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Segnalazione dello stato di insolvenza da parte del tribunale fallimentare e iniziativa per la dichiarazione di fallimento ad opera del pubblico ministero. La Corte di cassazione torna sui suoi passi. - Judicium

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1 ROBERTA TISCINI

Segnalazione dello stato di insolvenza da parte del tribunale fallimentare e iniziativa per la dichiarazione di fallimento ad opera del pubblico ministero. La Corte di cassazione torna sui

suoi passi.

Sommario: 1. L’interpretazione dell’art. 7 n. 2 l. fall. e i poteri di segnalazione del tribunale fallimentare. – 2.

Gli argomenti della Corte: a) la nozione di “procedimento civile”. – 3. b) L’argomento del “legislatore storico”. – 4. c) L’esigenza di terzietà-imparzialità del giudicante. – 5. Il ruolo del p.m. tra poteri e doveri di iniziativa. – 6. Il potere- dovere di segnalazione del tribunale fallimentare. – 7. La (nuova) posizione della Corte di cassazione, tra poteri-doveri di segnalazione e di iniziativa.

1. L’interpretazione dell’art. 7 n. 2 l. fall. e i poteri di segnalazione del tribunale fallimentare.

Con tre pronunce gemelle, la sezione I della Corte di cassazione ritorna su un tema tuttora oggetto di contrasti interpretativi (su di esso è perciò auspicabile l’intervento delle Sezioni Unite)1.

La questione ruota intorno alla legittimazione del tribunale fallimentare (come di qualsiasi altro giudice che la rilevi nel corso di un procedimento civile) a “segnalare” al p.m. l’insolvenza affinché quest’ultimo assuma l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento.

Stante la vigente disciplina (alla luce della novella del 20062), il fallimento è dichiarato su istanza (oltre che del debitore e di uno o più creditori) del p.m., il quale vi provvede quando l’insolvenza risulta: a) nel corso di un procedimento penale3 (art. 7 n. 1) l. fall.), ovvero, b) dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile (art. 7 n. 2 l. fall.). Dal 2006 scompare la legittimazione del tribunale fallimentare a provvedere in via ufficiosa4; il che, se da un lato rende evidente l’intenzione di sottrarre l’iniziativa allo stesso tribunale poi chiamato ad aprire la procedura, dall’altro non va letta quale aprioristica esclusione di

1 Si può discutere se sulla questione sussista allo stato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, mentre il contrasto è indubbio nella giurisprudenza di merito (vd. amplius infra nel testo). Le decisioni in epigrafe, più che segno di soluzioni difformi in seno alla Corte di cassazione, esprimono l’esigenza di disattendere il precedente orientamento già condiviso dalla stessa sezione I; sicché, non di “contrasto”, ma di “mutamento” di giurisprudenza si dovrebbe discutere. Tuttavia, quella in esame resta “questione di massima di particolare importanza” ex art. 374 c.p.c., tuttora controversa (non ultimi i dibattiti in dottrina). L’auspicio di un intervento delle Sezioni Unite muove quindi dall’esigenza che la loro partecipazione in chiave nomofilattica ponga ordine in una materia in cui le recenti riforme (lungi dal semplificare) hanno generato ulteriori dissesti.

2 Il d.lgs. n. 5/2006 modifica l’art. 6 l. fall. ed abroga l’art. 8 l. fall. così sopprimendo l’iniziativa ufficiosa per la dichiarazione di fallimento.

3 Nonché dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore.

4 Contemplata nel previgente art. 8 l. fall. (questo il testo dell’art. 8 cit. abr.: “se nel corso di un giudizio civile risulta l'insolvenza di un imprenditore che sia parte nel giudizio, il giudice ne riferisce al tribunale competente per la dichiarazione del fallimento”).

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2 un qualche (indiretto e strutturalmente diverso) potere di quel tribunale di segnalare al p.m.

situazioni tali da giustificare una istruttoria prefallimentare.

Si pone il seguente quesito: può il tribunale fallimentare che abbia avuto notizia della scientia decotionis (al quale ad esempio sia stata presentata una iniziale istanza di fallimento, poi abbandonata per desistenza del creditore) “segnalare” 5 al p.m. lo stato di insolvenza, invocando il

5 Altro è il problema circa le modalità della segnalazione, problema che assume connotati particolari nell’ipotesi in cui questa consegua alla archiviazione di una precedente istruttoria prefallimentare a seguito di desistenza del creditore. Ci si può interrogare se la segnalazione del tribunale debba avvenire unitamente al provvedimento che chiude il procedimento prefallimentare avviato dal creditore e non portato a compimento, ovvero se il giudice possa sospendere il procedimento ormai privo di un “domandante” nell’attesa dell’eventuale iniziativa del p.m. Prevale la tesi secondo cui, una volta presentata l’istanza di desistenza del creditore, il procedimento deve arrestarsi con dichiarazione di estinzione, o provvedimento equivalente (Trib. Pordenone, 16-09-2009, in Fall., 2010, 849, con nota di Rolfi, Desistenza dell’istanza di fallimento e regime delle spese; nel medesimo senso Cass. 26-2-2009, n. 4632, ivi, 2009, 521 ss. con nota di De Santis, Segnalazione d’insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice; Foro it., 2009, I, 1404, con osservazioni di Fabiani; Riv. dir. proc., 2010, 440, con nota di Marelli, Segnalazione di insolvenza al pubblico ministero da parte del tribunale fallimentare; Corr. giur., 2009, 925, con nota di M. Ferro, La terzietà spettatrice del giudice dell’insolvenza; Il civilista, 2009, 55 ss. con nota di Risolo, Fallimento: istanza del P.M. su segnalazione del tribunale fallimentare). Sul punto non ci si soffermerà in questa sede perché non oggetto di specifica indagine nelle pronunce in commento (si rinvia a Fabiani, Osservazioni a App. Milano, 29-11-2007, in Foro it., 2008, I, 621; Ferro, La terzietà spettatrice del giudice dell’insolvenza, cit. 929). Si tratta tuttavia di un problema la cui soluzione incide non poco su quello in esame.

Vi è chi (Auletta, L’”iniziativa per la dichiarazione di fallimento” (specie del “creditore sedicente o non legittimato o rinunciante”), in Fall., 2010, 129 ss.; Id, Irretrattabilità della “richiesta”, (in-)concludenza del fatto che “non interviene il Pubblico ministero che ha assunto l’iniziativa”, “conclusioni”: un’analisi dei poteri de. P.M. nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, in Giur. merito 2011, 2431; Id, Nostalgia e fascino del “fallimento dichiarato d’ufficio”: l’overruling sul fallimento a iniziativa giudiziaria complessa (su richiesta del p.m. per segnalazione del tribunale dopo la desistenza del creditore), in questa Rivista, in questo numero, p. … e in www.judicium.it) nega in capo al tribunale fallimentare il potere di segnalare lo stato di insolvenza ai sensi dell’art. 7 n.

2 l. fall. per l’assorbente ragione secondo cui – in caso di desistenza del creditore procedente – il giudicante non potrebbe chiudere la procedura dell’art. 15 l. fall. né con dichiarazione di estinzione né con altro atto equiparato. Ciò in quanto il procedimento volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento non è attivato sulla base di una “domanda” tecnicamente intesa (l’istanza di fallimento non è una “azione”), tanto che la legge non contempla altro che il dovere del tribunale di accogliere o rigettare l’istanza di fallimento (terium non datur): non l’estinzione, né l’improcedibilità andrebbero quindi pronunciate a seguito di desistenza del creditore e l’istruttoria prefallimentare dovrebbe proseguire. Se la soluzione fosse condivisa, il problema della segnalazione ad iniziativa del tribunale fallimentare già chiamato ad istruire il procedimento dell’art. 15 l. fall. poi conclusosi per desistenza del creditore non si porrebbe essendo quello stesso procedimento destinato a proseguire pure in mancanza di un interesse attuale dell’iniziale procedente (il problema che ci occupa sarebbe anticipato ed aggirato). Tuttavia, a parte il fatto che la soluzione non sembra trovare accoglimento nella attuale giurisprudenza, essa scioglierebbe il nodo nella sola ipotesi di desistenza del creditore, ma non offrirebbe una risposta generalizzante per tutti gli altri casi in cui il tribunale rilevi il sospetto di uno stato di insolvenza al di fuori dell’istruttoria prefallimentare.

La soluzione che impone l’estinzione immediata del procedimento prefallimentare a seguito di desistenza del creditore apre sotto altro profilo una breccia sulla tesi che legittima il tribunale a segnalare l’insolvenza al p.m. Si osserva (Ferro, La terzietà, cit., 931) che, se alla desistenza del ricorso di fallimento corrisponde il venir meno della pendenza della istruttoria, prima ancora di statuire sulla legittimità in astratto della trasmissione degli atti al p.m., se ne può contestare in limine la ritualità, perché la segnalazione dell’art. 7 n. 2 l.fall. presuppone il suo rilievo nel corso del procedimento (a procedimento pendente, quindi). L’osservazione, seppure pertinente, non sembra far pendere l’ago della bilancia contro la tesi restrittiva che nega al tribunale il potere di segnalazione: si può sempre ritenere che la segnalazione del tribunale possa avvenire contestualmente al provvedimento che pone fine all’istruttoria prefallimentare avviata su iniziativa del creditore (Fabiani, op. loco cit.). D’altra parte, anche questo è problema legato alla specificità del caso di desistenza del creditore e conseguente archiviazione del procedimento dell’art. 15 l. fall. Irrisolti resterebbero tutti gli altri casi in cui la segnalazione del tribunale provenga da procedimento diverso da quello prefallimentare che nulla ha a che vedere con la rinuncia del creditore.

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3 potere che generaliter l’art. 7 n. 2 l. fall. riconosce a qualsiasi giudice “che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile”?

Al quesito, buona parte della dottrina6 risponde in senso positivo, anche se non mancano autorevoli opinioni in direzione opposta7. Maggiori contrasti si rinvengono nella giurisprudenza8, non solo di merito, ma anche di legittimità. Nella direzione di una (auspicata ma non riuscita) sistemazione della materia va annoverata la prima pronuncia della Corte di cassazione sul tema (la n. 4632/20099), la quale escluse il potere del tribunale fallimentare di “sollecitare” al p.m. la relativa iniziativa10. Tuttavia, la sua incapacità a realizzare gli intenti “nomofilattici” (nella prospettiva della uniformazione degli indirizzi interpretativi) è confermata dalla giurisprudenza a seguire11. Nonostante l’adesione di taluni giudici di merito12, non sono mancate pronunce13 orientate in direzione opposta (volte a riconoscere al tribunale fallimentare il potere di segnalare l’insolvenza al p.m.)14. Sulla questione le sentenze in epigrafe intervengono aderendo alla soluzione a cui la stessa giurisprudenza di legittimità si era in precedenza opposta15.

6 Saletti, La tutela giurisdizionale nella legge fallimentare novellata, in Riv. dir. proc., 2006, 981; Fabiani, Commento sub art. 6-7, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio - coordinato da Fabiani,

Torino, 2006, 104 ss.; Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 50; Montanari, In tema di giudicato e decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, in Fall., 2008, 964; Cavalli, La dichiarazione di fallimento.

Presupposti e procedimento, in AA.VV., La riforma della legge fallimentare, a cura di Ambrosini, Bologna, 2006, 42;

Santangeli, Commento sub art. 7, in Il nuovo fallimento, Milano, 2006, 28; Donzi, L’iniziativa per la dichiarazione di fallimento: artt. 6 e 7 l. fall., in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da Fauceglia e Panzani, vol. I, Milano, 2009, 101 ss., spec. 120; Clemente-Arpea, Commento all’art. 6, in Nigro-Sandulli-Santoro, La legge fallimentare dopo la riforma, Torino, 2010, Tomo I, 74 ss.

7 Auletta, L’”iniziativa per la dichiarazione di fallimento”, cit., 129 ss.; Id, Iniziativa per la dichiarazione di fallimento e iniziativa del pubblico ministero, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, Milano, 2010, I, 115 ss., e 137 ss.; Id, Nostalgia e fascino del “fallimento dichiarato d’ufficio”, cit. Sembra propendere per una lettura restrittiva dell’art. 7 l. fall., seppure con riferimento al n. 1 art. 7 cit., Farina, La legittimazione del P.M. a presentare la

“richiesta” di fallimento in caso di insolvenza risultante il sede penale, in Fall., 2011, 1167 ss.

8 All’indomani della riforma del 2006, una parte della giurisprudenza di merito riteneva ancora possibile la sollecitazione ad opera del tribunale fallimentare e nei confronti del p.m. affinché fosse quest’ultimo a provvedere alla istanza di fallimento (Trib. Padova 23-11-2006, ined.; in senso contrario App. Milano, 29-11-2007, cit., secondo cui il riferimento contenuto nell’art. 7 n. 2 l. fall. ad ogni situazione di insolvenza emersa nel corso di un procedimento civile è da intendersi rivolto a “qualsiasi giudizio civile diverso da quello per la dichiarazione di fallimento”, dal momento che la contraria lettura “implicherebbe, nei fatti, la disapplicazione di una norma di carattere inderogabile voluta dal legislatore allo specifico fine di superare ogni contrasto con il principio del giusto processo sancito dal nuovo art. 111 Cost.”).

9 Cass. 26-2-2009, n. 4632, cit. Sembrano accettare favorevolmente la posizione della Cassazione – in quanto conforme ai principi di terzietà-imparzialità - Clemente-Arpea, Commento all’art. 7, cit., 85.

10 Così ritenendo nulla la sentenza di fallimento pronunciata su istanza del p.m. qualora quest’ultimo sia stato sollecitato dalla “segnalazione” provenuta dal tribunale fallimentare a seguito di rinuncia del creditore istante e di estinzione del giudizio di istruttoria prefallimentare.

11 Sulle divergenti posizioni della giurisprudenza vd. Dell’Osso, Sul meccanismo officioso nella procedura fallimentare e sul fallimento di società sottoposta ad attività di direzione e coordinamento, in Dir. fall., 2012, II, 290.

12 App. Milano, 7-10-2010, in Riv. dott. comm., 2011, 938.

13 App. Torino, 8-11-2010, in Fall. 2011, 327 con nota di Tiscini, Potere di azione per la dichiarazione di fallimento e potere di segnalazione dello stato di insolvenza: entità eterogenee a confronto; App. L’Aquila, 21-06-2011; Trib.

Roma, 27-01-2010, in Giur. merito, 2011, 438.

14 Così precisamente App. Torino, 8-11-2010, cit.

15 E per certi aspetti andando oltre, per un profilo di dubbia lettura e sul quale occorrerà riflettere (infra §§ 5-7).

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4 2. Gli argomenti della Corte: a) la nozione di “procedimento civile”.

La Corte di cassazione, in estrema sintesi, non solo (invocando l’art. 7 n. 2 l. fall.) ritiene possibile per il tribunale fallimentare segnalare al p.m. uno stato di insolvenza che per ragioni varie non ha già condotto alla apertura della procedura, ma anche individua un “dovere” per ogni giudice (ivi compreso lo stesso tribunale fallimentare) di effettuare la segnalazione (così come il “dovere”

del p.m. nella medesima situazione di assumere l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento16).

Premesso un generale apprezzamento per la conclusione a cui giungono le sentenze17, non si può tacere di alcuni profili di criticità18. La loro motivazione (speculare in direzione opposta rispetto a quella di Cass. n. 4632/2009), da un lato, ruota intorno al ruolo del p.m. nei confronti della notitia decotionis e nella prospettiva della dichiarazione di fallimento; da un altro, si concentra sull’esegesi dell’art. 7 n. 2 l. fall. Nell’esaminare le argomentazioni, si inizierà da quest’ultimo profilo19, lasciando al termine dell’indagine l’approfondimento del secondo20.

Prima questione affrontata (sinteticamente) in motivazione verte sul concetto di

“procedimento civile” dell’art. 7 n. 2 l. fall. nel cui corso il giudice (“civile”) può rilevare lo stato di insolvenza segnalabile al p.m. Osserva il giudicante che – essendo la nozione di procedimento civile diversa e più ampia di quella di giudizio civile – essa ricomprende senz’altro l’istruttoria prefallimentare dell’art. 15 l. fall.21 nella versione novellata dalla riforma del 2006, quale

“procedimento speciale a cognizione piena”22. E’ questo un profilo indiscusso (pacifico anche nella giurisprudenza precedentemente orientata in direzione opposta) e perciò di scarso rilievo pratico.

Non si è mai dubitato – dopo la novella del 2006 che ha sostituito la parola “giudizio” con quella di “procedimento” – che la sede giurisdizionale nella quale si rilevi l’insolvenza possa essere un procedimento, tanto a cognizione piena, quanto sommario23. Irrilevanti sono quindi i mutamenti strutturali che hanno interessato l’istruttoria prefallimentare (orientandola verso un giudizio

“pienamente cognitivo” anziché “sommario”)24. La qualificazione del “procedimento civile” come rito capace di accogliere una notitia decotionis ai fini dell’art. 7 n. 2 cit. non dipende dalla sua

16 Su quest’ultimo profilo, vd. amplius infra § 7.

17 Per altre considerazioni intorno alla condivisibile scelta nel medesimo senso della giurisprudenza di merito, sia consentito rinviare a Tiscini, Potere di azione, cit., 330 ss.

18 Infra §§ 5-7.

19 §§ 2, 3, e 4.

20 §§ 5, 6 e 7.

21 Le pronunce in epigrafe si occupano della sola ipotesi in cui il potere(-dovere) di segnalazione da parte del tribunale fallimentare sorge a seguito di una istruttoria ex art. 15 l. fall. conclusasi per desistenza del creditore. Si è già rilevato tuttavia (supra nt. 5) come ben più ampio sia il problema della legittimazione del tribunale fallimentare ex art. 7 n. 2 l.

fall. alla segnalazione dello stato di insolvenza, analoghe questioni ponendosi qualora la notitia decotionis sia rilevata in procedimenti civili di altra natura.

22 Cita su tale qualificazione del procedimento Cass. 22-01-2010, n. 1098.

23 In questo senso era orientata la già citata Cass. 26-02-2009 n. 4632, cit., la quale aveva rilevato ulteriormente come l’espressione utilizzata nell’art. 7 n. 2 l. fall. fosse idonea a ricomprendere “qualunque tipo di attività giurisdizionale”, sia essa “di cognizione, di esecuzione, sommaria, cautelare, camerale, monitoria”.

24 D’altra parte, ancorché “pienamente cognitivo”, il procedimento prefallimentare resta pur sempre “speciale”, sicché una lettura stretta dell’art. 7 n. 2 l. fall. tale da ricomprendere il solo giudizio ordinario di cognizione non sarebbe comunque bastata per estendere all’istruttoria dell’art. 15 l. fall. la portata applicativa della disposizione in esame.

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5 natura (ordinario o speciale), né dalla sua consistenza (sommario o a cognizione piena), né ancora dall’oggetto (dichiarativo, esecutivo, cautelare), la dizione dell’art. 7 n. 2 l. fall. essendo talmente generica da includere qualsiasi procedimento, a prescindere da oggetto, natura e struttura.

Pertanto, l’istruttoria prefallimentare (non conclusa né con dichiarazione di fallimento né con rigetto dell’istanza) avrebbe potuto dirsi “procedimento civile”, nel cui corso immaginare il potere di “segnalazione” al p.m., pure nella sua versione previgente (quando caratterizzata da una struttura evidentemente sommaria). Che essa sia oggi più garantista di ieri (ai fini del giusto processo) senz’altro giova al procedimento ma non incide sull’ambito di applicazione dell’art. 7 l.

fall.

3. b) L’argomento del “legislatore storico”.

Altro argomento su cui poggiano le sentenze è quello del “legislatore storico”, ricostruendo le intenzioni della riforma alla luce della Relazione illustrativa al d.lgs. n. 5/2006. Quest’ultima riconosce che “la soppressione della dichiarazione di fallimento di ufficio… risulta bilanciata dall’affidamento al pubblico ministero del potere di dar corso all’istanza di fallimento su segnalazione qualificata proveniente dal giudice al quale, nel corso di qualsiasi procedimento civile, risulti l’insolvenza di un imprenditore; quindi anche nei casi di rinuncia (desistenza) al ricorso per dichiarazione di fallimento da parte dei creditori istanti”. Il che induce a pensare che l’eliminazione dell’iniziativa ufficiosa non vada letta quale volontà di sottrarre al tribunale fallimentare il potere di segnalazione.

Anche questo è argomento che non vale più del suo contrario, tanto da essere invocato pure dalla precedente Cass. n. 4632/2009 in direzione opposta. Osservava quest’ultima come – anche a voler prescindere dal valore non vincolante della Relazione illustrativa25 - i successivi interventi correttivi (al d.lgs. n. 5/2006) del d.lgs. n. 169/2007 confermano la volontà di rendere estranea al sistema l’ingerenza del giudicante sulla nascita e sulla ultrattività del procedimento così rimarcando in modo netto l’esigenza di sottrarre al tribunale ogni tipo di iniziativa officiosa.

Antitetica è la sentenza in commento, la quale rileva come dall’intenzione storica del legislatore – seppure in concreto non vincolante per l’interprete – non si può prescindere se conforme al risultato del procedimento ermeneutico condotto alla luce dei criteri indicati dall’art. 12 preleggi26. Con la conseguenza che “se i lavori preparatori hanno un valore limitato, esistono

25 Nonché dal carattere meramente esemplificativo della casistica concreta rappresentata nella Relazione (che invoca la desistenza del creditore), non espressa da alcun dato normativo.

26 Il che è confermabile dalle pronunce della Corte costituzionale, che non esita a porre a base dell’interpretazione letterale del precetto anche il riferimento alla relazione illustrativa del relativo testo normativo (Corte cost. 23-03-2010, n. 138; Corte cost. 3-05-2005, n. 282; Corte cost., 11-07-1985, n. 214; Corte cost., 7-05-1975, n. 120).

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6 alcuni casi in cui è legittimo fare ricorso al cd. “argomento psicologico”, almeno come argomento ausiliario”27.

E’ evidente l’antinomia tra le due posizioni assunte in successione dalla stessa sezione I della Corte di cassazione. La prima (n. 4632/2009) invoca l’interpretazione storica per leggere nelle intenzioni della riforma quella di privare il tribunale fallimentare di ogni potere (non solo di iniziativa, ma anche) di sollecitazione verso la dichiarazione di fallimento. La seconda (nn.

9858/2012, 9857/2012, 9871/2012) utilizza il medesimo argomento per giungere alla soluzione contraria. Il bilanciamento tra le due opposte posizioni conduce allo zero, confermando come l’argomento del legislatore storico, seppure sostenibile, non è di certo sufficiente.

4. c) L’esigenza di terzietà-imparzialità del giudicante.

La motivazione muove poi verso le garanzie di terzietà-imparzialità del tribunale fallimentare abilitato a sollecitare al p.m. l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento.

Premesso che “giudice civile è anche il tribunale fallimentare che abbia rilevato l’insolvenza nel corso di un procedimento ex art. 15 l.fall., anche se definito per desistenza del creditore”, occorre chiedersi se la sua “segnalazione” al p.m. sia compatibile con l’art. 111 cost. Sul punto, le sentenze rilevano come la trasmissione al p.m. della notitia decotionis emersa nel corso dell’istruttoria prefallimentare “non è un atto avente contenuto decisorio, neppure come precipitato di una cognizione di tipo sommario e non incide – né direttamente, né indirettamente – sui diritti di alcuno mentre il giudice che a ciò procede non fa altro che esercitare il potere-dovere di denunzia di fatti che prima facie gli appaiano potenzialmente lesivi dell’interesse pubblico ad eliminare dal sistema economico i focolai dell’insolvenza”. Pertanto, in quanto “atto neutro” privo di valenza decisoria, fondato su “valutazioni estemporanee, che non vincolano nessuno”, esso è privo della capacità di “pregiudicare” la successiva indagine del tribunale circa l’effettiva sussistenza dello stato di insolvenza28.

Pure questo è argomento che vede contrapposte le due posizioni della I sezione. In proposito, Cass. 4632/2009 invoca – conformandosi ad una tesi sostenuta sotto il previgente testo – le esigenze di terzietà e imparzialità dell’organo decidente rimarcate dal nuovo art. 111 cost. e perciò apprezzate come essenziali ai fini del corretto svolgimento del procedimento prefallimentare, allo scopo di “evitare che il giudice che decide possa anche solo apparire come l’attore del procedimento del quale si giudica”29. Questione – questa – su cui si era soffermata la Consulta30,

27 Cita in proposito, Cass. SU 26-01-2004, n. 1338; Cass. 17-01-2003, n. 654; Cass. 16-03-1996, n. 2238; Cass. 27-02- 1995, n. 2230; Cass. SU 30-10-1992, n. 11843; Cass. 7-12-1994, n. 10480.

28 Tanto che “il tribunale, all’esito dell’istruttoria prefallimentare, può rigettare con decreto la richiesta del pubblico ministero”.

29 Cass. 26-02-2009, n. 4632, cit. Chiarisce poi la Corte che in senso contrario neppure potrebbero invocarsi gli istituti della astensione e ricusazione, quali rimedi all’evenienza in cui (nel caso concreto) si attenti alla terzietà del giudicante.

A parte le difficoltà di inserire la fattispecie di cui si tratta nelle ipotesi di astensione obbligatoria, neppure sembrano

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7 ritenendo infondato il sospetto di illegittimità costituzionale dell’art. 6 l. fall. – vecchio testo – nella parte in cui contemplava l’iniziativa ufficiosa per la dichiarazione di fallimento. La disposizione era infatti da ritenere conforme all’art. 111 comma 2 cost. laddove sancisce il principio di terzietà e imparzialità del giudicante31, dal momento che in sede di istruttoria prefallimentare il tribunale conserva(va) il fondamentale requisito di soggetto super partes ed equidistante rispetto agli interessi coinvolti32. Sul medesimo punto si era soffermata poi la Relazione illustrativa al d.lgs. n.

6/2005, chiarendo – con riferimento alla soppressione dell’iniziativa ufficiosa – che l’intendimento della riforma era quello di eliminare ogni dubbio circa l’eventuale contrasto della allora vigente situazione normativa con le garanzie di terzietà-imparzialità del giudicante33.

In un sistema in cui al potere di “iniziativa” del tribunale fallimentare si sostituisce (eventualmente) quello di “segnalazione”, la conformità a Costituzione della vigente disciplina non può che essere confermata. Seppure qualche dubbio si poneva quando il tribunale fallimentare esercitava officiosamente il potere di “azione”34, analoghi dubbi non possono trovare diritto di cittadinanza nell’attuale regime. Condivisibili sono le considerazioni delle sentenze in commento, laddove rilevano come nel “segnalare” al p.m. un eventuale stato di insolvenza, il tribunale fallimentare non esercita alcun potere decisorio-cognitivo. Il che fa venir meno il presupposto su cui si fonda il rischio di violazione della terzietà del giudicante (che il giudice torni a decidere della medesima res iudicata già esaminata in altro precedente “grado” di giudizio35). L’attività dell’ufficio giudiziario che “segnala” al p.m. l’(eventuale) stato di insolvenza è cosa molto diversa da quella di un ufficio giudiziario che “conosce” ed indaga circa la sussistenza di tale stato di insolvenza: solo quest’ultima – a differenza della prima - avente carattere decisorio e cognitivo.

Mancando il sospetto di una duplicazione della medesima res iudicanda, neppure vale la pena di discutere di incompatibilità.

ipotizzabili, sul piano sistematico, interpretazioni che legittimino pratiche operative che non siano rigorosamente consonanti con il rispetto del principio di terzietà, oltre che di imparzialità del giudicante.

30 Corte cost. 15-07-2003, n. 240, in Foro it., 2003, I, 2513; in Fall. 2003, 1049, con nota di Lo Cascio.

31 Principio che la Consulta ritiene non nuovo, essendo l’art. 111 comma 2 cost. come novellato dalla l. n. 2/1999 la conferma di un valore che, in quanto connaturale alla funzione giurisdizionale, aveva riconoscimento costituzionale pure nel previgente sistema (Corte cost. 15-07-2003, n. 240, cit.).

32 “Il che si verifica nel caso in cui la conoscenza di una situazione di fatto in ipotesi riconducibile allo stato di insolvenza (“notitia decotionis”) derivi non già dalla scienza privata del giudice, ma da una fonte qualificata, perché formalmente acquisita nel corso di un procedimento, del quale il giudice sia, come tale, investito” (Corte cost. 15-07- 2003, n. 240 cit.).

33 Questione peraltro che la Corte costituzionale aveva già risolto nel medesimo senso.

34 Sempre che di vero di vero potere di azione si tratta. Nega che possa qualificarsi come “azione” l’istanza di fallimento proposta dal creditore (maiori causa l’iniziativa ufficiosa) Auletta, L’”iniziativa, cit., 129 (vd. infra § 5);

contra Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, Padova, 2012, 70.

35 È stabile la giurisprudenza costituzionale nel rilevare come la garanzia di terzietà del giudicante abbia lo scopo di evitare che il medesimo giudice torni più volte sulla materia del contendere (Corte cost. 14-05-2010, n. 177; Corte cost.

18-03-2004, n. 101).

(8)

8 In sintesi, non essendovi nel caso considerato un “giudicante” (il tribunale che segnala lo stato di insolvenza è lungi dal giudicare alcunché), non merita spazio alcuno la questione della sua terzietà36.

5. Il ruolo del p.m. tra poteri e doveri di iniziativa.

Veniamo al “ruolo” del p.m., discorso che interessa entrambe le fattispecie dell’art. 7 l. fall., sia che la scientia decotionis risulti nel corso di un procedimento penale (art. 7 n. 1 l. fall.), sia che emerga all’interno di un procedimento civile (art. 7 n. 2 l. fall.).

Tenuto conto delle modifiche apportate al n. 1 art. 7 l. fall. 37 (secondo cui l’insolvenza non deve più risultare solo in procedimento penale contro l’imprenditore, ma anche in qualsiasi procedura aliunde indirizzata38), l’attribuzione dell’iniziativa al p.m. denota la volontà di costruire intorno a tale organo la figura di un soggetto terzo a cui la notitia decotionis sia pervenuta dall’esterno e proprio perciò legittimato a proporre l’istanza di fallimento. Premesso che questo inquadramento richiama l’esigenza (confermata in ambito fallimentare)39 di assicurare terzietà al giudicante, occorre interrogarsi sulla funzione del p.m. nel diverso contesto civile e penale; occorre cioè chiedersi se le esigenze che giustificano l’iniziativa ai fini del fallimento quando la notizia dello stato di insolvenza sia acquisita in un procedimento penale siano le stesse che abilitano alla sollecitazione del giudice civile.

E’ opinione che non manca di destare critiche quella secondo cui il p.m. è destinatario del potere-dovere di assumere l’iniziativa quando l’insolvenza emerge non solo nel corso di indagini assunte nell’ambito di un procedimento penale, ma anche se la medesima notizia è desunta dalla condotta dell’imprenditore non necessariamente estrinsecantesi in ipotesi di reato, a prescindere dalla pendenza di un procedimento penale40. Siffatta lettura appare in linea con quella che - nel

36 È quindi ultronea la considerazione svolta in sentenza secondo cui “la natura di valutazione prima facie dell’insolvenza e il potere esercitato dal tribunale fallimentare a seguito di cognizione piena, se del caso difformemente da quella prima valutazione, sta a confermare, semmai, la terzietà dell’organo giudicante”. Non ha alcun rilievo il fatto che l’attività del tribunale sia “sommaria” o “piena”, dato che in ogni caso non è attività cognitiva. Non ha diritto di cittadinanza perciò il dubbio di duplicazione della cognizione.

37 Sul tema vd. da ultimo Cass. 21-04-2011, n. 9260, in Riv. dir. proc., 2012, 780, con nota di Auletta, Ancora sui della legittimazione del p.m. all’istanza di fallimento, e in Fall., 2011, 1163, con nota di Farina, La legittimazione del P.M. a presentare la “richiesta” di fallimento in casi di insolvenza risultante in sede penale, cit., e di Salvato, Accertamento dell’insolvenza di società di capitali facente parte di un “gruppo”..

38 Nel passaggio dalla vecchia alla nuova versione dell’art. 7 l. fall., scomparendo la parola “imprenditore”, se ne è estesa la portata applicativa, potendo il p.m. acquisire la notizia dello stato di insolvenza non solo nel corso di un procedimento penale rivolto direttamente nei confronti dell’imprenditore, ma anche di qualsiasi altro procedimento penale.

39 Supra § precedente.

40 Cass. 21-04-2011, n. 9260, cit. In critica a tale sentenza, Auletta, Ancora sui limiti della legittimazione del p.m.

all’istanza di fallimento, cit., 782 ss. , nonché Farina, La legittimazione del P.M., cit., 1170 ss. Per l’opinione contraria secondo cui a norma dell’art. 7 n. 1 l. fall. ai fini della legittimazione del p.m. alla proposizione dell’istanza di fallimento è necessaria la pendenza di un procedimento penale nei confronti dell’imprenditore nel cui corso sia risultato lo stato di insolvenza, vd. app. Milano, 13-01-2011, n. 55, in Riv. dir. proc., 2011, 698, con nota adesiva di Auletta, Limiti della legittimazione del P.M. all’istanza di fallimento.

(9)

9 contesto civile – abilita il p.m. a proporre l’istanza di fallimento quando la segnalazione dello stato di insolvenza proviene dallo stesso tribunale fallimentare. Entrambe intendono in senso estensivo la legittimazione del p.m., l’una (in campo civilistico) ammettendola anche su segnalazione del tribunale fallimentare; l’altra (nel settore penalistico) riconoscendola al di fuori di procedimenti diretti contro l’imprenditore aventi ad oggetto notizie di reato.

Si tratta di due soluzioni che non convincono quella autorevole dottrina secondo cui l’iniziativa del p.m. (cardine di garanzia) può ammettersi solo quando la notitia decotionis è acquisita in procedimenti (civile o penale) nei confronti dell’imprenditore necessariamente preordinati ad altro (in ambito civilistico, quindi, non nel giudizio volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento)41. A ben vedere - seppure in contesti profondamente diversi, penale e civile, in cui muta il ruolo del p.m. – in entrambi compaiono elementi comuni la cui individuazione in qualche modo conferma la soluzione condivisa dalle sentenze in commento.

In entrambi, l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento esprime un potere pubblicistico che si concreta nell’esigenza di avviare la procedura concorsuale ogni qualvolta, pur rilevandosi lo stato di decozione42, manca l’istanza privata. In entrambi, l’iniziativa può derivare da procedimenti che interessano direttamente l’imprenditore, ma può anche prescinderne43.

Vi è invece un ulteriore profilo (rispetto a cui le sentenze in esame sollecitano qualche riflessione) che riguarda la sussistenza di un “potere” ovvero di un “dovere” del p.m. di proporre l’istanza di fallimento; profilo che genera un distinguo tra settore civile e penale.

Sicuramente, nelle ipotesi di p.m. attore, la parte pubblica ha anche il “dovere” di esercitare l’azione per la dichiarazione di fallimento (civile o penale)44. Dubbi sussistono invece intorno alla possibilità di estendere la legittimazione in ipotesi diverse da quelle esplicitate. Qui in effetti è bene distinguere le fattispecie civili da quelle penali.

Mentre nel contesto civile l’azione non è mai doverosa, in sede penale, l’azione del p.m. è connaturata alla doverosità; con la conseguenza – si osserva opportunamente45 – che, mentre la doverosità si impone nell’istanza di fallimento quando la relativa notizia è legata a fattispecie penalmente rilevanti, la medesima doverosità non si può riconoscere quando lo stato di insolvenza è rilevato nel corso di un procedimento civile46. In quest’ultimo contesto, infatti, non solo tra le

41 In questo senso Auletta, Ancora sui limiti, cit., 785. Vd. anche dell’A., Id, Nostalgia e fascino, cit., § 2 ss.

42 Il che non deve sfociare nell’attribuzione allo stesso p.m. del generale potere di esercitare un controllo sull’attività degli imprenditori al di fuori dei casi indicati dalla legge (Cecchella, voce procedure concorsuali – apertura del fallimento, in Il diritto. Enc. giur., vol. XI, Milano, 2007, 606 cui adde Auletta, Ancora sui limiti, cit., 787), né incide sulla qualificazione in termini privatistici o pubblicistici della procedura (sul punto, sia consentito rinviare a Tiscini, Potere di azione per la dichiarazione di fallimento, cit., 330).

43 In senso contrario, Auletta, Ancora, cit., 787.

44 Così anche la relazione illustrativa al d.lgs.n. 5/2006 che ha modificato la relativa disciplina della legge fallimentare.

Sul tema, vd. approfonditamente Auletta, L’”iniziativa per la dichiarazione di fallimento” (specie del “creditore sedicente o non legittimato o rinunciante”), cit., 135.

45 Auletta, L’”iniziativa, cit., 136.

46 Diversi argomenti utilizza Auletta, op. loco cit. a sostegno della tesi qui rilevata: il fatto ad esempio che la legittimazione dell’art. 7 n. 2 l. fall. non sia iscritta nella elencazione (tassativa) dell’art. 69 c.p.c.; il fatto che il p.m.

non è riconosciuto nell’istruttoria prefallimentare litisconsorte necessario né è destinatario delle comunicazioni degli atti

(10)

10 fattispecie di doverosità elencate dall’art. 69 c.p.c. non rientra l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento, ma neppure il p.m. dispone di un generale dovere di proporre l’istanza47. L’esistenza di un “dovere” del p.m. di assumere l’iniziativa si impone invece quale elemento costitutivo di una fattispecie più complessa di cui fa parte l’ulteriore elemento (necessario) dello stato di insolvenza.

L’iniziativa del p.m. va quindi intesa come “vincolante” per la parte pubblica nel senso che quest’ultima è tenuta ad attivare la procedura prefallimentare qualora ne ricorrano i presupposti, in primis, l’insolvenza48.

In altri termini, pure escludendosi un generale “dovere di azione” del p.m. in ipotesi esterne a quelle elencate nell’art. 7 l. fall.49, non si può negare il suo dovere di proporre l’istanza nelle ipotesi indicate nello stesso art. 7 l. fall., alla condizione però che ne sussistano i presupposti50.

6. Il potere-dovere di segnalazione del tribunale fallimentare.

Occorre allora verificare come si atteggi rispetto alla questione51 dei poteri-doveri del p.m., quella del potere(-dovere?) di “segnalazione” spettante al tribunale fallimentare. Vi è chi52 utilizza l’argomento della tassatività delle ipotesi di legittimazione del p.m. per escludere che spetti al tribunale fallimentare il potere di segnalazione ex art. 7 n. 2 l. fall. Secondo Auletta53, riconoscendo al tribunale fallimentare il potere-dovere di segnalare l’insolvenza, e coordinando quest’ultimo con il dovere del p.m. di assumere l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento qualora ne sussistano i presupposti54, si giungerebbe alla conclusione (inaccettabile) di compromettere la terzietà del giudicante. Si realizzerebbe infatti la seguente (non condivisibile) situazione: a) il tribunale fallimentare segnala al p.m. l’insolvenza rilevata nel corso di una istruttoria non portata a compimento (per desistenza del creditore); b) il p.m. è “tenuto” ad assumere l’iniziativa; c) l’affare torna davanti al medesimo tribunale dal quale l’iniziativa (sub specie di segnalazione) è provenuta, con la conseguente compromissione della terzietà del giudicante55.

ai sensi dell’art. 71 comma 1 c.p.c.; il fatto che il p.m. è escluso dal novero dei legittimati a proporre reclamo contro la sentenza che dichiara il fallimento; il fatto che solo il p.m. richiedente può gravarsi contro il provvedimento che rigetta l’istanza di fallimento.

47 Ciò anche in considerazione del fatto che l’organo pubblico non può operare se non al di fuori dei casi previsti dalla legge (Auletta, L’”iniziativa, cit., 138).

48 In questo senso il dato testuale dell’art. 7 comma 1 l. fall. stando al quale il p.m. “presenta” la richiesta di cui all’art. 6 l. fall. ogni qualvolta egli riceva la notitia decotionis (Auletta, L’”iniziativa, cit., 138).

49 Cioè quando l’insolvenza non risulta nel corso di un procedimento penale (n. 2 art. 7 l. fall.), ovvero quando essa non risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice civile (n. 2 art. 7 l. fall.).

50 Su quest’ultimo profilo, amplius infra § successivo.

51 Su cui supra § precedente.

52 Ancora Auletta, L’”iniziativa, cit., 138.

53 Auletta, L’”iniziativa, cit., 138; Id, Nostalgia e fascino, cit., § 2.

54 Qualora il p.m. accerti la sussistenza dello stato di insolvenza (§ precedente).

55 Auletta, L’”iniziativa, cit., 138 (“si potrebbe dire in tal caso che l’attore mediato è il tribunale, quello immediato è il p.m., ma senza così aver mai rimosso effettivamente la vietata figura del giudice-attore”); Id, Nostalgia e fascino, cit., § 2. Nello stesso senso Montanari, profili processuali del buono concordato preventivo, in Giusto proc. civ., 2009, 733.

(11)

11 A noi sembra – di contro – che la consequenzialità tra segnalazione-iniziativa del p.m.- dichiarazione di fallimento non è così lineare, proprio in ragione di un diverso equilibrio tra poteri- doveri degli organi interessati; il che annacqua il rischio di condizionamento del giudicante. Prevale la discrezionalità, tanto del giudice chiamato a “segnalare”, quanto del p.m. “agente” circa la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, e con ciò si incrina l’apparente automaticità56. La discrezionalità opera per lo meno sotto due profili.

Il primo ruota intorno alla individuazione dello stato di insolvenza (elemento della fattispecie costitutiva del fallimento). Data la innegabile elasticità (pure nella mutata versione dell’art. 5 comma 2 l. fall.) della nozione di “insolvenza”, è inevitabile che la valutazione operata dal giudice civile circa la sussistenza dello stato di decozione potrebbe non coincidere con quella che compie il p.m. sul medesimo presupposto. Né d’altra parte, una volta assunta l’iniziativa ad opera del p.m. (pure su segnalazione del giudice civile), il tribunale chiamato ad istruire la fase prefallimentare ha alcun vincolo a dichiarare il fallimento, ben potendo respingere la relativa istanza57.

Il secondo incide sulla “segnalazione”. Va escluso che il “giudice civile” sia gravato di un dovere di segnalazione, ponendosi piuttosto a suo carico un potere ampiamente elastico. Intorno alla

“segnalazione” non ruotano doveri processualmente rilevanti corrispondenti a quelli che gravano sulla parte pubblica che nel sistema civilistico esercita l’”azione”58. Può perciò ben accadere che il giudice civile sospetti (senza accertare alcunché) lo stato di insolvenza e tuttavia, nell’incertezza, ritenga “opportuno” segnalare al p.m. affinché quest’ultimo valuti con maggiore cognizione gli elementi costitutivi del fallimento. Valutazione, questa, che il p.m. compie disponendo di un potere ulteriormente discrezionale. Nella legge non vi è traccia di un “dovere di segnalazione” in capo al

“giudice civile”, né egli è chiamato all’uopo a svolgere alcuna istruttoria: basta un generalissimo fumus, non supportato da indagini istruttorie circa la sussistenza dell’insolvenza, per giustificare la segnalazione, senza che ciò condizioni in alcun modo il p.m., pur sempre libero di orientarsi in direzione opposta59. Né, una volta assunta l‘iniziativa per la dichiarazione di fallimento, è automatica la apertura della procedura, ben potendo il tribunale rigettare l’istanza.

Argomenti analoghi valgono quando la “segnalazione” proviene dallo stesso tribunale fallimentare. Ipotizziamo che quest’ultimo, investito inizialmente di una istruttoria prefallimentare, archivi la procedura per desistenza del creditore e che l’archiviazione subentri ad uno stato in cui sussistono elementi solo per “sospettare” l’insolvenza, senza alcun accertamento in proposito.

Sottraendo al tribunale fallimentare il potere di segnalazione ex art. 7 l. fall., quel sospetto non avrebbe seguito (salvo che l’iniziativa non provenga dagli altri legittimati ex art. 6 l. fall.);

estendendo invece il potere di segnalazione nel caso considerato, sarebbe ben possibile che un mero

56 In questo senso già App. Torino, 8-11-2010, cit.; Trib. Mantova 12-03-2009, in Fall., 2009, 1002; in senso contrario:

App. Milano 29-11-2007, cit.

57 Così anche le sentenze in esame, che riconoscono che “il tribunale, all’esito dell’istruttoria prefallimentare, può rigettare con decreto la richiesta del pubblico ministero”.

58 Sulla differenza tra “azione” e “segnalazione” sia consentito rinviare a Tiscini, Potere di azione, cit., 337.

59 App. Torino 8-11-2010, cit.

(12)

12

“sospetto” del tribunale fallimentare non sostenuto da indagini concrete si riversi in un procedimento i cui successivi passaggi (prima attraverso il p.m. chiamato ad assumere l’iniziativa, poi per mano dello stesso tribunale competente ad istruire la procedura prefallimentare) conducano con ragionevole certezza alla dichiarazione di fallimento. Accade anche qui peraltro che – pure in presenza di una segnalazione provenuta dal tribunale fallimentare – l’esito dell’istruttoria ex art. 15 l. fall. si risolva nel rigetto dell’istanza di fallimento.

In altri e più semplici termini, il meccanismo funziona (il tribunale è legittimato a

“segnalare” al p.m. lo stato di insolvenza) nei limiti in cui gli organi coinvolti (tribunale che segnala e p.m. che propone la “domanda”) non siano vincolati nel valutare la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. Che sia così nel caso considerato lo dimostra il fatto che né l’uno (il tribunale che segnala) né l’altro (il p.m. che propone l’istanza) dispongono ex lege di poteri istruttori, né sono legittimati ad esercitarli. Solo il tribunale nella qualità di giudice competente per la fase prefallimentare “decide” sullo stato di decozione all’esito di una istruttoria che le più recenti riforme hanno reso “pienamente cognitiva”. Sicché, pure nella coincidenza dell’organo (il tribunale fallimentare), ben diverse sono le rispettive attività: altro è la segnalazione dello stato di insolvenza, altro è l’istruttoria che precede (eventualmente) la dichiarazione di fallimento.

7. La (nuova) posizione della Corte di cassazione, tra poteri-doveri di segnalazione e di iniziativa.

Occorre allora verificare se ed in che modo le sentenze in esame confermino l’impianto sopra esposto.

Rileva la motivazione che “il nuovo art. 7 l. fall. va letto nel senso che, ove un giudice civile, nel corso di un procedimento civile, rilevi l’insolvenza di un imprenditore “deve” farne segnalazione al pubblico Ministero e specularmente – il pubblico ministero presenta la richiesta di cui al comma 1 art. 6 “quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile”. Per il resto, tace sul punto, non chiarendo in che termini sussista il “dovere” del giudice civile (individuabile nel tribunale fallimentare) di segnalare lo stato di insolvenza, nonché in che termini a tale dovere corrisponda un “dovere” del p.m. di assumere l’iniziativa (va invece sicuramente escluso che il tribunale in sede di istruttoria prefallimentare abbia il dovere di dichiarare il fallimento, ben potendo rigettare l’istanza quale che sia il soggetto agente).

Ci piace pensare che nell’utilizzare il verbo “dovere” per evocare l’attività di segnalazione incombente sul tribunale fallimentare si sia in effetti inteso un meno impegnativo e non vincolante

“potere”.

(13)

13 Si è detto60 che il sistema è in equilibrio nei limiti in cui alla mancanza di riconosciuti poteri istruttori in sede di segnalazione non conseguano meccanismi automatici, e quindi che l’organo abilitato a segnalare non sia mai a ciò vincolato61. Il “dovere” di “segnalare” potrebbe infatti contemplarsi solo qualora l’organo legittimato vi proceda sulla base di una indagine più o meno approfondita (ove imposta ex lege attraverso l’attribuzione di poteri istruttori). Di contro, il generico e processualmente indecifrato “potere di segnalazione” dell’art. 7 l. fall. esprime una attività che può derivare da un mero sospetto non provato né provabile, ben altra essendo l’indagine da compiere in sede di istruttoria prefallimentare.

Concludendo. Nonostante il medesimo tribunale sia abilitato in un primo momento a

“segnalare” e poi ad “istruire” la procedura per la dichiarazione di fallimento, diverse sono le attività su di esso incombenti, tenuto conto delle profonde differenze in punto di istruttoria, assente nel primo caso, presente nel secondo (il tutto attraverso il diaframma dell’iniziativa di parte pubblica). L’identità dell’organo, allora, nulla toglie alla diversità della funzione, ed è sulla funzione che occorre misurare la sua terzietà62.

60 Supra § precedente.

61 L’uso tra virgolette del verbo “dovere” di segnalazione nella motivazione delle sentenze in epigrafe indurrebbe a rilevare una attività vincolata, ma la sinteticità dell’argomentazione sul punto legittima a letture alternative. Trattandosi di questione nodale, non basta l’intuizione di un verbo virgolettato per giungere ad una conclusione che avrebbe meritato ben altro approfondimento ricostruttivo.

62 Il che è quanto confermano le sentenze nel qualificare la segnalazione come “atto neutro” (supra § 4).

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