sono i nostri veri amici, e non confondiamo un amico virtuale con uno reale, eppure la loro distanza si assottiglia sempre di più.

Al falso siamo dunque abituati, abbiamo imparato a non temerlo, e anzi a intuirne anche le potenzialità emancipatrici.

L’ampliarsi delle possibilità di comunicazione, l’accesso a una quantità praticamente illimitata di informazioni sono indubbia- mente dei fattori positivi, e pazienza se non è sempre facile veri- ficare l’affidabilità delle notizie pubblicate in rete o se chattiamo un pomeriggio intero con qualcuno che si rivela essere solo un programma informatico che genera falsi accounts. Ci fanno sor- ridere i discorsi di quanti rimpiangono un mondo più semplice e in larga parte mitologico nel quale i rapporti personali erano più autentici, potevamo conoscere la provenienza del cibo che mangiavamo e riparare da soli gli oggetti che si rompevano senza necessariamente doverli buttare.

Tuttavia spesso a questa trasformazione sul piano dell’espe- rienza non corrisponde un’adeguata comprensione del problema.

Proprio in questa abitudine pacificata si nasconde, a nostro avviso,

il motivo di interesse del tema del falso, il punto a partire dal quale

rilanciare la questione al di là di ogni fatalistica accettazione del

presente. Non si tratta certo di fare l’elogio del falso, ma neppure

di indicare nuove forme di vero che a esso si oppongano, ripro-

ponendo la mossa classica e fatale della filosofia che intende pro-

teggere la verità dai pericoli del falso. Se così facessimo, sarebbe

difficile uscire dagli stilemi attraverso i quali il falso è sempre stato

pensato, che fanno appunto riferimento al suo rapporto con il

vero, un rapporto che è inevitabilmente destinato a gerarchizzarsi

a vantaggio di quest’ultimo.

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Nel presente fascicolo di “aut aut” cominciamo perciò a intra- prendere un lavoro di mappatura del falso, cercando di osservarne gli effetti e di comprenderne i funzionamenti. Proprio per il suo carattere non unitario, il falso richiede di essere affrontato da prospettive e con approcci differenti. Cominciamo innanzitutto col chiarire quelli che sono i presupposti del discorso sul falso.

A questo proposito Sciacchitano ripercorre la storia dell’episte- mologia del falso, mostrando come con Cartesio, e dunque con quella particolare forma di sapere che prende il nome di scienza, si sia passati da una concezione negativa del falso in quanto con- trapposto al vero al considerare il falso come verosimile, e quindi suscettibile di successivi miglioramenti. Se possiamo affermare che il falso rende possibile la scienza, dobbiamo tuttavia valutarne attentamente le forme: solo ripensandolo radicalmente possiamo ricavarne gli elementi fecondi per il sapere stesso. Alla fine, come intuì anche Freud senza comprenderlo del tutto, “il falso è il di- scorso dell’infinito”, un discorso che dobbiamo ancora imparare a maneggiare.

Cartesio è il riferimento-cardine anche per Moglia, che rico- struisce la scena del passaggio chiave dell’epistemologia moderna, fondata sull’affermazione cogito ergo sum. Scena è certo un ter- mine importante, perché è solo sullo sfondo del Barocco e della sua intrinseca teatralità che possiamo comprendere l’irruzione, in filosofia, del dubbio. Tale dubbio non è quello dello scettico, ma il dubbio scientifico, capace di revocare lo statuto di verità di ogni epistemologia precedente. La verità smette di essere considerata equivalente al sapere: “Cartesio istituisce eticamente il soggetto della scienza come soggetto diviso tra un intelletto finito e una volontà infinita, tra un sapere finito e una verità infinita”.

La potenza del falso viene esplicitamente messa a tema da Kirchmayr, in un percorso che attraverso Hegel e Freud ci porta a confrontarci con le posizioni, apparentemente inconciliabili, della psicoanalisi lacaniana e delle filosofie di Lyotard e Deleuze.

La posta in gioco, l’elemento di scambio che circola tra il vero e il

falso è quello del fantasma, uno spettro che con il suo incerto sta-

tuto circola come una moneta falsa all’interno della filosofia degli

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6

ultimi due secoli, scardinandone e confondendone continuamente le prospettive. Solo cominciando a pensare il falso a partire da questo resto spettrale, da questo elemento indefinibile, possiamo confrontarci con “quell’iscrizione sociale archi-originaria in cui si stringono le pulsioni di vita e di morte”.

Ci sono poi dei punti di osservazione privilegiati a partire dai quali affrontare il problema degli effetti del falso: l’arte è sicura- mente uno di questi, almeno per due motivi principali. Il primo ha a che fare con la storia della filosofia, e con il fatto che essa ha sempre guardato all’arte con un misto di interesse e diffidenza proprio per la sua capacità di relazionarsi con il falso in modo così disinvolto. Sono due gli articoli che, prendendo le mosse dal momento inaugurale di questo rapporto, sviluppano tesi com- plementari: nel mio ripercorro la concezione platonica del falso in relazione all’arte per mostrare come nel pensiero del filosofo ateniese convivano su questo argomento diversi livelli di discorso, trascurati dalle sistematizzazioni successive, ma che ancora hanno una notevole efficacia per ripensare la forma attuale del falso come potenza; Roveretto mostra come a partire da questo punto di scon- tro iniziale l’arte sviluppi una sua idea di falso che corre parallela al percorso storico della concettualizzazione filosofica. Anziché considerarlo un nemico da combattere, l’arte ha ricercato il falso puro, il falso che fosse tale in se stesso, slegato da ogni strategia che puntasse a ricondurlo a una qualche forma di realtà e di verità.

Il secondo motivo è che l’arte è diventata un elemento pervasivo

della nostra esperienza del mondo, estetizzando massicciamente

la realtà con cui dobbiamo rapportarci. Dal Lago e Giordano ci

mettono di fronte ai paradossi nei quali ci imbattiamo quando

cominciamo ad analizzare il problema dei falsi in arte. Il falso

non sta certo dalla parte dell’opera, né completamente da quella

dell’autore: piuttosto esso è un effetto sociale, il risultato di un

intreccio di intenzioni individuali e meccanismi culturali condivisi

che vanno a formare una sorta di costellazione del falso, un’opera

corale nella quale spesso gli attori recitano in modo involontario

e inconsapevole. Le trasformazioni sociali generate dall’ambiguo

rapporto tra arte e verità sono il punto di partenza anche del la-

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voro che Groys dedica al potenziale iconoclasta del cinema. Esso è caratterizzato da un paradosso di fondo: “Da una parte è una celebrazione del movimento, la prova della sua superiorità su tutti gli altri media; dall’altra, tuttavia, pone il suo pubblico in uno stadio di immobilità fisica e mentale che non ha eguali”. Al tempo stesso è cioè nemico di ogni iconizzazione e monumentalizzazione della realtà, che fa letteralmente a pezzi in un’ottica avvicinabile alle emergenze rivoluzionarie e carnascialesche della storia dell’umani- tà contro i sistemi di valori consolidati, e un formidabile dispositivo di passivizzazione dello spettatore.

Al cinema, o per meglio dire al post-cinema, si rivolge anche l’attenzione di Menarini. Il suo saggio si interroga su come sia pos- sibile parlare di falsificazione rispetto ai film: se infatti è piuttosto marginale il problema dei “film falsi”, almeno in proporzione a quanto avviene per la pittura o la scultura, si fa sempre più forte la questione della falsificazione del supporto. Il progresso tecnico dei media ha portato con sé una trasformazione della fruizione del film (dal dvd che si può arrestare quando si vuole al filmato su YouTube che si può manipolare a piacimento), che, al di là di un semplice problema di copyright, rilancia una questione di autenticità del cinema apparentemente distante dall’orizzonte problematico di un’opera che vive solo attraverso le sue copie.

L’approccio semiotico al tema del falso passa, nell’articolo di Fabbri, attraverso l’analisi del termine “zombi”, protagonista dell’immaginario orrorifico contemporaneo. Lo zombi è una buo- na cartina di tornasole per dirci cosa siamo “in verità”, dato che intercetta in modo trasversale tutta una serie di dibattiti filosofici sul rapporto mente-corpo, vita-morte, responsabilità individuali ecc. È un esempio calzante di quanto intendiamo per “effetti del falso”, ovvero di come un’invenzione letteraria così radicale ci costringa a ripensare profondamente le categorie con le quali giudichiamo “chi siamo davvero”.

Passando a un approccio che prende le sue mosse dalla filosofia

della scienza, e in particolare dalla biologia evoluzionista di stampo

darwiniano, ci misuriamo con l’ipotesi di Pievani, secondo la quale

ci sarebbe una predisposizione biologica al falso, nella doppia

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8

accezione dell’ingannare e del farsi ingannare. La natura ci mostra mirabili strategie del falso, dalle rane pescatrici alle orchidee, ma se veniamo all’analisi della nostra specie ci imbattiamo in un ele- mento ancora più inquietante. Sembrerebbe esserci una naturale tendenza dell’uomo ad autoingannarsi, a sviluppare credenze che non sono corroborate da alcun dato, e che pure possono avere una loro importanza in termini di mantenimento della coesione sociale e del rispetto delle regole. Il falso dunque è una presenza costante, “tanto nella specie umana quanto negli altri animali, per ragioni autonome e non come riflesso negativo di una ricerca della comunicazione veritiera”.

Infine il testo di Ghilardi ci invita a spostare radicalmente il

nostro punto di vista, proponendoci un confronto con la concezio-

ne del falso presente nel pensiero cinese. Innanzitutto scopriamo

che la distinzione tra vero e falso non è un problema prioritario

per il pensiero cinese, ma è subordinato a quello dell’efficacia del

loro uso nella realtà concreta. Essi non si contrappongono come

le due istanze consegnateci dalla tradizione occidentale, ma sono

predicabili solo a partire dall’unico corso degli eventi. Il compito

del pensiero sarà dunque “saper cogliere ed esprimere non tanto

ciò che è nettamente definito, separando in maniera univoca il vero

dal falso, ma al contrario ciò che sta tra il vero e il falso”. [D.C.]

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Come pesci nell’acqua. Prospettive genealogiche sulla mediatizzazione del quotidiano

PIERANGELO DI VITTORIO

S ogno o realtà? Con questo dubbio Inception prende congedo dallo spettatore fissando il disagio che non ha smesso di crescere nel corso del film.

1

Dominic Cobb è un “estrattore” che entra nei sogni per rubare informazioni, e che un giorno accetta di “inne- stare” nella mente di Robert Fischer, erede di un grande impero economico, l’idea di smantellarlo. In cambio, gli viene promesso di cancellare le false accuse che gli impediscono di rientrare nel suo paese. Alla fine del film, dopo aver portato a termine l’inne- sto, grazie a una peripezia onirica degna di un action movie, il protagonista passa senza problemi la dogana e può finalmente riabbracciare i suoi figli. Il disagio esplode nel momento in cui il dubbio – sogno o realtà? – ricompare nel finale, prendendo in contropiede lo spettatore già pronto all’happy end. Quando appa- re il “totem” – un oggetto strettamente personale e segreto, che dovrebbe offrire la certezza di non essere nel sogno di un altro o di poter distinguere il sogno dalla realtà –, vediamo una piccola trottola di metallo girare, vacillare, girare ancora, prima che la schermata nera sancisca la fine del film. Lo spettatore non può decidere se essa ricadrà sul tavolo, come avverrebbe nella realtà, o se continuerà invece a girare all’infinito, come in un sogno. La

Una precedente versione di questo saggio è stata pubblicata in Envoûtements médiatiques,

“Multitudes”, 51, 2012.

1. C. Nolan, Inception, Usa/Regno Unito 2010.

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fine è quindi “aperta”, e questa sospensione produce l’effetto di implicare gli spettatori nel problema dell’erosione delle frontiere tra il sogno e la realtà. La sensazione di smarrimento, rinforzata dalla sospensione dell’happy end, serve a impiantare nella loro mente l’idea, o almeno il sospetto, che la realtà sia, in generale, solo la continuazione di un sogno o di un film.

La scena dell’ipnosi

Inception interroga il rapporto tra la realtà e il sogno, pensandolo in termini di continuum, di confusione delle frontiere o di rove- sciamento gerarchico. Significativa la scena nel retrobottega del chimico che elabora i sedativi necessari a sprofondare nei sogni.

Simile a una fumeria d’oppio, si vedono alcune persone distese sul letto: “Vengono qui, non per essere addormentate, ma per essere svegliate, perché il sogno è diventata la loro realtà”. Questo rove- sciamento allude alla questione del “sovrappiù” di sogno necessario alla realtà per manifestarsi come tale. Questione che rinvia senza dubbio al surrealismo, con la sua idea del “meraviglioso”, frutto della costante espansione della vita cosciente da parte della vita onirica, e capace di sospendere la realtà aprendola ad altre possi- bilità di senso e di esistenza. Ma si può pensare anche a un’altra forma di “surrealismo”, che non ha affatto la stessa portata, e che è il prodotto massiccio e industrializzato del medium televisivo. In Videodrome, il professor Brian O’Blivion, fondatore della “Chiesa Catodica”, fa l’annuncio apocalittico di una nuova religione uni- versale: “Lo schermo televisivo è ormai il vero occhio dell’uomo…

La televisione è la realtà, e la realtà è meno che la televisione”.

2

Il riemergere di questa problematizzazione del rapporto tra sogno e realtà può essere interpretato in due modi diversi, che non si escludono a vicenda. In primo luogo, è evidente che tale questione è come una freccia che, percorrendo tutta la curva storica del cinema, torna a interrogare le sue origini segrete: “A causa della sua natura ipnotica, il cinema costituisce il linguaggio più penetrante che il genere umano abbia concepito, essendo

2. D. Cronenberg, Videodrome, Canada 1983.

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capace di inoculare a grande velocità concetti e desideri nella nostra mente”.

3

Il cinema sarebbe in fondo, in quanto tale, una pratica di innesto, che potrebbe trovare la propria origine nella

“scena dell’ipnosi”: matrice comune dalla quale sorgono e si sviluppano, al tempo stesso, il cinema e le scienze psicologiche, tra cui la psicoanalisi, ossia una forma di spettacolo e una forma di scienza. È questa genealogia che cercheremo di tracciare, per considerare se il fenomeno della reality television, e più in gene- rale l’universo attuale del reality show come fusione di realtà e spettacolo, non si inscrivano ancora, in un modo o nell’altro, nella scena originaria dell’ipnosi.

La seconda chiave di lettura è che la confusione delle frontiere tra la realtà e il sogno (o più in generale tra la realtà e tutte le sue mediatizzazioni a livello di finzione o di spettacolo) sia sentita oggi con una preoccupazione accresciuta, per ragioni al tempo stesso politiche e culturali in senso ampio, concernenti le condizioni di produzione della “verità” nel mondo contemporaneo.

4

Basti pensare alle ricorrenti prese di posizione in favore di un certo

“realismo” – si tratti di letteratura, di arte o di sapere scientifico e filosofico –, il cui limite è che ignorano, o fanno finta di ignorare che oggi i prodotti culturali capaci di sedurre un pubblico e di trovare un posto nel mercato sono quelli che riescono a fondere la realtà e la finzione, fino a non poterli più distinguere. Si predi- ca il realismo, ma si finisce spesso per contribuire alla “messa in spettacolo” della realtà.

Vecchi e nuovi carismi

Il reality show rappresenta l’incarnazione operativa di una sorta di double bind: fusione perfetta della realtà e della sua mediatiz- zazione spettacolare; della banalità o della trivialità quotidiane e della loro trasposizione onirica o ipnotica; della vita ordinaria e

3. O. Senna, citato in R. Bellour, Le corps du cinéma. Hypnose, émotions, animalités,

POL, Paris 2009, p. 21.

4. In Italia, questa discussione intorno al rapporto tra la realtà e il sogno, la finzione, lo spettacolo ha potuto appoggiarsi su un’evidenza politica maggiore: il “populismo mediatico”

di Silvio Berlusconi.

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aut aut, 359, 2013, 27-43

Spettralità del falso.

Hegel, Freud e al di là

RAOUL KIRCHMAYR

1. Hegel, la moneta e il diavolo

Il discorso filosofico pone se stesso come accesso alla verità e come modo cui giungervi. Cammino e metodo sono i due poli tra cui la filosofia si colloca e si dibatte, nella contesa tra pensiero e calcolo, tra esperienza e ragione. A seconda del maggiore o minore rilievo dato al cammino o al metodo, il pensiero si presenterà più nei termini di un’esperienza che di una scienza o viceversa, accen- tuando così la sua apertura ad altri discorsi o, al contrario, la sua volontà egemonica a porsi quale fondamento stesso del discorso.

Nel caso dell’accentuazione del percorso, il pensiero fa esperienza dell’altro da sé, toccando ciò che gli è eterogeneo, attraversandolo e serbandone la memoria. Nel caso dell’accentuazione del metodo, esso tende a presentarsi come un’architettura razionale del sapere collegata a una logica apofantica.

Il

XX

secolo ha imbrogliato i cammini, confuso i percorsi, desti-

tuito le ragioni. Le vicissitudini del pensiero contemporaneo hanno

rimescolato i termini. Dopo Nietzsche non possiamo non vedere

come la messa in questione della verità sia un tratto specifico di

quel che rimane della metafisica occidentale. Se il compito del

pensiero è di mettere in questione tale volontà di verità – con i suoi

effetti di dominio e potere –, allora non sarà più possibile ripetere

il gesto con cui la metafisica ha preteso di gettare le fondamenta

di una conoscenza vera, di svelare ciò che è vero e reale di contro

a ciò che è falso e apparente, di definire le metodologie per una

esatta (o logica) rappresentazione del mondo.

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Di contro alla volontà della filosofia di presentarsi come il discorso che giunge all’evidenza quale fonte di verità, occorre procedere su un terreno impervio e cedevole dove l’opposizione tra il vero e il falso smette di fare la legge, rivelandosi piuttosto l’effetto sistematico di un’articolazione archi-originaria e mai riducibile a un’onto-teologia. Tale terreno instabile è più antico dei fondamenti della metafisica, ne fornisce il fondo mobile e irriducibile alla semplice presenza: non ci troviamo più in regime di sola rappresentazione, siamo in un altro ordine discorsivo, spazio-temporale e di visibilità, dove prevale la logica della simu- lazione, del simulacro e del sembiante, delle “potenze del falso”

(Deleuze). Non possiamo più solamente pensare in termini di falso e di falsificazione, quando l’opposizione tra vero e falso è usurata, quando vale tutt’al più in settori parziali di “realtà” e quando ciò che garantisce la rappresentazione è piuttosto una incessante produzione tele-tecnica di spettralità.

Per scelta e per un certo gusto dell’intempestività mi accingo a indicare un percorso che, dentro e fuori la filosofia, ritorna a Hegel e a Freud per mostrare alcuni punti in cui la metafisica della pre- senza e della rappresentazione mostra smagliature e cedimenti. Per iniziare prenderò a esempio una pagina, tratta dalla Premessa della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, dove ne va appunto del vero e del falso. Mi limiterò a indicare dei tracciati che sono altrettanti bordi di una scucitura, quella che il discorso metafisico mostra ogni qualvolta tenta di mettere economicamente a regime il falso.

L’ipotesi che mi guida è che in trasparenza al tessuto del testo,

una certa imbastitura del discorso si lascerà vedere. Per mostrare,

nel movimento testuale, il lavoro di imbastitura, si rende necessario

un contro-movimento, una scucitura-ricucitura che farà appello a

una certa psicoanalisi freudiana. Non tanto nel senso che riferen-

dosi alla sua eredità ne imiterà il gesto – poiché lo stesso Freud,

come si sa, non riuscì a prendere congedo da una certa volontà

di verità e da una certa metafisica rappresentativa – quanto nel

senso che sono i tracciati della psicoanalisi a mostrarci il revers del

discorso filosofico. Perciò mi limito ad affermare la necessità meto-

dologica di questa scelta in ordine al problema del falso, delle sue

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potenze e della falsificazione: la psicoanalisi ha fornito un accesso discorsivo al fondo archi-originario, aprendo e aprendosi a esso, in modo tale da porre una delle grandi questioni teoriche che sono in grado di dislocare in un colpo solo l’intera pretesa metafisica di fornirci l’accesso alla verità. Con la questione del fantasma (ancora solo in parte metafisica) la psicoanalisi effettua la disloca- zione, a patto che con essa non riduca il significante “fantasma”

alla sola sfera soggettiva, ma lo si disponga in uno spazio che non è né soggettivo né oggettivo e in un tempo che è quello della sua apparizione fugace nell’attimo; in altre parole, che lo si reperisca nello spazio-tempo, sempre anacronico, di una fantasmagoria e di un’apparizione spettrale.

I fantasmi e gli spettri: Hegel avrebbe voluto saperne, o quanto meno ci ha fatto credere di saperne, se non altro convocandoli come effetto di doppio prodotto dal discorso del Geist. La lezione che Hegel ci ha lasciato circa la sintassi del vero e del falso, circa il movimento del Geist – che per lui non poté che essere un pro- gredire, tappa dopo tappa, verso l’autò del pensiero stesso –, dà ancora oggi da pensare. E ciò che ci dà da pensare è, in primo luogo, lo scambiarsi dei posti tra il vero e il falso, secondo un principio di permutabilità che sembra appartenere, più che alla tragica durezza di un Weltgericht (in cui ne va di un giudizio che vuole affermare la verità), al mobile mascheramento di una commedia teatrale.

Contro una concezione statica del rapporto tra vero e falso, Hegel rivendica la loro reciprocità come altrettanti movimenti del Geist. Dopo aver fissato il rapporto tra il vero e il movimento del Geist nel circolo della “logica o filosofia speculativa”,

1

egli si domanda retoricamente: “A che scopo infatti occuparsi del falso?”.

2

In ef- fetti, Hegel mette in guardia dalla tentazione di voler disfarsi del negativo riducendolo semplicemente al falso e di commisurare il progresso del sapere come percorso che conduce “senz’altro alla verità”.

3

Di conseguenza scrive: “Il vero e il falso appartengono

1. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), trad. a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 27.

2. Ibidem.

3. Ibidem.

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O contraddittorio o non dimostrato o…

Per l’epistemologia del falso

ANTONELLO SCIACCHITANO

1. Cosa dobbiamo intendere per “falso”?

Sul piano strettamente logico le concezioni del falso che in filosofia hanno tenuto banco sono essenzialmente due, con prevalenza della prima sulla seconda: la classica e l’intuizionista; la prima, ontolo- gica, intende il falso come contraddittorio; la seconda, epistemica, concepisce il falso come non dimostrato.

Aristotele pose il principio di non contraddizione a fonda- mento della logica classica come principio metalogico, che non si può dimostrare contraddittorio senza implicarlo. Inteso come contraddittorio, il falso fu espulso – Lacan direbbe “fuorcluso”

– dalla buona logica, cioè dal pensiero; così è stato da Platone in poi fino al galileiano Simplicio.

1

Il campo della verità logica è classicamente coesteso al campo del non contraddittorio. In Kant il non contraddittorio stabilisce la portata necessaria e univer- sale delle categorie trascendentali. Per Hilbert, fondatore della matematica formalista, il non contraddittorio fornisce il criterio di esistenza di un oggetto matematico, anche quando non lo si sappia effettivamente individuare per via algoritmica. La coppia

1. “Sembra impossibile opinare alcunché falsamente” (Platone, Teeteto, 188c). “La scienza è de’ veri e non de’ falsi” (G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi, 1632, in Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli 1953, p. 506). Cfr. anche: “Delle cose che io tengo false non credo di poterne saper nulla” (ibidem). Da contraddittorio, il falso non si può pensare; renderebbe il pensiero contraddittorio.

Veritas odium parit.

Cicerone

En logique classique […] le faux ne s’aperçoit pas qu’à être de la vérité l’envers, il la désigne aussi bien.

J. Lacan, L’étourdit

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46

non contraddittorio-contraddittorio equivale formalisticamente alla coppia esistente-non esistente senza margini di incertezza.

2

(Qui dovrei aprire un’ampia parentesi psicoanalitica sui rappor- ti tra falsità e incertezza, magari spinta fino a mettere in questione tutta la portata del dubbio cartesiano. I presupposti di ogni dub- bio risalgono alla questione infantile: “Chi è mio padre?”. Pater incertus, si sa. Allora le religioni corrono ai ripari e propongono la certezza del padre unico uguale per tutti. Una soluzione eviden- temente troppo drastica. Freud a suo modo, alquanto riduttivo, offre delle certezze soggettive, rispondendo: “È tuo padre chi ti castra”, cioè, lacanianamente parlando, chi ti separa dalla madre.

Come si vede, pur di avere delle certezze, il soggetto è disposto ad ammettere il falso, “a fare carte false”, come si dice. Segnalo il punto e procedo oltre con il discorso epistemologico.)

In effetti, più che metalogica la proposta di Aristotele era metafisica. Infatti, lo Stagirita intendeva convalidare l’ontologia parmenidea dell’essere che è e del non essere che non è, nel momento in cui tentava di indebolirla – generalizzandola – co- me passaggio dall’ontologia della potenza a quella dell’atto. Per Aristotele l’ontologia in potenza era regolata dal principio di ragion sufficiente, secondo cui c’è sempre una causa che regola la transizione (metabolé) dalla potenza all’atto; concretamente, nella fisica aristotelica occorre sempre un corpo in moto per muovere un altro corpo; e questo lo crede tuttora il senso comu- ne.

3

L’ontologia in atto era governata da tre principi logici che, per millenni, fino alla Grande logica di Hegel, sono state verità

2. Il principio di esistenza, che vale in logica classica ma non in logica intuizionista, è una variante della legge di doppia negazione: se qualcosa non implica contraddizione, allora quel qualcosa esiste. In formule, ( x.f(x) F) x.f(x), dove è il simbolo della negazione, il quantificatore esistenziale applicato alla variabile x, il simbolo dell’implicazione e F è la marcatura del falso. Poiché ( x.f(x) F) equivale a x.f(x), il principio classico di esistenza si può scrivere: x.f(x) x.f(x). In logica classica il principio di non contraddizione, essendo non contraddittorio, esiste onticamente. Ciò rende la logica classica una logica “interna” all’ontologia.

3. Sotto l’occhiuta sorveglianza del buon senso medico o giuridico in posizione superegoica.

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indiscusse – “logiche” per antonomasia;

4

precisamente, per ogni proposizione A valgono:

1. principio d’identità: è impossibile che A abbia un valore di verità diverso dal valore di A;

5

2. principio di non contraddizione: è impossibile che A e non A siano entrambe vere;

3. principio del terzo escluso: è impossibile che A e non A siano entrambe false.

6

L’abbozzo di formalizzazione aristotelica, fortemente binaria, regolava il funzionamento degli operatori logici non, vel ed et, nonché parzialmente dei quantificatori per ogni ed esiste; la for- malizzazione sarà perfezionata nel

XIX

secolo da Boole nell’algebra che fornisce una semantica della logica classica.

Perché dico fortemente binaria? Perché prevede solo due valori di verità: il vero e il falso? No, anche nell’approccio intuizionista i valori di verità sono due. Le differenze tra le due logiche stanno nelle transizioni tra i due valori di verità. Il passaggio dal vero al falso attraverso la negazione avviene in logica intuizionista come nella classica: la negazione del vero è il falso. Dico che la logica classica è fortemente binaria perché la negazione inversa dal falso al vero avviene incondizionatamente: la negazione del falso è sempre e comunque vera. Allora dico che l’intuizionismo è debolmente binario perché la transizione dal falso al vero è soggetta a certe restrizioni;

4. In effetti, in logica classica i tre principi sono uno solo, essendo equivalenti. Si tratta di binarismo forte. Nel Libro IV della Metafisica Aristotele considera il principio del terzo escluso un corollario del principio di non contraddizione. Curiosamente, i tre principi si differenziano solo all’interno della logica intuizionista, che indebolisce il binarismo sospendendo il terzo escluso, considerato non equivalente agli altri due principi, a loro volta considerati tra loro equivalenti. Classicamente si parla, infatti, di principio di identità-non contraddizione, che fonda tutto il logocentrismo occidentale.

5. Il principio di identità viene meno in logica lineare, dove le singole occorrenze di A possono assumere valori di verità diversi, per esempio in funzione del tempo.

6. È in un certo senso naturale elevare la logica modale del “necessario” e del “possibile” a metalogica della logica apofantica. Il contraddittorio, infatti, dà dell’impossibile un modello

“interno” alla sintassi. La catena logica delle implicazioni è: contraddittorio non esistente impossibile. Questa logica modale corrisponde al sistema formale S4 di Lewis, che tratta l’impossibile come “dimostrazione del contrario”. Con un’opportuna trascrizione Gödel provò S4 equivalente alla logica intuizionista (K. Gödel, “Un’interpretazione del calcolo proposizionale intuizionista”, 1933, in Opere, a cura di S. Feferman, trad. di S. Bozzi, Bollati Boringhieri, Torino 1999, vol. I, p. 222).

(18)

63

aut aut, 359, 2013, 63-72

La verifica incerta

RENATO MOGLIA

1. Avanzando sotto mentite spoglie

Il tema del falso in filosofia mi suggerisce qualche rapsodica con- siderazione sul secolo – il

XVII

– in cui nasce il moderno soggetto della scienza. Soggetto che nella sua prassi intellettuale indebolisce la categoricità del rapporto vero-falso, indebolendo la logica binaria aristotelica. L’epoca barocca, infatti, presenta in un nuovo intreccio il rapporto intercorrente tra menzogna e verità. In questo senso, il secolo

XVII

rappresenta un modello di transizione e di passaggio da uno statuto ontologico del sapere e della verità a uno statuto epi- stemico del sapere e della verità. Con Cartesio, vero e falso entrano in una dimensione meno assoluta, meno binaria; il principio del terzo escluso – e con esso anche i principi di non contraddizione e di identità – viene indebolito dalle bordate della letteratura, del teatro, della pittura, della musica e dell’architettura – oltre a quelle derivanti dalla performance cartesiana. Nell’epoca barocca il nuovo avanza: assistiamo allo svilupparsi delle moderne forme espressive del romanzo e del dramma; viene alla luce il melodramma moderno, nuova unione tra parole, rappresentazione teatrale e musica.

Una nota sociologica: nasce il teatro pubblico a pagamento.

I potenti nelle città concedono alla popolazione “luoghi dati al pubblico per l’esercizio di spettacoli”; così il teatro diventa “sta- bile” nel tessuto urbano. Nasce il pubblico pagante che determina autonomamente il successo o l’insuccesso di una rappresentazione.

Questo pubblico, col suo gusto nascente, diventa parte attiva dello

spettacolo, entrando di fatto nella rappresentazione e influenzando

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l’intera macchina teatrale. Il teatro diventa lo spazio fisico – nella disposizione dei posti e nella planimetria ellittica della platea – di rappresentazione sinottica dell’ordine sociale. Diventa anche luogo di controllo, di tartuferia, di delazione e verifica dell’ortodossia. È proprio questo controllo rigido, equivalente nell’area riformistica e in quella controriformistica, che obbliga le modalità espressive a perseguire la dissimulazione, l’allusione e la doppiezza. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale.

“Io non sono quel che sono” proclama Jago, che trasforma un fazzoletto nella vela che raccoglie il vento tempestoso della gelosia.

“Sono un uomo senza nome” dice il seduttore e adescatore Don Giovanni. Le maschere, se con l’anonimato salvano dagli agguati, dall’altro lato rendono anonimi anche i sicari e i loro mandanti.

Le maschere rendono invisibili, impenetrabili, allusivi, elusivi e sfuggenti, anonimi e insidiosi, ipocriti, impostori e traditori.

1

Sul palcoscenico del secolo i personaggi si impossessano di altre iden- tità, a volte inventate ex nihilo; a volte ci si impossessa dell’identità di un altro, spesso attraversando in entrambi i sensi l’incrocio delle differenze sessuali. Infatti, mai come in questo secolo il maschio della nostra specie risulta imbellettato, adornato e travestito, tutto impegnato in una performance di femminilizzazione nei modi e nella figura del cicisbeo. La scrittura e la sua rappresentazione di- ventano cifra di un discorso dissimulato che nei suoi travestimenti rende incerta anche l’identità sessuale.

La teatralità, il gusto ridondante della rappresentazione e del rappresentarsi coinvolgono anche le altre arti: la musica, con l’ar- te della fuga e dell’improvvisazione; l’architettura, con il trionfo di forme ellittiche e iperboliche, la contaminazione dei generi e degli spazi e con un prospettivismo ingannatore; la pittura, dove il pittore si rappresenta e appare sulla scena del quadro.

2

Ma è

1. Cfr. S. Nigro, Impostura e verità: il modello barocco, in N. Borsellino e W. Pedullà (a cura di), Storia generale della letteratura italiana, vol. VI: Il secolo barocco. Arte e scienza nel Seicento, Motta, Milano 2004, pp. 1-18. Devo a questo testo alcuni spunti e riferimenti necessari all’impostazione del presente paragrafo.

2. Ormai classico è il caso di Velázquez che, in Las meninas del 1656, fa della metapittura rappresentandosi sul palcoscenico della rappresentazione pittorica. Rimandiamo all’analisi di M. Foucault (Les mots et les choses, 1967).

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sempre il teatro che ci presenta un’infinita sequela di coscienze false e instabili, lacerate, se oneste, altrimenti tenebrose, diaboli- che, vischiose e gaglioffe, furbe e attentatrici. Nel secolo l’onestà e la sincerità diventano modalità della menzogna: propugnare il vero traveste e veicola il falso e viceversa. Si tratta di un continuo gioco della variazione, dello scambio di astuzie e contro astuzie, una volpineria infinita. L’onesta sagacia, all’interno della comme- dia degli equivoci, può ingannare con la verità medesima una volta che tutto è avvolto nel dubbio e nel sospetto. Al lettore di Freud viene in mente il riferimento – in un testo chiave della produzione freudiana – all’amletico Polonio, relativamente alla possibilità di catturare la carpa della verità proprio con l’esca della menzogna.

3

Così anche l’anima più candida e pia può essere stratagemma di falsità, ovvero giocare o essere giocata sul palcoscenico di una comunicazione che diventa addobbo di enigmi e festa d’inganni della ben rotonda verità.

In un contesto così complicato, labirintico e pericoloso la pru- denza intellettuale si presenta in scena con la maschera della falsità, per proteggere un sapere appena nato, perché allora ne andava della vita.

4

Se la vita diventa recita in maschera ed esercizio del falso, imperano lo sconcerto conoscitivo e l’angoscia identitaria;

5

allora anche la verità necessita di maschere cautelative.

La prudenza si istituisce allora come stilema dialettico che mette in tensione ciò che nel discorso è ammesso con ciò che nel discorso è meglio omettere; tensione tra ciò che si mette in linea di principio sotto la luce del lumen naturale e ciò che della verità è bene che resti par provision innominato. Ben lo sapeva Cartesio che nel Discours de la méthode (1637) teorizzò e praticò la necessità di una scrittura

3. Scrive Freud: “Mit Polonius zu reden, den Wahreitskarpfen grade mit Hilfe des Lügenköders gefangen”, in Konstruktionen in der Analyse (1937), in Sigmund Freud gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, vol. XVI, p. 48 (“Per dirla con Polonio, catturare la carpa della verità proprio grazie all’esca della menzogna”, S. Freud, Costruzioni in analisi, in Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol. XI, p. 546, trad. modificata).

4. Ai nostri tempi la maschera che va per la maggiore è quella di un sapere perverso e onnisciente di proprietà esclusiva del maître.

5. Il riferimento canonico è a La vida es sueño (1635) di Calderón de la Barca, che mette a fuoco un altro luogo peculiare della modernità, fonte di incertezza, inganno e sgomento, ma anche motore di ricerca per nuove verità e nuova fonte conoscitiva: il sogno.

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Una richiesta di innocenza per il falso.

A partire dalla “mimesis” di Platone

DAMIANO CANTONE

D a sempre la filosofia ha preso partito per il vero. La sua stessa ragione di esistenza risiede nel ricercare la verità, nel portarla alla luce, nello svelarla, e poi nel dirla, nel testimoniarla, nel chia- rirla, nel sopportarne il peso e la fatica. Questa ricerca, come ovvio, non è priva di ostacoli e pericoli: la verità va salvata dall’opinione, dall’illusione, dall’errore: in una parola, dal falso. Fin dalla celebre sentenza di Parmenide, il falso, lo pseudos, è stato il grande avversa- rio del vero, una spina nel fianco e un nemico spietato: prendere il falso per vero ha significato, secondo le parole che la divinità rivolge al padre della filosofia, “percorrere il sentiero della notte”, condan- narsi a una vita di oscurità e ignoranza. Il filosofo è ossessionato dal falso, lo teme, e lo sospetta celarsi sotto ogni verità comunemente accettata come tale. La verità è una, ma il suo dominio è insidiato da ogni sorta di pretendenti, di falsari, di spacciatori di verità contraf- fatte, imbonitori convincenti e persuasivi ai quali è facile arrendersi.

Socrate, il grande amante della verità, non cessa di ricercarla al fondo dei discorsi dei sapienti. Egli rimane in silenzio di fronte agli equilibrismi verbali dei sofisti che strappano applausi agli astanti, togliendo sgabelli logici da sotto il sedere dei loro malcapitati interlocutori per vederli cadere in confusione,

1

ma poi interviene per censurarne il comportamento e per mostrare i loro errori. So- crate si rende spiacevole agli occhi dei suoi concittadini, che non

1. Cfr. Eutidemo, 278.

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hanno nessuna propensione naturale alla verità e che sono invece pragmaticamente più interessati all’efficacia persuasiva dei discorsi e al loro possibile sfruttamento. Va così incontro alla sua tragica condanna, anch’essa basata su false accuse, e apre in tal modo gli occhi del suo allievo Platone sui limiti della democrazia ateniese.

Perciò Platone costruisce la sua filosofia sulla base di una nuova pratica, la politica, che è il tentativo di rispondere alla domanda su cosa siano il giusto e il vero in relazione all’uomo e alle sue azioni, anziché alla natura. Egli non sottovaluta la potenza del falso: per Platone la verità che pretende di fare a meno del falso, di negarlo completamente, cade nel paradosso di diventare non meno falsa dell’avversario che vuole combattere. Per questo dà così tanto spazio al tema della finzione, del fare finta e della simulazione. Tutta la sua opera, se si eccettuano le lettere, è un’opera di finzione, il cui pro- tagonista è, di nuovo, Socrate, l’istanza veritativa della filosofia. Un Socrate fittizio, tuttavia, che da sempre ha creato agli storici della fi- losofia il problema di distinguerlo da quello autentico, e di separarne il pensiero vero da quello attribuitogli dal suo allievo. Un’operazione di restituzione resa ancor più complicata dal fatto che non esiste un pensiero autografo di Socrate, che non ama la scrittura, poiché, come afferma nel Fedro, “chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve essere pieno d’una grande ingenuità”. E d’altra parte “la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio”.

2

Nel discorso di Socrate la scrittura è solo un’immagine del di- scorso vero, quello orale vivo e animato, in grado di dire la verità, e dunque è una sua falsificazione. Questa radicale posizione socratica (ma di quale Socrate: quello vero che non scrive o di quello fittizio platonico che conosciamo solo attraverso la scrittura?) non è con- divisa da Platone. La forma del dialogo, la vera e propria immagine letteraria silenziosa del discorso vivo, l’uso dei miti per spingere il

2. Fedro, 275c-276a.

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pensiero oltre e prima della filosofia, dimostrano la sua capacità di fare un uso della finzione finalizzata al vero. In questo uso è però implicito un grande rischio, come puntualizza a più riprese lo stesso Platone, che è quello di scambiare l’immagine del vero per il vero.

Non stupisce dunque che nella principale opera della maturità, la Repubblica, dedichi ampio spazio a questo rischio all’interno del suo grandioso tentativo di pensare la forma del governo giusto. Si tratta del problema della mimesis e del suo rapporto con il vero.

È un tema troppo complesso per essere risolto in questo rapido excursus nella filosofia platonica, ma è importante fissarne alcune caratteristiche.

3

Nella mimesis si assommano infatti sia il carattere imitativo, attraverso il quale Platone fonda la relazione gerarchica tra modello e copia, sia quello produttivo, ovvero il fatto che la mi- mesis sia essenzialmente un’attività e dunque una forma di techne.

È la mimesis, infatti, che nel mito del Demiurgo guida felicemente la creazione del mondo naturale (physis) a partire dalle idee-modello, sancendone il rapporto di continuità e partecipazione. Le idee sono causa del mondo in un rapporto di produzione tecnica che ne ga- rantisce la qualità, la corrispondenza al modello. Allo stesso modo, il buon falegname quando produce il letto usa la mimesis,

4

e il suo lavoro sarà tanto più riuscito quanto più il suo prodotto sarà una copia pedissequa dell’idea cui fa riferimento. Il rischio della mime- sis non risiede allora tanto nel suo carattere imitativo fondato sulla contemplazione quanto in quello produttivo, dove può annidarsi un elemento imprevisto, secondario o ornamentale che fa saltare il buon rapporto modello-copia. È quello che accade nella poesia, che ha come suo intento primo non di riprodurre semplicemente i fatti come sono accaduti, ma di ricordarli e dunque di celebrarli in quanto appartenenti a un passato al contempo mitico e condiviso. La polemica che Platone conduce nel libro

II

della Repubblica, sempre nell’ottica di pensare quale sia la forma di educazione politicamente migliore, è rivolta proprio verso i due padri della poesia greca, Esiodo

3. Per una prima introduzione al tema, si veda P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 45 sgg.

4. Repubblica, 597b sgg.

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91

aut aut, 359, 2013, 91-107

Lo specchio e il velo.

Paradigmi del falso

MASSIMILIANO ROVERETTO

I naugurando una concezione della verità de- stinata a costituire per oltre due millenni un vero e proprio canone del pensiero occiden- tale, Aristotele aveva circoscritto l’utilizzo dei termini “vero” e

“falso” al ’ , ovvero alle sole proposizioni dichia- rative, escludendone di contro l’impiego sia in relazione ai singo- li elementi del discorso sia per i discorsi non apofantici quali per esempio esortazioni, preghiere ecc. Conseguentemente, aveva identificato la verità con la conformità della proposizione alla realtà e il falso con la sua difformità rispetto a essa.

1

Se guardiamo tuttavia all’etimo del termine, la sua derivazione dal latino fallere (ingannare) evoca una scena molto più ampia, che nella varietà delle sue accezioni trova un puntuale riscontro. Oltre a ciò che è “contrario o non corrispondente al vero” nel senso di Aristotele, “falso” indica infatti tutto ciò che è “menzognero, bugiardo, [...] simulato, finto”. Falsi sono un ragionamento, una supposizione o una testimonianza qualora privi di un adeguato riscontro fattuale, ma false possono essere anche le promesse fatte senza l’intenzione di mantenerle, le lacrime che non riflettono un sentimento genuino e più in generale tutto ciò che risulta “man-

1. Cfr. Aristotele, Metafisica, libro VI, 1027b 18-28 e libro IX, 10. Cfr. inoltre Dell’espressione, 4, 17a, 1-8. Ma si veda anche Metafisica, libro V, 1024b 17-1025a 13, in cui Aristotele, sebbene a titolo di ricognizione preliminare dell’uso linguistico corrente, distingue tre ulteriori accezioni del termine “falso”: come inconsistente, come illusorio e come mendace (detto di un uomo).

Non mi piacciono le vostre labbra. Sono dritte come quelle di uno che non ha mai mentito.

O. Wilde

(25)

cante di naturalezza” o “artefatto”. Falsa è inoltre una nota che suona male, così come un evento o un oggetto il cui proprium non consiste nemmeno nel simulare ciò che non è, quanto piuttosto nel discostarsi da ciò che dovrebbe essere in base a una qualche norma.

2

Ed è proprio all’ampiezza di tale spettro semantico che sembra corrispondere la presa in carico della dimensione del falso da Platone operata nel libro

X

della Repubblica, in relazione alla celebre condanna dell’arte imitativa che vi è contenuta.

L’immagine fallace (Platone)

Com’è noto, Platone considera l’opera dell’artista come la copia della copia, tre gradi “lontana dal vero”,

3

il quale si identifica dal canto suo con l’essenza della cosa riprodotta. Se prendiamo un oggetto qualunque, come per esempio un letto, dovremmo cioè riconoscere che ve ne sono di tre tipi: quello naturale, che coin- cide con l’idea stessa di letto e che dobbiamo pertanto supporre sia opera di un dio; quello costruito, conformemente al modello fornito dal primo, dall’artigiano; e quello che il pittore rappresenta guardando a quest’ultimo. Nondimeno, le cose sono meno sem- plici di quanto a prima vista potrebbe sembrare, in quanto la serie che va dall’idea all’artefatto fino alla sua riproduzione pittorica può essere scomposta in due modi diversi. Da una parte, gli og- getti prodotti dall’artigiano e dal pittore, così come sarà per quelli forgiati dal demiurgo nel Timeo, si oppongono all’opera del dio in quanto molteplici. Se, oltre al letto che Platone definisce “secondo l’essenza”, il dio ne producesse un secondo, sarebbe poi necessario, per poterne riconoscere l’appartenenza a una medesima specie, ammetterne anche un terzo e così via, all’infinito. Dall’altra, lad- dove il lavoro del mobiliere presenta ancora una qualche analogia con quello del dio, in quanto, pur operando sul molteplice della materia, ne ripete nondimeno il gesto creatore, quello del pittore sembrerebbe non avervi più alcun rapporto. Dell’oggetto di cui

2. Cfr. la voce “falso” in G. Devoto, G.C. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1990.

3. Cfr., anche per quanto segue, Platone, La Repubblica, libro X, 597a-598d (trad. di G.

Lozza, Mondadori, Milano 1990, pp. 429-431).

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l’artigiano e il dio sono gli artefici, l’artista è un semplice imitatore:

perché, nel riprodurlo, non solo non ne realizza l’essenza – cosa che nemmeno l’artigiano è in grado di fare – ma neppure la prende di mira, limitandosi a considerarne l’apparenza sensibile. Da cui il prodursi, tra creazione autentica e mera imitazione, di un vero e proprio iato, la cui portata resta tuttavia occultata proprio nella misura in cui, mantenendo fermo il paradigma della riproduzione mimetica, Platone lo ribatte sulla differenza tra mondo vero e mondo apparente in quanto realizzazioni più o meno compiute di un medesimo essere.

L’ideale sarebbe per Platone che il falso sorgesse sempre assie- me al vero, in modo da poter di volta in volta stabilire, tra i due, un immediato raffronto. Dopo aver ironicamente definito l’artista come un prodigio di sapienza “che fa tutto quanto gli artigiani fanno per uno”, Socrate ce lo mostra infatti nell’atto di tenere tra le mani uno specchio che volge da ogni parte, ciò che lo rende in grado non solo “di realizzare qualsiasi oggetto”, ma anche di far

“spuntare tutte le piante dalla terra e [...] nascere tutti gli esseri viventi, sé compreso, e poi la terra e il cielo e gli dei del cielo e tutto quanto sta sotto terra nell’Ade”.

4

Ma la sua opera, a prima vista prodigiosa e straordinaria, è in realtà di ben poco conto, in quanto priva di ogni intrinseca forza e capacità di generazione.

Rappresentando l’artista come una sorta di regista cinemato- grafico dotato sì di una macchina da presa, ma non della pellicola, Platone intendeva evidentemente negargli la facoltà di produrre dei simulacri della realtà sensibile sufficientemente consistenti da opporsi a quel poco di essere che quest’ultima conserva e da affermarsi, di contro a essa, nella loro autonomia. Ma è altrettanto chiaro che, così facendo, egli si fabbricava un obiettivo polemico ad hoc, del tutto slegato dalla realtà delle pratiche artistiche e let- terarie di cui egli stesso, in altri passi della Repubblica,

5

dimostra di possedere ben altra cognizione se non considerazione. Tanto che nel Gorgia, in cui a partire dall’interrogazione circa l’essenza

4. Cfr. ivi, libro X, 596c (p. 427).

5. Cfr. D. Cantone, Una richiesta di innocenza per il falso, in questo fascicolo.

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Giochi di verità. O il contributo dei cosiddetti falsari all’arte

ALESSANDRO DAL LAGO SERENA GIORDANO

Crisi del dualismo estetico

Che il dualismo, inteso come opposizione tra inconciliabili, governi i mondi simbolici è comprovato non tanto e non solo dai miti della caduta, in cui il mondo è il prodotto di una scissione, di una sepa- razione dal Dio buono o dell’opera del Dio cattivo, il demiurgo;

1

quanto soprattutto dalla costituzione dualistica dei significati fon- damentali della nostra cultura: estetico, morale, scientifico, politico e così via. Si direbbe che l’umanità non possa esistere senza un altro da sé simmetrico e opposto, inevitabilmente negativo, insomma un nemico.

2

Ed ecco che i concetti di sinistro, buio, cattivo, brutto, falso, illusorio ecc., pur non coincidenti – in quanto pertinenti alla topologia, all’ottica, alla morale, all’estetica, all’epistemologia, alla psicologia ecc. – finiscono per attirarsi e convergere, fino a rappre- sentare un’alterità negativa indispensabile a ogni discorso o retorica.

3

1. Valga per tutta la letteratura mitologica dualistica l’importante raccolta sapienziale nota come La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto, a cura di P. Scarpi, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori, Milano 2011. Non è privo d’interesse il fatto che in Omero significhi “lavoratore libero” nel senso di “artefice che viene dal popolo”. In seguito, la parola indicò chi “lavora per il popolo” e quindi una sorta di magistrato. Nella letteratura gnostico-sapienziale i due significati si uniscono in quello di “Artefice-reggitore” del creato (proprio come Leopardi in un celebre frammento definisce Arimane, dio cattivo dello zoroa- strismo, “reggitor del mondo”). Non è del tutto arbitrario sintetizzare l’ossessione per i falsari come riflesso di una sorta di ostilità di lunga data per gli artefici del male, i demiurghi cattivi.

2. C. Schmitt, “Il concetto del ‘politico’”, in Le categorie del “politico” (1922), trad. di P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972.

3. R. Hertz, La preminenza della mano destra (1928), trad. di S. Vacca e A. Prosperi, Einaudi, Torino 1994.

Si vede come si vuol vedere, ed è questa falsità che costituisce l’arte.

motto attribuito a Edouard Manet

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110

Nella sua critica alla metafisica, Nietzsche ha gettato le premesse per una decostruzione radicale del dualismo e dell’indebita traduzio- ne da un dualismo all’altro. Qualche decennio dopo Nietzsche, Max Weber ha affermato con forza la non coincidenza di verità, bellezza, giustizia ecc. – e di conseguenza la non traducibilità dei relativi contrari.

4

Questo vale soprattutto in campo artistico. Un’opera può essere vera (nel senso di autentica) senza avere alcun valore estetico riconosciuto (come le innumerevoli “croste” che riempiono i magaz- zini dei musei). Viceversa, un falso può essere (o essere considerato) bello, anche quando è stato smascherato.

5

Le combinazioni sono molteplici e non possono essere schematizzate in una tabella a due valori. La ragione principale di questa indeterminatezza costitutiva del mondo artistico è nel fatto che l’arte è indissociabile dalla sua aura, cioè, in definitiva, dal giudizio del pubblico. E questo, per sua natura, è mutevole, socialmente condizionato e storicamente determinato.

6

A pensarci bene, possiamo coinvolgere in questa considerazione la stessa realtà delle opere. Non è necessario che un’opera esista perché sia inclusa nel mondo dell’arte. Così è nel caso dell’orinato- io di Duchamp (Fountain, 1917), considerato un atto battesimale dell’arte contemporanea e celebrato in migliaia di articoli e saggi, un’opera di cui circolano però solo un paio di copie dallo statuto incerto (data la personalità di Duchamp, è persino possibile che l’originale non sia mai esistito).

7

Ma consideriamo un caso ancora più famoso di opera ipotetica, La battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci.

8

La storia del dipinto è istruttiva del rapporto tra arte, verità e

4. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione (1919), trad. di A. Giolitti, Einaudi, Torino 2004. Per uno sviluppo dell’argomento, si veda A. Dal Lago, Il politeismo moderno (1985), Ipoc Press, Milano 20132.

5. Anche i falsi accertati possono essere considerati più belli degli originali. Si veda il caso di Eric Hebborn, discusso qui alla nota 24.

6. H.S. Becker, I mondi dell’arte (1982), trad. a cura di M. Sassatelli, il Mulino, Bologna 2004.

7. Le copie, autenticate da Duchamp, appartengono alla collezione Arturo Schwarz.

Esse potrebbero essere copie di un originale perduto. Se però l’originale non c’è mai stato, potrebbero essere due unici, ma anche due simulacri (nel senso in cui ne discute G. Deleuze, Differenza e ripetizione, 1968, trad. di G. Guglielmi, il Mulino, Bologna 1972). Duchamp amava molto disseminare equivoci intorno alle sue opere.

8. G. Vasari, “Vita di Lionardo da Vinci, pittore e scultore fiorentino”, in Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti (1550), Newton Compton, Roma 1991, pp. 564-565.

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realtà storica. L’affresco, commissionato dalla repubblica di Firenze per il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, fu realizzato nel 1505 da Leonardo con una tecnica che si dimostrò fallimentare, l’encausto (la cui descrizione originaria si trova nella Storia naturale di Plinio il Vecchio), e in gran parte svanì letteralmente. Ciò che ne restava fu coperto da un dipinto di Vasari, che ammirava Leonardo e probabilmente voleva nascondere il suo scacco, oltre che completare la parete.

9

Alcuni fortunati, come l’erudito Paolo Giovio, riuscirono a vedere La battaglia di Anghiari prima che sparisse e furono toccati proprio dal suo strano destino.

10

Rubens ne fece una copia, ovvia- mente nel suo stile, che aveva poco a che fare con Leonardo (ma è certo che fece una copia di qualche altra copia, perché all’inizio del

XVII

secolo l’affresco originale era già scomparso, figura 1).

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A ben vedere, poi, anche l’evento che l’affresco doveva celebrare, la battaglia di Anghiari (tra fiorentini e milanesi, 1440) è incerto.

Machiavelli così ne parla: “Ed in tanta rotta e in sì lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì che un uomo, il quale non di ferite né d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò”.

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Ecco dunque che una pseudo-battaglia è nota soprattutto per un non-affresco che esiste solo nella dubbia

13

memoria dei contem-

9. L’affresco di Vasari La battaglia di Scannagallo in val di Chiana raffigura, tra l’altro, schiere di soldati con bandiere. In una di queste è riportata la scritta “cerca trova”, e ciò ha fatto pensare che Vasari alludesse alla sottostante Battaglia di Anghiari.

10. Secondo Giovio, quella che oggi chiameremmo aura dell’opera risiedeva proprio nella sua dissolvenza: “Il rammarico per il danno inatteso sembra avere straordinariamente accresciuto il fascino dell’opera interrotta”. La citazione si trova in M. Melani, “Il fascino dell’opera interrotta”. La Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci, Edizioni CB, Poggio a Caiano (Po) 2012.

11. La storia della Battaglia di Anghiari è così stratificata da renderne difficile la decifrazione: Raffaello fu tra i primi a copiarla dal vero, ma in seguito fu possibile riprodurla solo attraverso copie secondarie (di vari autori, per lo più anonimi). Si veda C. Pedretti (a cura di), La mente di Leonardo. Al tempo della “Battaglia di Anghiari”, Giunti, Firenze 2006.

12. N. Machiavelli, Istorie Fiorentine, libro V, cap. 33. Più in là Machiavelli sostiene che comunque la “vittoria” dei fiorentini segnò una svolta politica, e ciò è ancora più straordinario perché getta una certa luce sulla “realtà” degli eventi storici. Si veda anche N. Capponi, La battaglia di Anghiari. Il giorno che salvò il Rinascimento, il Saggiatore, Milano 2011.

13. Giovio è uno scrittore affascinante, ma assai liberale in termini di accertamento dei fatti, date ecc. Cfr. P. Giovio, Elogi degli uomini illustri (1546), Einaudi, Torino 2006. La vita di Leonardo è un frammento di questa opera incompiuta.

(30)

133

aut aut, 359, 2013, 133-150

Iconoclastia come strumento artistico.

Strategie iconoclaste nel cinema

BORIS GROYS

I l cinema non ha mai fatto parte di un contesto sacro. Fin dai suoi albori ha sempre percorso la strada oscura della vita profana e commer- ciale, eterno compagno dell’intrattenimento di massa da quattro soldi. Anche i tentativi di elevare il cinema intrapresi dai regimi totalitari nel

XX

secolo non hanno mai ottenuto successo: il risul- tato fu solo una breve lista di film per scopi propagandistici. La ragione di tutto questo non va cercata tanto nella natura del cine- ma come medium: il cinema è semplicemente arrivato troppo tardi. Al tempo della nascita del cinema, la cultura aveva già per- so il suo potenziale consacratorio. Quindi, date le sue origini laiche, sembrerebbe inappropriato associare a prima vista l’iconoclastia al cinema. I film, al massimo, sembrano solo in grado di rappre- sentare e illustrare scene storiche di iconoclastia, senza mai riusci- re a essere iconoclasti di per sé.

Nonostante ciò, si può sostenere che nel corso della sua storia di medium il cinema abbia intrapreso una lotta più o meno aperta contro altri media, tra cui pittura, scultura, architettura, compresi il teatro e l’opera lirica. Tutti questi media possono vantare origi- ni sacre che nella cultura odierna ancora permettono uno status aristocratico di arte “alta”. Tuttavia è proprio la demolizione di

Edizione originale: Iconoclasm as an artistic device: Iconoclastic strategies in film, in B. Latour, P. Weibel (a cura di), Iconoclash, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2002. La presente traduzione è tratta da B. Groys, Art Power, Postmedia Books, Milano 2012. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

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