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La nuova figura del giudice civile tra riforme processuali, moduli organizzativi e protocolli d'udienza - Judicium

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La nuova figura del giudice civile tra riforme processuali, moduli organizzativi e protocolli d'udienza

SOMMARIO: 1. Evoluzione; 2. Organizzazione; 3.Proporzionalità; 4. Canali privilegiati e prevenzione; 5. Oralità; 6. Istruttoria; 7. Specializzazione; 8. Condivisione; 9. Le parti; 10.

Decisione; 11. Conciliazione; 12. Agenda; 13. Protocolli

1. Evoluzione Come indica con lineare sintesi il titolo di questa riflessione pratica, nell'ultimo decennio si è manifestata gradatamente una incisiva evoluzione della quotidianità giudiziaria, frutto indubbio della riforma costituzionale del 1999 (1) che, modificando l'art.111, ha affiancato al principio del giusto processo (già evincibile dell'art.24) il principio della sua ragionevole durata. Le ricadute, progressivamente sempre più ampie, come sintetizza proprio la sequenza del titolo si sono focalizzate da un lato sul piano normativo-giurisprudenziale, dall'altro sul piano organizzativo. Ma la specifica sostanza del nuovo principio costituzionale ha fatto sì che, in effetti, questi due piani si siano sempre più ravvicinati fino a giungere ad una sorta di ibrido spontaneo, quale possono qualificarsi, come si vedrà, i c.d. protocolli d'udienza. È bene allora ricostruire il correlativo sviluppo di nuova mentalità e nuove esigenze partendo proprio da una netta caratteristica del principio in questione, cioè l'incidenza sull'aspetto organizzativo, per vagliare il quale, peraltro, non ci si può discostare realmente dall'aspetto ermeneutico, essendosi instaurata una evidente complementarietà. L'ottica costituzionalmente orientata con cui considerare il processo civile si è incisivamente modificata nel momento in cui la ragionevole durata è entrata nel gioco di bilanciamento dei valori costituzionali. In tal modo la celerità processuale si è costituzionalmente elevata a elemento ontologico della giustizia, scavalcando l'impostazione tradizionale per cui rilevava fondamentalmente l'esattezza della decisione piuttosto che il momento in cui si raggiunge.

Ma nonostante siano passati più di dieci anni dalla modifica costituzionale e si sia introdotta nel diritto vivente una specifica direttiva nomofilattica in tal senso - la giurisprudenza di legittimità sta effettuando una generale operazione di costituzionalizzazione della procedura per via interpretativa

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-, nella quotidianità giudiziaria occorre ancora completare un necessario percorso di mutamento della mentalità per giungere a ritenere inscindibilmente equivalente "fare giustizia" a "fare giustizia in tempi ragionevoli ": ovvero, che l'immediatezza (nei limiti della ragionevolezza) non è un optional ma è una componente ontologica della giustizia.

2. Organizzazione Se tale è allora il valore della ragionevole durata del processo, essendo evidente che per ottenerla incide anche l'organizzazione dell'attività giurisdizionale,in virtù di tale principio costituzionale occorre spendere i propri strumenti intellettivi (soprattutto analisi e riflessione alla luce dell'esperienza accumulata di persona o collettivamente) nella stessa misura in cui si utilizzano per trovare la soluzione giuridica delle controversie, allo scopo di fare giustizia in tempo reale.

L'organizzazione deve essere quindi ™costituzionalmente orientata. Infatti - a motivo della già rilevata prossimità e ontologica reciprocità dei due aspetti - l'art. 111 Cost. non può intendersi solo come canone interpretativo ma pure organizzativo; e comunque l'interpretazione alla sua luce delle norme processuali ordinariamente incide anche sull'organizzazione. E' vero che tutte le norme in qualche misura incidono con il loro contenuto anche sull'organizzazione (ossia le modalità) della loro applicazione; ma ciò vale soprattutto per le norme processuali, di per sé teleologiche perché dirette a "organizzare " le modalità di effettivizzazione dei diritti sostanziali. Organizzare correttamente il ruolo diventa allora attività giurisdizionale in senso lato perché è tutela della effettività dei diritti processuali e così indirettamente dei diritti sostanziali.

3.Proporzionalità Quali possono essere allora le modalità organizzative di cui un giudice oggi dispone per conformare in modo ottimale - vale a dire, nei limiti del possibile - il proprio ruolo? E in quale misura può allo scopo avvalersi dell'evoluzione normativa oltre che giurisprudenziale?

Se la risposta a queste domande deve trarsi proprio dell'art.111 della Costituzione, si potrebbe dire che occorre esercitare il principio di ragionevolezza, che caratterizza la durata del processo nel canone costituzionale, nel senso di proporzionalità. Proprio perché si tratta non di una celerità assoluta, bensì "ragionevole ", si può dedurre che la forma del processo - sia nel senso organizzativo, sia a monte nel senso normativo/interpretativo - deve essere proporzionale alla conformazione/contenuto e al rilievo (per an e quantum) della regiudicanda. In questo senso si è sempre mosso, a ben guardare, il legislatore, da ultimo con l'introduzione e l'ampliamento, accanto

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a quelli standard, di strumenti processuali, più che speciali nel senso tradizionale, semplificati: da un lato con la stabilizzazione tendenziale dei cautelari, dall'altro con la deformalizzazione oltre i confini dell'urgenza (si pensi al rito sommario, ma anche all'evoluzione del provvedimento decisorio). (2)

Anche la giurisprudenza è noto che avanza su questa linea, non solo utilizzando il canone interpretativo della ragionevole durata per eliminare quelli che sono formalismi in sé: la giurisprudenza di legittimità ha infatti molto operato, in questo senso, sull'interpretazione delle norme del codice di rito, come è più che noto e non è pertanto il caso qui di soffermarsi. La situazione complessiva è ben descritta da ultimo nella nitida sintesi di Cass. 1 febbraio 2010 n.2313, che - collocandosi nella lettura costituzionalmente orientata dell'art.384 c.p.c. alla luce della costituzionalizzazione, appunto, del principio della ragionevole durata del processo, la quale consente al giudice di legittimità di correggere la motivazione della sentenza impugnata anche nel caso di error in procedendo - afferma che si è "in presenza di una tendenza normativa e giurisprudenziale, legittimata dalla modifica dell'art.111 Cost.,che consente di dar spazio a tutte le interpretazioni che limitano la durata del processo…senza sacrificio, beninteso,del diritto di azione o di difesa" , anche evitando, tramite l'opera decisoria del giudice di legittimità, "il dispendio di un grado di attività processuale". Nella stessa ottica si è pronunciata la più recente giurisprudenza di legittimità sulla c.d. terza via, così che prevalga su di essa l'esigenza della ragionevole durata se difettano argomenti giuridicamente fondati (3); prevalenza scelta anche a proposito della chiamata di terzo da un recente arresto delle Sezioni Unite che si esaminerà infra. (4)

Ma la proporzionalità giustifica non solo l'uso di strumenti processuali diversi (oltre al rito sommario, (5) che sarebbe bene potesse essere scelto anche dal giudice e non solo dalle parti, si pensi all'utilizzo dell'art. 281 sexies c.p.c. in luogo della decisione tradizionale) ma anche l'incanalare le cause in tempi diversi.

4. Canali privilegiati e prevenzione Nell'ottica tradizionale, l'organizzazione si orienta principalmente sugli aspetti cronologici della gestione di un ruolo condizionandola poi a due elementi: la natura cautelare o comunque urgenziale (per esempio, le cause riguardanti il diritto delle persone) del procedimento e la vetustà della causa (anche in certi protocolli si è evidenziata la necessità di dare la precedenza alle cause più antiche). (6) I risultati sui tempi medi dei processi

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dimostrano che questi strumenti, pur non trascurabili, non sono sufficienti per incidere in modo adeguato sulla durata. La costruzione di canali specifici per le tipologie urgenziali, anzitutto, pur giovando ovviamente ad esse, non è sufficiente su un piano generale a prevenire l'intasamento del ruolo nella fase decisoria. Riguardo poi alla seconda categoria, quella "generalista " che dà la precedenza alle cause più antiche, non si può non riconoscere che è una blanda medicina per una patologia che dovrebbe essere invece prevenuta ab origine. In ogni organizzazione prevenire le criticità è metodo più efficace che affrontarle quando si sono già create: quindi se si persegue l'esito ottimale della giustizia in tempo reale occorrerebbe evitare la formazione nel ruolo di cause più antiche delle altre non per tempi e motivi fisiologici (complessità, pluralità di rapporti, sospensioni, interruzioni ecc.), ma per superamento del canone della ragionevole durata. Questo comporta la riduzione, ovviamente, del numero di cause pendenti sul ruolo fin da quando sono mature.

Presentato in questo modo, peraltro,l'obiettivo sembra utopico. Si scontra, infatti, con il sovradimensionamento dei ruoli istruttori. Tuttavia, non si può non riconoscere l'esistenza, tanto nei giudici quanto nei difensori, di una mentalità, per così dire, frenante. Il noto concetto dottrinale della concentrazione tende a essere dalla pratica abbandonato soprattutto nel rito ordinario, dove le udienze funzionano come i pilastri di un lungo ponte - il processo - e dunque sono il punto di rilancio a un'udienza successiva. Il rinvio è ancora il leit-motiv del processo ordinario, e correlativamente troppo alto è tuttora il tasso di trattazione scritta. Eppure occorrerebbe - ora che la procedura lo consente - trattare ogni udienza come tendenzialmente decisoria. Stornare gli accumuli decisori deve infatti essere una terapia preventiva del ruolo, per evitare che la sua parte finale diventi il classico "collo di bottiglia”. Il ruolo, si potrebbe dire, è come un albero che deve essere potato in tutte le fasi della sua crescita. Poiché proceduralmente il giudice monocratico può sempre disporre l'immediata decisione (previa discussione scritta oppure orale) in una situazione ottimale anche nel rito ordinario si potrebbe incamerare per la decisione subito all'esito dell'istruttoria. Ciò tuttavia è ordinariamente impedito proprio dalla esistenza nella organizzazione del giudice di un già predisposto ruolo decisorio parallelo al ruolo istruttorio. Non si può peraltro negare che esistono cause di tale semplicità da prestarsi comunque alla decisione immediata, tramite lo strumento della discussione orale e della decisione appunto contestuale. Ma il più efficace strumento per prevenire l'accumulo decisorio è l'individuazione immediata delle cause che non necessitano di istruttoria.

Invero vi è una consistente percentuale di cause di diritto (quelle documentali e quelle che possono

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essere "intercettate" su eccezioni pregiudiziali/preliminari dirimenti) mature fin dal momento dell'afflusso. Queste dovrebbero essere parimenti decise fin dall'inizio, ovvero dalla prima udienza di trattazione (decidere, si ricorda, ha origine etimologica in de caedere = tagliar via) in una situazione di ruolo ottimale. Nei limiti ovviamente di un attento equilibrio fondato sull'accurata preparazione delle udienze occorre perciò incentivare una mentalità decisoria nel giudice monocratico, che trovi i suoi strumenti nella decisione contestuale (artt. 281 sexies e 429 c.p.c.) e nelle modalità sintetiche di motivazione incrementate dalla riforma del 2009. Fin d'ora, infatti,si può tendenzialmente realizzare la eliminazione immediata delle cause infondate di contenuto semplice, estirpandole a tempo reale, cioè (nel rito ordinario tramite l'efficiente combinato disposto degli artt. 80 bis disp. att. e 281 sexies c.p.c.) con decisioni in prima udienza.

5. Oralità Per impedire allora che le cause "nate mature" restino ad appesantire il ruolo, e per poterle decidere immediatamente, occorre valorizzare pienamente quello che è lo scopo della preparazione dell'udienza da parte del giudice, vale a dire una effettiva trattazione orale: le cause devono essere subito esaminate anche nel contraddittorio con le parti, perché questo aggiunge allo studio personale anteriore del giudice una maggiore evidenziazione del nucleo giuridico delle questioni, come in un prisma sfaccettate dai diversi punti di vista. L'oralità è in effetti un prisma efficace ai fini di un'analisi completa e celere in una causa di media difficoltà, e quindi a maggior ragione in una causa semplice (solo la causa di complessità superiore alla media non può trarne un decisivo vantaggio): ogni parte, dal coacervo delle sue difese, sarà portata ad estrarne e sottolinearne gli aspetti più validi, pur non senza menzionare, di solito, se sono stati utilizzati, gli strumenti "di disturbo", rallentatori e infondati. È dunque più agevole superare la cortina di fumo che spesso offusca la percezione del vero problema. La scarsa preparazione alla trattazione orale, sia del giudice sia poi dei difensori, induce invece, come già si è rilevato, a una mentalità per cui l'udienza non è uno specifico dialogo sul contenuto della causa, ma semplicemente un punto di passaggio verso ulteriori momenti processuali. Con l'odierna procedura, questa tendenza si traduce nel far partire le cause sempre e comunque con il "pilota automatico" dei termini ex art.183 c.p.c., non percependo che la trattazione orale possa, parimenti alla trattazione scritta effettuata in tali termini, sfociare in decisione. In particolare, potrebbe porsi come intralcio interpretativo l'asserto che le parti hanno comunque diritto ai termini,(7) anche per correggere e rimediare alle lacune degli

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atti introduttivi emerse nella trattazione orale. Un giudice preparato, tuttavia, è in grado di distinguere tra l'ipotesi in cui le risultanze siano già così evidenti che le memorie potrebbero cambiare la situazione solo attraverso una inammissibile mutatio libelli e i casi in cui la regiudicanda deve soltanto essere "raffinata" e completata. Questa valutazione costituisce un filtro, ora costituzionalmente riconducibile proprio al principio di ragionevole durata, che il giudice ha il potere-dovere di effettuare in forza del già richiamato art.80 bis att.c.p.c., norma che, in applicazione congiunta con l'art. 281 sexies c.p.c., consente ora nel rito ordinario - ed è uno degli apporti più validi delle riforme di questi ultimi anni - fin dalla prima udienza un sano parallelismo riequiparativo tra esso e l'originariamente più snello rito del lavoro (visto il novellato art. 429 c.p.c.) .

Quanto appena osservato porta a concludere che in generale occorre instradare su canali distinti non solo le cause d'urgenza (o per oggetto o per forma perché cautelari) rispetto alle cause ordinarie a oggetto di per sé non urgente, ma pure le cause che possono qualificarsi "di oralità autosufficiente" rispetto a quelle che esigono trattazione scritta anche dopo gli atti introduttivi e soprattutto nella fase decisoria. Proprio una distinzione tra cause di oralità autosufficiente e cause che necessitano di entrambi gli strumenti di trattazione, l'oralità e la scrittura, può consentire l'abbreviazione dei tempi in un ruolo in cui - come sovente accade dopo l'istituzione dell'unico giudice di primo grado, in una situazione ancora di sottoutilizzo del giudice di pace - si mescolano cause di rilievo con cause di consistenza limitata.

Si ricordi d'altronde che se è vero che il tempo utilizzabile dovrebbe essere il fil rouge d'una organizzazione ottimale questo deve avvenire unitamente - e qui sta il punto dell'equilibrio, la sua calibrazione come ermeneutica - al rispetto dei diritti processuali diversi dal diritto alla ragionevole durata del processo, cioè quelli che l'art. 111 Cost. sintetizza nel contraddittorio (senza il quale il processo non è "giusto"). E per tutelare i diritti che sono species del genus "contraddittorio" è logico che il processo debba essere prossimità e dialogo tra i soggetti che giocano sulla sua scena.

Quindi lo strumento non dovrebbe funzionare in modo burocratico: ciò significa valorizzare l'oralità, che in un processo ottimale, a tempo reale cioè, dovrebbe essere il nerbo del sistema.

L'oralità è dunque un valore sostanziale del processo, che non solo è compatibile, ma addirittura in un'elevata percentuale dei casi agevola l'efficienza-efficacia del sistema, mantenendolo in un equilibrio corretto tra celerità e contraddittorio.

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Se l'oralità è autosufficiente nel senso sopra indicato è compatibile con una impostazione telematica (8) del processo? Si tratta evidentemente di un falso problema. È questione di regolamento dei confini: la forma telematica, pur essendo una dematerializzazione del processo, ne è una forma scritta; la conversione della forma scritta tradizionale (cartacea) in forma telematica non confligge con l'oralità. Occorre, peraltro, che l'oralità mantenga (e incrementi anzi) il suo spazio per quanto possibile, in quanto strumento di velocizzazione del processo. Anche da questo punto di vista, quindi, si conferma la necessità di distinguere i giudizi di forma orale autosufficiente dopo gli atti introduttivi da quelli per cui permane l'esigenza della trattazione scritta; in questi ultimi, ovviamente, la forma cartacea, per accelerare, semplificare le comunicazioni e alleggerire le cancellerie, sarà progressivamente sostituita nella massima misura possibile dalla forma telematica.

Sussistono anche procedimenti di totale forma scritta (forma scritta autosufficiente) perché a contraddittorio differito: è il caso, p.es., del decreto ingiuntivo e dell'ingiunzione di pagamento europea, che possono già svolgersi completamente in veste telematica. (9) Tutto ciò convalida che, per ottenere l'incremento dell'efficienza, è necessario un parallelo incremento di adattamento (ragionevole proporzionalità) della forma processuale al tipo di regiudicanda, che in parte è attuato dal legislatore (in due modi paradossalmente opposti: creando forme specifiche o deformalizzando la forma generale processuale ) e in parte deve essere disposto dal giudice.

6. Istruttoria La proporzionalità, quindi, non è guida soltanto per l'intervento del legislatore: come tutto il contenuto dell'art.111 Cost. ha una valenza diretta nel singolo processo, ovvero nell'attività giurisdizionale (inclusa quella organizzativa) del singolo giudice. Se la causa, allora, supera il filtro della trattazione orale della prima udienza, si apre quale campo di applicazione di questo criterio la fase istruttoria. Anche in questa fase, come nella trattazione orale, quel che rileva è che l'attività del giudice sia effettiva. Vale a dire che anche nell'istruttoria si deve evitare di inserire un pilota automatico, dando l'ingresso, senza attività selettiva e reale impegno (paradossalmente occorre ricordare che è il giudice l'istruttore), a masse di prove costituende. Come per il profilo precedente si è constatata l'introduzione di un valido strumento nelle recenti riforme, anche in questo si deve dare atto del contributo del legislatore per stornare tale rischio di elefantiasi del processo. Ciò è identificabile negli interventi del 2009, che da un lato hanno reso prova tipica la testimonianza scritta, (10) dall'altro e soprattutto hanno recepito una significativa evoluzione giurisprudenziale

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improntata proprio alla concentrazione/accelerazione del processo. Si tratta dell'art.115 c.p.c., (11) da valorizzare nella massima misura possibile (con equilibrio ma senza svuotamento della norma tramite un uso non corretto della categorizzazione fatti costitutivi/fatti secondari).Per valorizzarlo appieno può essere necessario integrare la prospettazione degli atti introduttivi nella trattazione orale della prima udienza mediante richiesta di chiarimenti specifici da parte del giudice, confermandosi così che il pilastro dell'efficienza è l'effettiva trattazione orale. Solo conoscendo in modo adeguato la causa il giudice, nella dialettica delle parti alla prima udienza, può identificare i punti oscuri e/o ambigui delle prospettazioni di fatto delle parti, per secernere, dopo i chiarimenti ivi ottenuti, quanto è realmente controverso e quindi quel che sarà, alla luce del principio della non contestazione specifica, il reale ed essenziale thema probandum. Anche serbando allora la facoltà di allegazione di fatti secondari nella successiva trattazione scritta ex art.183 c.p.c., una chiarificazione dettagliata sotto la guida del giudice nella precedente trattazione orale può alleggerire il thema probandum. Non si allarghino, pertanto, i "cordoni della borsa " della specificità, tanto più in un contesto di generalizzazione della rimessione in termini quale ora disegnato dall'art.153 c.p.c. E, una volta circoscritto l'oggetto della prova, come già accennato occorre, da un lato,valorizzare al massimo le prove precostituite e, dall'altro, vagliare con attenzione il capitolato delle costituende, espungerne i capitoli mal formulati, documentali o irrilevanti e dimensionare in limiti proporzionali all'oggetto della causa le liste testimoniali; nonché, qualora sia necessario un accertamento tecnico, non ammettere prove costituende che con esso coincidano come oggetto, assumendo allora in parte qua un ruolo defatigatorio e inutile. Si tratta delle leges artis tradizionali di un giudice istruttore civile, che vanno però ricordate e seguite, dato che le modalità dell'istruttoria possono, in maggiore o minore misura, trasformare, se non virtuose, questa fase del processo in una palude defatigatoria. Nell'ottica della ragionevole durata, poi, nell'impostazione tradizionale di un buon giudice è opportuno inserire alcune sottolineature.

Anzitutto, la già menzionata necessità di valorizzazione delle prove precostituite, tra queste includendo, grazie al principio del libero convincimento, anche gli atti di altri processi (12) se acquisiti e se relativi a oggetti sui quali non vi è contestazione fondata su argomenti convincenti e specifici (si pensi, per esempio, alle testimonianze e alle perizie di un processo penale di cui in sede civile, pur non verificandosi l'effetto giudicato, è trasferito il risvolto risarcitorio). Poi, la valorizzazione delle prove atipiche (tra le quali, visto il principio di libero convincimento, può con

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cautela inserirsi la decisione di un altro processo, anche nell'ipotesi in cui la coincidenza delle parti non sia assoluta). Su quest'ultimo aspetto, anche di recente la giurisprudenza di legittimità evidenzia, comunque, che l'utilizzazione della prova atipica non può costituire un "passepartout"

per scardinare le regole probatorie delle prove tipiche (13) . E infine, sempre nell'ambito degli strumenti tradizionali del libero convincimento, la valorizzazione non solo della condotta processuale generale ma anche della contumacia, ricordando che, se è vero che di per sé è probatoriamente insignificante, come da consolidata giurisprudenza, è parimenti consolidata la giurisprudenza che le consente di incidere sul convincimento del giudice se contestualizzata ad altri elementi probatori;(14) incidenza che, dopo l'introduzione del nuovo art.115 c.p.c., (15) per evitare irragionevoli disparità con la parte costituita potrebbe assumere maggior rilievo, in particolare non esigendo che gli elementi contestualizzanti riguardino l'intero thema probandum.

È ovvio che metodi di questo tipo, tesi a ridurre all'essenziale la fase istruttoria, per non equivalere a riduzione del tasso di garanzia processuale devono congiungersi a una motivazione che, per quanto succinta, sia pur sempre esaustiva e trasparente. Il vero obiettivo che l'art.111Cost. detta alla giurisdizione non è infatti il processo celere, bensì il ragionevole equilibrio tra il processo "giusto" e il processo celere.

7. Specializzazione È evidente che per utilizzare gli strumenti di efficienza organizzativa sin qui identificati nella oralità e nella proporzione rileva anche l' "esperienza clinica" del giudicante. Ciò sposta il discorso sulla necessità di un'adeguata organizzazione sovraordinata a quella del singolo giudice, cioè l'organizzazione direttiva (e semidirettiva) dell'ufficio che dovrebbe consentire l'attribuzione di affari sul piano tabellare in gruppi omogenei incentivando la specializzazione.

Specializzazione che si concreta, oltre che nella suddetta "esperienza clinica", in un apprezzabile tasso di certezza del diritto nel senso (oltre che dell'apporto dei protocolli come si vedrà) di uniformità delle decisioni, tramite l'utilizzazione di precedenti quali modelli nei casi seriali. Al riguardo, si deve notare che l'utilizzazione dei modelli, se sul piano informatico è già del tutto agevole, con la riforma del 2009 (art 118 disp.att.c.p.c.) è più agevole anche in una decisione a verbale, in quanto è sufficiente il richiamo al precedente (a questo punto ovviamente identificandolo in modo completo come data e numero) per motivare. L'utilizzo del precedente "per relationem" è riconducibile al principio di proporzionalità, che investe sia il processo nella sua complessiva

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dimensione sia la dimensione degli specifici atti processuali, e in particolare di quelli decisori.

Questo a sua volta ricollega con lo strumento della oralità: la decisione in forma orale, cioè messa a verbale all'esito di discussione orale, deve essere proporzionalmente adeguata al thema decidendum e non dovrebbe perciò riassumere - in modo elusivo di quelle che devono essere le sue qualità acceleratorie - le caratteristiche della decisione scritta. Appare quindi auspicabile che queste decisioni (ex art. 281 sexies e pure ex art. 429 c.p.c.), frutto di una oralità virtuosa come sopra esposta, non siano "scisse " spezzandone l'unità temporale ma realmente contestuali, non interponendo tra la precisazione delle conclusioni (ovvero la decisione di discutere ex art.429) e la discussione un lasso di tempo notevole, magari anche (il che non sembra corretto nell'art. 281 sexies) concedendo termine per note difensive (dovrebbe trattarsi, infatti, di fattispecie semplice, cioè di oralità autosufficiente). Non appare una prassi virtuosa neppure predisporre nel lasso di tempo tra la precisazione delle conclusioni e la discussione ampie motivazioni scritte da allegare fittiziamente poi al verbale: ciò da un lato comporta proprio il ritorno - elusivo della ratio della norma - alla forma scritta, e dall'altro svuota di significato e di valore la discussione orale, realizzando in effetti una compressione della realtà ed effettività del diritto di difesa.

8. Condivisione È il momento di chiedersi se gli strumenti di efficienza organizzativa ravvisabili in oralità e proporzione siano strumenti condivisi, in relazione al ruolo dei difensori. Il ruolo fondamentale nell'avvalersene è chiaramente quello del giudice, perché tale utilizzo si pone nell'ambito della sua attività direttiva del processo. Ma il processo deriva dall'integrazione reciproca delle attività dei tecnici che vi operano. Il giudice, nella sua attività direttiva, "guida " il processo;

ma il processo di per sé è uno strumento condiviso, per la cui realizzazione occorre tanto la guida del giudice quanto l'impulso delle parti. Emblematica può dirsi la vicenda del rito societario, che aveva drasticamente diminuito il tasso di direzione del giudice alterando a tal punto l'equilibrio dello strumento processuale che la pratica ne ha realmente sofferto: il legislatore non ha potuto coltivare l'originaria ipotesi di estenderlo come alternativo o sostitutivo del rito ordinario già prospettata nell'art.70 ter disp.att.c.p.c., al contrario dovendo addirittura intervenire per l'abrogazione solo sei anni dopo il "lancio" nel sistema di questa nuova (e non correlata alla tradizione) immagine del processo. La sostanza del processo è la complementarietà tra i soggetti che lo effettuano. Il giudice si potrebbe definire,allora, un primus inter pares? Non esattamente, dal

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momento che, nelle decisioni interinali (istruttorie, anticipatorie e cautelari) e conclusive esercita quale organo pubblico un'autorità di opzione tra gli impulsi offerti dalle parti. Tuttavia, per svolgere il percorso che conduce a tali snodi decisori, cioè considerando il processo dal lato dinamico anziché accertatorio-statico, la complementarietà è effettivamente imprescindibile e non può non fondarsi su una cultura processuale integrata e condivisa. Come si approfondirà tra poco, la più rilevante e più caratteristica manifestazione dell'attuale cultura integrata del processo sono i protocolli d'udienza. Ma per ora conviene appunto focalizzare il ruolo dei difensori rispetto agli strumenti generali (e non specifici per oggetto o per ufficio come invece sono i protocolli) di oralità e proporzionalità, partendo dal presupposto che la sussistente complementarietà non può non rendere più efficace l'utilizzo di questi strumenti se si tratta di un utilizzo condiviso.

Riguardo alla oralità, si è già detto che la trattazione orale è un prisma che consente di cogliere tutte le sfaccettature della regiudicanda se, ovviamente, vi partecipano in modo adeguato i rappresentanti della pluralità di punti di vista, cioè i difensori di tutte le parti in causa. Sono dunque prassi virtuose complementari la preparazione della trattazione orale sia da parte del giudice sia da parte dell'avvocato.

Evidente poi è il ruolo di una preparata oralità da parte dei difensori nella decisione contestuale, dove la discussione nella quotidianità giudiziaria talora si riduce a un richiamo alle precedenti difese scritte. Un tale metodo può significare, in effetti, elusione dell'oralità e mancanza della discussione finale, a parte il caso in cui la precisazione delle conclusioni non sia stata l'esito di una approfondita trattazione orale svolta nella stessa udienza.

Si noti che è al giudice che viene rimessa la valutazione nel rito ordinario sulla idoneità della causa a una discussione esclusivamente orale; nella prassi, tuttavia, è frequente che le parti propongano istanza di discussione ex art. 281 sexies c.p.c. (mentre raro è rimasto, significativamente, l'ibrido dell'art. 281 quinquies c.p.c.: o la causa è idonea alla discussione orale oppure non lo è affatto).

Più complesso è il discorso della condivisione del principio di proporzionalità, per cui i difensori dovrebbero conformare la causa commisurandola (stesura degli atti, natura e quantità delle istanze istruttorie) al suo oggetto. Il che dovrebbe manifestarsi sia nella redazione degli atti (sul piano non solo quantitativo dell'ampiezza delle argomentazioni, ma anche qualitativo, ovvero della mancata dispersione in argomenti defatigatori), sia nella qualità e quantità delle istanze (estensione del contraddittorio, istanze cautelari e anticipatorie, istanze di revoca e modifica,istanze istruttorie). Può

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una prassi virtuosa di proporzionalità "convivere" sempre con un fedele patrocinio? Fino a quale punto è condotta proba e leale agitare argomenti infondati e defatigatori? Vale a dire, in termini normativi più moderni: entro quale misura la ragionevole durata del processo incide sull'attività del difensore oltre che su quella del giudice? Può il giudice trovare nel difensore un tecnico che svolge attività diversa ma convergente con quella del giudice riguardo all'obiettivo della giustizia in tempo reale?

Questi quesiti conducono a considerare anche il sotteso ruolo delle parti sostanziali per raggiungere tale obiettivo.

9. Le parti Non è questa la sede per analisi dogmatiche ma non si può non rilevare che chi si avvale dello strumento giurisdizionale ha diritto costituzionale a che l'esercizio si effettui in ragionevole durata; che a ciò corrisponda indubbiamente un obbligo dello Stato di garantire tale diritto non toglie che possa corrispondervi anche un obbligo degli altri soggetti che si avvalgono (in quel processo o in un altro contemporaneo processo) dello strumento giurisdizionale di non rallentarlo/ostacolarlo, ovvero di non violare il diritto alla ragionevole durata del consociato. Anche se non si volesse leggere questo nell'art.111, sussiste comunque un obbligo di solidarietà evincibile dall'art. 2 Cost. in rapporto alle attività con cui i consociati fanno valere i loro diritti. Lo strumento processuale non deve allora essere utilizzato vanamente, per pretese palesemente infondate (con una sorta di "procurato allarme " e, se non certo di interruzione, di intralcio al pubblico servizio) e per difese palesemente defatigatorie. Anche questo aspetto, qualificabile abuso del processo, emerge progressivamente dalla coscienza sociale-giuridica. Esempio significativo tra i più recenti è Cass.

ord. 5 maggio 2010 n.10903, che sulla scorta di S.U.2007/23726 - per cui l'utilizzo dello strumento processuale con modalità tali da arrecare non solo un danno a controparte "ma anche da interferire con il funzionamento dell'apparato giudiziario" costituisce "condotta lesiva sia del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in quanto contrastante con il dovere di solidarietà di cui all'art.2 della Costituzione, sia contraria ai principi del giusto processo, in quanto la inutile moltiplicazione di giudizi produce un effetto deflattivo confliggente con l'obiettivo costituzionalizzato della ragionevole durata" ex art.111 Cost. - evidenzia che una tale condotta di abuso del processo "contrasta innanzitutto con l'inderogabile dovere di solidarietà sociale che osta all'esercizio di un diritto con modalità tali da arrecare un danno ad altri soggetti che non sia

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inevitabile conseguenza di un interesse degno di tutela dell'agente…ma contrasta altresì e soprattutto con il principio costituzionalizzato del giusto processo inteso come processo di ragionevole durata…posto che la proliferazione oggettivamente non necessaria dei procedimenti incide negativamente sull'organizzazione giudiziaria a causa dell'inflazione delle attività che comporta con la conseguenza di un generale allungamento dei tempi processuali". In questo caso l'abuso è sfociato nella determinazione delle spese. Ma per le cause cui sarà applicabile pienamente la l.2009/69,nell'ambito del codice di rito, quindi considerando quello in esame come un obbligo nei confronti delle controparti, il legislatore ha introdotto uno strumento ibrido tra la pena privata (è a favore di controparte l'esborso) e la pubblica sanzione (è infatti disponibile d'ufficio) al comma 3 dell'art. 96 c.p.c., che non solo conferisce finalmente un presidio sanzionatorio al precetto di cui all'art. 88 c.p.c., ma può essere rapportato anche alla violazione, con condotte defatigatorie e sproporzionate, del ben più ampio obbligo costituzionale di solidarietà .

A questo intervento normativo sulle modalità difensive, ma prescindendo da ogni risvolto di biasimo e restando quindi puramente nell'orbita della proporzionalità come principio conformante il processo, si può affiancare un interessante arresto recente delle Sezioni Unite,la sentenza 4309 del 2010, che ha superato infine l'astrattezza del criterio c.d. della parità delle armi (16) finora applicato - con un evidente sovradimensionamento - oltre che alla difesa nel proprio rapporto processuale (ove è davvero imprescindibile) anche alla facoltà di innestare nel processo altri processi, costituendo ulteriori rapporti processuali tramite chiamate di terzo sottratte ad ogni direzione, nel senso di filtro (della pertinenza e, occorre ora dire, anche della proporzionalità e della coerenza col tipo di giudizio in corso), del giudice. (17) Le Sezioni Unite, acutamente fondandosi sul potere discrezionale del giudice di separazione delle cause, che trova limite solo nel litisconsorzio necessario, lo hanno in sostanza identificato in un potere ex post cui logicamente è correlato un potere discrezionale ex ante: quello appunto di vagliare nel merito l'istanza di chiamata del terzo, senza limitarsi a verificarne la tempestività e la ritualità e quindi senza più l'obbligo di automatici slittamenti, non raramente a catena, delle udienze del processo; slittamenti che significano oggettivamente far aspettare non poco (soprattutto ora con termini di comparizione tutt'altro che brevi) l'attore originario prima di avviare la trattazione. Tra l'altro, si nota per inciso, la determinazione in tre anni della ragionevole durata del processo di primo grado (che decorre dalla data di introduzione del giudizio fino a quella della sentenza definitiva, come ha ribadito da ultimo

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Cass.5 maggio 2010 n.10903) dovrebbe tenere conto della eventuale pluralità di rapporti processuali presenti in tale processo: se tre anni è il tempo ragionevole per un processo fondato su un solo rapporto processuale per così dire "semplice ", già la situazione muta se sussiste un cumulo che innesca contemporaneamente un simultaneus processus, poiché questo, a parte le cause puramente documentali, inciderà sui tempi dell'istruttoria; ancora peggio se poi il processo simultaneo diventa tale - non essendolo all'origine - snodandosi nel tempo tramite una progressiva implementazione del contraddittorio (al di là ovviamente dell'ipotesi di litisconsorzio necessario) con un sistema di chiamata in causa a catena, che può giungere ad occupare anche interi anni della vita processuale (la

"banca del tempo " finanzia il processo fino a un certo punto...). Il potere discrezionale di filtro riconosciuto dalle Sezioni Unite deve ovviamente esercitarsi alla luce del principio della ragionevole durata. Nessun conflitto costituzionale appare configurabile rispetto a questa interpretazione, rimanendo ovviamente la facoltà del convenuto (o del chiamato) non autorizzato a chiamare un terzo di instaurare un processo autonomo nei suoi confronti.

Avvalersi del filtro per la chiamata del terzo è importante ai fini acceleratori, soprattutto nelle cause fin dal principio di facile soluzione. In queste ipotesi, a parte quella in cui l'attore vince e il convenuto ha diritto ad essere manlevato, come più sopra si era già evidenziato sotto il diverso aspetto dei canali privilegiati è il caso di rendere appunto proporzionali alla fattispecie le dimensioni del processo: quindi se l'attore ha presentato una domanda infondata andare direttamente in decisione senza protrarre i tempi con una chiamata di terzo; il che non lede in alcun modo i diritti del convenuto, che comunque vince.

Si coglie l'occasione per rilevare che il principio di proporzionalità rispetto alla chiamata del terzo conduce a un ulteriore profilo, che è quello dell'adeguamento al rito processuale. Col rito cautelare,incluse possessorie e nunziatorie, a parte il caso ovviamente del litisconsorzio necessario appare difficilmente compatibile la chiamata del terzo. Nel rito sommario è espressamente prevista quale chiamata in garanzia dall'art. 702 bis, comma 4, c.p.c. Non è questa la sede per una riflessione ermeneutica in senso stretto sulle norme del codice di rito. Si osserva soltanto, per inciso, che i primi interpreti, partendo da una impostazione tradizionalista per cui uno strumento processuale va utilizzato, anzi "allargato" al massimo, hanno ritenuto che nonostante la lettera restrittiva il legislatore abbia consentito la chiamata del terzo in tutti i casi dell'art.106 c.p.c. (18) In realtà, il rito sommario dovrebbe essere utilizzato per le cause semplici, e quindi essere la forma di un processo il

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più snello e rapido possibile tra quelli a cognizione ordinaria (o, come è stato qualificato da un'acuta dottrina, ( 19) semplificata) a contraddittorio non posticipato. In quanto non sempre compatibile appunto con il principio di ragionevole durata, sarebbe forse il caso, oramai, anche alla luce dell'arresto sopra richiamato delle Sezioni Unite, di staccarsi da una forma mentis che tende a stipare in ogni modulo processuale tutto il possibile, senza proporzione e senza considerare che la celerità di un processo e la sua correlata semplificazione anche in termini di cumulo processuale non equivalgono automaticamente a lesione del diritto di azione e di difesa. Proprio perché è diretto a un processo il più possibile rapido anche se non cautelare (ma significativamente ha preso spunti proprio dalla forma cautelare) il rito sommario ha una compatibilità limitata con la chiamata del terzo, significativamente allo stesso modo con cui ha una compatibilità limitata con gli incombenti istruttori. L'estensione a tutto il contenuto dell'art.106, quindi, non appare una lettura condivisibile;

l'applicazione dell'art. 702 bis, comma 4, c.p.c., alla luce della nuova interpretazione della Suprema Corte (di valenza generale ma a fortiori adatta a un rito tendenzialmente essenziale come il sommario) e della ratio di celerità e snellezza del rito, potrà intendersi come non automatica emissione di un decreto di spostamento dell'udienza, potendosi emettere anche un decreto di rigetto dell'istanza. Se, invece, si ritiene che la chiamata sia automatica, ciò può comunque incidere sulla valutazione successiva della compatibilità della fattispecie con il rito sommario, affidata al giudice dall'art. 702 ter c.p.c.

10. Decisione A quest'ottica costituzionalmente orientata della direzione processuale del giudice come strumento per l'adeguamento del processo al canone della ragionevole durata, si nota per inciso, è del tutto coerente l'abrogazione del rito societario, della quale si è già fatto cenno. Invero il rito societario è stata una (a questo punto fallita) operazione di "privatizzazione" dello strumento processuale e quindi di minimizzazione dell'incidenza del giudice anche sui tempi. La

"privatizzazione" dello strumento processuale rimane individuabile nel panorama processuale sotto vari altri aspetti: dalla conciliazione all'utilizzo delle tabelle per "subappaltare" alle parti un settore dell'accertamento e, in senso più generale ma ibrido, ai protocolli.

A differenza del rito societario, che concerneva direttamente l'aspetto dinamico della procedura, tutti questi strumenti, per così dire, di consensualizzazione del fatto processuale riguardano l'aspetto della decisione, sia interinale- organizzativa (i protocolli) sia conclusiva -accertatoria. Prima di

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vagliarli, è utile quindi una riflessione sull'utilizzo della decisione in un processo sensibilizzato all'art.111Cost,, integrando alcuni spunti già più sopra proposti.

La celerità, ovvero effettività della decisione è favorita dalla predeterminazione della più ampia quota di essa, vale a dire dalla ottimale riduzione dell'ampiezza della decisione specifica. Si deve cioè tendere verso l'intervento meno "invasivo" sulla certezza del diritto come già acquisita. Il presupposto è dunque circoscrivere limitativamente il settore dell'incertezza che deve dirimere il giudice con la sua attività decisoria. Si può profilare una duplice ipotesi: incertezza compressa ex ante o incertezza ridotta ex post rispetto all'intervento decisorio. La prima si affronta avvalendosi dei precedenti e (soprattutto su un piano più strettamente organizzativo) dei protocolli . Per la seconda può utilizzarsi quella sorta di privatizzazione parziale della decisione che si verifica quando è stata risolta una questione pregiudiziale/preliminare laddove per il residuo thema decidendum le parti possono avvalersi di elementi certi della giurisprudenza dell'ufficio. Questo è il caso della conciliazione non preliminare ma a stadio processuale avanzato.

Come si è visto, per accelerare il processo, occorre che l'utilizzo dello strumento sia proporzionale alla necessità. Ciò si attua nell'aspetto decisorio sotto due profili:

1. Il quando e il quomodo della decisione;

2.L'an della decisione.

È noto che la decisione è la maggiore criticità dei ruoli, le secche dove si arena la nave di un processo fino ad allora magari anche discretamente celere. La decisione è quindi l'utilizzazione più intensa e più dispendiosa dello strumento processuale Come rimediare alla lesione della effettività del diritto che paradossalmente è collegata proprio all'atto processuale con cui viene riconosciuto?

Sotto il primo punto si è già detto: è vantaggioso sradicare immediatamente le controversie (intese come situazione di incertezza giuridica) "apparenti" perché infondate palesemente oppure perché fondate palesemente ma contrastate da una resistenza defatigatoria, tramite la decisione in prima udienza con il metodo orale. Naturalmente, il discorso vale per la causa di contenuto "palese ": non vale, invece, per la causa che non necessita di istruttoria essendo di puro diritto ma la cui complessità giuridica appunto esige la discussione scritta. Questo metodo sul quando e sul quomodo consente di drenare immediatamente il ruolo da tutto quel (per così dire senza alcun intento spregiativo ma solo in riferimento alla natura assai semplice) pulviscolo bagatellare che lo impantana cronologicamente. Ma un altro aspetto è quello del secondo punto, e cioè che la

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riduzione dei tempi di decisione non può non essere correlata al numero di decisioni da prendere.

Vi sono casi in cui l'esito dell'istruttoria è tale da rendere superfluo che sia il giudice a tirare le fila (si pensi a come nelle cause in cui è fondamentale un accertamento tecnico la situazione si orienta sul piano probabilistico dopo gli esiti, se inequivoci e non più di tanto contestati, di tale accertamento). In tale ipotesi è opportuno che il giudice stimoli le parti a prendere atto degli esiti dell'istruttoria (ovviamente, senza pronunciarsi in modo preventivo su di essi lasciando intravedere la decisione), risparmiando anche le spese legali delle difese conclusive, tramite una conciliazione sostitutiva della decisione giudiziale. In questo senso è significativo il novellato comma primo dell'art.91 c.p.c., che non esclude che sia il giudice a dare l'impulso conciliativo e anche al limite (ma in questi casi è assai raro che le parti restino inerti) la proposta conciliativa (sempre con la massima cautela di non far intravedere da che parte pende il convincimento del giudicante).

Occorre, in sostanza, responsabilizzare le parti nell'ottica dell'obbligo di solidarietà processuale già richiamato; e il mancato accoglimento di una proposta conciliativa adeguata, in caso di soccombenza, può affiancare all'art.91, comma 1, la sanzione ex art. 96, comma 3 c.p.c.

11. Conciliazione L'aspetto appena esaminato riguarda, come più sopra accennato, l'utilizzazione della conciliazione a stadio avanzato del processo.

In effetti la conciliazione deve essere funzionalmente distinta in due specie: la conciliazione-filtro e la conciliazione abbreviativa. La prima - che, salvo slittamenti nella completa entrata in vigore, dal marzo prossimo diventerà in molte tipologie di cause condizione di procedibilità ai sensi del d.lgs.4 marzo 2010 n.28 - (21) è sempre dirimente a livello totale. Proprio perché il suo evidente scopo è la prevenzione dell'utilizzo dello strumento processuale, il tentativo è stato dal legislatore posto in sede esterna al processo. In attesa della vigenza totale del decreto legislativo, l'esternalizzazione può già attuarsi laddove sussistono appositi protocolli conciliativi (abbastanza particolari rispetto ai protocolli organizzativo-interpretativi di cui si dirà infra). L'esternalizzazione dello sforzo conciliativo "in limine" non toglie il potere del giudice istruttore di inserire all'inizio della trattazione un tentativo endoprocessuale, che però evidentemente assume una incidenza assai ridotta e, si può prevedere, assai più rara, in coerenza, per quanto riguarda il rito ordinario, con la soppressione del tentativo obbligatorio di conciliazione nell'art.183 c.p.c.

La seconda specie di conciliazione può valere come dirimente parziale sulla base della

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scomposizione della regiudicanda in nuclei autonomi e incidere eventualmente sugli incombenti istruttori (che possono essere non ridotti dalla conciliazione se questa è appunto il frutto dell'istruttoria e incide solo sul ruolo decisorio, mentre possono essere ridotti se è possibile scindere il thema probandum - p. es. l'an dal quantum - o addirittura evitati se la conciliazione si verifica dopo una decisione pregiudiziale o preliminare ad ogni attività istruttoria).

Ciò sulla misura di un unico rapporto processuale inscindibile, che, anche se trattato contemporaneamente ad altri rapporti processuali, com'è noto rimane autonomo. Nel caso di simultaneus processus (ovviamente non litisconsorzio necessario) la conciliazione-filtro difficilmente può stornare autonomamente un rapporto dall'altro (o dagli altri) quando la connessione fra essi è riconducibile alla pregiudizialità (si pensi per esempio alla manleva). La conciliazione abbreviativa, invece, soprattutto visti gli esiti di incombenti istruttori, può avere più incidenza ai fini della eliminazione di solo alcuni rapporti processuali tra quelli sussistenti nel processo; frequente in tal caso è l'uso della rinuncia agli atti.

È utile quindi che l'iniziativa del giudice non si limiti al tentativo di conciliazione nella fase di apertura del processo (dove, quando entrerà in vigore completamente la normativa sul filtro di procedibilità, come si è detto l'utilità della sua iniziativa decresce chiaramente) ma identifichi anche gli snodi del processo, le sue potenziali soluzioni di continuità in cui potrebbe inserirsi una conciliazione abbreviativa, totale o parziale. Anche questo fa parte, in senso lato, della trattazione della causa, intesa però come una trattazione effettiva, improntata all'oralità come dialogo attivo con le parti e non ridotta a una gestione troppo "generalista" e quindi non attenta alle specificità della singola controversia, che si trasforma, alla fine, in un meccanico incasellamento della causa nel ruolo decisorio così appesantito e inevitabilmente rallentato.

12. Agenda Sulla base di quanto considerato, tenendo conto che non solo smaltire ma anche e soprattutto prevenire l'arretrato dovrebbe essere l'obiettivo di una adeguata gestione organizzativa.

sono proponibili due modalità di approccio dell'agenda (anche informatica) del giudice al ruolo per tenerlo sotto controllo complessivo, che si traducono in due diversi metodi di categorizzazione delle cause .

A. Identificare le tipologie formate dall'esigenza complessiva di diversi trattamenti processuali (con una certa affinità, come si vedrà in seguito, al sistema procedurale francese, anche in rapporto

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al principio di proporzione):

1. le cause di immediata soluzione; tra queste le cause compatibili alla discussione orale e quelle che necessitano di discussione scritta (per le quali, dunque, l'immediatezza è relativa a seconda dello stato concreto del ruolo);

2. le cause che necessitano di istruttoria ampia;

3. le cause che possono maturare sulla base anche di un solo incombente istruttorio (per esempio le cause per cui occorre solo un accertamento tecnico);

4. successivamente all'esito dell'istruttoria, le cause che, per un esito chiaro e in genere per le loro caratteristiche di oggetto e/o di risultanze istruttorie, si prestano a un tentativo conciliativo pre- decisorio.

È infatti utile, sul piano organizzativo, destinare spazi predeterminati non solo per le categorie tradizionali di rito (come il cautelare, lo speciale, il sommario) ma pure per queste tipologie. Èd è inoltre utile aggiungere nella categorizzazione il dato ulteriore del rilievo della regiudicanda (dando precedenza, per esempio, alle cause patrimonialmente più importanti e a quelle che riguardano i diritti della persona) anche per tener conto - sempre nel rispetto del diritto a un giusto processo, ovviamente - del principio di proporzionalità nel configurare l'istruttoria. In quest'ambito dovrebbe inserirsi la calendarizzazione prevista dalla novella del 2009, che andrebbe rapportata a una complessiva valutazione dei tempi ottimali per quel tipo di categoria di causa nel contesto concreto del ruolo.

B. Mantenere una costante visione panoramica del ruolo grazie a una tripartizione fondata sulla fase processuale:

1. cause in trattazione, di cui sottospecie sarebbero quelle in corso di conciliazione;

2. cause in decisione (ruolo decisorio);

3:cause in istruttoria; secondo l'interpretazione preferibile, solo queste dovrebbero muoversi nel ritmo di una calendarizzazione (che esige ovviamente spazi predeterminati nei giorni e nei tempi d'udienza per le prove orali).

Per le consulenze, poiché il quesito dovrebbe essere già delineato nell'ordinanza che le dispone, non pare invece necessaria tale separazione dalle udienze di trattazione.

Quanto al ruolo decisorio, dovrebbe riguardare le cause con discussione scritta, perché le decisioni ex art. 281 sexies c.p.c. dovrebbero essere contestuali o comunque a discussione così ravvicinata -

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se separata dalla precisazione delle conclusioni - da non formare un ruolo che si snoda a distanza dall'ultima udienza di trattazione o di prove. Questo nel rito ordinario. Resta a parte l'applicazione dell'art.429 c.p.c. nelle cause in cui è applicabile (anche solo parzialmente, come per esempio nelle opposizioni alle ordinanze-ingiunzioni) il rito del lavoro. In questi casi può crearsi un ruolo decisorio specifico presumibilmente consumabile in tempi più stretti del decisorio ordinario; ciò almeno nei ruoli in cui l'applicazione del rito del lavoro è limitata, in coerenza con la ratio del rito.

13. Protocolli Uno dei più gravi rischi di rallentamento del processo si riscontra nel caso in cui le stesse regole processuali che dovrebbero essere conformate per consentire l'ottimizzazione delle modalità di accertamento e applicazione del diritto sostanziale al contrario diventano un ostacolo a questo obiettivo, creando difficoltà e incertezze interpretative. La fuga dal problema si realizza - e come si è visto è opzione odierna, identificabile nella deformalizzazione - in una scelta fino a un certo punto paradossale: preferire a un tipo di processo specificamente formato e calibrato secondo i diritti delle parti, un processo "grossolano ", senza punti fermi nel suo percorso, che si adegua caso per caso secondo la valutazione del giudicante. Questo appunto - come si approfondirà infra - è il volto oscuro della deformalizzazione, che include anche una sorta di regressione dello strumento processuale tale da comprimere i diritti processuali perché, minimizzando la struttura predeterminata - ovvero il ruolo del legislatore -, rompe gli argini al ruolo del giudice. Si tende così a una posizione esattamente antipodale al rito societario: esempio di estremizzazione delle scelte in tempi ravvicinati davanti all'irrisolvibile finora problema della lunghezza dei processi. Ogni estremismo comporta però uno squilibrio nella struttura processuale e quindi una disfunzione.

Per evitare che la deformalizzazione "dia il peggio di sè" due sono gli strumenti: da un lato, quello più tradizionale di optare per scelte più o meno comunque agganciate (tramite i criteri di compatibilità e di analogia) alle norme del codice di rito costituzionalmente orientandole (e così preservandole) all'art.111 Cost.; dall'altro, quello più "moderno ", valorizzare, per non addossare al giudicante tutto il peso del processo, il ruolo di tecnici del diritto dei difensori e in genere degli altri tecnici (magistrati direttivi e semidirettivi, e per gli aspetti strtettamente organizzativi cancellieri) coinvolti nella realizzazione del processo stesso. E di qui si giunge all’attuale fenomeno di interpretazione condivisa per scopo organizzativo ma anche accertatorio nel senso di dirimente degli snodi procedurali più o meno incerti. La certezza, quale strumento di organizzazione

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acceleratoria, si concretizza tanto in anteriori scelte specifiche - i c.d. precedenti - quanto in anteriori scelte generali, che ora sono appunto i c.d. protocolli.

Quali formulari interpretativi generali i protocolli giocano un ruolo anche in altri settori, che dall'attività degli Osservatori, produttori generalmente dei protocolli, possono lucrare anch'essi un incremento di certezza. Poichè tuttavia il tasso di strumentalità del diritto processuale è assai più elevato di quello del diritto sostanziale (la procedura è, come si è già ricordato, l' organizzazione della tutela dei diritti sostanziali) il settore in esame si presta, più ancora degli altri, alla realizzazione condivisa con tutti gli operatori tecnici del processo. È perciò senz'altro auspicabile che la cutura processuale di integrazione e condivisione sia stimolata e valorizzata dai magistrati che esercitano funzioni direttive, tramite l'istituzionalizzazione o comunque la connessione salda dell'ufficio giurisdizionale agli Osservatori che seguono l'evoluzione insita nei protocolli - il diritto è vivente - sulla base di uno stabile confronto tra le categorie tecniche nella comunanza dei valori di fondo, cioè dei dettati costituzionali.

L'argomento dei protocolli deve essere però esaminato in modo approfondito perché, come spesso accade ai fenomeni importanti, presenta luci ed ombre.

Per meglio comprendere, allora, le cause e il contenuto del fenomeno del protocollo può giovare il raffronto (in termini di parallelismo e di contrasto) con esperienze apparentemente simili, storiche e contemporanee. Quale interpretazione preventiva dell'ufficio che viene resa nota per evitare indugi su questioni appunto già risolte in modo generale (oltre che per enucleare le soluzioni più "virtuose

") richiama dal passato l'editto pretorio, (22) sorto infatti in un momento, se non di deformalizzazione, di superamento delle forme processuali tradizionali per la loro insufficienza come strumento per gli obiettivi da raggiungere (il processo romano, ripartito allora nelle due fasi in jure e apud judicem, era un processo profondamente formale), e d'altronde originatosi come autoregolamentazione dell'attività del magistrato, prima ancora che come norma diretta all'esterno.

Nella situazione odierna, questi elementi presentano affinità (anche se non identità). Innanzitutto, il diritto vivente odierno esprime coscienza della non idoneità delle impostazioni tradizionali formali a realizzare il processo in un tempo ragionevole. Di qui l'orientamento deformalizzante dell'organo nomofilattico, giunto ad affermare che la ragionevole durata prevale non soltanto sulla forma - in questo potrebbe vedersi una dilatazione del concetto del raggiungimento dello scopo, già presente nell'ordinamento come strumento idoneo a vincere la forma nel caso di nullità - ma anche sulla

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logica giuridica.(23) A questa impostazione, che polarizza e assorbe il processo nei due canoni della ragionevole durata e del contraddittorio quali norme generali "omnicomprensive", si è palesemente richiamato il legislatore del 2009 con il rito sommario nella drastica riduzione di norme "di dettaglio" per arrivare al giudicato: l'intervento che è stato percepito come il principale della riforma 2009 dalla dottrina, ma con diffidenza dalla pratica. Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, cioè l’autoregolamentazione del giudice, è indubbio che il protocollo svolge, entro certi limiti, anche tale funzione; ma al contrario dell'editto, qui si è di fronte a un contratto procedurale collettivo.

La contrattualizzazione della procedura civile viene allora in qualche misura "evocata "come esigenza (e, sul piano strettamente organizzativo, emergenza) del sistema dal parallelo fenomeno della deformalizzazione della procedura, che, partendo dal rito camerale, è avanzata attraverso il rito cautelare uniforme per giungere al rito sommario (prima societario, ora tendenzialmente generalista). Evidente è, come si è detto, lo scopo della deformalizzazione: rendere il processo più fluido ed elastico, ovvero emanciparlo dalla gabbia delle forme, significherebbe nella intenzione del legislatore semplificarlo e renderlo più idoneo ad adattarsi e a proporzionarsi alla specifica controversia: il che vale a dire renderlo uno strumento più agile, ovvero più efficace, ovvero più celere. In questo modo, tuttavia, poiché il processo ontologicamente richiede un certo tasso di regole predeterminate - quel che tradizionalmente si cataloga come la certezza del diritto - per poter essere utilizzato senza confusioni da chi se ne serve e senza compressioni arbitrarie dei diritti delle parti da chi lo dirige, l'esigenza di formalizzazione del processo (perché non sia uno strumento informe, ma sia uno strumento dal contenuto chiaro e determinato) slitta soltanto dal livello normativo al livello giurisdizionale. La forma di per sé è una esigenza perché è una garanzia; come per tutti gli strumenti processuali necessita di una applicazione equilibrata, ma il processo non può comunque prescinderne, per cui quello che apparentemente viene eliminato rientra per altra via. Al riguardo, è significativo leggere i protocolli attualmente esistenti nei fori che li hanno adottati, perché ciò porta a constatare l'impostazione molto spesso estremamente (talora anche eccessivamente) dettagliata di questa "normazione consensuale ".

Il legislatore deformalizzando disegna delle norme quadro, per così dire dei meri profili a cui chi conduce il processo deve dare una fisionomia. È evidente che il compito sarebbe primariamente del giudice; ma è altrettanto evidente che ciò può comportare un "pulviscolo" di più o meno importanti

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questioni procedurali, che, con perfetta eterogenesi dei fini, aggrava il processo, e quindi lo rallenta.

Garantire uno spazio il più ampio possibile all'interpretazione predeterminata, o addirittura, in caso di alta deformalizzazione, alla predeterminata “riconformazione” delle norme processuali, riconquistando così un tasso di certezza idoneo a far funzionare lo strumento con celerità, significa estirpare la potenziale divergenza interpretativa. Fino a che punto possono ottenere questo risultato i protocolli, negozi processuali sui generis? La loro efficacia può supplire in termini di vincolatività, cioè di certezza (che significa garanzia) la latitanza del legislatore? O forse non è una latitanza, ma una impostazione complessiva e voluta di consensualizzazione della procedura? Se, fino a quando i protocolli si occupavano strettamente di organizzazione nonché di interpretazione condivisa e di norme già "formate ", cioè legiferate in modo tradizionale, questi aspetti problematici restavano sullo sfondo, dominando la scena invece l'indubbio aumento di efficienza per la reale riduzione della probabilità di discussione sulle questioni interpretative così generalmente e preventivamente affrontate, ora emergono e risaltano, essendo aumentato il tasso di deformalizzazione anche con l'introduzione di un rito, come il sommario generalista, per il quale non a caso un’attenta dottrina (24) ha chiesto espressamente l'elaborazione di protocolli e la pratica, per così dire, indugia sulla soglia, centellinandone allo stato l'utilizzo. (25) Quale può essere allora, al di là del piano del

"gentlemen agreement ", l'efficacia del protocollo? Anzitutto,confligge con esso la riserva di legge di cui all'art.111 Cost. ("la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge ")?

È noto che in dottrina vi sono orientamenti che danno a tale riserva maggiore pregnanza (26) ed altri che vi leggono invece solo un confine tra il potere legislativo e gli altri poteri(27). Lo sviluppo dell'attività legislativa dopo la legge costituzionale n. 2 del 1999 che inserì la riserva di legge si è orientato evidentemente a una lettura restrittiva della riserva suddetta, che vi riscontra soltanto l'obbligo per il legislatore di dettare norme conformi al giusto processo anche se norme-quadro.

Peraltro è evidente che il legislatore, nel profilare i riti deformalizzati, delega al potere giurisdizionale il completamento della forma normativa. Può allora l'autorità giurisdizionale disporre di tale potere nel senso di concordare le modalità di esercizio con altri soggetti, amministrativi (i consigli dell'ordine degli avvocati) o privati (le parti della causa, nell'ipotesi - attualmente pura ipotesi - che si stipuli tra i soggetti processuali un accordo processuale specifico entro di essa)? Interessante al riguardo è l'esperienza francese, (28) dove i protocolli sono stati stipulati nell'ambito di un processo deformalizzato sotto due profili: dimensioni e preclusioni.

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L'assenza di preclusioni, anzitutto, ha reso assolutamente necessaria la contrattualizzazione procedurale (i protocolli in Francia sono denominati contratti di procedura); nei Tribunals de Grande Instance il sistema prevede che il presidente scelga in limine litis il tipo di procedura da adottare a seconda che la causa sia subito matura, oppure necessiti di produzione documentale, oppure necessiti di una vera e propria istruttoria, dando luogo - con evidente impostazione proporzionale - al corrispondente percorso (circuit court, moyen e long); nell'ultimo caso l'istruzione della causa (mise en état) è oggetto dei contratti di procedura. I contratti di procedura francesi, comunque, contengono anche altri tipi di norme (tra cui quelle relative all'informatizzazione, letta come dematerializzazione del processo(29) ) e vengono stipulati dai presidenti delle corti da un lato e degli ordini degli avvocati dall'altro. Pure in Italia alcuni protocolli sono stati stipulati con formale sottoscrizione da parte del capo dell'ufficio e del presidente del consiglio dell'ordine degli avvocati. Il retroterra normativo francese, tuttavia, è diverso, dal momento che non vi è riserva costituzionale di legge per la procedura civile che, secondo la costituzione francese, può quindi essere disciplinata anche con regolamenti. In un simile contesto i contratti di procedura stipulati dai presidenti delle corti per fissare les bonnes pratiques hanno potuto arrivare al punto di introdurre nullità e decadenze, cosa evidentemente non fattibile nei protocolli italiani. In comune rimane però una ricaduta esterna dell'accordo: la tendenza alla trasfusione dei portati di questa "autonomia negoziale" degli operatori processuali nelle riforme normative, a dimostrazione che il processo ha paradossalmente sete di forma (intesa come garanzia, e non come meccanismo astratto), per cui l'attinge dove si trova. Ciò è avvenuto in modo incisivo in Francia nelle riforme del 2004-2005; alcuni tratti dei protocolli si ravvisano anche nella riforma italiana del 2009, come per esempio la procedura di contraddittorio tecnico della consulenza tecnica d'ufficio (la copiatura è a tal punto evidente che il legislatore si è per così dire dimenticato che poteva fare il passo in avanti per cui i protocolli non avevano il potere, cioè stabilire una decadenza per ulteriori osservazioni dei consulenti tecnici di parte (ovviamente dopo la scadenza di un termine ulteriore decorrente dal deposito della relazione definitiva); decadenza, si nota per inciso, senza la quale il meccanismo introdotto di formalizzazione del contraddittorio tecnico può diventare anche un appesantimento rallentatorio; si tratta quindi di un esempio assai significativo dei limiti dell'apporto di un puro protocollo). Comune è anche lo scopo di perseguire la ragionevole durata del processo (in Francia, délai raisonnable) avvicinandosi anche per certi aspetti (come la

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(19) In questo senso v. Menchini, Osservazioni critiche sul c.d. onere di allegazione dei fatti giuridici nel processo civile, in Scritti in onore di Fazzalari, vol. infra nel