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Il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti: qualche osservazione iniziale. - Judicium

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PAOLO PORRECA

Il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti: qualche osservazione iniziale.

1. Lineamenti generali.

Il decreto legislativo 1° settembre 2011 n. 150 è stato emanato in attuazione della delega al Governo

“per la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili”, prevista dall’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69.

Il testo legislativo mira a realizzare la riduzione prim’ancora che la semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria, e che sono regolati dalla legislazione speciale, riconducendoli ai tre modelli previsti dal codice di procedura civile, individuati nel rito ordinario di cognizione, nel rito che disciplina le controversie in materia di rapporti di lavoro e nel rito sommario di cognizione (introdotto dalla medesima legge n. 69 del 2009).

Come osserva la relazione illustrativa, l’evoluzione normativa degli ultimi decenni si è caratterizzata per l’estrema proliferazione dei modelli processuali, avvenuta spesso in assenza di un disegno organico, all’insegna della ricerca di formule procedimentali che potessero assicurare una maggiore celerità dei giudizi.

Il fenomeno si è rivelato, nel tempo, come un fattore di disorganizzazione del lavoro giudiziario, individuato come una delle cause delle lungaggini dei giudizi civili, oltre che di rilevanti difficoltà interpretative a loro volta determinanti un eccessivo tasso di pronunce in rito piuttosto che sul merito della controversia.

Nello stesso tempo, a questa tendenza, se ne era sovrapposta altra, quella definibile nei termini della tutela differenziata, in ragione della quale peculiarità processuali sono state varate in funzione della protezione di posizioni sostanziali di volta in volta ritenute meritevoli (come nel tipico esempio del processo del lavoro per la tutela rafforzata del lavoratore, il cui modello è stato poi esteso al processo locatizio per la specifica tutela del conduttore).

Nell’esercizio della delega si è consapevolmente cercato di realizzare una chiara inversione di tendenza rispetto al passato, razionalizzando le disposizioni processuali contenute nella legislazione speciale, mediante un unico testo normativo che si viene a porre in rapporto di complementarità rispetto al codice di rito civile.

È inoltre evidente una nuova impostazione della “differenziazione” processuale, basata sulla valutazione del diverso valore ponderale istruttorio della lite in funzione del suo oggetto. Questo tema è piuttosto marcato, come si vedrà, nell’utilizzo del procedimento sommario di cognizione.

Si direbbe che siamo di fronte a un’opera di razionalizzazione abbinata a una nuova matrice culturale, piuttosto che a una semplificazione dei riti intesa quale massiccia soppressione di peculiarità processuali (invece mantenute in dosi significative) o riconduzione a unità del modello di rito utilizzabile, sia pure con qualche variante.

Obiettivo in realtà più ambizioso di quanto non si possa probabilmente immaginare, e forse anche ragionevole, in una parabola che trova la sua origine nella riforma processuale apportata dalla legge

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n. 69 del 2009, rispetto alla quale l’esercizio della delega si poneva una finalità di chiusura e non di nuova, ennesima e ravvicinatissima soluzione di continuità.

Questa chiave di lettura emerge piuttosto agevolmente, al netto dei primi commenti volti – come spesso di recente – a minimizzare o drammatizzare in senso negativo gli interventi normativi. Si tratta di reazioni quasi per default diffidenti nei confronti del nuovo, oramai rinvenibili usualmente in un mondo professionale che agisce in un quadro – quello della giustizia civile italiana – di gestione organizzativa davvero difficile.

Vale la pena osservare – nemmeno troppo incidentalmente – che si tratta di difficoltà che il decreto legislativo in parola non potrà certo ridurre, come verosimilmente non potranno farlo se non interventi strutturali sia in termini di risorse, in specie quelle volte all’informatizzazione giudiziaria, che in termini di contenimento dell’ipertrofia di una domanda di giustizia troppo spesso abusata o distorta, come mostra l’eclatante caso della Suprema corte di cassazione, sempre meno in grado di assicurare la sua propria funzione nomofilattica, e sempre più piegata – caso pressoché unico nel panorama internazionale di riferimento – a ulteriore quanto improprio presidio dello ius litigatoris.

E del resto, il decreto legislativo non esaurisce certo i possibili interventi di semplificazione e razionalizzazione del sistema processuale civile, tenuto conto della scelta operata dalla legge delega di escludere dal suo ambito di applicazione le disposizioni processuali in materia di procedure concorsuali, di famiglia e minori, quelle contenute nel regio decreto 14 dicembre 1933, n. 1669, nel regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736 (cambiale e assegno), nella legge 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), nel codice della proprietà industriale (decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30) e nel codice del consumo (decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206).

Naturalmente, si tratta di discipline connotate da un’autonoma centralità, ma va aggiunto che sono restati immuni dall’intervento anche altri importanti segmenti dell’ordinamento, la cui esclusione può avere solo una spiegazione in termini di scelta di merito, e non tecnica, da parte del legislatore:

si pensi alla disciplina concernente i procedimenti per l’equa riparazione in caso di violazione del termine di ragionevole durata del processo (legge n. 89 del 2001), o alla disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati (legge n. 117 del 1988).

Ma i criteri posti dalla legge delega sono stati attuati mantenendo, inoltre, tutti i preesistenti canoni di competenza, nonché quelli relativi alla composizione dell’organo giudicante, e operando una riconduzione di ciascun procedimento a uno dei macromodelli regolati dal codice di procedura civile.

Modelli, quelli codicistici, che non potevano subire modifiche, neppure, per intenderci, forzando la lettura del riferimento alla “legislazione speciale”: non era pertanto solo il procedimento ordinario quello che non poteva essere inciso, ma anche gli altri due presi a riferimento, e cioè quello del lavoro e quello sommario.

Sempre nel rispetto della delega, la riconduzione è allora avvenuta privilegiando il modello processuale del rito del lavoro per i procedimenti in cui si rivelavano prevalenti i caratteri della concentrazione delle attività processuali, ovvero nei quali venivano previsti ampi poteri di istruzione d’ufficio.

In particolare, il presupposto della concentrazione delle attività processuali è stato riscontrato in tutti quei procedimenti in cui le regole previgenti prevedevano lo svolgimento contestuale di attività che, secondo le norme del procedimento ordinario di cognizione, sarebbero (state) scaglionate temporalmente, come nel caso della decisione contestuale con lettura del dispositivo in udienza, che tiene luogo della successione procedimentale della precisazione delle conclusioni, seguita dallo scambio delle comparse conclusionali e, infine, dal deposito della decisione.

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Sono stati ricondotti, invece, al modello del procedimento sommario di cognizione –inteso come giudizio a cognizione piena, sia pure in forme semplificate ed elastiche rispetto ai due irriducibili snodi del rito ordinario offerti dagli articoli 183 e 189 del codice di procedura civile – i procedimenti speciali caratterizzati da un’accentuata semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, rivelata, nella maggior parte dei casi, dal richiamo della procedura camerale prevista e disciplinata dagli articoli 737 e seguenti del medesimo codice.

Il presupposto della semplificazione della trattazione è stato poi rinvenuto in quei procedimenti che, nel loro pratico svolgimento, sono caratterizzati da un tema probatorio semplice, cui consegue ordinariamente un’attività istruttoria breve, a prescindere dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte o delle questioni giuridiche da trattare e decidere.

Tale impostazione si evince anche dai pareri resi dalle competenti commissioni della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, che hanno concordemente suggerito di ricondurre al rito sommario di cognizione anche i procedimenti in materia di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità, nonché le controversie in materia di attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria, i quali sono caratterizzati, nell’esperienza pratica, da un’attività istruttoria ridotta, a fronte di questioni giuridiche spesso non altrettanto semplici.

Per i procedimenti nei quali, viceversa, non è stato dato rinvenire alcuno dei predetti caratteri si è operata una riconduzione, residuale, al rito ordinario di cognizione.

Nell’operare la riconduzione a uno dei predetti riti, conformemente ai criteri di delega, sono state mantenute in vigore le disposizioni previste dalla legislazione speciale che attribuiscono al giudice poteri officiosi, nonché quelle finalizzate a produrre effetti che non potevano conseguirsi applicando le norme contenute nel codice di procedura civile.

A tal riguardo va precisato che il criterio direttivo in questione, accogliendo la sollecitazione in tal senso formulata dalle commissioni parlamentari, è stato interpretato nel modo più restrittivo possibile, al fine di potenziare, al massimo reso possibile dalla voluta cornice, l’opera di semplificazione.

Ciò ha condotto a un’omologazione la più ampia possibile dei termini processuali – con specifico riferimento ai quelli di decadenza per l’introduzione delle azioni di carattere oppositivo – all’eliminazione, ove possibile, di tutti i termini ridotti per il compimento delle attività processuali previste dai riti cui i singoli procedimenti sono stati ridotti, e all’introduzione di una disciplina unica e omogenea della sospensione dei provvedimenti oggetto di opposizione.

L’individuazione, viceversa, delle disposizioni peculiari mantenute in vigore è stata effettuata non sulla base di un mero criterio di specialità, che avrebbe imposto il mantenimento tout court di pressoché tutte le specificità preesistenti, ma discernendo, tra le numerose disposizioni derogatorie alle regole processuali generali, in particolare quelle volte a conseguire effetti di riequilibrio di posizioni sostanziali delle parti caratterizzate da una disarmonia originaria, ovvero quelle rese necessarie dal collegamento con specifiche fattispecie extra-processuali (ad esempio, i termini di svolgimento di correlati procedimenti amministrativi o altre particolari quanto manifeste ragioni di urgenza).

2. L’utilizzo del rito del lavoro: spunti.

Vengono ricondotte al rito del lavoro: l’opposizione a sanzione amministrativa e l’opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada; l’opposizione ai provvedimenti di recupero di aiuti di Stato; le controversie in materia di applicazione delle disposizioni del codice

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sulla protezione dei dati personali; le controversie agrarie; l’impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei protesti; le opposizioni ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore protestato.

L’adattamento del rito laburistico a tali fattispecie ha reso necessaria l’adozione di disposizioni di coordinamento, allo scopo di consentire l’adeguamento alle materie oggetto dei procedimenti.

È stata così sancita (art. 2 del d.lgs.) l’inapplicabilità delle previsioni incompatibili con le materie diverse da quelle indicate dall’art. 409 c.p.c., come nel caso della disciplina della competenza territoriale e della competenza del giudice di appello, delle regole per la difesa in giudizio delle pubbliche amministrazioni datrici di lavoro, dell’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità e interpretazione dei contratti e accordi collettivi, dell’esame dei testimoni sul luogo di lavoro, del potere di richiesta d’informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali.

È stata, inoltre, espressamente esclusa l’applicazione delle previsioni che introducono significative differenziazioni dei poteri processuali.

Tali previsioni si giustificano, in quel modello processuale, esclusivamente per l’esigenza di garantire un particolare favore nei confronti del lavoratore, anche in considerazione della peculiare connessione dei diritti del lavoratore con quelli della personalità, qual è il diritto a un’esistenza libera e dignitosa sancito dall’art. 36 della Carta.

È quindi stata esclusa l’applicazione delle disposizioni in materia di costituzione e difesa personale delle parti, di condanna officiosa al pagamento d’interessi e rivalutazione sui crediti di lavoro – tranne, significativamente, per le controversie agrarie – e della disciplina differenziata dell’efficacia esecutiva della sentenza; è stato previsto che l’ordinanza anticipatoria ex art. 423, secondo comma, c.p.c. possa essere concessa su istanza di ciascuna parte, ed è stata esclusa la possibilità di deroga ai limiti in materia di prova sanciti dal codice civile consentita dall’articolo 421, secondo comma, c.p.c., come accade anche nelle controversie in materia di locazione, comodato e affitto d’azienda.

Quanto alle controversie agrarie, già variamente soggette al rito laburistico, è stata dunque prevista espressamente l'applicabilità dell’articolo 429, terzo comma, c.p.c., con la pronuncia d’ufficio della condanna al pagamento degli interessi e della rivalutazione sui crediti dell’affittuario, riconoscendo a quest'ultimo la medesima tutela sostanziale prevista per i lavoratori subordinati.

3. La prima rilevante novità: collocazione e utilizzo del procedimento sommario di cognizione.

Ad avviso di chi scrive, però, la maggiore novità sistematica, posta anche la residualità dell’utilizzo del rito (cosiddetto) ordinario (riservato ai soli casi di cui agli artt. 31, 32 e 33 del d.lgs.), sta nella rinnovata collocazione del rito sommario, di cui si fa applicazione non più opzionale in un numero ancora più ampio di fattispecie.

Vengono infatti ricondotte al rito sommario di cognizione: le controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato; le opposizioni ai decreti di pagamento delle spese di giustizia;

le controversie in materia di immigrazione, ivi comprese quelle in materia di diritto di soggiorno e di allontanamento dei cittadini degli altri Stati membri dell'Unione europea o dei loro familiari, di espulsione dei cittadini di Stati che non sono membri dell’Unione europea e di riconoscimento della protezione internazionale; le opposizioni al diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari; le opposizioni alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio; le azioni popolari e le controversie in materia di eleggibilità, decadenza e incompatibilità nelle elezioni comunali, provinciali, regionali e per il Parlamento europeo, nonché le impugnazioni delle decisioni della Commissione elettorale circondariale in tema di elettorato attivo; le controversie in materia di riparazione a seguito d’illecita diffusione del contenuto di

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intercettazioni telefoniche; le impugnazioni dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai; le impugnazioni delle deliberazioni del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti; le controversie in materia di discriminazione; le controversie in materia di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità; le controversie in materia di attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria e contestazione del riconoscimento.

In conformità al criterio di delega previsto dall’articolo 54, comma 4, lett. b), n. 2), della legge n.

69/2009 è stata esclusa, per tutti questi procedimenti, la possibilità di raccordo con il rito ordinario (art. 3, comma 1, del d.lgs.). Questo punto può costituire l’abbrivio per un decisivo approfondimento.

Innanzi tutto, vanno esaminati i pareri parlamentari (parere del 27 luglio 2011 per la Camera, parere del 2 agosto 2011 per il Senato). In questi testi (del tutto sovrapponibili tra loro), si trova innanzi tutto affermato che:

«l’articolo 54, comma 4, lettera c) della […] legge n. 69 del 2009, prevede, tra i principi di delega, la necessità di conservare le “disposizioni previste dalla legislazione speciale […] finalizzate a produrre effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile”: tale disposizione costituisce una direttiva suscettibile di una duplice lettura;

il legislatore delegato [nello schema preliminare] ha interpretato il criterio direttivo nel senso che debba essere mantenuta ogni disposizione processuale speciale, essendo questa per definizione destinata a produrre un effetto (processuale) non conseguibile con la normativa ordinaria; in tal modo lo schema di decreto legislativo conserva, nelle singole disposizioni, tutte le peculiarità processuali presenti nelle norme originarie: seguendo questa prima interpretazione, inevitabilmente si conservano tutte le peculiarità processuali, ma si percorre una strada che affievolisce l’impatto del provvedimento sulla riduzione e semplificazione dei riti;

esiste, tuttavia una diversa possibile interpretazione, che questa Commissione ritiene preferibile, secondo la quale devono essere salvaguardate soltanto “le norme processuali che prevedono delle tutele sostanziali speciali”; rivisitando lo schema di decreto legislativo alla luce di questa seconda interpretazione, si conserverebbero soltanto le disposizioni particolari che prevedono specifiche tutele sostanziali e, quindi, si potrebbe attribuire al provvedimento una maggiore capacità di impatto sotto il profilo della unificazione delle discipline processuali e, conseguentemente, un maggiore effetto di semplificazione».

Un esempio delle disposizioni processuali non connesse a tutele sostanziali specifiche è chiaramente quello dei termini, infatti rivisti e resi omogenei nel decreto legislativo definitivo.

Traslando però questa impostazione, in particolare i pareri così proseguono sul connesso tema dell’inappellabilità nel procedimento sommario:

«fra i procedimenti regolati dal rito sommario di cognizione ve ne sono taluni che contemplano un provvedimento non impugnabile [ad es. l’art. 14 in tema di procedimento per la liquidazione dei compensi professionali forensi];

il criterio di delega di cui all’articolo 54, lettera c), tuttavia, prevede l’estensione [del raggio di applicazione] del “procedimento sommario di cognizione di cui al libro quarto, titolo I, capo III-bis, del codice di procedura civile […], restando […] esclusa per tali procedimenti la possibilità di conversione nel rito ordinario”; non sembra consentita quindi alcuna variazione rispetto al modello codicistico, esclusa la possibilità di conversione nel rito ordinario, con la conseguenza che il procedimento previsto dagli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile deve essere applicato integralmente, anche con riferimento al peculiare sistema di appello previsto dall’articolo

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702-quater; ciò appare tanto più vero se si considera che l’articolo 3 dello schema di decreto, nel dettare “disposizioni comuni ai procedimenti disciplinati dal rito sommario di cognizione”, prevede che non trovino applicazione unicamente i commi 2 e 3 dell’articolo 702-ter c.p.c.;

ne deriva che l’articolo 702-quater, dettato per l’appello, dovrebbe trovare applicazione in tutti i procedimenti ricondotti al rito sommario di cognizione, laddove consentito dalle regole in tema di competenza, dovendosi fare eccezione solamente nei casi in cui le disposizioni attualmente in vigore già prevedano la competenza in unico grado; d’altra parte, se si accede all’interpretazione dei principi di delega secondo la quale devono essere salvaguardate solo le norme processuali che prevedono delle tutele sostanziali speciali, appare evidente come la non impugnabilità del provvedimento finale non rientri tra le disposizioni volte a prevedere una tutela sostanziale speciale;

tale conclusione si configura come il giusto punto di equilibrio tra l’esigenza di un maggiore garantismo e la contrapposta esigenza di semplificazione delle forme, tenuto conto del fatto che, come chiarisce la relazione del provvedimento in esame, il procedimento sommario di cognizione si caratterizza per la natura piena della cognizione anche in primo grado, non potendosi desumere dalla mera semplificazione delle forme la conseguenza della sommarietà della cognizione».

Tre obiezioni in quattro punti, quindi: 1) l’unificazione dei riti induce a conservare solo le tutele sostanziali differenti, non ogni effetto processuale come la detta inappellabilità; 2) il comma 1 dell’art. 3 (restato immutato nel testo definitivo) non menziona, tra le esclusioni, la norma sull’appello; 3) esigenze di garantismo inducono a mantenere l’appello aperto ai nova istruttori dopo le forme semplificate in prime cure; 4) va fatta eccezione solo per i casi di competenza in unico grado di merito, posto che la legge delega impone che restino «fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell'organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente».

Le fattispecie in unico grado di merito vengono salvate solo ove già previste e sotto il profilo del criterio di competenza. La conclusione è condivisibile, la motivazione no. Vediamo perché, ma per vederlo dobbiamo fare un ulteriore passo indietro e verificare cosa era emerso dalle audizioni.

Ciò in quanto i pareri seguivano una serie di rilievi dottrinali emersi durante l’istruttoria parlamentare. E un importante blocco di rilievi è stato proprio quello riferito al comma 1 dell’art. 3 del decreto legislativo.

È stato così sostenuto che l’esclusione dei commi secondo e terzo dell’art. 702-ter c.p.c. vincolasse il legislatore delegato e non escludere altro dal sommario. Troviamo scritto che siamo «di fronte ad una disposizione di notevole importanza perché assicura il controllo da parte di un altro giudice (la Corte di appello) del provvedimento reso, controllo che è fondamentale per assicurare il diritto di difesa costituzionalmente garantito, soprattutto allorquando nel primo grado l’istruttoria si è caratterizzata per sommarietà»1.

E quanto detto non sarebbe «messo in crisi dalla generale convinzione che l’appello nel nostro sistema non è costituzionalizzato. Infatti, proprio la semplificazione delle forme dell’istruzione probatoria nell’ambito del procedimento sommario di cognizione ha indotto il legislatore a prevedere che la complessità della causa comporta il passaggio dalla fase sommaria a quella a cognizione piena ed esauriente, nonché a contemplare un giudizio di appello “aperto”, nel quale è possibile colmare le lacune, le dimenticanze di primo grado»2.

1 G. TRISORIO LIUZZI, Appunti per l’audizione alla Commissione giustizia della Camera dei Deputati sullo schema di d.lgs.

per la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili, audizione di luglio 2011, atti della Camera dei deputati relativi all’atto del Governo n. 376 della XVI legislatura, 6-7.

2 G. TRISORIO LIUZZI, ult. cit.

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In altra chiave è stato osservato che «lo Schema opera una chiarissima e tuttavia opinabile scelta: di considerare questo rito completamente omologabile, sotto il profilo costituzionale, agli altri due», cioè a quello ordinario e del lavoro3.

Si tratterebbe di «posizione che, se corretta quanto all’impiego della posta concettuale in gioco, rimane tuttavia inaccettabile nella sua assolutezza e con potenziali effetti dirompenti per la tavola dei valori correnti in tema di tutela giurisdizionale dei diritti stante il fatto che oblitera il carattere attualmente facoltativo del rito sommario, a dispetto di quello che potrà essere per alcuni dei procedimenti che a quest’ultimo verranno in concreto ricondotti.

Il rito in questione», prosegue questa dottrina, «non pone pregiudizialmente alcun problema per l’attore che vi opti facoltativamente (è invero consolidato l’indirizzo che lo standard costituzionale della tutela giurisdizionale non può venire infranto da forme di tutela additive e non necessarie: cfr.

Corte cost. n. 364/1989), né per il convenuto che, soccombente, disponga comunque dell’appello

“aperto” qui realizzandosi, sia pure in via differita, tutto quello che per Costituzione è dovuto a una parte in giudizio, cioè un processo regolato dalla legge in almeno un grado avanti a un giudice di merito (cfr. Cass. 11 luglio 2008 n. 19238).

Sennonché, le volte in cui il rito sommario diviene, secondo lo Schema di decreto, procedimento necessario, inconvertibile in rito ordinario e per giunta privato senz’altro della fase di appello, l’abbassamento di normali garanzie della tutela giurisdizionale si fa intollerabile poiché in controversia idonea al giudicato su diritti viene, per parafrasare la Relazione, “interamente” tolta alle parti la pre-scienza del procedimento su base legale, che è altro dalla profondità e adeguatezza della cognizione che la deformalizzazione pure può accidentalmente consentire.

In altre parole, la scelta del “modello” di rito sommario appare, anche nello spirito del Delegante, inscindibile da quella dell’appello che col medesimo è destinato a fare blocco, e che deve regolarmente farlo, ob Constitutionem, le volte che trattasi di procedimento che, per la parte della cui posizione si tratta, tiene luogo della forma di tutela ordinaria»4.

Fatte queste premesse, questa dottrina, ragiona che, esclusa la possibilità di raccordarsi con il procedimento ordinario, e poiché «l’inappellabilità appare, insomma, uno degli “effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile”», allora «se il modello

“sommario” del codice non è compatibile col mantenimento dell’inappellabilità altrimenti imposto dalla norma di legge speciale (la salvaguardia del quale è criterio direttivo per il Delegato), il modello non può essere generalmente praticato dallo Schema. Al Delegato rimane la scelta, in casi del genere, tra rito del lavoro e ordinario, soltanto così potendo conservarsi anche l’unicità del grado di merito che la singola fattispecie di legge speciale postula».

C’è subito da notare che per un verso se questa impostazione fosse corretta, sarebbe stata manifestamente incostituzionale la – mantenuta – inappellabilità di procedimenti come quello per la liquidazione degli onorari forensi di cui agli artt. 28 e seguenti della legge 13 giugno 1942, n. 794, previamente svolto secondo le forme camerali, ben più deformalizzate di quanto avvenga nel rito sommario. Incostituzionalità da sempre esclusa, come noto, dalla Consulta5.

3 F. AULETTA, Note alle “Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009 n. 69” , audizione di luglio 2011, atti della Camera dei deputati relativi all’atto del Governo n. 376 della XVI legislatura, 3 e ss, in cui si cita C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Torino 2010, 184, indicando come conforme, anche se con perplessità, VERDE, Diritto processuale civile, 4, Bologna-Roma 2010, 113.

4 F. AULETTA, ult. cit.

5 Cfr., più che altro perché la più recente, e perché richiama, in motivazione, i propri e ancor più specifici – sul punto – precedenti, Corte cost., 11 aprile 2008, n. 96, in Giurisprudenza costituzionale, 2008, 1147.

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Nella medesima prospettiva, d’altro canto, si contesta che il modello di rito si possa “scomporre”

nei vari gradi. Vale a dire che, pur ammettendo che un modello non possa ritenersi legato al “suo”

giudice codicistico (tribunale piuttosto che giudice di pace o corte di appello in unico grado), esso non potrebbe prescindere dal blocco unitario in cui si collocano anche i successivi gradi di merito che vi si iscrivono. Altrimenti si finirebbe «per annichilire il presidio della costituzionalità del processo che è nel Libro II del c.p.c. (processo “regolato dalla legge”, soltanto e in quanto tale passibile di unico grado per volontà specifica di legge), che è come se venisse di fatto dichiarato dispensabile, a beneficio di un unico procedimento regolato dal Giudice e comunque in unico grado, a vocazione generale e non semplicemente additivo, anzi esclusivo e sempre necessario».

Questo significa affermare che il processo regolato dalla legge è solo ed esclusivamente non quello a base legale, ma quello in cui tutte le forme sono predeterminate legalmente, senza che la legge possa introdurre elementi di flessibilità a mezzo dell’affidamento alla discrezionalità giudiziale. Ma avrebbe implicato, altresì, la sicura conferma della palese incostituzionalità di fattispecie come quella per la liquidazione degli onorari legali sopra citata, in cui il giudice disponeva anche dei termini a difesa.

Ad avviso di questo approccio, naturalmente, non eguali problemi sussisterebbero per il caso d’inappellabilità ove si fosse optato per il rito ordinario o per il rito del lavoro. E anzi, questa mancata opzione – secondo quanto sopra si diceva da ritenere implicata dalla legge di delegazione – costituirebbe un ulteriore motivo di incostituzionalità.

Molto significativa la conclusione: «se si condivide questo assunto, la scelta del rito sommario in unico grado di merito può costituire senz’altro una rinnovata regolazione di maggior dettaglio di quanto era già mandato alle stesse condizioni “in camera di consiglio”, ma questo non si lascia apprezzare come “riforma” del tipo al quale il Governo» poteva ritenersi «autorizzato».

Quindi non sarebbe stato «rispondente allo spirito della delega ed è francamente deludente una novazione che passi dagli artt. 737 ss. c.p.c. agli artt. 702-bis ss. c.p.c. (ancor più in assenza di un controllo ineludibile a norma del numero 4 dell’art. 360 c.p.c.: Cass. 9 dicembre 2010 n. 24687, nonché a norma dell’art. 360-bis n. 2 c.p.c.)»6.

Ma la critica più radicale viene da quella parte degli studiosi che da più tempo insistono perché per cognizione piena s’intenda solo ed esclusivamente quella che esita da forme puntualmente predeterminate.

Si afferma che «il legislatore delegato sembra abbia ritenuto la sussistenza del criterio della semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa tutte le volte in cui il procedimento speciale sia un procedimento camerale.

Trascura, tuttavia, lo Schema presentato dal Governo l’ovvia considerazione che il richiamo al procedimento camerale per il rito speciale non significa affatto automaticamente e necessariamente presenza dei caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa. Queste caratteristiche, infatti, non sono affatto legate al modello processuale, quanto piuttosto – come correttamente evidenzia le legge delega – alla causa, vale a dire alla natura della controversia. Ed in effetti questa soluzione indicata dalla legge delega ben si giustificava con i presupposti ai quali l’art.

702-ter c.p.c. subordina l’opzione a favore del procedimento sommario. Dal terzo comma dell’art.

702-ter c.p.c., infatti, si ricava in termini generali che il procedimento sommario di cognizione va adottato quando il giudice ritenga che le difese svolte dalle parti richiedano “un’istruzione

6 F. AULETTA, ult. cit., 6.

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sommaria”, restando inteso che, ove non ricorra un simile presupposto, il giudice debba disporre la prosecuzione del procedimento con le forme del rito ordinario a cognizione piena»7.

Va subito notato che questa dottrina parte dal presupposto che il rito ordinario sia a cognizione piena a differenza di quello sommario. Questo presupposto, come va ripetuto e meglio vedremo, non può essere condiviso. Ecco, piuttosto, che cominciano a emergere le linee di fondo.

«In realtà», proseguono queste osservazioni, «l’art. 54, comma 2, lettera c della legge n. 69/2009 faceva riferimento non alla conservazione di disposizioni della legislazione speciale previgente che consentissero effetti processuali non consentiti dalla disciplina del rito di destinazione, quanto piuttosto e più ragionevolmente delle disposizioni finalizzate a produrre effetti sostanziali di tutela della situazione soggettiva che non avrebbero potuto conseguirsi con la disciplina del “rito di destinazione” contenuta nel codice di procedura civile.

E dunque, non regge il vaglio della conformità ai criteri della legge delega la giustificazione offerta dal legislatore delegato circa la scelta di sopprimere in taluni casi l’appello avverso l’ordinanza che chiude il primo grado del procedimento sommario.

Va, peraltro, osservato che, se anche si volesse accedere alla giustificazione offerta dal legislatore delegato, diverrebbe comunque difficile ammettere sul piano della ragionevolezza e dunque del rispetto dell’art. 3 Cost. che, ad identità di rito applicabile, un determinato effetto processuale (come, nel caso di specie, l’appellabilità dell’ordinanza sommaria) si produca per determinate controversie (nel caso di specie, la liquidazione degli onorari degli avvocati) e non per le altre alle quali il medesimo rito si applica, senza che questa differente soluzione processuale trovi una giustificazione sul piano della peculiarità della situazione sostanziale tutelata.

Sennonché lo stesso legislatore delegato, probabilmente consapevole della debolezza di una simile giustificazione, nella Relazione accampa insieme a questa un’altra giustificazione che, di fatto, contrasta con essa. Sostiene, cioè, che la scelta di non prevedere in taluni casi l’appello avverso l’ordinanza sommaria si giustifica, da una lato, con la circostanza che il primo grado del procedimento sommario di cognizione sarebbe assimilabile ad un vero e proprio primo grado di un giudizio a cognizione piena e ciò sulla base della considerazione (a dire il vero in contrasto con la tradizionale impostazione della dottrina in merito ai criteri che consentono di identificare i procedimenti a cognizione sommaria) che una previsione come quella di cui al quinto comma dell’art. 702-ter c.p.c. per cui il giudice del procedimento sommario “procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti”» sarebbe a ciò sufficiente, «e, dall’altro lato ed in conseguenza di ciò, con la non costituzionalità del doppio grado di merito.

Ora […] va rilevata la discutibilità nel merito dell’assimilazione del primo grado del procedimento sommario con il primo grado del giudizio ordinario e la pari discutibilità della considerazione che, sebbene il doppio grado di giudizio non sia costituzionalizzato, per giustificare l’esclusione in taluni casi dell’esperibilità dell’appello sul piano della ragionevolezza e dunque nel rispetto dell’art. 3 Cost. occorrerebbe dimostrare quali siano le peculiarità delle situazioni sostanziali che potrebbero in teoria far preferire un unico grado di merito.

Ebbene, il riferimento del legislatore delegante – ai fini dell’utilizzazione del procedimento sommario di cui agli artt. 702-bis e seguenti c.p.c. come rito di destinazione – ai prevalenti caratteri di semplificazione “della trattazione o dell’istruzione della causa” e la previsione che, ove non emergano prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, il rito

7 A. CARRATTA, Nota per l’audizione del 19 luglio 2011 presso la Commissione giustizia della Camera dei Deputati sullo Schema di decreto legislativo recante disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione (atto n. 376), memoria depositata nel corso dell’audizione del 19 luglio 2011, atti della Camera dei deputati relativi all’atto del Governo n. 376 della XVI legislatura, 13-14.

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di destinazione debba essere quello ordinario o quello del lavoro (cioè due riti a cognizione piena), inducono a ritenere che per il legislatore delegante il rito sommario avrebbe dovuto essere utilizzato (perché deformalizzato), con funzione decisoria, alternativo al processo a cognizione piena (ordinario o del lavoro). Recependo in questo modo la tradizionale impostazione circa la distinzione fra processi a cognizione piena e processi a cognizione sommaria.

Infatti, in tale contesto da tempo si è affermata la convinzione che, per determinare i connotati del procedimento sommario, sia sufficiente individuare le differenze che presenta rispetto al processo a cognizione piena ed esauriente (ordinario o speciale): si ha il primo quando manchi anche uno degli elementi caratterizzanti il secondo. Vale a dire, a seconda dei casi: l’instaurazione del preventivo contraddittorio e del diritto di difesa “in condizioni di parità” (artt. 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost.) e su tutte le questioni rilevanti per la decisione; la puntuale predeterminazione legale sia delle forme e dei termini processuali, sia dei corrispondenti poteri, doveri, facoltà processuali delle parti e del giudice, con riferimento alle diverse fasi del processo (introduttiva, di trattazione, decisoria: art.

111, comma 1, Cost.)».

Peraltro va detto che timori in questo senso sono arrivati anche dalla dottrina più aperta alle soluzioni accolte dal testo. Autorevole dottrina, difatti, si discosta dall’assioma per cui la cognizione sarebbe piena solo quando vi sia predeterminazione assoluta delle forme.

Ciò nondimeno, questa stessa dottrina manifesta dubbi sulla possibilità di rito sommario di cognizione in unico grado di merito.

Si afferma innanzi tutto, e condivisibilmente, a chiare lettere, che «la pienezza della cognizione è collegata all’attribuzione al giudice di strumenti conoscitivi idonei a decidere il caso: è quindi connessa ad un profilo gnoseologico e veritativo e non al semplice rispetto di regole procedurali. Ne segue che si può avere cognizione piena e giudicato anche a seguito di un procedimento flessibile»8. Ecco un primo punto importante: il procedimento sommario è a cognizione piena in quanto semplificato, sin dalle prime cure. Questo disinnesca sul piano logico, evidentemente, molti (se non proprio tutti) degli assunti di partenza fatti propri delle obiezioni sopra riportate.

Ma, secondo quest’ultima impostazione, permarrebbero perplessità sull’inappellabilità. Vediamo allora perché.

Pur vedendo quindi nel procedimento di cui agli artt. 702-bis e seguenti c.p.c. un rito semplificato e non a cognizione sommaria, bensì «piena ed adeguata», funzionale a «fattispecie non complesse, che siano bene verificabili anche con un procedimento rapido», si conclude affermando che «le ragioni di urgenza sul piano sostanziale sono chiare, ma resta il fatto che un processo su diritti privato di entrambe le valvole di sicurezza a cui si è fatto cenno corre il serio rischio di esporsi a censure di incostituzionalità»9.

Il motivo è così espresso nel dettaglio: «le due valvole di sicurezza che permettono a questo rito di giungere a provvedimenti con efficacia di cosa giudicata, senza incorrere in censure di incostituzionalità sotto il profilo del rispetto del giusto processo, sono la possibilità per il giudice di passare a trattare il caso con il rito ordinario (se la controversia è complessa) e l’appello con possibilità di allargamento del materiale istruttorio», e cioè con la nota estensione di quest’ultimo a

8 P. BIAVATI, Note relative all’audizione presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati sullo schema di decreto legislativo recante disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione , audizione di luglio 2011, atti della Camera dei deputati relativi all’atto del Governo n. 376 della XVI legislatura, 2.

9 P. BIAVATI, ult. cit., 4.

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tutti i mezzi di prova rilevanti (art. 702-quater c.p.c.) e non solo a quelli indispensabili come accade nel rito ordinario (art. 345 c.p.c.).

«La prima delle due valvole è qui impedita dall’espressa disposizione della legge di delega. […]

Tuttavia, la maggiore fragilità del rito per l’impossibilità di passare al rito ordinario suppone di usare molta cautela per quanto riguarda la seconda delle due valvole, quella relativa all’appello allargato»10.

A dire il vero va subito messo in risalto che la stessa autorevole dottrina aveva per tempo sottolineato con forza che l’appello, per quanto aperto, previsto dall’art. 702-quater c.p.c., non può significare che quel grado si pone in termini di cognizione piena contrapposta a quella non esauriente delle prime cure che restino semplificate ma pur sempre sorrette da adeguate garanzie11. E dunque delle due l’una: se per la cognizione piena non è necessaria almeno la possibilità d’instaurare il gravame di merito in parola, allora il giudicato è retto da un giusto processo anche nell’unico grado di merito.

Si nota, poi, il forte contrasto di tutte le obiezioni esaminate sopra con la mancanza di ogni rilievo in tal senso da parte del Presidente aggiunto della Suprema corte di cassazione (e dell’ufficio del Massimario e del Ruolo della medesima Suprema corte) in cui, anzi, si auspica un unico «modulo procedimentale a ricorso, del tipo del procedimento sommario di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c., dichiarando il giudice dotato dei poteri necessari a realizzare la completa tutela del diritto riconosciuto»12.

Ma prima di procedere, riassumiamo le critiche mosse dalla dottrina ascoltata, sebbene non filtrate nel parere parlamentare di maggioranza:

1) non omologabilità tra procedimento ordinario e sommario quanto a pienezza della cognizione; 2) obliterazione del carattere facoltativo del procedimento sommario di cognizione; 3) imprescindibilità del gravame di merito a fronte della sommarietà dell’istruttoria; 4) inaccettabilità della simmetria tra rito camerale e rito sommario per il corretto utilizzo e la corretta ricostruzione del procedimento di cui agli artt. 702-bis e seguenti c.p.c.

Di qui tre profili d’incostituzionalità: a) violazione della delega per l’utilizzo del rito sommario in fattispecie non connotate dai caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione, come per quelle in materia di status; b) violazione della delega per alterazione del modello proprio del procedimento sommario, dal quale sarebbe inscindibile l’appello; c) violazione dei principi del giusto processo e del diritto di difesa con la soppressione, nel rito sommario, del gravame di merito.

3.1. Profili di costituzionalità.

È chiaro che tutte le critiche ruotano attorno a un punto: la talora prevista inappellabilità.

Il motivo è presto spiegato: se si ammette l’utilizzo del rito sommario in questi termini, allora vuol dire che anche in prime cure esso assicura il giusto processo. Non necessita, cioè, della possibilità di appello per sopperire a una cognizione altrimenti tout court sommaria.

10 P. BIAVATI, op. loc. cit.

11 P. BIAVATI, Appunti introduttivi sul nuovo processo a cognizione semplificata, Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2010, 192-194.

12 P. VITTORIA, Brevi considerazioni a riguardo dello schema di decreto delegato sulla riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, audizione di luglio 2011, atti della Camera dei deputati relativi all’atto del Governo n.

376 della XVI legislatura, 1.

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Il profilo si risolve dunque nella risposta al seguente quesito: è piena o meno la cognizione in prime cure realizzata dal procedimento di cui agli artt. 702-bis e seguenti c.p.c. ? E cioè: è piena o no la cognizione in cui sia in questa presente il tasso di poteri istruttori discrezionali del giudice ?

Ove la risposta fosse negativa, è altrettanto evidente che il legislatore delegato non avrebbe potuto assoggettare al procedimento sommario fattispecie cui conservare l’inappellabilità qualora questa, al contempo, sia ritenuta un effetto processuale non altrimenti raggiungibile con la riconduzione alle norme codicistiche.

Quest’ultimo aspetto, cui pure si è già accennato, va affrontato meglio gradatamente. Per il momento assumiamo la necessità di conservare l’esclusione del gravame di merito.

Assumendo tanto, è ovvio che negando la pienezza della cognizione alle prime cure semplificate, le opzioni obbligate sarebbero state quelle di scegliere il rito del lavoro ovvero quello ordinario, pena l’incostituzionalità per violazione anche dell’art. 111 Cost., attesa la carenza anche di un solo grado di merito compiuto.

Verifichiamo la questione, sollevabile in sede di prima applicazione del decreto legislativo. Non prima, però, di aver risolto brevemente la parallela contestazione incentrata sul rilievo per cui la legge di delega, escludendo la possibilità di riconduzione del processo sommario, i.e. semplificato, alla sequenza ordinaria di cui all’udienza ex art. 183 c.p.c., non avrebbe ammesso l’esclusione dell’appello, confermando di averlo ritenuto insopprimibile nella cornice di un simile modello processuale.

L’argomento appare formalistico, come mostra la seguente osservazione: le norme della delega vanno lette insieme, letteralmente, logicamente e sistematicamente.

Ebbene, se un precetto nega la possibilità di riconduzione del procedimento semplificato a quello ordinario, i.e. formale, questo non può voler dire che, in base ad altra norma della stessa delega, non si debba conservare un effetto processuale “speciale” nei sensi indicati e che verranno ancor più diffusamente spiegati, quale, in tesi, l’inappellabilità.

L’una norma non deroga né contraddice l’altra.

Si legge nella relazione che «l’esclusione della detta possibilità di riconduzione è una regola necessaria. Quella relativa alla conservazione degli effetti non raggiungibili con l’ordinaria disciplina codicistica è una regola eventuale, che si applica, cioè, in modo complementare alla prima, quando la disciplina previgente presenti la previsione in parola.

Infatti, diversamente ragionando, anche nei riti ordinario e del lavoro, non essendo prevista alcuna variazione, non si sarebbe potuto conservare alcun effetto speciale, che sia l’inappellabilità o uno differente».

Dunque la regola è che il rito sommario relativo alle fattispecie del decreto legislativo resta incanalato nei binari semplificati perché ritenuti sufficienti in modo predeterminato – rispetto alla usuale valutazione giudiziale – dalla legge. Ma ciò non comporta in alcun modo, di per sé, che si debbano negare altre peculiarità, come l’esclusione dell’appello. Se tale esclusione deriva da necessità costituzionali – quali, abbiamo peraltro visto, i principi del giusto processo – nulla quaestio, ma non quella del vizio di delega.

Questo quanto alla lettera. Quanto alla ratio, è chiaro che l’esclusione del raccordo con il rito formale si rapporta al criterio di riconduzione del rito sommario a fattispecie semplici nella trattazione o nell’istruzione, e dunque nulla può avere a che fare, di per sé, con la necessità dell’appello.

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È vero che nel sistema codicistico le valvole di sicurezza, a fronte della semplificazione delle forme, sono il potere-dovere del giudice di reincanalare il processo sulle cadenze formali e l’appello più aperto. Ma è anche vero che qui la valutazione d’idoneità della causa a essere trattata in via semplificata è fatta dallo stesso legislatore, col che la prima valvola non viene meno ma è stata assolta ex lege.

Siamo cioè di fronte a un caso in cui il procedimento sommario non è un’opzione rimessa al ricorrente, sia pur soggetta alla verifica giudiziale, ma una via tipizzata e obbligata, proprio per la peculiare semplicità dell’accertamento necessario. La parte coinvolta, dunque, non aveva altrimenti diritto alle cadenze formali, e non subisce, sotto questo profilo, alcuna deminutio da bilanciare.

Se il legislatore ritiene che le peculiari semplicità della trattazione o dell’istruzione permettano vie destrutturate, non vi è nulla da compensare in sede di possibile gravame di merito. A meno di non ritenere irragionevole la ricostruita sufficienza delle vie semplificate.

Ma che questa sia la ricostruzione corretta lo confermano proprio le fattispecie su cui cade tale disciplina.

Si tratta, in tutti i casi, di fattispecie in cui il previo regime era dato dal rito camerale inappellabile, in cui, cioè, la soluzione, sotto questo profilo, era la medesima, e con specifico avallo costituzionale, come nel procedimento per la liquidazione degli onorari di avvocato.

Naturalmente è vero che la presenza di modalità camerali astrattamente non “codifica” una semplicità della trattazione o dell’istruzione, ma è anche vero che ne costituisce indice positivo fortissimo la cui smentita andrebbe motivata e non il contrario.

Ecco che, in questa chiave, evaporano i timori di svuotamento del garantismo necessario e di obliterazione della facoltatività del rito sommario, o quelli relativi alla mancata previsione espressa della possibilità di renderlo inappellabile e alterazione del modello procedimentale, o quelli inerenti all’improponibilità di una simmetria con il modello camerale, e violazione della delega sotto il profilo delle rationes di collocazione delle fattispecie sussumibili sotto il procedimento in parola.

O meglio ancora: emerge con trasparenza il vero punto dolente, quello della pienezza della cognizione resa con procedimento sommario in ognuno dei suoi due gradi, e dell’ammissibilità e sufficienza, a tal fine, dei discussi poteri giudiziali.

Anche perché l’argomento parlamentare della possibilità di “salvare” le inappellabilità alle fattispecie processate in via semplificata quando attualmente vi sia una “competenza in unico grado”, in latente riferimento all’altro vincolo di delega per cui il legislatore delegato non poteva modificare le competenze previste (art. 54, comma 4, lettera a) della legge di delega), è fragile e contraddittorio.

Infatti: 1) la competenza cui si riferisce la delega è altro dalla previsione di un unico grado di merito, posto che, di regola, anche quando la competenza è legata a funzioni differenziate (si pensi a quella del giudice dell’esecuzione rispetto alle opposizioni agli atti esecutivi), queste non sono in alcun modo configurabili in conseguenza della negazione del gravame di merito: sarà competente l’ufficio giudiziario individuato secondo le comuni regole vigenti sul punto, e la sua decisione sarà inappellabile; 2) il punto sub 1) non è inciso dal fatto che in alcuni casi l’ufficio giudiziario competente sia la corte di appello, rispetto alla quale non sarebbe immediatamente configurabile un ufficio di gravame di merito, posto che la competenza è quella generale, per materia e territorio, e non deriva dal fatto, concettualmente distinto, che non sia previsto un gravame (come conferma il rilievo per cui essa sarebbe stata regolabile, quale norma di coordinamento ai sensi dell’art. 54, comma 2, della legge di delega, anche tra corti di appello diversamente collocate sul territorio, se

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del caso, o comunque con collegi diversamente composti, senza che si sarebbero potuti dire modificati i previgenti criteri di competenza intesi in senso proprio); 3) di conseguenza, quando pure si versi in ipotesi di competenza funzionale e variabile, in prime cure, come quella del procedimento per la determinazione degli onorari forensi, il fatto che il giudice del gravame sarebbe stato agevolmente individuabile in tutte le ipotesi diverse dal caso in cui la causa sia di spettanza della corte d’appello, non sposta evidentemente alcunché nel ragionamento fatto.

Va cioè ribadito che non si possono sovrapporre e confondere i criteri di competenza con le previsioni di gradi di merito unico.

Ma – andando a chiudere il discorso – i rilievi di supposta incostituzionalità sul punto del rito sommario in unico grado di merito appaiono infondati a una complessiva lettura del sistema ordinamentale e del dato positivo.

Ricordiamo ancora che l’art. 702-ter, quinto comma, c.p.c., prevede che «il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo ritenuto più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto».

L’impostazione di parte degli studi sopra citati, desunta dalla riportata dicitura la natura sommaria della cognizione, afferma in questa cornice che, al fine di garantire almeno un grado di cognizione di merito piena, dovrebbe essere assicurato un appello aperto a ogni nuova richiesta istruttoria, quale infatti si trova disciplinato nell’art. 702-quater c.p.c. Tale conclusione, si ripete, sarebbe costituzionalmente imposta dall’art. 111 della Costituzione, in cui si richiede che il processo, fonte di giudicato, dev’essere «regolato dalla legge», e dunque non rimesso alla discrezione giudiziale.

A fronte di questa posizione, però, è agevole replicare – come infatti diffusamente è stato fatto – che l’ipotesi di un procedimento a “cognizione sommaria” – qual era espressamente qualificato, ad esempio, il rito di cui all’art. 19 del decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5 – è, per logica, distinta da quella di un procedimento “sommario di cognizione”. La qualità della valutazione in ordine alle inferenze probatorie, cioè, può essere massima, anche quando si proceda con forme semplificate.

Questo passaggio (ripreso, secondo quanto visto, anche da parte della dottrina ascoltata dalle Commissioni) è logicamente insuperabile. E non può esserlo se non con assunti assiomatici. La sua valenza è inoltre confermata da una serie di indici positivi, ma in specie da due di essi. Sono i più che noti argomenti utilizzati pure dalla relazione illustrativa e che vale la pena riprendere.

In primo luogo, il quinto comma dell’art. 702-ter, sopra citato, stabilisce che il giudice procede a tutti gli atti di istruzione rilevanti e non solo a quelli indispensabili, a differenza di quanto, invece, previsto dall’art. 669-sexies, primo comma, c.p.c. Ecco che quest’ultima norma permette di basarsi sugli elementi di prova minimamente imprescindibili per proteggere il bene della vita di cui si lamenta la lesione nelle more del giudizio definitivo. Non tutti i mezzi di prova debbono essere assunti ai fini del provvedimento protettivo invocato, proprio per assicurare che non siano assunti inutilmente al momento dell’accertamento esauriente. In questo senso ci si può poggiare su basi indiziarie.

La sopra riportata previsione, inserita nella disciplina del procedimento cautelare uniforme, è sintomatica della natura di procedimento a cognizione sommaria del cautelare, giustificata dall’urgenza e coerente con la mancata produzione di un giudicato.

In secondo luogo, l’art. 702-ter, quinto comma, c.p.c., segnala che il giudice procede agli atti istruttori rilevanti “in relazione all’oggetto del provvedimento” richiesto, e non, come si legge nell’art 669-sexies, primo comma, c.p.c., a quelli indispensabili “in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento” richiesto.

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Il mezzo di prova, nella cautela, è misurato sulla strumentalità della misura in discussione, e non sulla pienezza della tutela finale. Nel merito, al contrario, il provvedimento in gioco deve mettere a fuoco i contorni definiti del bene che assume a protezione.

Non resta se non concludere che la domanda svolta con il rito sommario è rivolta alla piena tutela del bene della vita che è ad essa sottesa e ne costituisce, appunto, l’oggetto. Né questi dati possono essere inficiati dalle pre-categorie dottrinali preferite.

La sopra descritta impostazione è infatti quella fatta propria dalla legge di delega, laddove (art. 54, comma 2, lettera b), n. 2) prevede la riconduzione, al rito sommario in parola, dei procedimenti «in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell'istruzione della causa», operando un chiaro riferimento alla semplificazione delle forme e non alla sommarietà della cognizione.

Non si tratta affatto del recepimento di un’impostazione che assegnerebbe solamente al rito ordinario e laburistico l’effetto di una cognizione piena, come pure si è visto affermare nelle audizioni. È l’esatto opposto.

Le forme semplificate sono affiancate in modo equiordinato a quelle più rigide proprio perché ritenute sufficienti, quando del caso, a una cognizione esauriente. È questo il semplice motivo per cui il rito sommario, nell’impostazione della delega, non è opzionale né raccordabile con il rito ordinario.

Ma in realtà ci sono anche ulteriori, complementari ma altrettanto chiarissimi indici a sostegno di tale conclusione.

In particolare: a) si è già notato che l’espressione «istruttoria sommaria» assume una valenza tanto maggiore, e decisiva, se solo si pensi all’espressione «cognizione sommaria» presente nell’art. 19 del decreto legislativo n. 5/2003, che regolava il rito sommario societario, non a caso abrogato proprio dalla medesima legge n. 69 del 2009 che ha introdotto nel codice gli artt. 702-bis e seguenti;

e in cui, non a caso, il procedimento si concludeva in fase sommaria solamente in ipotesi di accoglimento, producendo un titolo esecutivo privo del carattere della definitività, con conseguente problema di sovrapposizione tra l’appello, possibile e prodromico al giudicato, e l’opposizione all’esecuzione; b) in nessun caso è rinvenibile un’espressione come quella che, nel rito sommario non cautelare previsto dal disegno di legge c.d. Mastella del 2007 che ha costituito la base dei lavori alla legge n. 69, consentiva al giudice di decidere sulla base della «verosimiglianza» dei fatti costitutivi, e «non verosimiglianza» dei fatti posti a base delle eccezioni: e anche tale schema legislativo è stato abbandonato proprio per essere sostituito dall’attuale procedimento sommario di cognizione.

La scelta di riferire una cognizione piena a un’istruttoria deformalizzata, dev’essere logicamente ritenuta pienamente legittima sul piano costituzionale, a prescindere dalla corrispondenza con un appello aperto a nuove richieste istruttorie.

Ciò in quanto la previsione dell’art. 111 Cost. non può essere letta nel senso di richiedere, sempre e comunque, un processo “interamente” regolato dalla legge, ma nella più aderente accezione per cui la disciplina processuale non può che essere legislativa, vale a dire affidata a norme primarie.

Come si trova affermato nella relazione illustrativa, in applicazione del principio di proporzionalità dell’uso della risorsa giudiziaria, non illimitata, l’introduzione, in equilibrata misura, di forme processuali flessibili, è essenziale a garantire l’implementazione complessiva del principio – anch’esso costituzionale, e anch’esso sancito nello stesso art. 111 Cost.– di ragionevole durata dei processi.

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Non a tutti lo stesso ma a ciascuno il suo, in un’ottica di personalizzazione ragionata del procedimento, affatto scandalosa se appropriatamente collocata nella cornice del case management largamente diffuso a livello internazionale.

Tale opzione interpretativa è stata, da decenni, adottata dalla stessa Corte costituzionale italiana, la quale ha sempre escluso l’illegittimità del ricorso, da parte del legislatore ordinario, alle forme camerali, ampiamente rimesse alla discrezionalità giudiziale, anche per la composizione di conflitti su diritti soggettivi e status13.

In altre parole, il legislatore, ponendo il procedimento sommario di cognizione quale alternativa al rito “comune”, per le cause che richiedono un’attività istruttoria più semplice, ha previsto due correttivi al “dimensionamento” delle garanzie implicato dalla conseguente semplificazione delle forme: la possibilità, per il giudice, di fissare l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., riconducendo la causa sui binari più “formali”, e, in difetto, un appello più aperto. Ma questo non può escludere la facoltà, per il formante legislativo, di ricorrere a cadenze necessariamente semplificate che siano a supporto di una cognizione piena in unico grado di merito, nelle ipotesi in cui la peculiarità della fattispecie lo giustifichi.

A risorse rare corrisponde l’obbligo di un uso appropriato – e non oltre – della macchina che se ne faccia espressione.

E veniamo infine al profilo lasciato in sospeso: l’interpretazione del limite di delega sugli effetti speciali da conservare.

L’obiettivo di uniformare le discipline facendo salve le sole tutele sostanziali è certamente giusto ma collegato a un rilievo piuttosto ambiguo, posto che ogni norma in rito delinea il modo in cui opera una tutela sostanziale quando incisa o minacciata. A meno di non ritenere che sia fisiologicamente necessaria una scelta di campo in termini di valore, tra le singole situazioni giuridiche soggettive. Il che apparirebbe, in termini di necessità generale, un eccessivo dazio pagato all’ideologia.

Ogni disposizione in rito, cioè, configura le concrete possibilità di pieno esercizio ovvero compiuta realizzazione di tutte le titolarità giuridiche soggettive, e non solo, per intenderci, quelle norme che prevedono l’esercizio di poteri officiosi da parte del giudice ad esempio nel rito del lavoro.

Se la delega richiedeva la conservazione di effetti non altrimenti raggiungibili con le norme codicistiche, allora si può dire che è vero che non imponesse di mantenere ogni specialità, altrimenti non essendo proprio possibile la semplificazione (come mostra l’esempio dell’unificazione dei termini), ma non che questo volesse dire far riferimento alla conservazione delle sole norme non meramente attinenti alla sequenza procedimentale intesa in senso dinamico (come fa capire l’esempio della disciplina sulla titolarità dei poteri probatori).

Il rilievo parlamentate, allora, è stato certamente corretto rispetto a temi come l’omogeneità dei termini o, in particolare, l’omogeneizzazione dell’inibitoria di cui all’art. 5 del d.lgs. – che pure non può logicamente portare a escludere l’applicabilità, residuale, nelle fattispecie in cui tale procedimento non sia richiamato, dell’art. 700 c.p.c. Ma non rispetto a fattispecie come ad esempio la convalida del provvedimento amministrativo sanzionatorio impugnato in caso di mancata comparizione (ingiustificata) del ricorrente nell’opposizione a ordinanza d’ingiunzione (sempre che la fondatezza dell’opposizione non risulti dagli atti), così come non rispetto alla previsione dell’appellabilità o meno dei provvedimenti di prime cure.

13 V., di recente e con estrema chiarezza e nettezza, Corte cost. [ord.], 29 maggio 2009, n. 170, in Giurisprudenza costituzionale, 2009, 1898.

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Si tratta di palesi effetti processuali speciali, che si connotano per la loro deviazione dallo schema codicistico, e non per la loro mera diversità come nel caso dei termini o delle sospensive. Non si tratta, cioè, della medesima fattispecie processuale regolata, però, diversamente dalla legislazione speciale, ma di un addendum normativo (in positivo, con nuove facoltà, come in negativo, con ulteriori inammissibilità) avulso rispetto alla cadenza proposta dal codice.

E così per la previsione di un unico grado di merito: non c’è, nell’ipotesi, un gravame di merito regolato differentemente, ma, al contrario, non è ammesso questo mezzo d’impugnazione, come pure la Costituzione consente.

4. La seconda novità rilevante: un nuovo regime per il mutamento del rito.

Le previsioni contenute nell’articolo 4 regolamentano l’ipotesi in cui una delle controversie previste dal decreto venga erroneamente introdotta applicando un rito differente rispetto a quello previsto.

Vi sarà mutamento del rito con apposita ordinanza, da pronunciare, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti. Resta dubbio se la pronuncia possa avvenire anche successivamente qualora l’eccezione o il rilievo siano in ogni caso avvenuti tempestivamente. La risposta, peraltro, pare debba essere positiva, posto non potrebbe rimettersi la scelta del rito alla dimenticanza del giudice nonostante la parte abbia posto correttamente e nei termini la questione, a meno di non ritenere (rigidamente) ipotizzabile un rigetto implicito.

Nella specifica ipotesi in cui la controversia rientri tra quelle per le quali il decreto prevede l’applicazione del rito del lavoro, in considerazione del fatto che tale ultimo rito prevede che le preclusioni, sia assertive che probatorie, scattino in un momento anticipato rispetto agli altri riti, viene prescritto che con l’ordinanza di mutamento del rito sia fissata l'udienza di discussione e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi.

Nell’ipotesi, poi, in cui venga dichiarata l’incompetenza del giudice adito, s’impone al giudice che dichiara la propria incompetenza di indicare con il medesimo provvedimento il rito corretto da applicare per la riassunzione dinanzi al giudice competente.

Tutta questa disciplina si discosta in modo significativo dalle analoghe norme contenute nel codice di procedura civile con le quali, per quanto attiene al mutamento del rito disciplinato dal rito del lavoro, si stabilisce la possibilità di adottare anche in grado di appello il provvedimento di mutamento, in ragione del particolare favor per il rito del lavoro, utilizzato come strumento per la tutela di una parte processuale qualificata (il lavoratore).

A fronte di ciò, la fattispecie del raccordo (più che mutamento) del rito sommario di cognizione con quello ordinario è, a sua volta, regolamentata dall’art. 702-ter c.p.c. in modo differente, prevedendo la pronuncia di mutamento delle forme processuali in uno specifico momento del procedimento, ossia la prima udienza di comparizione delle parti, e non permettendola, sia pure implicitamente, in grado d’appello. Infatti, in quella differente fattispecie, in caso di mancato raccordo con le forme ordinarie in prime cure, vi sarà semplicemente un appello più aperto a nuove richieste istruttorie.

La nuova disciplina sembra voler sancire l’assenza di ragioni di favor assoluto per uno specifico modello procedimentale, e, per altro verso, l’esigenza di ridurre al minimo l’ambito temporale d’incertezza sulle regole destinate a disciplinare il processo, al fine di scongiurare vizi procedurali che, riverberandosi a catena su tutta l’attività successiva, possano far regredire il processo, in contraddizione con i principi costituzionali di economia processuale e di ragionevole durata.

Dalla circostanza della virtuale consolidabilità del rito erroneamente seguito dalle parti, sullo sfondo di differenze di disciplina procedurale più che di tecniche delle tutele, e dall’esigenza di

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