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paolo menti INTIMO INTERIOR OVVERO FRANCO VOLPI E LA BELLEZZA

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PAOLO MENTI

Intimo interior ovvero Franco Volpi e la bellezza

estratto da ODEO OLIMPICO XXXI

MEMORIE DELL'ACCADEMIA OLIMPICA (2017-2018)

Vicenza, 2019

ISSN 2281-1281 // ISBN 978-88-7871-137-2

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INTIMO INTERIOR

OVVERO FRANCO VOLPI E LA BELLEZZA

Quest’anno, 2019, sono due lustri che Franco Volpi ci ha lasciati:

un ultimo viaggio, piace pensare ad alcuni; ed è pensiero forse non del tutto sentimentale e fallibile, se è vero che l’essere innanzitutto è, come per primo intuì Parmenide, col poco o molto che ne segue riguardo alla nostra tremenda contingenza. Comunque sia, è trascorso il tempo delle celebrazioni di Franco secondo il nostro dolente sentimento:

adesso è ormai il tempo d’interrogarne con vigile disciplina le parole che ci ha lasciato per comprendere non soltanto chi egli sia stato ma anche – virtù d’un eccellente esempio – chi siamo noi e che cosa siamo invitati ad essere.

Con questo compito si sono misurati i relatori del pomeriggio di riflessione svoltosi in palazzo Trissino a Vicenza il 15 dicembre 2017, nel corso del quale sono stati presentati gli atti dell’incontro internazio- nale di Lavarone (24 aprile 2010) e sono stati pronunciati i discorsi raccolti nel volume Franco Volpi filosofo e amico, a cura di Nicola Curcio, Monticello Conte Otto (VI), Ronzani, 2019. Chi scrive parte- cipò all’evento in qualità – recitava la locandina – di «moderatore»:

ruolo affatto superfluo, beninteso, se non per il servizio reso all’udito- rio d’introdurre i relatori e porgere qualche annunzio d’altre iniziative in memoria dell’antico compagno di banco nel Liceo-ginnasio «Antonio Pigafetta». Soprattutto fu l’occasione per apprezzare in presa diretta dotte e insieme accorate considerazioni sulle ricerche di Franco ed è il modesto titolo grazie al quale, senza osare l’ingresso in materia aliena, posso aggiungere ora la mia sommessa voce.

Da uno peraltro che sia stato compagno di scuola del celebrato e di lui amico per il resto della vita ci si attende in genere aneddotica ovve- ro qualche privato sguardo sul lato umano della persona, magari qual- che rispettosa indiscrezione. L’esercizio non è privo di rischi. Alle volte si scoprono insospettati versanti in ombra rispetto alla personalità nota a tutti: appaiono quasi due soggetti distinti, non sempre sino al patolo- gico sdoppiamento fra Jekill e Hyde ma non di rado in curiosa paral- lasse. Può anche capitare di vedere qualcosa come un monumento che sia sceso dal piedistallo per riposarsi dalla fatica di dovervi troneggiare al pubblico onore ed ornamento. Un’esperienza simile mi occorse, ad

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esempio, con uno studioso illustre che mi fu professore e che oggi in busto bronzeo, appunto, è effigiato nel luogo principale ove insegnò.

Con Franco Volpi la sensazione è diversa. Forse è perché l’ho cono- sciuto da prima del monumento o forse è perché egli stesso avrebbe stroncato beffardo l’idea; o piuttosto perché siamo suggestionati da qualcuno, specie nell’accademia, che quell’idea avrebbe volentieri bol- lata prematura se non sconveniente. Può essere. C’è ancora però un’al- tra spiegazione: ed è che nel caso di Franco la parallasse in fin dei conti non si desse affatto; e allora, per comprovarlo e conforme all’attesa di chi legge, racconto un minuscolo episodio.

Eravamo a Padova, al «Liviano», accomodati nel più ampio studio che la Facoltà gli aveva destinato e che però avrebbe frequentato non per molto. Mi ci aveva accompagnato per farmi dono d’una copia del Großes Werklexikon der Philosophie alla quale aveva apposto una dedi- ca che mi rimane carissima. Si parlava dei suoi studi, soprattutto di Gómez Dávila, ma anche di rose e spine dell’Università italiana e delle Facoltà di rispettiva appartenenza, come anche di questo o quel collega.

A un tratto se ne uscì con una frase, monca ad effetto, che sollecitava – lo sapevo benissimo – la mia reazione d’interrogativa sorpresa, men- tre gli occhi gli dardeggiavano dietro le lenti preannunziando il bon mot: «io non faccio lezione», proferì; e dopo l’istante di sapiente pausa completò: «io faccio ogni volta una conferenza, sempre nuova». Le sue lezioni cioè non erano quelle del diligente professore che si è scritto appunti più o meno particolareggiati, magari redatti come brogliaccio per veloci dispense o per un vagheggiato manuale; e intanto quegli appunti, in attesa delle une o dell’altro, vengono letti e riletti di anno in anno, pressoché sempre uguali tranne l’aggiornamento alle novità sopraggiunte nella materia. Ricordo, per quanto mi riguarda, che nel primo anno di Università ebbi un professore il quale adottava come testo il manuale scritto da se stesso: legittimo, ma la lezione ne diven- tava quasi la recita e la noia dilagava. Basta viceversa leggere nel volu- me degli Atti lavaronesi la testimonianza appassionata resa da uno studente per rendersi conto di quale fosse il travolgente impatto delle conferenze in aula di Franco.

La questione non è soltanto didattica. Portare riflessioni nuove a lezione significa che si è in cammino e che di questo cammino, durante il quale si trovano cose nuove, s’intendono rendere partecipi anche coloro che ci ascoltano, allettando così essi pure a mettersi per via. È quel genere di cammino a cui Franco stesso era stato chiamato da stu- dente incontrando un grande maestro, di cui un po’ soffriva la pazien- za didascalica – come qualche volta mi confidò – perché lo avrebbe voluto più rapido nel dischiudere i nuovi orizzonti che teneva in serbo, seguisse infine chi poteva. Su quel cammino Franco aveva poi mosso

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molti passi, fino a trovarsi davanti a tantissimi, cacciatore o battistrada di qualcosa di cui forse egli stesso non aveva piena contezza. Ed è que- sto che ci stupisce e c’interroga di Franco.

Era il suo lavoro, dirà qualcuno. D’accordo, ma c’è modo e modo di interpretare il proprio dovere. Ammesso che anche su di lui il penso quotidiano pesasse talvolta e per qualche aspetto come momentaneo giogo, l’impressione è tuttavia ch’egli lo vivesse in levità e anzi come una specie d’innamoramento. Tutti ricordano il Franco iperattivo, ipercinetico, come se non dovesse perdere neanche un poco del tempo che piegava al proprio desiderio di conoscere ed esplorare. La bici da corsa, che tanto lo gratificava, era anche un’icona di quel suo essere.

Perché tuttavia tanto prodigarsi, quasi affannarsi?

Io penso che ponendoci questa domanda ci affacciamo sul mistero di Franco.

Non dico il mistero nel senso generico, sebbene profondo, per il quale ciascuno di noi è misterioso innanzitutto a se stesso: il senso cioè che il Vescovo d’Ippona sintetizzava in quell’interior intimo meo 1 di cui prima o poi facciamo tutti nebulosa esperienza, se non altro sco- prendo di non essere soltanto quelli che credevamo, meglio o – più spesso – peggio che ci capiti di trovarci. Non lo dico neppure nel senso epistemico evocato da Enrico Berti, quando si interroga sul «sentiero interrotto» dell’Allievo 2; o riproposto da Giovanni Gurisatti, quando ipotizza – come nell’occasione di palazzo Trissino – quale sarebbe stata la direttrice delle nuove esplorazioni di Franco ovvero, dopo Aristotele e Heidegger, Schopenhauer e Foucault (Gómez Dávila essendo a suo giudizio mero incidente di percorso).

Quest’ultima congettura d’un robusto colpo di barra alla propria ricerca si lega in effetti all’idea che Franco dichiara essere anche sua circa il lavorìo del filosofo. Al termine del libro su Il nichilismo egli osserva: «La nostra è una filosofia di Penelope che disfa (analýei) inces- santemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà» 3. L’immagine della «tela di Penelope, che ogni giorno era ricominciata», mutuata dallo Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto, rinvia a un lavoro mai compiuto perché sempre disfatto e ripreso. Mentre però il Tedesco resta all’inconcludente telaio, di esso Franco ci ricorda la ragione ossia

1 Confessiones, III, 6, 11.

2 ENRICO BERTI, Il “sentiero interrotto” di Franco Volpi, in Franco Volpi interprete del pensiero contemporaneo, a cura di GREGORIO PIAIA e FRANCO TODESCAN (Atti dell’incontro internazionale di studio, Padova, 19 settembre 2009), Vicenza, Accademia Olimpica, 2012, p. 22 ss. Il lavoro è apparso con lievi modifiche anche in «Ars interpretandi» (2009, p. 9 ss.) e nella «Rivista di storia della filosofia» (2010, p. 731 ss.).

3 FRANCO VOLPI, Il nichilismo, Bari, Laterza, 2004-2009, p. 178.

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la latitanza dello sposo e contro gl’infausti pronostici la speranza del di lui ritorno, in vista del quale urge guadagnare tempo. Significa forse che il senso compiuto del disfare incessantemente sta nello scopo ulti- mo più che nell’operazione in sé e nell’immediata sua utilità?

D’altra parte uno degli aforismi di Gómez Dávila preferiti da Franco è che «i veri problemi non hanno soluzione ma storia» 4, da lui ad esempio declinato in «tutti i veri problemi filosofici [...] non hanno soluzione ma storia» 5. Significa questo che l’incessante disfare, nonché avere scopo oltre sé, è invece una perpetua condanna di Sisifo dalla quale non si può evadere poiché nulla si può mai stabilire? E allora il ritorno del re, in cui spera Penelope, è soltanto una patetica bugia raccontata a se stessi per tirare avanti? Ma la vedete voi, la regina di Itaca, e lo vedete voi, il nostro amico, che imbrogliano se stessi?

Eppure le due istanze – tessere e ritessere sperando nel ritorno del re, applicarsi a una ricerca fatta di ripensamenti ma comunque senza esito possibile – sembrano due astri, l’uno brillante e l’altro opaco, che vogliono solcare insieme il cielo di Franco nonostante l’incoerenza reciproca. Ecco perché parlo di mistero, se penso a lui: ed è un enigma che campeggia al di sopra dei generici interrogativi su se stessi e di quelli più specifici su quale direzione avrebbe preso il «sentiero inter- rotto». È a ben vedere il problema dell’assoluto, per il quale conviene spendersi senza riserve, e del relativo, per il quale invece è meglio risparmiarsi; ovvero è, anche nel nostro indimenticabile compagno, il problema della verità circa l’essere e il nulla 6.

4 NICOLÁS GÓMEZ DÁVILA, Tra poche parole, a cura di FRANCO VOLPI, Milano, Adelphi, 2007, p. 228.

5 Il nichilismo, cit., p. 7. Che per Franco la sentenza del Colombiano sull’assenza di so- luzioni per i «veri problemi» fosse degna di speciale considerazione è dimostrato da varie circostanze. Ne cito due: la dichiarazione contenuta nel saggio La maravilla de las maravillas:

que el ente es. Wittgenstein, Heidegger y la supera ción “ético-práctica” de la metafísica, in Tópicos, 30, 2006, p. 231 («Pensamos que la metafísica, como todos los verdaderos proble- mas filosóficos, no tiene solución, sino sólo historia») e l’esplicito riferimento all’aforisma nel Dizionario delle opere filosofiche, curato da lui per la Bruno Mondadori (Milano, 2000), voce «Gómez Dávila, Nicolás», p. 440, in sede di rifacimento italiano del Lexikon der philo- sophischen Werke in precedenza curato per i tipi di Kröner Verl. (Stuttgart, 1988) e poi evoluto nel Großes Werklexikon der Philosophie (Kröner, Stuttgart, 1999) nel quale ultimo cfr. alla voce detta, vol. I, p. 581.

6 Problema visitato con costante discrezione da Franco nei suoi lavori. Speciale menzio- ne merita in proposito la citazione che nel suo libro sul nichilismo egli inserisce non una ma due volte del seguente pensiero di Heidegger: «la pietra di paragone più dura, ma anche meno ingannevole, per saggiare il carattere genuino e la forza di un filosofo è se egli esperisca subito e dalle fondamenta, nell’essere dell’ente, la vicinanza del niente. Colui al quale questa esperienza rimane preclusa sta definitivamente e senza speranza fuori dalla filosofia» (MAR-

TIN HEIDEGGER, Nietzsche, a cura di FRANCO VOLPI, Milano, Adelphi, 1994, p. 382: cfr. Il ni- chilismo, cit., pp. 6 e 109).

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Franco si mette sulla difensiva, quando qualcuno discorre di verità.

Nell’ultimo contributo di pensiero pubblicato in vita – l’articolo apparso il 10 aprile 2009 a pagina 46 de «la Repubblica» («Contro Nietzsche. L’accusa del Papa al filosofo nichilista») – così scrive:

«dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono dav- vero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell’altro e dunque il valore fondamentale della tol- leranza? C’è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo».

Tralasciando la sua implicita riserva sulla verità che spesso produce fanatismo, ossia – si direbbe – non lo produce sempre, il punto princi- pale è che Franco non considera del tutto negativa l’eclissi dell’assoluto, anche se il prezzo che si paga sembra quasi conformistico: «mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all’altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro», sicché «la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo» 7. Oibò! Francesco Volpi come Tartuffe?? Uno che non lo conoscesse sarebbe tentato di supporlo, tenuto anche conto che poche righe sopra quelle testé riprodotte ci si imbatte in un’apparente apologia di quell’infido benché geniale perso- naggio che fu il Principe di Talleyrand. Il Nostro però è talmente sfuggente e ironico che, non appena il sospetto si affacciasse, capirem- mo di essere caduti nella trappola che egli ci aveva teso per disorien- tarci e lasciarci con un palmo di naso mentre lui, con in volto un sorri- so di benevola canzonatura, s’è intanto inerpicato ed è sparito dove non guardavamo.

Se d’altro canto ripercorriamo con un po’ di pignoleria le frasi prima riportate, troviamo qualcosa che c’immette in un particolare ordine di idee: «c’è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo», scriveva Franco. E più sotto, verso la chiusa dell’articolo, scrive:

«[Nietzsche] consiglia perciò un atteggiamento “creativo” che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell’artista che imprime alla sua opera una forma bella. [...] E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale» (corsivi aggiunti). Quante sottolineature di

7 Il nichilismo, cit., p. 178 (corsivo nell’originale).

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bellezza! Una vita bella: ecco, ci esorta, qual è il nostro compito, il nostro scopo.

Perché è così importante, a mio timido avviso, questa passione di Franco per la bellezza, decantata quattro giorni prima d’improvvisa- mente morire? Perché – mi sentirei di rispondere – alla bellezza ci si può arrendere senza pregiudizio del rigore intellettuale 8; e questo avviene perché essa irradia subitanea e ci avvolge d’un tratto e senza condizioni, senza prezzi da pagare, senza dipendere da nulla che sia alla nostra miserabile portata, puro gratuito assoluto. Lo è persino più della bontà, alla quale si volgono la filosofia pratica e la morale quando vorrebbero insegnarci come diventare più buoni. In realtà «buono» è termine ambiguo. Sì, d’accordo: se diciamo che «nessuno è buono»

eccettuando con Marco (10, 18) e Luca (18, 19) «Uno Solo», intendia- mo così un assoluto, anzi l’Assoluto; ma nelle cose umane l’essere buono può esprimere, vocabolario alla mano 9, qualcosa di relativo:

essere buono, cioè utile, per qualcosa, che si tratti di raggiungere ciò che riteniamo bene o qualsiasi altro obiettivo (pure un’arma, da questo punto di vista, è buona: a ferire ed uccidere).

Quando l’Apostolo delle genti traccia a Timoteo il bilancio della propria vita, ormai prossima a finire nel modo che non ignora, ci fanno leggere: «ho combattuto la buona batta glia» (2Tim 4, 7); ma – ci avver- te ad esempio Giuseppe Barzaghi o.p. – è traduzione non del tutto fedele (chissà che ne avrebbe detto il raffinato e scrupoloso traduttore Volpi) perché l’originale greco porta altro: tÕn kalÕn ¢gÏna ºgènismai (tòn kalòn agܜna Ɲg৒nismai) ossia «ho combattuto la bella

8 Il rigore intellettuale, fare tabula rasa di tutti i pre-giudizi, è per Franco la condizione necessaria per qualsiasi indagine, specie filosofica. Illuminanti in proposito sono le conside- razioni che egli svolse nella commemorazione di Giuseppe Faggin celebrata il 22 novembre 1996 nell’aula magna del Liceo-ginnasio «Antonio Piga fetta». Intervenendo in quell’occa- sione accanto a Emilio Renzi e Giangiorgio Pasqualotto, Franco si soffermò sul tema dell’ars majeutica, ascrivendo all’antico maestro il merito di avere tratto gli allievi a una maturità che per come è delineata disegna in effetti e innanzitutto la pregiata essenza di studioso che di- venne lui stesso: «Egli ci ha abituati all’esercizio del pensiero critico: ci ha esercitati alla massima coerenza e radicalità nel combattere la resistenza rocciosa del presupposto, ci ha insegnato a interrogare e a mettere in questione ogni orizzonte concettuale pre-dato, per cercare di attingere quella coerenza che sta nel toglimento di ogni dogma e di ogni precon- cetto, nell’elevarsi a quel punto di vista che non è più un punto di vista particolare: insomma, ci ha educati a quell’“ascesi” del pensiero [...] che è l’esercizio rigoroso che dissolve ogni presunzione e ci riporta al sapere di non sapere» (FRANCO VOLPI, Che cosa è stato per noi Giuseppe Faggin, in Per Giuseppe Faggin. 1906-1995, Vicenza, Accademia Olimpica, 2001, Quaderno n. 27, p. 14).

9 Cominciando con i primi due: «Questo aggiunto è di larghissimo significato, e nel senso suo più generale si applica ad ogni cosa, sia materiale o immateriale, che ha le qualità convenienti alla natura sua, e al fine o all’uso cui è destinata» (Vocabolario degli Accademici della Crusca, 5ª ed., vol. II, p. 318); «Persona i cui atti corrispondono al concetto del bene;

Cosa che serve al conseguimento d’un bene» (TOMMASEO-BELLINI, Dizionario della lingua italiana, vol. IV, p. 182).

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(kalòn) battaglia» 10. Per Paolo la propria vita non è stata buona, poiché

«nessuno è buono» e quanto sia servita solo il Cielo lo sa (ad Atene mica tanto, parrebbe): ma è stata bella, questo sì. Non importa se ter- minerà col distacco della testa dal tronco: la bellezza da niente è scalfita, neppure dal supplizio, perché da nulla dipende; è solo se stessa, cioè bella senza condizioni e perciò assoluta. Ed è per questo carattere unico e impagabile che essa ci muove a meraviglia: la quale ultima, secondo lo Stagirita, segna l’inizio della filosofia poiché «gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della mera- viglia» (Metafisica, I, 2, 982b, 12). La metaforica bella battaglia di Paolo, dunque, come la vita bella di Franco?

Non lo so, non mi azzardo a metterci la firma se non altro perché ognuno ha le proprie suggestioni ed è molto improbabile che le sue appartenessero al genere delle mie. Ritengo semmai plausibile l’ipotesi di chi riconduce la sollecitazione noetica esercitata in proposito su Franco alla estetica dell’esistenza propugnata da Paul Michel Foucault 11. Mi sembra tuttavia che ai fini del presente discorso da profano la cosa non sia determinante. Poco importa in definitiva attraverso quale via la bellezza si facesse strada nella mente e nel cuore di Franco. Conta piuttosto che egli cercasse nelle sue personali realizzazioni il fascino d’un bello remoto ma non inattingibile, tanto da formulare l’imperativo d’inverarlo nelle opere e nella vita – imperativo, detto per inciso, a cui lui per primo non si sottraeva riportandone continui successi. Vero questo, e inverosimile non mi pare, credo si possa riconoscere che col suo ultimo insistere sull’istanza della bellezza Franco ci svelasse d’essere quasi guidato o ammaestrato da una sorta di presagio d’assoluto. E allora, prima di zittirmi per non offendere alcuno, mi piace pensare che il suo mistero rimanga sì intatto, ma forse meno indecifrabile e molesto al nostro pensiero di superstiti perché soffuso – interior intimo eius – d’un’incognita ineffabile ancóra ma ciò nondimeno mirabile.

10 C’è un altro passo nel quale la traduzione incorre in parallela scarsa fedeltà, scam- biando cioè la bellezza col bene. È il passo in cui si riferisce che quanti vedevano le opere del Rabbi itinerante, alla Cui sequela si sarebbe poi messo – come aborto – anche Paolo, restava- no ammirati delle stesse «e, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa”» (Mc 7, 37). Quell’avverbio bene vorrebbe rendere l’originale greco kalтs (kalîj pánta pepoíhken / kalܜs pánta pepoíƝken); ma kalтs non vuol dire semplicemente bene, perché piuttosto si- gnifica bellamente: gli anonimi traduttori cercavano solo la traduzione più familiare (per noi

«bene» è l’avver bio corrispondente a «buono» e in greco può essere reso, oltre che con altri termini, ad esempio eu o orthтs, anche con kalтs) oppure avevano qualcosa contro la bellez- za? Franco, in ogni caso, no.

11 GIOVANNI GURISATTI, I Senilia di Schopenhauer: l’ultima fatica di Franco Volpi, «Odeo olimpico. Memorie dell’Accademia Olimpica», XXVIII (2011-2012), p. 273 ss., ivi p. 278.

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