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Mimmo Paladino. (Paduli, 18 dicembre 1948)

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(1)

Mimmo Paladino

(Paduli, 18 dicembre 1948)

(2)

H. Belting, Facce. Una storia del volto, Roma, Carocci editore, 2014 (I ed. München, 2013):

è certamente l’immagine di un volto, ma non è tanto la riproduzione di un volto reale quanto, piuttosto, un volto simbolico. La si potrebbe definire escarnazione del volto, nel senso che “spersonalizza” (entkörperlicht) un volto per consentire di “impersonare” (verkörpern) qualcun altro. E si può viceversa parlare di incarnazione a proposito delle diverse maschere continuamente prodotte dal volto con le sue espressioni mimiche. […] È stato solo a partire dall’Illuminismo che ci siamo abituati a negare questo comune carattere iconico e a considerare volto e maschera come opposti: il primo sarebbe immagine dell’io; la seconda, invece, falsificazione dell’io. Il fatto che si parli di un “nudo volto” dimostra però che al volto possono essere tolte delle maschere invisibili. Si tratta allora di maschere delegate alla contraffazione, non all’espressione del sé

M. Paladino, Autoritratto come Joyce, 1994. Acquaforte, acquatinta su carta Moulin du Gue, carta 79x58, lastra 20x14 cm

(3)

1904 June 16 – 2004 June 16, 2009

Acquaforte, acquatinta, foglia d’oro su carta Torinoko Kuzu Japan

Telemaco

Acquaforte, acquatinta, foglia d’oro su carta Torinoko Kuzu Japan, carta 32,5x25 cm, lastra 15x10, 5 cm

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M. Paladino, Sciamano (TA, TA, TA – PE, PE, PE – TRUM, TRUM, TRUM), olio su tela, 100x90 cm, 1997.

A.C. Danto, M. Paladino, D. Paparoni, Storia e poststoria. Una conversazione, «Tema Celeste», estate 1995:

[mi sento] più vicino alla visione di Motherwell, nel quale il concetto coincide con la spiritualità dell’essere artista: il linguaggio prevale sulla narrazione. Con questo spirito ho realizzato una serie di lavori sull’Ulisse di Joyce: è vero che sono affascinato dall’idea di viaggio, di labirinto, di tappa, di tempo che scorre, ma è altrettanto vero che il mio interesse si concentra sul linguaggio, che per me è più importante del soggetto poetico. È per questo che ho raccolto varie edizioni dell’Ulisse e vi intervengo disegnando su una pagina; è per questo che lavoro sui libri pubblicati in lingue diverse. Vorrei trovarne uno in arabo e in altro in cinese… La lingua diviene così un segno che va al di là della narrazione

(5)

M. Paladino, EN DE RE, tecnica mista su carta e vetro, 9x12 cm, 1977.

(6)

«La nascita del linguaggio è un atto d’autorità, ogni sottomissione equivale a una nuova interpretazione […] in cui il senso e lo scopo esistenti fino a quel momento vengono necessariamente offuscati e persino cancellati del tutto». Intorno al tema dell’interpretazione di alcune sillabe che il re pronuncia nel sonno, EN DE RE appunto, si sviluppa tutta la trama del racconto, in cui si succedono i tentativi di decifrazione. Lo scrivano di corte riconosce nel linguaggio stesso il soggetto della frase misteriosa, sottolineando che «Nietzsche parla della “doppia natura” del linguaggio, del suo essere contemporaneamente due cose, significante e significato, così come è duale la natura del RE, umana e divina nello stesso tempo». Il bibliotecario però non è dello stesso avviso, e «propone di interpretare definitivamente, utilizzando francese e latino, come “in intorno alla Cosa”

oppure “nei dintorni della Cosa”. A questo si oppongono sia il ciambellano, che vede censurato il nome del RE, sia il maestro di cerimonie che trova la COSA troppo generica. La COSA di per sé è irrappresentabile, perché non si sa dove va a parare o a cadere, dunque è ciò che non si conosce». La conclusione si sta intravedendo sempre più chiaramente, ed è l’indecifrabilità del linguaggio: è questa l’interpretazione che viene portata avanti, significativamente, dal buffone di corte, più volte scelto dagli artisti come propria maschera nel corso dei secoli, che «facendo tintinnare il berretto a sonagli, caracollando al centro della sala delle udienze, lancia un invito, quello di leggere EN DE RE come suono, così come è uscito dalla bocca d’oro: EN DE RE come EN DE RE. Invita i sudditi a praticare l’aforisma di Nietzsche, ad essere “superficiali a forza di profondità”» (citazioni da A. Bonito Oliva, M. Paladino, EN DE RE, Modena, Emilio Mazzoli Editore, 1980).

Il filosofo tedesco infatti, sia in Al di là del bene e del male, sia in Su verità e menzogna in senso extramorale, sviluppa un ragionamento differente, precisando, come suggerito da Giametta (S. Giametta, Introduzione, in F.W. Nietzsche, Verità e menzogna. La visione dionisiaca del mondo. La filosofia nell’epoca tragica dei greci. Su verità e menzogna in senso extramorale, a cura di S. Giametta, Rcs edizione digitale, 2013), che «non la parola in sé, il linguaggio, è inadatta alle intuizioni, ma la parola già sfruttata, svigorita dall’uso e dall’abuso. Le “metafore proibite”, infatti, anche se non proprio gli “inauditi accozzamenti di concetti”, non sono altro che la parola, il linguaggio, che ritorna alla sua funzione poietico-poetica».

L’invito non è a rimanere in superficie, quanto piuttosto a prestare attenzione e a diffidare delle convenzioni linguistiche e ʻmetaforicheʼ.

«Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state trasposte e adornate poeticamente e retoricamente e che, dopo un lungo uso, appaiono a un popolo salde, canoniche e vincolanti. Le verità sono illusioni di cui si è dimenticato che sono illusioni, metafore che si sono logorate e hanno perduto la loro presa sensibile, monete che hanno perduto la loro immagine e vengono ora prese in considerazione semplicemente come metallo, non più come monete. Continuiamo a non sapere da che cosa scaturisce l’impulso verso la verità. Giacché finora abbiamo sentito parlare solo dell’obbligo che la società impone, per esistere, di essere veritieri, ossia di servirsi delle metafore usuali, il che, espresso in termini morali, significa: dell’obbligo di mentire secondo una convenzione stabilita, di mentire tutti insieme in uno stile vincolante per tutti» (F.W. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale [1873])

(7)

M. Paladino, Il giardino dei sentieri che si biforcano, tecnica mista su cristallo, 190x125 cm, 1977.

J.L. Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano [1941]:

Quasi immediatamente compresi; il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerirono l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio. Una nuova lettura di tutta l’opera mi confermò in quest’idea.

In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang – diciamo – ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti; e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni. Talvolta i sentieri di questo labirinto convergono: per esempio, lei arriva in questa casa, ma in uno dei passati possibili lei è mio amico, in un altro è mio nemico.

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I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori, 2002 (I ed. Garzanti 1988):

Quando ho cominciato a scrivere storie fantastiche non mi ponevo ancora problemi teorici; l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine di ogni mio racconto c’era un’immagine visuale. Per esempio, una di queste immagini è stata un uomo tagliato in due metà che continuano a vivere indipendentemente; un altro esempio poteva essere il ragazzo che s’arrampica su un albero e poi passa da un albero all’altro senza più scendere in terra; un’altra ancora un’armatura vuota che si muove e parla come ci fosse dentro qualcuno. Dunque nell’ideazione d’un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali.

Sarà possibile la letteratura fantastica nel Duemila, in una crescente inflazione d’immagini prefabbricate? Le vie che vediamo aperte fin da ora possono essere due. 1) Riciclare le immagini usate in un nuovo contesto che ne cambi il significato. Il post-modernism può essere considerato la tendenza a fare un uso ironico dell’immaginario dei mass media, oppure a immettere il gusto del meraviglioso ereditato dalla tradizione letteraria in meccanismi narrativi che ne accentuino l’estraneazione. 2) Oppure fare il vuoto per ripartire da zero. Samuel Beckett ha ottenuto i risultati più straordinari riducendo al minimo elementi visuali e linguaggio, come in un mondo dopo la fine del mondo.

M. Paladino, Il visconte dimezzato, bronzo, 235x95x40 cm, 1998.

Palomar sul terrazzo. Dal terrazzo, in cui il protagonista avvicina il suo sguardo, dall’alto del terrazzo, a quello degli uccelli in volo, che vedono «tetti più alti o più bassi, costruzioni più o meno elevate», e che invece ignorano che «là sotto, incassate, esistano delle vie e delle piazze», eppure è «già tanta e tanto ricca e varia […] la vista in superficie che basta e avanza a saturare la mente d’informazioni e di significati». Ancora più perentoria la chiusa del racconto, poche righe sotto: «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, - conclude, - ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile» (citazioni tratte da I. Calvino, Palomar, Milano, Mondadori, 2014 [I ed. Torino, 1983]).

(9)

M. Paladino, Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro, olio su tela, 70x50 cm, 1977.

M. Paladino – A.Porazzi, Xilografia a 5 colori su carta Giapponese, 34,5x24,5 cm, per Philobiblon, 1996

(10)

M. Paladino, Il rabdomante o Lo sciamano dell’acqua, bronzo, 170x60x160 cm, 2007.

M. Paladino, Collage, pastello a cera, stampa fotografica su carta, 39x28,5 cm, per Divina Commedia, 2011 (Inferno XXXIV, vv. 28-30)

(11)

Dante Alighieri, Divina Commedia, 2011

Collage, tempera, tecnica mista su carta, 39x28,5 cm.

Per me si va ne la città dolente, / per me si va nell’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente. (Inferno III, vv. 1-9).

Inchiostro, vernice oro, acrilico su carta, 39x28,5 cm. .

su per la viva luce passeggiando, / menava io li occhi per li gradi (Paradiso XXXI, vv. 46-48)

(12)

Acquerello su carta, 26,2x37,7 cm Variazioni su tema dantesco (Inferno), 2015

(13)

Acquerello e fuoco su carta, 29x38,5 cm.

(14)

33 Fogli Danteschi, ferro e carta, 2015. 80 (h) x 400 x 260 cm.

(15)
(16)
(17)

M. Paladino, Senza titolo, tecnica mista su tela e legno, 339x395x65 cm, 2007 M. Paladino, Gli alberi che nel corpo nascono, tecnica mista, 1990

(18)

G. Gorgoni, Domenico Paladino, Saepinum, 1984 M. Paladino, La Luna, tecnica mista, 106x75 cm, per I Tarocchi Treccani, 2018

(19)

«La luna ebraica racchiude in sé un’anima maschile, denominata yareaḥ – e in aramaico sihara – , e una femminile, detta levanah. Con una curiosa simmetria grammaticale, nella Bibbia il termine femminile, levanah, è sempre accostato a ḥammah, il femminile per sole, mentre yareaḥ è unito costantemente a šemeš, il suo sodale maschile. L’etimo di levanah è palese, giacché corrisponde, senza alcuna alterazione, all’aggettivo

«bianca». Più segreto il sostrato di yareaḥ, che da alcuni è stato messo in relazione con la radice ’rḥ, «peregrinare (per il cielo)», ma pare comunque discendere da un’antichissima forma pan-semitica warīḫ o warḫ» (G. B

USI

, Simboli del pensiero ebraico.

Lessico ragionato in settanta voci, collana «I millenni», Torino, Einaudi, 1999, p. 460)

(20)

M. Paladino, Serigrafia, polvere di quarzo, acquaforte, acquatinta, applicazioni di oro zecchino su carta Japon, 90x120 cm, per Rabanus Maurus – De Universo, 2004

M

. Paladino, Il Sole, tecnica mista, 106x75 cm, per I Tarocchi Treccani, in uscita 2018

(21)

M. Paladino, Serigrafia, polvere di quarzo, acquaforte e acquatinta su collage, con applicazioni di argenti in foglia, serigrafia su carboncino su carta Japon, 90x120 cm, 2004

(22)

M. Paladino, Serigrafia, polvere di quarzo, acquatinta su collage, carborundum su carta Japon, 90x120 cm, 2004

(23)

M. Paladino, Serigrafia materica, polvere di quarzo, acquaforte e acquatinta su collage, floccaggio, con applicazioni di foglia oro su carta Japon, 90x120 cm, 2004

(24)

M. Paladino, Serigrafia materica, polvere di quarzo, acquaforte su collage, applicazione rame in foglia su carta Japon, 90x120 cm, 2004

(25)

M. Paladino, Acquerello, collage, tecnica mista su carta, 29x38 cm, per Traurige Tropen, 2008

.

(26)

M. Paladino, Acquerello, collage, tecnica mista su carta, 29x38 cm, per Traurige Tropen, 2008

.

(27)

M. Paladino, Acquerello, collage, tecnica mista su carta, 29x38 cm, per Traurige Tropen, 2008

.

(28)

M. Paladino, Senza titolo, zinco e legno dipinto, h. 50, Ø 50 cm, 1992-2002.

Churinga di un uomo Aranda del totem rana, tratto da C.

Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio. Alla scoperta della saggezza perduta, Milano, il Saggiatore, 2003 (I ed. Paris, 1962), p. 259.

(29)
(30)

Il Matto rappresenta «l’energia originaria senza limiti, la libertà totale, la follia, il disordine, il caos, o anche l’impulso creatore fondamentale […] l’eterno viaggiatore che cammina per il mondo senza legami e senza nazionalità». Il Mago invece «contiene la totalità in potenza, è come il punto originale da cui nasce un universo […]. Questo personaggio agisce dal proprio tavolo verso il cosmo, verso la vita spirituale» (Citazioni tratte da A.

J

ODOROWSKY

, M. C

OSTA

, La Via dei Tarocchi, Milano 2016 (I ed. Madrid 2004), pp. 133-139).

Entrambe le descrizioni potrebbero attagliarsi bene anche a definire l’attività creativa

dell’artista in generale, ma è possibile trovare dei riscontri ancor più precisi con la visione

di Paladino, a partire dall’«eterno viaggiatore che cammina per il mondo senza legami e

senza nazionalità», in cui sembra quasi di scorgere il cavaliere errante per eccellenza, Don

Chisciotte, «assurdo, avventuroso, grottesco, ma, nonostante tutto, idealista, assoluto,

eroico», secondo la famosa critica di Erich Auerbach (A. A

UERBACH

, Mimesis. Il realismo

nella letteratura occidentale, Torino 1956, p. 98).

(31)

Acquerello, collage su carta, 32,5x24 cm.

Omero, L’Iliade et l’Odyssée, 2001

(32)

Æschilus, Agamemnon, 2010

Graffito su carta nera, 24,3 x 32 cm

(33)
(34)

Acquerello su carta, 40x29 cm.

L. Ariosto, Orlando Furioso, 2011.

(35)

Don Chisciotte, 2006. Acquerello su carta, 26x18 cm.

La fantasia gli si riempiva di tutto quel che leggeva sui libri. (Primo Volume, Capitolo I)

(36)
(37)

M. Paladino, Acquerello su carta, 26x18 cm, per Don Chisciotte, 2006

(Primo volume, capitolo IV). M. Marini, Piccolo cavaliere, 1951-52

(38)

M. Paladino, Montagna di sale, Milano, 2011

(39)

Acquerello, collage su carta, 32,5x24 cm.

- Deh! Non far ch’io mi segga, almo guerriero, / L’antico sire ripigliò, là dentro / Senza onor di sepolcro il mio diletto / Ettore giace: rendilo al mio sguardo… (Libro XXIV)

M. Paladino, Dormienti, terracotta, Sotterranei del Roundhouse, Londra, 1999.

(40)

M. Paladino, Testimoni, pietra di Vicenza, Mart, Rovereto, 1996.

(41)

F. Melotti, I Sette Savi, 1981

(42)

Inchiostro, matita su carta, 39x28,5 cm. La Nuova Bibbia Salani, 2004.

(43)

«Il messaggio di questa carta dà un grande sollievo spirituale. […] Più che un castigo, la distruzione della Torre è la soluzione di un problema: il diluvio è terminato da poco, l’intero pianeta, copiosamente irrigato, è divenuto fertile.

Sono sopravvissuti pochissimi esseri umani.

Invece di disperdersi per coltivare i campi, si riuniscono per costruire una torre che, innalzandosi fino al cielo, arrivi a Dio. In un primo tempo, questa costruzione intende essere un atto d’amore, il desiderio di conoscere il regno del Creatore. Ebbene, costui sapendo che è un progetto irrealizzabile, non colpisce la torre con un fulmine, non fa cascare giù nessuno dei suoi abitanti. Crea soltanto la diversità delle lingue per separarli. Si tratta di una benedizione più che di un castigo. Gli uomini ripartono alla conquista della terra e tornano a lavorarla» (A. J

ODOROWSKY

, M. C

OSTA

, La Via dei Tarocchi, Milano 2016 (I ed.

Madrid 2004), p. 233)

(44)

M. Paladino, illustrazioni per A. Merini, La carne degli angeli, Milano 2003

(45)

Matita su carta, 39x28,5 cm. La Nuova Bibbia Salani, 2004.

(46)

M. Paladino, Peschici, 1970

un invito «a una rivoluzione collocabile nelle profondità non-verbali o pre-verbali dell’essere, nell’ombra di quel terreno nero che ci è ignoto e da cui emerge, come dall’utero, la nostra umanità» (A. JODOROWSKY, M.

COSTA, La Via dei Tarocchi, Milano 2016 (I ed. Madrid 2004), p. 211)

(47)

Nella tradizione L’Eremita, con la sua lanterna, può rappresentare tanto la saggezza più alta quanto una crisi profonda e la luce che tiene in mano potrebbe essere «una conoscenza segreta riservata agli iniziati, o al contrario una fonte di saggezza offerta ai discepoli che vanno alla sua ricerca» (A. J

ODOROWSKY

, M.

C

OSTA

, La Via dei Tarocchi, Milano 2016 (I ed.

Madrid 2004), p. 188)

(48)

«Il Matto e Il Mondo, la prima e l’ultima carta della serie degli Arcani maggiori, possono essere considerate come l’alfa e l’omega degli Arcani maggiori, il primo e l’ultimo grado, i due punti tra cui si dispiega il ventaglio di tutte le possibilità. Il Matto sarebbe dunque un inizio perpetuo, e il Mondo uno svolgimento infinito. […] Ma se il Matto stesse da solo, correrebbe il rischio di ruotare all’infinito intorno al proprio bastone: l’energia creatrice può esaurirsi se non ha una meta, se non si materializza in una creazione, un mondo, una creatura.

Seconda questa prospettiva, si può vedere Il Mondo come incorniciato da quattro elementi come quattro punti cardinali, con la donna-anima-materia al centro, inseminata dall’energia de Il Matto» (A.

J

ODOROWSKY

, M. C

OSTA

, La Via dei Tarocchi,

Milano 2016 (I ed. Madrid 2004), p. 52)

(49)

M. Paladino, Notte di Pasqua, olio su tela, 200x305 cm, 1981.

(50)
(51)

M. Paladino, Acquerello su carta, 26x18 cm, per Don Chisciotte, 2006 (Prologo). Man Ray, Pablo Picasso, 1933

(52)

M. Paladino, illustrazioni per Don Chisciotte della Mancia, 2006.

Acquerello, matita su carta, 26x18 cm.

L’asturiana… intoppò nelle braccia di don Chisciotte... (Primo Volume, Capitolo XVI)

(53)

Acquerello, latte e fuoco su carta, 32,5x24 cm.

Musa, quell’uomo di multiforme ingegno / Dimmi, che molto errò, poi ch’ebbe a terra / Gittate d’Ilïòn le sacre torri… (Odissea, Libro I).

Omero, L’Iliade et l’Odyssée, 2001

Matita, latte e fuoco su carta, 32,5x24 cm.

E Telemaco ad essi: - O della madre / Vagheggiatori indocili e oltraggiosi, / Diletto dalla mensa or si riceva... (Odissea, Libro I)

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