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LA RIFORMA DELLE SOCIETÀ DI CAPITALI

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Academic year: 2022

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LA RIFORMA DELLE SOCIETÀ DI CAPITALI

LEZIONE I: Le parole d’ordine della riforma

La prima e più nota parola d’ordine è certamente quella della corporate governance. Con essa si allude ad un problema di governo dell’impresa.

Motivazione centrale del tema della corporate governance è stata una ricerca dell’efficienza: in una visione fondamentalmente liberista e paretiana l’accento è posto sulla capacità del sistema economico e della singola impresa di produrre ricchezza, sulle caratteristiche interne e di contesto che valgono o varrebbero a condizionarla.

D’altra parte la configurazione dell’impresa come nexus of contracts apre logicamente lo spazio a sviluppi tra loro diversi. Se infatti la società è intesa come punto di riferimento comune ad un’ampia ed eterogenea rete di rapporti contrattuali, l’attenzione del diritto societario potrebbe in quanto tale essere puntualizzata su alcuni soltanto di quei rapporti oppure volgersi a ricercare un loro equilibrio globale.

Da un lato si tende a sottolineare la peculiarità della posizione dei soci: essi si caratterizzerebbero quali soggetti cioè il cui diritto di partecipare ai risultati economici dell’impresa può essere soddisfatto soltanto dopo che sono stati soddisfatti gli altri. Tale posizione s’individuerebbe per uno specifico rischio, ed esso giustificherebbe sia la soluzione secondo cui ai soci soltanto sarebbe efficiente riconoscere il potere di

“governo” della società, sia l’esigenza che la sua attività venga soprattutto orientata al perseguimento dei loro interessi.

Da un altro lato, la visione del nexus of contracts non necessariamente esclude una prospettiva più atenta ai profili communitarian: la possibilità cioè e/o la necessità di riconoscere nel “governo” della società rilevanza anche ad interessi ulteriori rispetto a quelli dei soci, per esempio e soprattutto quelli dei dipendenti della società.

Anche è da segnalare il ruolo centrale di un’altra formula, quella dello shareholder valure. Il problema cioè se la “missione” della S.P.A. sia soprattutto o addirittura esclusivamente accrescere la ricchezza degli azionisti ed allora il valore della loro quotazione e quindi il capital gain degli azionisti stessi.

Rilevante è osservare che pur una considerazione incentrata sugli interessi dei soci è in grado di condurre a diversi esiti ed a differenti soluzioni di corporate governance a seconda del modo in cui siffatti interessi sono qualificati e dal contesto in cui vengono ad inserirsi. È così tradizionale evidenziare una fondamentale differenza tra soci-imprenditori e soci-risparmiatori: alla quale corrisponde un diverso interesse nei

confronti della gestione dell’impresa sociale e che può esprimere pure diverse valutazioni riguardo alle sue implicazioni economiche.

E così si segnala l’emersione di una nuova categoria di soci, gli investitori istituzionali, i quali volgono il loro interesse soprattutto al valore finanziario della partecipazione.

Differente è la situazione in presenza di una dispersione delle partecipazioni tale da escludere che vi siano soci di rilevanza tale da poter e voler influire sulla gestione della società, rispetto a quando può rilevarsi una loro concentrazione sufficiente a giustificare siffatta influenza.

Nel primo caso il problema riguarda soprattutto un potenziale conflitto tra soci e managers: i primi non sono in grado di incidere sulle scelte dei secondi. Da ciò l’elaborazione di strumenti come le stock options volti ad allineare gli interessi degli uni e degli altri e da ciò l’individuazione di un agency problem, il problema che sorge quando ad un soggetto è affidata la cura di altrui interessi ed il loro titolare non è in grado, o lo è solo limitatamente, di influenzarne l’azione.

Nel secondo caso il potenziale conflitto si pone in realtà all’interno del gruppo dei soci: in esso si

distinguono coloro che sono in grado di influire sull’attività sociale e coloro cui tale possibilità è estranea, un conflitto in sostanza tra maggioranza e minoranze.

Ma il contesto in cui si inserisce la società influisce anche per altri profili sui modi concreti in cui si atteggiano gli interessi dei soci e sui loro possibili strumenti di tutela: ciò per una diversità fondamentale tra società la cui partecipazione è effettivamente negoziata in un mercato e società per le quali ciò non avviene. Essa incide infatti sui modi in cui il socio può tutelare il suo investimento disinvestendo, lo strumento cioè di tutela che da noi si contrassegna ormai come exit.

Nel primo caso il socio può in ogni momento liquidare il proprio investimento cedendo le partecipazioni sociali sul mercato. Nel secondo caso le possibilità di disinvestimento tramite una vendita delle

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2 partecipazioni sono in concreto limitate ed in buona parte escluse: ciò sia per l’oggettiva difficoltà di

trovare un compratore, sia per la mancanza di un mercato e di un prezzo di mercato in grado di ridurre costi di transazione non trascurabili.

Dal confronto delle due ipotesi deriva una serie di rilevanti implicazioni. Nella prima, quando l’exit è realizzato vendendo sul mercato, l’operazione di disinvestimento non comporta di per sé la sottrazione di mezzi patrimoniali per lo svolgimento dell’impresa sociale; mentre la vendita sul mercato non solo rappresenta un segnale di insoddisfazione riguardo all’andamento della società, ma quando avviene in ampia misura incide negativamente sulle quotazioni e di conseguenza, rendendo minore il costo per il loro acquisto, rende più agevoli acquisizioni in misura tale da modificare gli equilibri di potere nella società medesima. Ne risulta uno strumento che può indurre coloro che detengono tale potere a non superare la soglia oltre la quale l’insoddisfazione die soci induce a massicce vendite.

Quando invece strumento in concreto disponibile per l’exit è soltanto il diritto di recesso, il costo del disinvestimento viene in definitiva a gravare su coloro che non lo esercitano e permangono nella società.

Questi specifici temi si collegano ad un altro degli slogans dibattuti nella preparazione della riforma, quello che, a volte anche richiamando una più generale tendenza verso la deregulation delle attività economiche, la vuole ispirata ad un principio di centralità dell’autonomia negoziale ed alle “logiche” del mercato: ciò nel senso di ampliare sia gli spazi per le scelte di autorganizzazione ad opera dei privati, sia il novero dei possibili modelli organizzativi ad essi offerti dall’ordinamento.

Si pensi in primo luogo alla situazione delle imprese societarie di rilevanti dimensioni e le cui partecipazioni sono diffusamente negoziate nei mercati finanziari. Il mercato sarebbe in grado autonomamente di

apprezzare le clausole statutarie predisposte dagli operatori e di selezionare quelle più efficienti. Si potrebbe pure considerare che un maggior spazio per l’autonomia privata nella formazione delle clausole statutarie significa una maggiore apertura alla fantasia degli operatori. Ma si può al contrario ritenere che il fatto di rivolgersi ai mercati finanziari comporta un’esigenza di tutela dei risparmiatori.

Neppure può trascurarsi il ruolo che in questa discussione può svolgere la tendenza he ora si usa chiamare globalizzazione dell’economia. Essa si basa sulla possibilità offerta dalle moderne tecnologie di

“delocalizzare” le attività produttive e di governarle anche da centri direzionali notevolmente distanti. Ne derivano due aspetti: il dubbio se abbia un reale senso la previsione da parte del singolo ordinamento statale di regole societarie imperative, quando la loro applicazione può essere ormai agevolmente evitata situando altrove la società; ed il problema se un eccesso di rigidità normativa non possa tradursi in un disincentivo alla localizzazione delle attività economiche ove ad esso ci si ispira ed una perdita di ricchezza per il sistema.

Nella riforma del sistema nazionale delle società di capitali ha assunto un ruolo centrale l’intento di dare al modello della S.R.L. reale autonomia di disciplina. In una società di minori dimensioni da un lato assumono maggior rilievo i rapporti reciproci tra i soci, che si pongono in termini fiduciari, e può risultare perciò giustificato consentire ad essi di modellarli secondo le specifiche esigenze del caso concreto, non quindi come avviene nella S.P.A., muovendo dall’assunto di una loro sostanziale anonimità.

Tra disciplina delle società e disciplina dei mercati finanziari non intercorre un rapporto di estraneità, ma esse reciprocamente si influenzano e non possono essere considerate separatamente, confluendo invece in un sistema unitario; che, in definitiva, per esprimersi in termini individualistici, la tutela del socio è anche tutela dell’investitore e viceversa.

LEZIONE II: Finanziamento dell’impresa e responsabilità

Il discorso prende necessariamente l’avvio da un dato centrale nell’attuale sistema delle società di capitali:

che in via di principio ne consegue una limitazione della responsabilità dei soci per i debiti conseguenti all’attività sociale.

Al riguardo meritano di essere sottolineate due novità della riforma:

- Che la limitazione di responsabilità è ora affermata anche nel caso di S.P.A. unipersonale

- Che è espressamente riconosciuta la possibilità che la società si avvalga di patrimoni destinati ad uno specifico affare

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3 Ne risulta in primo luogo un’ulteriore smentita della prospettiva che tradizionalmente evidenzia il carattere

“scandaloso” della limitazione di responsabilità e ne sottolinea l’eccezionalità rispetto alla regola generale dell’art. 2740.

Ne risulta un abbandono della prospettiva volta a sottolineare il significato collettivo della fenomenologia societaria ed in tal modo i diversi equilibri che la caratterizzano rispetto alla situazione dell’imprenditore individuale. Essa è smentita sia dalla generalizzazione della limitazione di responsabilità per la società unipersonale, sia, e forse soprattutto, dalla disciplina dei “patrimoni destinati”.

Tale nuova tecnica è in effetti riservata alla S.P.A.

La nuova disciplina prevede la limitazione di responsabilità pure per un’ipotesi in cui in precedenza era stata esclusa: quella della società unipersonale in cui unico socio è una persona giuridica. Sicché la

responsabilità è limitata anche quando la società unipersonale viene utilizzata come tecnica per organizzare un’attività imprenditoriale di gruppo conservando il controllo totalitario dei diversi segmenti in cui si articola.

Nei contesti evidenziati dalla nuova disciplina il ruolo della limitazione di responsabilità è

fondamentalmente quello di consentire un’organizzazione dell’impresa in grado di segmentare i rischi connessi a singoli e specifici momenti in cui si articola la sua attività: con il risultato di ridurre le remore ad intraprendere operazioni il cui rischio riveli elementi di specificità e di ridurre i costi di monitoring per i finanziatori esterni.

Il senso della limitazione della responsabilità si coglie oggi su un duplice piano, a seconda che ci si ponga nella prospettiva interna, che guarda al problema di incentivare la raccolta di capitale di rischio, oppure in quella esterna, ove si considerano le esigenze di diversificazione dell’attività sociale: dal primo punto di vista la soluzione corrisponde all’adozione di tecniche organizzative che limitano i poteri di controllo del socio e che apparirebbero ingiustificate qualora i rischi conseguenti all’attività sociale potessero

coinvolgere il suo intero patrimonio; dal secondo punto di vista si risolve in una “separazione” di diversi gruppi di creditori e così nella possibilità di isolare i relativi rischi.

L’art. 2497 conferma la legittimità della “direzione unitaria” di distinte società, quindi della segmentazione dell’attività imprenditoriale, ma vi si pone un limite per l’ipotesi di “abuso”, quando cioè tale attività di direzione si svolge “in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale” e quelle

“esternalità” si rivelano ingiustificate.

Ma la soluzione richiede anche una ricerca delle sue ragioni nel sistema. A tal fine son preziose indicazioni che possono trarsi da due disposizioni concernenti le ipotesi di patrimonio “destinato”:

- L’art. 2447-quinquies ove si distingue nettamente la posizione dei creditori in virtù di contratto e di quelli a causa di illecito

- Il primo comma dell’art. 2447-decies relativo al finanziamento di uno specifico affare La prima ipotesi concerne l’eventualità che si ponga l’esigenza di isolare il rischio derivante da uno

“specifico affare”, destinandogli una porzione del patrimonio sociale ed in tal modo separando i creditori che su di essa possono rivalersi e quelli generali della società. La seconda ipotesi è destinata invece all’ipotesi in cui si intende definire le condizioni per il finanziamento di uno “specifico affare” ed attiene quindi essenzialmente ai rapporti tra l’impresa ed i suoi finanziatori. L’affare diviene specifico da un lato per la scelta statutaria di trattarlo come tale, dall’altro in conseguenza delle modalità contrattuali con cui viene finanziato.

Della diversità tra le due vicende tiene conto la riforma della legge fallimentare, che con riferimento alla prima si preoccupa soprattutto di assicurare in caso di fallimento della società la separazione del

patrimonio destinato, oggetto perciò da parte del curatore di una gestione ovvero liquidazione separate rispetto alla restante massa patrimoniale della società; mentre la seconda è disciplinata per il suo

significato di rapporto contrattuale preesistente al fallimento, regolandosi allora le reciproche posizioni del curatore e del finanziatore in merito alle alternative tra scioglimento o continuazione del rapporto

medesimo.

Significativo è però che in entrambi i casi assuma rilievo la prospettiva del contratto. Essa, nell’art.2447- quinquies, 3°c., vale a distinguere i creditori rispetto ai quali rileva la destinazione del patrimonio da quelli nei cui confronti risponde l’intero patrimonio sociale: ciò, in particolare, disponendo che resta salva la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito. Essa, inoltre, nell’ipotesi

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4 dell’art. 2447-decies individua una fattispecie essenzialmente contrattuale, quella in cui in un’operazione di finanziamento per uno specifico affare si conviene che al rimborso totale o parziale del finanziamento siano destinati, in via esclusiva, tutti o parte dei proventi dell’affare stesso.

Nella seconda ipotesi la portata normativa della nuova disciplina consiste nella regola per la quale su tale patrimonio non sono ammesse azioni da parte dei creditori sociali. Si tratta in sostanza di una clausola che accede ad un contratto di finanziamento e della condizioni per la sua efficacia nei confronti degli altri creditori.

Ne risulta che la regola di limitazione di responsabilità non riguarda tanto il regime del soggetto e del suo patrimonio, quanto quello del contratto e dell’attività in cui si inserisce.

In definitiva, un contratto ben potrebbe limitare la responsabilità per le obbligazioni che ne conseguono ad una parte soltanto del patrimonio dell’obbligato. Le regole cui si accenna consentono inoltre che tale porzione patrimoniale sia sottratta all’azione degli altri creditori: ciò però a condizione che il contratto medesimo partecipi ad una specifica attività e che essa sia esercitata da una S.P.A.

Funzione dell’ordinamento è essenzialmente quella di elaborare una regola standard per l’ipotesi che le parti non dispongano altrimenti.

Il tema della limitazione della responsabilità e del suo fondamento viene diversamente affrontato quando si considera la posizione dei creditori volontari e di quelli involontari: in quanto ai secondi non è ovviamente riferibile un’autonoma scelta, neppure nella forma della mancata adozione di una soluzione diversa dalla default rule predisposta dall’ordinamento, e non è possibile quindi giustificare con essa la vigenza della soluzione medesima.

È significativo che la prassi giurisprudenziale in tema di lifting the veil (superamento o disapplicazione della regola di limitazione di responsabilità) sia in concreto soprattutto praticata a favore dei creditori in virtù di atto illecito.

Ne risulta una conferma del diverso significato che la limitazione della responsabilità può assumere alla luce della ragione dell’obbligo.

Il motivo centrale alla base di questo tema si rinviene nell’esigenza di incentivare la predisposizione di tecniche organizzativa in grado di monitorare adeguatamente i comportamenti di chi opera per e

nell’organizzazione. Esigenza che si pone diversamente quando, come accade nella società unipersonale, la formale predisposizione di un’organizzazione autonoma in grado di svolgere tale funzione, oppure quando la separazione patrimoniale avviene pur sempre nell’ambito dell’unitaria organizzazione della società e non vi è neppure distinzione tra gli organi preposti allo svolgimento della specifica attività.

A considerazioni diverse può condurre il confronto con l’ipotesi prevista dalla lettera b) dell’art. 2447-bis. In questo caso la vicenda si svolge secondo un meccanismo che muove dal contratto di finanziamento e sulla base di esso definisce l’attività ed i proventi “destinati” alla soddisfazione del creditore: non si tratta invece, come nel caso di cui alla lettera a), della preventiva definizione di un affare e della conseguente distinzione dei creditori a seconda dei rapporti tra le ragioni del proprio credito e l’affare medesimo.

Per quanto specificamente riguarda i creditori da fatto illecito la scelta dei modi e dell’ambito della loro tutela esprime orientamenti di politica legislativa in certo modo neutrali rispetto a quelli in tema di limitazione della responsabilità. Non vi è necessaria contraddizione tra la loro tutela e la circostanza che parte del patrimonio del responsabile sia destinata in via preferenziale alla soddisfazione di altri creditori; e perciò nei casi di maggiore rilevanza l’ordinamento tende ad assicurare quella tutela con misure che prescindono dal patrimonio del soggetto su cui grava la responsabilità e implicano forme di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile.

LEZIONE III: La utilizzazione dei patrimoni destinati

Per quanto concerne il patrimonio destinato di cui alla lettera b) dell’art. 2447-bis si è osservato che si tratta fondamentalmente del particolare atteggiarsi di un rapporto contrattuale di finanziamento e di una soluzione volta a determinarne in maniera diversa da quella consueta la rilevanza inter partes e nei confronti dei terzi. Si tratta sotto questo aspetto della regola secondo cui sui proventi dell’affare cui si riferisce il finanziamento, sui loro frutti e sugli investimenti con essi effettuati, non sono ammesse azioni dei creditori sociali. Essi sono destinati in via esclusiva alla soddisfazione del credito al rimborso derivante dal finanziamento medesimo. Ne risulta un’ipotesi del tutto peculiare di garanzia a favore del finanziatore:

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5 una garanzia che si caratterizza per il suo riferimento non a specifici beni, bensì ai risultati finanziari

dell’operazione.

Ma la vicenda è in grado anche di caratterizzare i rapporti inter partes ed in un certo senso incidere sulla struttura del rapporto obbligatorio tra loro intercorrente. In virtù di essa i proventi dell’affare finanziato non soltanto sono sottratti all’azione degli altri creditori, ma possono inoltre essere configurati come strumento esclusivo per il rimborso del conferimento: al punto che nessun’altra garanzia sia prestata in proposito e che si preveda un tempo massimo di rimborso, decorso il quale nulla è più dovuto al finanziatore.

Si tratta di una soluzione che attiene essenzialmente al momento dell’adempimento ed in tal modo al contenuto del rapporto obbligatorio. I proventi dell’affare individuano sia il debito, di modo che la loro dazione al finanziatore è in quanto tale adempimento, sia l’ambito della responsabilità.

Se così è non sembra difficile individuare i limiti d’utilizzabilità dell’istituto. Esso delinea un’ipotesi in cui l’autonomia privata definisce i contenuti del rapporto obbligatorio instaurato dalle parti ed in cui l’ordinamento precisa i criteri e gli indici per la sua opponibilità ai terzi.

Ne risulta così che l’affare finanziato deve presentare caratteristiche tali da consentire i separati sistemi d’incasso e contabilizzazione (lettera b) art. 2447-decies), quindi una sua autonomia rispetto alla generale attività della società.

Non pare compatibile con la prospettiva legislativa avvalersi della forma di patrimonio destinato in

questione al fine di “separare” i beni già presenti nel patrimonio sociale; si tratta invece di una tecnica che persegue tale “separazione” con riferimento alle acquisizioni, ed in primo luogo ai proventi, che saranno consentiti dallo svolgimento dell’affare. Di ciò del resto sembra inequivocabile conferma la circostanza che in tal caso, a differenza dei patrimoni destinati della lettera a) dell’art. 2447-bis, non si prevede né un diritto di opposizione dei creditori né un limite quantitativo.

La circostanza che ai creditori non si riconosce alcun diritto di opposizione evidenzia che l’operazione di per sé non è in grado di incidere sulla loro posizione.

È invece sul piano della “separazione” di beni preesistenti nel patrimonio sociale che si caratterizza la forma di patrimonio destinato prevista dalla lettera a) dell’art. 2447-bis.

Si tratta di una tecnica in ultima analisi alternativa a quella della costituzione di una società ad hoc. Al riguardo assumono rilievo in primo luogo le diverse prospettive adottate nel primo comma dell’art. 2361 e nel secondo comma dell’art. 2447-bis. L’uno che vuole impedire la partecipazione in altre imprese quando

“per la misura e per l’oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l’oggetto sociale determinato dallo statuto”; l’altro che per la costituzione di patrimoni destinati pone un limite quantitativo individuato sulla base di un rapporto con il complessivo patrimonio sociale.

Il secondo comma dell’art. 2447-bis rende agevole ritenere che nell’ipotesi ivi prevista permanga nella sua pienezza l’esigenza di una coerenza con la previsione statutaria dell’oggetto sociale. L’affare cui può essere destinata parte del patrimonio sociale quindi, deve rientrare tra quelli che la società, sulla base del suo oggetto, potrebbe comunque direttamente svolgere anche senza avvalersi di tale tecnica.

Di ciò è un esplicito indice l’altro principio posto dal 2°c. dell’art. 2447-bis, quello secondo cui i patrimoni desinati non possono essere costituiti per l’esercizio di affari attinenti ad attività riservate in base alle leggi speciali. Il che si traduce in due distinte regole che potrebbero essere così sintetizzate:

1) Che non è consentito, tramite patrimoni destinati, svolgere attività che la società non potrebbe

“direttamente” svolgere

2) Che non ogni attività consentita alla società può essere dalla stessa svolta avvalendosi di un patrimonio destinato

Il secondo punto merita di essere sottolineato. In proposito deve tenersi conto che le riserve di attività si caratterizzano per lo più per l’esigenza che esse siano esercitate secondo predefinite modalità

organizzative: perciò normalmente si prescrive l’adozione di uno specifico tipo societario. Da ciò il dubbio che tra le possibili strutture organizzative possa annoverarsi anche quella del patrimonio destinato.

L’affare cui è destinato il patrimonio separato, poiché momento dell’impresa societaria e non mero investimento finanziario, deve risultare coerente con la previsione dell’oggetto sociale; mentre non tutto quanto l’oggetto sociale consente può essere compiuto tramite un patrimonio destinato.

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6 Ulteriore argomento in tal senso si trova nella considerazione che le due ipotesi, in certo modo alternative, del patrimonio destinato e della costituzione di una società ad hoc sembrano implicare diverse prospettive valutative per un tema di particolare delicatezza come quello del “conflitto di interessi”. Nel secondo caso l’autonomia del segmento imprenditoriale cui è destinata la società rispetto alla sua “madre” è assicurata sul duplice piano dei singoli atti, tramite la disciplina dell’art. 2391, e dalla complessiva attività, in base alla nuova regola dell’art. 2497; nel primo caso, non essendovi spazio per l’applicazione del primo, può soltanto discutersi se dall’art. 2497 non sia possibile trarre un più ampio principio anche in tale ipotesi utilizzabile.

La segmentazione dei rischi imprenditoriali consentita dall’art. 2447-bis, sotto questo aspetto non dissimile da quella conseguibile mediante la costituzione di una società ad hoc, crea comunque nei terzi una

legittima aspettativa che il singolo segmento d’impresa con cui entrano in contatto sia gestito secondo criteri imprenditoriali che gli consentano di operare come autonomo “centro di profitto”.

È plausibile un’ipotesi interpretativa la quale si avvalga del principio posto dall’art. 2497 anche per reagire ad ipotesi di “abusi” nella gestione di un patrimonio destinato. Impraticabile pare invece l’utilizzazione di regole come quella dell’art. 2391 e più in generale della disciplina del conflitto di interessi.

Vi sono evidenti ragioni che convincono dell’esigenza di trattare nel nostro caso di un affare dotato delle caratteristiche idonee a consentire un’associazione in partecipazione; e ciò fatto salvo il problema se in tutti i casi in cui tale possibilità sussisterebbe sia anche possibile costituire un patrimonio destinato.

Dal primo punto di vista non sembra dubbio che anche nel nostro caso si pone la necessità che vi sia un affare in grado di consentire almeno una contabilizzazione autonoma in termini di costi e ricavi. Dal secondo punto di vista ci si potrebbe forse chiedere se non debba riconoscersi un qualche significato ala circostanza che l’art. 2447-bis, a differenza dell’art. 2549, non discorre di un’impresa o di affari, bensì soltanto dei secondi.

Termini di confronto divengono da un lato l’associazione in partecipazione e dall’altro la tecnica alternativa al patrimonio destinato, quella di costituire una società ad hoc. E se per il primo aspetto non sembra agevole andare oltre la generica constatazione che, se non altro per i limiti quantitativi posti dal 2° c.

dell’art. 2447-bis, non è possibile che questo schema si sovrapponga all’impresa societaria, per il secondo si ripropone l’interrogativo se tuto quanto può farsi costituendo una società ad hoc può anche farsi con un patrimonio destinato, se quindi i due schemi sono realmente del tutto equivalenti.

Nella società un “conseguimento dell’oggetto” è concretamente pensabile soltanto nell’ipotesi di società unius negotii, quando cioè si tratta di una società costituita per il compimento di un singolo affare; mentre sembra difficilmente ipotizzabile nel caso in cui l’oggetto sociale individui una categoria di attività e quindi non si esaurisca se non per il sopraggiungere di fatti giuridici od operativi impeditivi.

Se così è potrebbe non essere insostenibile una soluzione secondo cui la destinazione di un patrimonio ad un “affare” presuppone che questo sia suscettibile di “realizzazione”.

Potrebbe anche osservarsi a favore di questa soluzione che con essa può ottenersi un equilibrato rapporto nel sistema tra le due tecniche della società ad hoc e del patrimonio destinato: nel senso che la prima rimane esclusiva per l’ipotesi in cui s’intende operare stabilmente e potenzialmente in termini indefiniti di tempo, mentre la seconda viene circoscritta a vicende in cui in ogni caso è presente un limite temporale.

LEZIONE IV: Gli apporti dei soci: conferimenti e finanziamenti

Dato di partenza è la constatazione che la remunerazione dei fattori produttivi utilizzati per l’attività sociale può avvenire secondo due diverse modalità, come conseguenza diretta dei suoi risultati oppure in misura predefinita e da essi prescindendo. Se per la più parte dei fattori produttivi è possibile predefinire la remunerazione, necessariamente una categoria di essi può essere remunerata soltanto dopo che gli altri hanno conseguito la propria.

In definitiva non tutti coloro che contribuiscono all’attività d’impresa possono essere fixed claimants;

necessario è che alcuni assumano la posizione di residual claimants, nel senso che la loro remunerazione avviene riconoscendo il potere di appropriarsi di quanto residua dopo la soddisfazione dei primi. Ciò implica una diversa situazione in termini di rischio: quando i risultati dell’attività imprenditoriale sono negativi, essi pregiudicano prima la posizione dei residual claimants e solo successivamente quella dei fixed claimants.

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7 È necessario definire l’area del conferibile, cioè se e per quali aspetti i possibili apporti dei soci, quelli qualificati come conferimenti in senso tecnico, siano ulteriormente delimitati, rispetto a quanto già deriva dalla loro necessaria strumentalità per lo svolgimento dell’attività sociale.

All’origine della questione si pone un confronto con l’art. 2447, ed un confronto inoltre tra le specifiche esigenze delle società di capitali e quelle delle società di persone: l’interrogativo cioè se ed in che senso differente deve ritenersi nei due casi la funzione del conferimento.

La nuova disposizione in tema di conferimenti in S.R.L., l’art. 2464, per un verso stabilisce che possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica, per un altro consente che il conferimento avvenga mediante la prestazione di una polizza di assicurazione o di una fideiussione bancaria con cui vengono garantiti, per l’intero valore ad esso assegnato, gli obblighi assunti dal socio aventi per oggetto la prestazione d’opera o di servizi a favore della società. Mentre, per quanto concerne le S.P.A., il sesto comma dell’art. 2346 fa salva la possibilità che la società, a seguito dell’apporto da parte di soci o di terzi anche di opera o servizi, emetta strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti.

Ne risulta un diverso trattamento del conferimento d’opera o di servizi. Per esso, nella S.P.A., permane il rigido divieto dell’ultimo comma dell’art. 2342: sicché l’apporto di tali utilità non può contribuire alla formazione del capitale sociale, non può avvenire quindi nella forma del conferimento in senso tecnico, ed è possibile soltanto che dia luogo all’emissione di strumenti finanziari diversi dalle azioni cui pure possono essere attribuiti alcuni dei diritti patrimoniali od amministrativi tradizionalmente del socio. Nella S.R.L., invece, il conferimento può avere ad oggetto la prestazione d’opera o di servizi e soltanto si richiede, come condizione perché ciò avvenga, che sia prestata una polizza di assicurazione o una garanzia bancaria tale da garantire l’esecuzione del relativo obbligo per un importo almeno parti al valore assegnato al conferimento medesimo.

Vi è un diverso significato della regola, pur ugualmente formulata, che in entrambi i modelli societari vuole l’integrale liberazione delle partecipazioni corrispondenti ai conferimenti non in danaro. Il diverso

trattamento dell’apporto di opera o servizi mostra infatti che essa implica, per le S.P.A., l’immediata messa disposizione della società dell’utilità cui il conferimento è funzionale ed invece, per la S.R.L., che tale messa a disposizione sia realizzata oppure soltanto semplicemente garantita.

L’apporto di opera o servizi non consente alla società la definitiva acquisizione del relativo valore,

soprattutto non le consente di avvalersene in via autonoma ed a prescindere dalla successiva cooperazione del socio. Nella S.P.A. è essenziale che il conferimento si realizzi secondo modalità tali da poter assumere una propria oggettività, un proprio autonomo valore in grado di emanciparsi dalle vicende personali del socio: deve potersi configurare come un investimento il quale, implicando un affidamento alla società, conserva il proprio significato indipendentemente dalla sua situazione personale. Nella S.R.L. non si richiede siffatta emancipazione ed il valore del conferimento può ancora consistere in un’attività del socio, quindi imperniato se si vuol dire sulla sua persona.

Del resto che così sia è dimostrato dalla disciplina del 5° comma dell’art, 2466, in virtù del quale la scadenza o la sopravvenuta inefficacia della garanzia non significano di per sé la mancata esecuzione del

conferimento ed è possibile che la prima venga sostituita con altra.

Alla base della peculiare disciplina dei finanziamenti dei soci dell’art. 2467 si pone la constatazione che operazioni di finanziamento dei soci a favore della società possono trovare la loro giustificazione nella posizione stessa di socio ed essere finalizzate alla realizzazione di interessi diversi da quelli tipicamente presenti in operazioni finanziarie con terzi: possono, come spesso si dice, evidenziare una causa societatis.

Si pone il problema di evitare che con finanziamenti formalmente diversi dai conferimenti il socio possa in sostanza sottrarsi al proprio tipico rischio e presentarsi per questo aspetto su un piano di parità con i creditori.

La questione viene anche spesso presentata come un problema di sottocapitalizzazione nominale della società: quando cioè i soci contribuiscono in effetti a quanto economicamente necessario per lo

svolgimento della sua attività, ma solo in parte a titolo di formale conferimento ed il rimanente sulla base di rapporti omogenei con quelli instaurati nei confronti dei terzi.

Con il modello della S.R.L. la partecipazione alla società non necessariamente si riduce in quanto tale ad un investimento, ma può qualificarsi per il coinvolgimento, se si vuol dire personale, nell’attività di impresa.

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8 Nella S.P.A., ove l’assunzione della partecipazione implica di per sé un’operazione di mero investimento, non può ritenersi a priori ragione di sospetto che parallelamente ad essa intercorrano altre e distinte forme di investimento. Nella S.R.L., invece, ove può anche trattarsi di un interesse immediato nei confronti dell’attività imprenditoriale, è plausibile che già in via di principio ci si interroghi sui rapporti nel caso concreto tra la posizione di socio ed un’operazione di finanziamento a favore della società.

Nell’art. 2467 pare centrale il riferimento ad “una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”: in quanto l’altra ipotesi di “eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto”, più che contrapporsi a quella, sembra individuare un assetto di interessi in cui a siffatto risultato inevitabilmente induce tale criterio di ragionevolezza.

In quel caso di eccessivo squilibrio dell’indebitamento un finanziamento effettuato concedendo credito significherebbe l’assunzione di un rischio che difficilmente un creditore consapevole sarebbe disposto ad assumere.

Quel criterio di ragionevolezza è in grado soprattutto di essere utilizzato a fini applicativi chiedendosi qual è il comportamento tipico non tanto del socio, quanto del terzo finanziatore. Si tratta cioè di chiedersi se nella situazione data potrebbe “ragionevolmente” attendersi che un terzo sia disponibile ad effettuare un finanziamento: con la conseguenza che la disciplina dell’art. 2467 diviene applicabile essenzialmente quando a tale interrogativo debba fornirsi risposta negativa. È in tal caso che risulta inevitabile la conclusione secondo cui la ragione economica del finanziamento risiede nella posizione di socio di chi lo concede.

L’art. 2467 individua ipotesi in cui non è consentito al socio sostanzialmente ridurre il proprio rischio tipico di residual claimant ed in cui sarebbe allora contraddittorio con le finalità politiche della norma far

riferimento al suo intento. Non vi è invece motivo per impedire che a tale rischio volontariamente il socio assoggetti il proprio finanziamento a favore della società.

Quando è riconoscibile una scelta dell’autonomia privata nel senso della postergazione di apporti finanziari dei soci diversi dai formali conferimenti, la sua efficacia può essere analoga nei due tipi societari; ma da ciò anche l’interrogativo se non ci siano pure nella S.P.A. ipotesi in cui a siffatta postergazione debba

imperativamente giungersi sulla base di un’applicazione analogica dell’art. 2467.

Del resto, che il problema abbia ragione di porsi sembra dimostrato dall’art. 2497-quinquies: il quale estende, a prescindere dal tipo societario, la disciplina dell’art. 2467 “ai finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita un’attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti”.

Non è difficile constatare che nell’ipotesi di finanziamenti infragruppo si presentano molti dei dati che sono parsi alla base dell’art. 2467: l’individuazione in particolare di un’operazione finanziaria che non si risolve in un mero investimento, ma costituisce un momento di esercizio dell’impresa, se si vuol dire del suo governo;

e che perciò non può essere sottratta al rischio tipico di tale posizione.

Se così è, almeno legittimo è porsi la questione se la disciplina non sia applicabile anche all’azionista la cui partecipazione nel caso concreto non si riveli quella di un investitore, bensì denoti caratteri imprenditoriali:

come soprattutto può avvenire per il socio di controllo.

Potrebbe convincere un profilo della ratio della norma fin qui trascurato. Essa infatti, sostanzialmente imponendo una postergazione dei finanziamenti effettuati dai soci in situazioni di crisi della società, implica una soluzione politica che vuole penalizzare la scelta di chi in tale situazione decide di proseguirne l’attività imprenditoriale in buona parte trasferendone il rischio a carico dei terzi creditori. Si tratta di una soluzione normativa che intende affrontare uno dei problemi che inducono l’ordinamento a dettare una disciplina speciale per la crisi dell’impresa: quello di impedire l’eventualità che essa prosegua la sua attività quando ormai il relativo rischio verrebbe trasferito a carico dei creditori, di soggetti cioè cui non compete decidere in merito a tale prosecuzione.

Questa prospettiva potrebbe in certo modo per converso indurre a chiedersi se in effetti, al di là della lettera dell’art. 2467, la sua disciplina sia in ogni caso applicabile ai finanziamenti di ogni socio di S.R.L., oppure soltanto quando nel caso concreto la sua partecipazione dimostri effettivamente i segnalati caratteri imprenditoriali.

Da un punto di vista applicativo la questione potrebbe porsi nel caso in cui il socio, di fronte alla pretesa di applicare a suo carico la disciplina del 1° comma dell’art. 2467, tenti di proporre un’eccezione basata sulla

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9 sua concreta estraneità alla conduzione imprenditoriale della società. Se nella sua utilizzazione, dovendosi in definitiva valutare un rapporto instaurato tra il socio e la società e potendo condurre ad una

qualificazione diversa da quella formalmente adottata dalle parti, non si debba anche riconoscere uno spazio al modo in cui concretamente il primo partecipa alla seconda.

LEZIONE V: Il finanziamento della società: socio e obbligazionisti

È tradizionale la distinzione tra azione e quota di S.R.L.: due tecniche organizzative che diversamente risolvono il problema del modo in cui procedere ad una misurazione dei diritti del socio.

Nel primo caso, con l’azione, il problema è risolto mediante la definizione statutaria dell’unità di misura a tal fine utilizzabile. Il che avviene individuando frazioni standardizzate e quantitativamente omogenee del capitale sociale; sicché diviene possibile determinare il quantum dei diritti di ciascun socio sulla base del numero di tali frazioni, le azioni appunto, riferibili alla sua posizione.

Ed è soltanto una variante tecnica la circostanza che tali frazioni siano individuate attribuendo ad esse un valore assoluto, il valore nominale, oppure limitandosi a definire la proporzione che essere rappresentano del capitale. L’adozione della seconda soluzione può semplificare alcuni problemi tecnici, in particolare quelli che si presentano in caso di modificazione del capitale sociale; in tal caso infatti, se la soluzione adottata è la prima, ne risulta la necessità di modificare correlativamente il valore nominale delle azioni. Ad entrambe è però in ogni caso comune la predeterminazione oggettiva in via statutaria di un’unità di conto utilizzabile per il calcolo dei diritti spettanti a ciascun socio.

Da ciò una serie di conseguenze di rilievo: come quella della indivisibilità delle azioni, che deriva dal loro significato di unità di misura e che non consente una divisione ad opera dei soci, ma non esclude, essendo il risultato di una determinazione statutaria, una successiva modificazione di questa. Ma da ciò soprattutto la loro fungibilità, che rende più agevole la formazione di un mercato che le abbia ad oggetto; ed una loro oggettivizzazione, la possibilità cioè di pensare la singola azione come una “cosa” e di intenderne le vicende prescindendo da quelle personali del socio che ne sia in un dato momento titolare.

È invece la posizione personale del socio a collocarsi in primo piano con la quota di S.R.L.: ove manca la predisposizione di un’unità di misura oggettiva e la misurazione quindi dei diritti del socio avviene sulla base della proporzione con cui in concreto egli partecipa alla società.

Qui si coglie la contrapposizione che la legge di delega vuole istituire tra “rilevanza centrale dell’azione”

nella S.P.A. e “rilevanza centrale del socio” nella S.R.L. L’esercizio dei diritti sociali viene fondato in un caso sulle unità azionaria riferibili al soggetto, nell’altro su un accertamento della singola posizione del socio.

Avviene così una modulazione che, nella S.P.A. si traduce predisponendo differenti categorie di azioni fornite di diritti diversi; avviene invece nella S.R.L. con l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti. Con la conseguenza che la circolazione dei diritti diversi avviene necessariamente in connessione con quella delle unità azionarie da cui derivano; mentre i particolari diritti spettano individualmente al singolo socio e non si trasferiscono all’acquirente della partecipazione.

Con riferimento alla S.P.A. merita di essere ricordato il diffuso orientamento che circoscrive la possibilità di modulare i diritti sociali alla creazione di categorie di azioni. Il problema di maggior rilievo a questo riguardo concerne i limiti entro i quali possono essere configurati i “diritti diversi” di cui all’art. 2348 ed i “particolari diritti” consentiti dall’art. 2468.

Quando si intende graduare la posizione del socio riguardo ai poteri nella società, trattandosi della S.P.A., ciò è possibile esclusivamente indicendo sulla spettanza e sull’esercizio del diritto di voto; per la S.R.L. è invece possibile prevedere particolari diritti che direttamente abbiano per oggetto la gestione societaria.

Se così è non è forse difficile scorgere un’ulteriore conferma della prospettiva che nella partecipazione in S.P.A. scorge soprattutto il significato di investimento, il quale implica il riconoscimento di poteri nello svolgimento dell’attività sociale, ma necessariamente sulla base delle regole organizzative sue proprie e senza comportare la necessità che all’attività medesima concretamente e personalmente si partecipi.

Mentre nella S.R.L. diviene possibile il riconoscimento in proposito di particolari diritti al socio in quanto tale.

Il 5° comma dell’art. 2351 consente che ai possessori degli strumenti finanziari sia riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco. Si tratta infatti di strumenti finanziari diversi dalle azioni e

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10 con riferimento ai quali entrambe le disposizioni escludono il diritto di voto nell’assemblea generale degli azionisti; ed è proprio questa “diversità” che giustifica la possibile attribuzione di poteri in merito

all’amministrazione che si concretizzino in modalità diverse dal voto in assemblea e che non necessariamente quindi si risolvono in metodi di conteggio del voto medesimo.

Se il voto in assemblea è esclusivo della partecipazione sociale, di essa non è invece nella S.P.A.

conseguenza necessaria; l’art. 2351 prevede infatti non soltanto un’ampia gamma di possibilità nel congegnare categorie azionarie differenziate per quanto concerne l’esercizio del diritto di voto o nel determinarne il peso quantitativo, ma anche l’eventualità di azioni senza diritto di voto (per es. azioni di risparmio). Ne risulta un assetto del sistema secondo cui il diritto di voto in assemblea non può competere se non a chi sia socio, sulla base quindi dei presupposti normativi per il riconoscimento di tale posizione giuridica, ma la sua esclusione non impedisce di per sé che di posizioni sociali comunque si tratti.

Si pone così il problema di individuare gli indici sulla cui base caratterizzare e distinguere rispetto ad ogni altra la situazione giuridica propriamente di socio.

Espressamente ora si ammette che una categoria di azioni possa essere caratterizzata anche per quanto concerne la incidenza delle perdite; mentre non soltanto si consente l’emissione di obbligazioni con cui il diritto agli interessi è, in tutto o in parte subordinato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società o può variare in dipendenza di parametri oggettivi anche relativi all’andamento economico della società, ma inoltre si sottopongono alla disciplina delle obbligazioni strumenti finanziari che condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale e l’andamento economico della società. Per un altro verso si ammettono anche azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore.

Ne risulta una sorta di continuum tra posizioni che sono classificate in termini di partecipazione azionaria ed altre che il legislatore inquadra invece sul piano dei rapporti di credito: così, per quanto concerne la

partecipazione al rischio dell’attività sociale e quindi la sopportazione delle perdite, si delinea l’eventualità che essa sia graduata nell’ambito degli azionisti ed inoltre successivamente graduata tra distinte categorie di finanziatori, e ciò fino al punto che il negativo andamento dell’impresa può pregiudicare persino il loro diritto al rimborso del capitale.

Un’indicazione importante per analizzare il punto può trarsi dall’ultimo comma dell’art. 2346. Esso prevede l’emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali che potrebbero risultare qualitativamente omogenei con quelli degli azionisti, ma chiaramente esclude che tali strumenti possano intendersi come vere e proprie azioni; e lo prevede a seguito di apporti i quali non possono qualificarsi come conferimenti.

Da ciò la sensazione che la qualificazione come socio consegue alla possibilità di qualificare l’apporto come conferimento; e da ciò anche l’ulteriore sensazione che nella S.P.A. tale qualificazione si connette

necessariamente ai requisiti ed alle modalità tecniche dell’operazione del conferire.

Rileva tecnicamente come conferimento non ogni generico apporto patrimoniale, ma quello che per le sue forme, ed in definitiva a seguito di una scelta statutaria, contribuisce alla formazione del capitale sociale.

Da ciò la sensazione che le azioni non si individuano per i diritti patrimoniali che ne derivano, bensì in base alla circostanza che tali diritti conseguono ad una posizione giuridica dimensionata sulla base non

dell’apporto, ma di quanto di esso viene riferito al capitale sociale. E così si apre l’eventualità di ipotesi che sostanzialmente realizzano una partecipazione al patrimonio sociale, con esposizione in effetti ai rischi relativi alla sua consistenza, ma non al capitale della medesima, non quindi nei termini tipici della partecipazione sociale in società di capitali

Potrebbe dirsi che se le azioni rappresentano un prius rispetto alla posizione del socio, il capitale è a sua volta un prius nei confronti delle azioni. La prospettiva è cioè quella per cui non si muover dalla

determinazione di un par value delle azioni e moltiplicandolo per il loro numero si stabilisce il legal capital della società, ma da uno stated capital si desume, tramite un’operazione di divisione, il valore delle prime.

Si tratta di un procedimento logico il quale si articola in realtà non in due, bensì in tre fasi: un primo momento con il quale si definisce la cifra del capitale sociale, in misura che deve almeno corrispondere al valore complessivo degli apporti; un secondo momento in cui il capitale sociale viene ripartito nelle sue frazioni unitarie rappresentate dalle azioni ed un terzo momento infine in cui le azioni sono assegnate ai soci.

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