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Grazia Verasani

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Academic year: 2022

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DIRITTI SENZA ROVESCI 2008

Grazia Verasani Agata

illustrazioni di

Luca Galvani

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Grazia Verasani

AGATA

Illustrazioni di Luca Galvani

n. 10

PRECARIATO

DIRITTI SENZA ROVESCI Sicurezza e tutele: contro le discriminazioni

per una cultura etica del lavoro

2008

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IL PROGETTO

“Diritti senza rovesci” è una campagna di comunicazione sociale di Inail.

“Diritti senza rovesci” è un modo per parlare a tutti dei problemi del lavoro e diffondere la cultura della sicurezza e della non discriminazione nei contesti professionali.

“Diritti senza rovesci” sono dodici racconti d’autore ispirati da storie vere di malolavoro. Sono storie che servono per conoscere e per comprendere.

Sono storie che servono per cambiare.

Perché la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro e nessuno dovrebbe essere discriminato, subire infortuni, contrarre malattie, morire mentre sta lavorando.

senza

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M

i chiamo Agata, sono nata a Catania, e sono di quelle che mangiano senza ingrassare. Mia madre dice che è perché sono giovane e che con l’avanzare dell’età il metabolismo rallenta. Io penso che se peso poco la ragione è che ho corso su e giù come una trottola da quando ho finito il liceo.

Sono una precaria.

Alla tv sento gente dello spettacolo o opinionisti a gettone par- lare della precarietà dei sentimenti, e mi viene da ridere. Per- ché è lì che capisco la differenza tra queste cose astratte, meta- fisiche, o certe belle frasi ad effetto, e le mie mani che sembrano sempre insaponate, dove tutto scivola e niente si fa prendere.

Non so se la mia precarietà c’entra qualcosa con l’estempora- neità dei tempi moderni, con i paroloni sociologici, con tutte queste cose da rincorrere: la fretta di salire e scendere dagli autobus, l’ansia di fare buona impressione, il bisogno di trovare un’occupazione che non sia solo temporanea. So che non c’en- tra niente con i sentimenti – anche se a rimetterci, forse, sono un po’ anche loro. La mia precarietà è dura come la patata che ho bollito ieri e che adesso, a mangiarla, è come affondare i denti in una pietra.

Mio padre non lo vedo da dieci anni. Spiegare che ha lasciato mia madre per un’altra è una precarietà che ha poco a che vedere con la mia. Ciò non toglie che da quando lui non c’è mia madre fa la serva in casa dei ricchi per cinquecento euro al

Grazia Verasani

AGATA

Illustrazioni di Luca Galvani

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mese. In nero, ovviamente. Quando c’è stato il problema della cenere dell’Etna che calava su Catania come una nebbia scura e pastosa, anch’io sono finita a pulire le case dei ricchi insieme a una mia amica. Ero già entrata da un po’ nel limbo dei la- voretti saltuari, un panificio, un negozio di telefonini: difficile campare con trecento euro al mese. Senza contare i datori di lavoro del sud, che sembra sempre che ti facciano un regalo, e ti trattano come se fossi terminale, nel senso che lo sanno già che ti tengono due o tre settimane e poi cambiano ragazza.

Infatti, il cartello “Cercasi commessa” non lo toglievano mai.

Poi ho capito il perché. Periodo di prova, lo chiamano. E anche se il tuo lavoro lo fai bene sei in prova lo stesso, la prova non finisce mai, e tu sei solo una faccia che si sovrappone a un’altra e a un’altra ancora, una faccia che si dimentica in fretta, una faccia da non mettere mai in regola. Buffo. Sono stata un’adole- scente ribelle. A scuola dicevano che mancavo di disciplina, che ero incostante, e studiavo solo le cose che piacevano a me. Poi succede che la libertà comincia a farti paura e aspiri alla “regola”, ma nessuno te la dà. Sì, buffo…

Pensavo che in Sicilia si lavorasse grazie alle raccomandazioni, ma ho scoperto che funziona dappertutto così. Io avevo solo un diploma, non ero “qualificata”, e mi sembrava che lì, a Cata- nia, era tutto un gran darsi da fare per niente. Allora ho preso un treno per Bologna, dove abita una mia zia.

Di Bologna, come tanti, avevo il mito. Che fosse una città aper- ta, piena di studenti e di locali, straripante di possibilità. Ma il primo impatto è stato dilatare le narici e non sentire più nessun odore. A Bologna gli odori non c’erano. E nemmeno i sapori; il mio palato ne risentiva: i primi tempi era come ingoiare del po- listirolo. Sarà che le trattorie non potevo permettermele e man- giavo nei Burger King… Senza contare il clima. A casa mia non mi ammalavo mai, ero sempre in salute; a parte nei giorni della merla, a febbraio, che fa un freddo cane. A Bologna, ho comprato subito uno stock di maglioni pesanti in un mercatino.

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L’umidità era un tormento, qualcosa di invisibile e di denso che germogliava come un rampicante sulle pareti delle ossa, facen- dole scricchiolare. Avevo sempre i vestiti bagnati e in borsa te- nevo pacchetti di Kleenex per il raffreddore. Mi chiedevo come facesse la gente a non deprimersi guardando un cielo senza sfumature, grigio come un impermeabile, come il fumo di una sigaretta, come un cervello. E mi faceva impressione vedere le auto destreggiarsi nella nebbia che nascondeva le cose come un muro di cartongesso. Al nord il sole è butterato, mi diceva mia zia, e io rimpiangevo il mio, quello caldo e levigato di Catania.

Ma da brava siciliana, anche le cose più sinistre, per me, hanno un certo fascino, e mi sono innamorata delle case rosse, di certe chiese, dei tigli di San Mamolo, nonostante che a Bologna gli alberi non hanno quelle belle radici grosse che ti fanno da pan- china, come le magnolie delle mie parti.

Mia zia mi ha preso a lavorare nel suo piccolo ristorante. Stavo in cucina dalle sette a mezzanotte per ottanta euro alla settima- na. I soldi non bastavano mai e allora nel tempo libero portavo in giro il mio curriculum, cercavo altri lavori…

I bambini mi piacciono. Per un mese ho lavorato per una coo- perativa come educatrice. Ma quando sono andata a ritirare la mia prima busta paga, ho scoperto che mi avevano trattenuto la quota per diventare socia. Le cooperative funzionano così, e io avevo già pagato una grossa cifra per la quota di iscrizione.

Mi è sembrata una presa in giro e me ne sono andata. Peccato per i bambini, che ad alcuni mi c’ero affezionata…

Ho ripreso il calvario delle agenzie interinali - dove se non ti presenti subito appena c’è un lavoro o se lo rifiuti, rischi che non ti chiamino più -; per pagarmi la stanza in cui alloggiavo sono finita a fare i caffè in un bar di indiani che parlavano solo nella loro lingua. Non erano gentili, io ero sempre tesa e ner- vosa, e ho preso al volo la proposta di lavorare in una mensa.

Niente da fare. Dicevano che ero lenta, che dovevo andare più

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veloce. Io mi sentivo Speedy Gonzales ma si vede che non cor- revo abbastanza.

Sono approdata in un centro commerciale e ho fatto la cassiera part-time durante le feste natalizie. Nel camerino dove indos- savo la divisa, c’erano dei manifestini pieni di slogan tipo “Sia- mo una quadra, siamo vincenti!”, cose così. È durata poco, mi sono presentata in un’altra agenzia e ho detto: “Se non lavoro, non mangio. Mia madre non può mantenermi e non è vero che al sud la vita è meno cara che qui. Certo, mia madre l’arte di arrangiarsi ce l’ha nel dna, ma io sono venuta al nord con l’illusione di non lavorare in nero come lei!”. Finisce che trovo lavoro come carrellista in un ristorante self service. Prestazione occasionale, con contratto rinnovabile di settimana in settima- na, e il sogno dell’assunzione da covare.

Ma succede che il lavapiatti mi mette gli occhi addosso e mi palpa il culo appena ne ha l’occasione. Io ritiravo i piatti spor- chi e li portavo in cucina, andavo più veloce che potevo ma quelle mani erano più leste di me. Ne parlo col capo e capisco che è un autogol: il lavapiatti è in nero, lavora lì da più tempo, meglio tenere lui e scaricare me…

Busso alla porta di una cooperativa sociale che si occupa di assistenza domiciliare agli anziani. Dalle sette alle otto a casa di un allettato - cioè un anziano che non può alzarsi dal letto - e poi via, a casa di un altro e un altro ancora… Mi muovevo in bicicletta per restringere i tempi, e grazie agli straordinari rag- granellavo anche novecento euro, pur non essendo un’assisten- te ospedaliera “formata”. Avevo ventitré anni ed ero così esile che faticavo a sollevare certi anziani, ma il lavoro mi piaceva, erano tutti carini con me, come fossero precari anche loro, i vecchi, in una specie di anticamera simile alla mia, e soli di una solitudine diversa, sì, ma con delle affinità con la mia. Il quar- tiere in cui lavoravo era grande e suddiviso in zone “coperte”

da tre gruppi, io ero un jolly, tappavo i buchi, ma andava bene

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così. Mi svegliavo alle sei e finivo alle otto di sera. Tornavo a casa stanchissima, con le orecchie piene dei racconti di una vita, intimidita dalla sofferenza dei vecchi che lavavo, curavo, e dal pudore con cui si lasciavano manipolare, rigidi e inermi come bambolotti. Insistevo per fare parte di un gruppo e avere un contratto a tempo indeterminato, ma con la scusa che mi avevano rubato la bicicletta la cooperativa prendeva tempo.

Senza bici era un massacro spostarmi da un anziano all’altro, ma non volevo lasciare i miei “bambini”, sentivo di essere utile, di avere vinto la loro diffidenza, di essermi conquistata la loro fiducia. Non avevo i soldi per comprarmi una nuova bicicletta e conoscevo gente a cui di bici ne avevano rubate anche tre o quattro, così mi muovevo con i mezzi pubblici e spesso arrivavo in ritardo, trafelata, sudata, affaticata.

Ricordo quel periodo della mia vita come una confusione di padelle, vecchie cucine, soprammobili impolverati, foto ingial- lite, centrini di pizzo, cateteri, medicine, sorrisi sfiniti, battute in un dialetto a me incomprensibile, parenti distratti, e gesti al rallenti come nei film. Correvo da una casa all’altra e, appena giunta a destinazione, mi arrendevo all’elogio della lentezza.

Lì, in quelle case, il tempo si fermava di colpo. C’erano anziani che desideravano trattenermi con qualche scusa, per non resta- re soli, per poter parlare con qualcuno, e io mi sentivo in colpa perché avevo poco tempo, dovevo andare via, a un vecchio se ne sostituiva un altro, con altri problemi, altra noia, altra soli- tudine. Eppure lo ricordo come un periodo felice. Nessuno di loro mi ha mai trattato male, anzi, li sentivo godere della mia giovinezza come se rimandasse o alleggerisse il loro capolinea.

Adesso, ogni volta, che sosto su una panchina, in attesa del bus o per mangiare un gelato, penso che quei vecchi mi hanno inse- gnato il gusto di rubare alla fretta delle pause e uno sguardo più attento sulle cose. In fondo, a pensarci bene, vecchi e precari è così che si sentono: in panchina, come riserve che non entrano in campo quasi mai...

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Nell’estate del 2007 sono tornata in Sicilia. La precarietà, in agosto, è una specie di premio dopo tante inutili fatiche e scor- ribande. Ti culli nel pensiero che se non sei fissa sei vagante come una nuvola, e c’è quel piacere strano di lasciarsi andare a un ozio che sa di libertà e non di ingiustizia. Dopo un mese di mare, granite, vecchi amici ritrovati, sono ripartita per Bolo- gna. Ho di nuovo dilatato le narici e azzerato i sensi come una tabula rasa. Ho rivisto Andrea, un coetaneo di Modena con cui prima di partire per le vacanze mi ero scambiata un bacio, e ho scoperto che sarebbe rimasto unico, quel bacio, perché da un mese lui stava con una certa Anna, studentessa di Economia.

Per vendetta, sono finita a letto con un suo amico, Fabio, ope- raio in una fabbrica di Bentivoglio, ma è durata un mese. E ho cominciato a capire che quelli della tv e dei giornali avevano ragione a dire che la precarietà è un contagio, un’epidemia, un’incertezza generale, insomma l’aria che respiri, e che non riguarda solo il lavoro ma anche tutte le altre cose. La rabbia non ha mai smesso di montarmi. La rabbia è istinto di conser- vazione. I più allenati alla rabbia sono gli extracomunitari, che arrivano qui a muso duro, pronti a tutto, sopravvissuti a guerre di cui so poco o nulla. Io ero meno equipaggiata, quando sono partita per il nord, e meno incattivita. Diciamo che forse nu- trivo più speranze, non lo so. Di politica non capisco niente, a parte che se non sei figlio di, se sei nato in una famiglia dove si contano i centesimi, c’è poco da scherzare. Ma io le maniche me le rimboccavo volentieri, non ero una lavativa, volevo im- parare, dare una mano a mia madre, mantenermi da sola; de- sideravo solo un po’ di sicurezza. Un lavoro. Un’occupazione non temporanea. Una cosa stabile, almeno per un po’. Qualcu- no che mi desse fiducia. E certe volte mi sembrava di chiedere l’elemosina o il paradiso, come se fossero la stessa cosa.

A settembre, insomma, torno a Bologna e ricomincio il tour delle agenzie interinali. Foto, curriculum, telefonate, ecco dove spendevo i miei risparmi. Per un po’ lavoro in una copisteria

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ma, a certi livelli, il computer per me è arabo, e così mi li- cenziano. Mi chiamano per fare l’inventario in un’agenzia di lavoro interinale: ventotto euro dalle nove all’una del mattino.

Sarà vita, questa?

E arriva finalmente il colpo di fortuna. Porto il curriculum in una grande profumeria, mi dicono che mi terranno solo per un mese ma alla fine ci metto un tale impegno e una tale passione che mi fanno un contratto di quattro anni. Quattro anni. Una roba da festeggiare. Una roba che ti metti a saltare di gioia e telefoni a tua madre a Catania e le dici: “Siediti che ti devo dare una notizia”.

Quattro anni e all’improvviso esisti, hai un posto, un ambiente di lavoro umano, una clientela da servire, otto ore al giorno di scaffali da riempire di shampoo, bagnoschiuma, rossetti. Il negozio è in pieno centro e di venerdì e sabato passano seicento persone e io salgo le scale del magazzino duemila volte al gior- no ma non sono stanca, non voglio essere stanca, il lavoro mi piace, mi piace perché durerà ben quattro anni, quattro anni dove non dovrò chiedermi “Che faccio? chi sono? chi mi vuo- le?”. Quattro anni, non so se rendo l’idea…

Con me lavora un ragazzo marocchino che il capo vorrebbe mettere in regola, ma il ragazzo, purtroppo, non ha la cittadi- nanza italiana. Io la Legge non la capisco: in Italia per essere regolare devi avere un lavoro e per avere un lavoro regolare devi possedere la cittadinanza. Il capo ha detto che se gli rifiu- tano la richiesta, il ragazzo lo tiene lo stesso, perché è un gran lavoratore e una brava persona.

Il mio capo, di me, si fida.

Dopo tre mesi di osservazione, adesso si fida.

Io non ho mai rubato niente, nemmeno un cotton fioc o un lucida-labbra. Da due settimane sto alla cassa: un successo. È questo, il successo, per me. Stare alla cassa. Cioè una promo- zione che non mi aspettavo.

La sera torno a casa col sorriso. Lo so che non sarà così per

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sempre, ma ho quattro anni da giocarmi e mi dico che per un po’ non vivrò alla giornata. È già qualcosa. Torno a casa e mi addormento davanti alla tv, ma il sabato esco col ragazzo marocchino, ci mangiamo una pizzetta da Altero, andiamo al cinema o a fare una passeggiata. Non so se nascerà qualcosa tra di noi…

Dimenticavo, ieri sono andata al gattile e ho preso Futuro, un gattone tigrato di due anni, finito lì dopo la morte dell’anziana padrona. Non so che nome avesse nella sua prima adozione ma io l’ho chiamato Futuro perché è di buon auspicio, perché l’indifferenza non mi piace, perché sento che nella vita a furia di bracciate e agitazioni un po’ di orizzonte lo intravedi. Adesso, ad esempio, per quattro anni posso tirare il fiato…

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Luca Galvani è nato a Torino nel 195. Si è diplomato all’Istituzione Classica Arti- stica nel 2004 e, nell’aprile 200, si è lau- reato in Arti visive all’Accademia di Brera di Milano. Frequenta l’ultimo anno della Laurea specialistica in Arti visive. Nel 2003 ha vinto il concorso del premio Sea nella manifestazione “Fumetti di Frontiera” ed è arrivato terzo al concorso di fumetto “Lanciano nel Fumetto”, nel 200.

Ha realizzato diversi manifesti e illustrazioni e collabora per la grafica con uno studio di architettura.

Grazia Verasani è nata nel ‘4 a Bologna, città dove vive. Ha pubblicato giovanissima i suoi primi racconti grazie al poeta Roberto Roversi e allo scrittore Gianni Celati (sul Manifesto nella ru- brica Narratori delle riser- ve). Ha compiuto studi di pianoforte al conser- vatorio e vinto nel ‘95 il Premio città di Recanati per la canzone d’autore.

La sua pièce From Me- dea, edita da Sironi, è rappresentata in Italia e all’estero. Con Fernandel ha pubblicato L’amore è un bar sempre aperto, Fuck me mon amour e Tracce del tuo passaggio. Nel 2004 con Coloradonoir/

Mondadori ha pubblicato Quo vadis, baby?, da cui il regista Ga- briele Salvatores ha tratto un film, e nel 2006 Velocemente da nessu- na parte, sempre con protagonista l’investigatrice privata Giorgia Cantini - al centro anche di una serie televisiva prodotta da Sky.

Il 29 maggio 200 è uscito per Feltrinelli il romanzo Tutto il freddo che ho preso.

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Postfazione

Le storie siamo noi

Ragioni e obiettivi della campagna di comunicazione “Diritti senza rovesci”

“Diritti senza rovesci” è una campagna di comunicazione sociale promossa da Inail il cui sottotitolo esplicativo recita: “Sicurezza e tutele: contro le discriminazioni per una cultura etica del lavoro”. Si chiarisce, in questa semplice frase, l’obiettivo generale di una serie di azioni comunicative, di linguaggi, di iniziative messe in campo per contribuire alla creazione di una cultura, condivisa collettivamente, che metta al centro dell’attenzione e della quotidianità dell’esperienza lavorativa la sicurezza sul lavoro e i principi di non discriminazione.

L’idea di “Diritti senza rovesci” nasce in Valle d’Aosta, dall’amicizia di due donne, impegnate in due contesti tradizionalmente lontani:

Elvira Goglia, dirigente di Inail e Viviana Rosi, dell’Associazione culturale Solal.

Lo scopo è ambizioso e non si limita a richiamare il rispetto di nor- me fondamentali che salvaguardano la salute psicofi sica dei lavora- tori. Per sollecitare la rifl essione, per lasciare traccia nelle coscienze e nelle consuetudini, per indurre una maggiore consapevolezza dei diritti fondamentali nei lavoratori e nei datori di lavoro, si ricorre al linguaggio letterario e a quello del teatro di strada. Vengono coinvol- ti attrici e attori di grande bravura, realizzate videoinstallazioni e so- prattutto vengono raccolte storie di disagio lavorativo e di ingiustizia patita dalla viva voce di lavoratori e lavoratrici, con la convinzione che proprio da lì, dalle tante vicende di “malolavoro” che ancora si verifi cano nel nostro paese, sia necessario partire per costruire una cultura, una mentalità eticamente responsabile.

Nel 2007 la campagna di “Diritti senza rovesci” muove i primi passi nella piccola Valle d’Aosta, con il sostegno di numerosi attori sociali (Assessorato Attività Produttive e Politiche del Lavoro della Regione Autonoma Valle d’Aosta, Consigliera di Parità, Direzione Regionale del Lavoro, Cgil, Cisl, Uil, Savt, Confi ndustria Valle d’Aosta, Con- fartigianato, CNA, Associazione Artigiani Valle d’Aosta) e subito si

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avvale dell’adesione convinta al progetto di scrittori e scrittrici (Giu- liana Olivero, Carmen Covito, Andrea Bajani, Viviana Rosi, Gior- gio Falco, Barbara Garlaschelli) impegnati a portare la realtà nella costruzione narrativa. Le storie di vita lavorativa raccolte grazie alla disponibilità e alla voglia di raccontarsi di lavoratori vittime di discri- minazioni, precarietà, mobbing, i referti stilati in occasione di una tra le troppe morti sul lavoro diventano racconti da distribuire per strada, da leggere ad alta voce a passanti apparentemente distratti, da fare ascoltare a centinaia di giovani accorsi a visitare il percor- so multimediale allestito a Torino negli spazi, che ancora trasudano memoria industriale, dell’associazione Libera di don Ciotti. È for- te la convinzione – espressa con passione militante da Lella Costa, in occasione della presentazione della campagna (Aosta, 27 luglio 2007) – che il grande valore delle storie di vita vissuta stia nel fatto che parlano “alla pancia” di chi le sta a sentire, che la letteratura, quando coglie il valore e il senso dell’esperienza umana, diventa uno strumento straordinario per smuovere le coscienze e convincere del- la necessità di un cambiamento per costruire una società che sia più equa e migliore per tutti.

Con un simile presupposto, proseguire nel lavoro avviato nel 2007 è stato inevitabile.

Nel 2008 vedono la luce altre sei narrazioni, altre sei storie “vere”:

le vite precarie che minacciano, il futuro delle nuove generazioni; le discriminazioni che colpiscono anche chi occupa posti dirigenziali quando la malattia irrompe nel quotidiano; la vita spesso aspra e solitaria delle donne straniere che vivono nelle nostre case, che ac- cudiscono i nostri anziani; l’isolamento e l’incomprensione che cir- condano i lavoratori diversamente abili; la fi ne prossima ventura del lavoro autonomo qualora non si sappia dare valore alla laboriosità di chi ancora crede al “saper fare” con la testa e con le mani.

Altri scrittori e scrittrici (Dacia Maraini, Tullio Avoledo, Michela Murgia, Grazia Verasani, Matteo B. Bianchi, Antonio Pascale) met- tono a disposizione la loro penna, il loro talento, la loro sensibilità per commentare le testimonianze e trasformarle in storie, rifl essioni, puntuali descrizioni di contesti lavorativi “diffi cili”. Come nel 2007, quando la vicenda di un giovane precario è diventata una graphic

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novel illustrata da Alessandro Viale, per parlare ai ragazzi e alle ra- gazze con un linguaggio più vicino a loro, così in questa nuova serie di pubblicazioni le peripezie lavorative di una tra le tante lavoratrici ventenni a tempo determinato sono raccontate anche attraverso le belle illustrazioni di un disegnatore, Luca Galvani, coetaneo della protagonista della storia.

Ai giovani, del resto, guarda con particolare attenzione il progetto di

“Diritti senza rovesci” perché la cultura della sicurezza e della non discriminazione – lo sa bene Inail che da anni si occupa di questo – si costruisce, si diffonde, si innerva nel tessuto economico del nostro paese anche e soprattutto attraverso le nuove generazioni di lavora- tori, anche grazie ad una rinnovata concezione del lavoro che può venire a mano a mano coltivata e sostenuta a partire dai banchi di scuola e dalle aule dell’università.

In senso più generale, avvicinare il mondo della cultura a quello del lavoro, affi ancare i linguaggi, quello delle cifre, che spietatamente dichiarano quanti infortuni, quante malattie professionali colpisco- no i lavoratori italiani, e quello del cinema, del teatro, della musica, della letteratura è ciò che da anni Inail sta facendo ad un unico sco- po: «Uscire dal luogo comune, autoassolvente, che gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali siano un problema fuori di noi: un problema degli “altri”, dei datori di lavoro e dei lavoratori. Come se ciascuno di noi non appartenesse a una delle due categorie (o quan- tomeno aspirasse ad appartenervi) e quindi non fosse inevitabilmen- te parte del problema. E soprattutto, vogliamo sperarlo, parte della soluzione» (Marco Stancati, Responsabile Comunicazione di Inail e docente alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma).

Un obiettivo questo che la campagna di comunicazione “Diritti sen- za rovesci” condivide e fa proprio, grazie all’impegno civile di artisti e di semplici cittadini che leggono e sanno che ciascuna delle storie che andiamo raccogliendo riguarda ciascuno di noi e il nostro modo di vivere e pensare il lavoro in quanto parte rilevante della nostra vicenda esistenziale.

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1. MOBBING - Giuliana Olivero, Sottigliezze

2. DISCRIMINAZIONE - Carmen Covito, Tempo parziale 3. MORTIBIANCHE - Andrea Bajani, Tanto si doveva 4. PRECARIATO - Viviana Rosi e Alessandro Viale, Vogliono te. Storia di un ragazzo interinale 5. IMMIGRAZIONE - Giorgio Falco,

Liberazione di una superfi cie 6. DISABILITÀ - Barbara Garlaschelli,

Luce nella battaglia. La storia di Matilde

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7. LAVOROAUTONOMO - Tullio Avoledo,

Il pesce grande mangia il pesce piccolo

8. IMMIGRAZIONE - Dacia Maraini presenta Nadja 9. DISCRIMINAZIONE - Michela Murgia, Alla pari 10. PRECARIATO - Grazia Verasani, Agata Illustrazioni di Luca Galvani

11. DISABILITÀ - Matteo B. Bianchi, Pietro in diretta 12. MORTIBIANCHE - Antonio Pascale,

Trasformare il trauma in dolore

I titoli della collana 2008

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Pubblicazione non destinata alla vendita Grazia Verasani

AGATA

Illustrazioni di Luca Galvani

© Grazia Verasani, 2008. Tutti i diritti riservati. Pubblicato in accordo con l’Autore tramite Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency

Per le illustrazioni © 2008 Luca Galvani Grafi ca e impaginazione di Francesca Schiavon Stampa: Tipolitografi a INAIL - Milano - gennaio 2009

INAIL - DIREZIONE CENTRALE COMUNICAZIONE

Piazzale Giulio Pastore, 6 - 00144 Roma dccomunicazione@inail.it

www.inail.it

“Diritti senza rovesci” è un progetto INAIL ideato dall’associazione Solal-progetti culturali.

Diritti di pubblicazione e d’uso per tre anni

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