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LA SOCIETÀ DI CORTE di Norbert Elias

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Academic year: 2022

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FORTUNA E ATTUALITÀ DEL LIBRO

È una delle opere che più hanno influenzato il rinnovamento degli studi di storia culturale e so- ciale nell’ultimo trentennio del ’900. Il suo valore consiste soprattutto nell’originalità del metodo di lavoro, fondato su un sapiente uso degli strumenti dell’analisi sociologica e di quella storica. Non a caso questa ricerca, pubblicata nel 1969 ma elaborata in gran parte agli inizi degli anni ’30, rap- presentò dapprima una premessa e poi uno dei principali approfondimenti di una più generale teoria sulla «civilizzazione» che Elias presentò in un saggio in due volumi (intitolato appunto Il processo di civilizzazione) uscito nel 1939.

A giudizio dell’autore, nella vita degli uomini esiste uno stretto rapporto tra la dimensione so- ciale e quella psicologica che impone la necessità di analizzare la formazione e gli sviluppi delle società e dei sistemi politici in relazione alle trasformazioni dei comportamenti individuali e dei modelli di costruzione delle identità personali. Ovvero, superando la tradizionale divisione tra in- dividuo e società, Elias sottolinea come la costituzione e il consolidamento dello Stato moderno in Europa siano stati accompagnati e favoriti dalla nascita e diffusione di nuove forme di moralità e inediti meccanismi di autocontrollo e inibizione.

Questo legame emerge con chiarezza proprio nel libro La società di corte, che descrive e ana- lizza la corte della monarchia francese tra ’500 e ’600, in particolar modo durante il regno di Lui- gi XIV. Qui Elias concentra la sua attenzione sulla ricostruzione e sull’esame minuzioso di nume- rosi aspetti della vita quotidiana nella reggia di Versailles (dagli appartamenti degli aristocratici al- le regole dell’etichetta, ai riti quotidiani del re, alle cerimonie), evidenziandone il significato e la funzionalità all’interno di quello specifico mondo, connotato da un complesso sistema di interdi- pendenze tra gli individui che include lo stesso monarca. Per l’autore, dunque, la società di corte è un’articolatissima struttura sociale che, per molti aspetti, anticipa quella razionalizzazione dei comportamenti, giudicata da altri studiosi, in particolare da Max Weber, come un tratto peculia- re della società borghese. Se è vero, infatti, che la condotta di vita degli aristocratici, motivata dal- la ricerca di potere attraverso la conquista di prestigio piuttosto che di denaro, può apparire irra- zionale secondo i valori dei borghesi professionisti, è altrettanto vero che esistono significative ana- logie tra i due sistemi socio-culturali, basate soprattutto sullo stimolo a sviluppare le capacità di controllo dei comportamenti individuali in relazione al calcolo delle conseguenze nella compe- tizione sociale.

Il lavoro di Elias, estraneo alle tradizioni accademiche e profondamente innovativo nei metodi e nei risultati conseguiti, faticò a conquistare l’attenzione degli studiosi. Le sue idee, già sistematizza- te negli anni ’30, cominciarono a circolare con assiduità nelle università e nei centri di ricerca euro- pei e statunitensi soltanto negli anni ’70, contribuendo a trasformare la riflessione e il dibattito sugli studi culturali. Ci fu un riconoscimento pressoché unanime dell’originalità e dell’importanza di que- ste ricerche, ma non mancarono anche critiche e perplessità sulla metodologia di lavoro. Alcuni de-

LA SOCIETÀ DI CORTE

di Norbert Elias

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di un piccolo imprenditore, studiò medicina e filosofia nell’università locale, si laureò in filosofia e poi decise di continuare a studiare all’università di Heidelberg, dove iniziò a interessarsi di socio- logia sotto la guida di Alfred Weber e Karl Mannheim. Quando quest’ultimo si trasferì a Franco- forte, Elias lo seguì come assistente. Qui cominciò le sue ricerche sulla società di corte, un argo- mento in cui si era imbattuto in modo piuttosto casuale, cercando di risalire alle origini sociali e culturali del pensiero liberale francese ottocentesco. Poco dopo aver completato questo studio, i nazisti salirono al potere in Germania ed Elias decise di lasciare il paese. Si trasferì prima a Parigi e poi, nel 1935, in Inghilterra. In questi anni lavorò al saggio Il processo di civilizzazione, pubbli- cato nel 1939 presso un editore svizzero. L’opera passò pressoché inosservata nel mondo accade- mico, con l’eccezione di uno sparuto gruppo di studiosi olandesi che ne capì subito l’importanza.

Gli anni successivi furono particolarmente difficili per Elias. Privo di un incarico universitario stabile, costretto a sopravvivere con mille lavori d’occasione, continuò i suoi studi storico-sociolo- gici e approfondì il suo interesse per la psicologia, seguendo corsi di formazione per la conduzio- ne di gruppi terapeutici. Soltanto nel 1954, all’età di 57 anni, gli fu offerta una cattedra nell’uni- versità di Leicester. Ma anche dopo aver raggiunto questo obiettivo, le sue pubblicazioni continua- rono a essere conosciute soltanto da pochi studiosi. Nel 1962 decise di trasferirsi in Ghana, dove insegnò sociologia per due anni. Tornato in Inghilterra, intraprese nuove ricerche e cominciò a lavorare a una seconda edizione del Processo di civilizzazione che uscì nel 1969, nello stesso anno in cui fu pubblicata per la prima volta, in tedesco, La società di corte. Iniziò allora una nuova fase nella carriera scientifica di Elias, le cui idee cominciarono a essere apprezzate e discusse nelle uni- versità europee e statunitensi. Nella prima metà degli anni ’70 uscirono edizioni economiche dei suoi libri e anche le prime traduzioni, accolte con un significativo successo di vendite. L’universi- tà di Francoforte lo nominò professore emeritus e nel 1977 gli fu assegnato il prestigioso premio culturale Theodor Adorno. «Con questo – disse in quell’occasione Elias – avete premiato qualcu- no che, senza aver dimenticato il legame col passato, non si è mai piegato alla sua autorità. È sta- to molto faticoso. Mentre si fa ricerca, ci risuonano nell’orecchio le voci delle autorità del passato e dei contemporanei che ci criticano. Si sentono tutti i possibili argomenti e commenti come vo- ci nella nostra testa. Ma si è perduti se ci si lascia fuorviare nella propria capacità di pensare auto- nomamente». Passò gli ultimi anni della sua vita ad Amsterdam, dove morì nel 1990.

IL LIBRO

N. Elias, La società di corte, il Mulino, Bologna 1980 [traduzione italiana della seconda edizione tedesca del 1975].

Il libro è diviso in 7 capitoli, preceduti da una breve introduzione. In quest’ultima l’autore preci- sa subito l’oggetto del suo studio, la corte, come «organo» centrale e rappresentativo della società europea nel ’600 e nel ’700. «A quell’epoca – scrive Elias – non era ancora la “città” ma la “corte”,

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e la società di corte, la matrice capace di esercitare la massima influenza ovunque». E questo po- tere della corte, secondo l’autore, risalterebbe con la massima evidenza proprio in Francia, duran- te il regno di Luigi XIV.

L’analisi di Elias comincia dagli spazi, con un capitolo dedicato a «strutture e significato delle abitazioni». Qui vengono dapprima analizzate le residenze della nobiltà di corte (sia i palazzi in città sia gli appartamenti a Versailles), poi quelle dell’alta borghesia. L’autore si sofferma ad ana- lizzare soprattutto le articolazioni e le divisioni interne degli alloggi, che rivelano status, valori e comportamenti dei diversi ceti sociali. Particolarmente indicative, al riguardo, appaiono la diffe- renziazione e la funzione degli spazi di ricevimento nelle case dell’alta nobiltà.

L

e sale di ricevimento (o spazi sociali) sono divise in due parti; nel mezzo vi è generalmente il grande salone, pun- to centrale della vita di società aristocratica di corte, che si eleva fino al secondo piano ed è per lo più adorno di co- lonne corinzie. L’ospite scende dalla sua carrozza davan- ti alla scalinata del corpo principale, percorre un grande vestibolo quadrato e da qui passa nel grande salone roton- do. Da un lato di esso, e raggiungibili mediante una por- ta del vestibolo, vi sono i vani dell’«appartement de socié- té»1, preceduti da anticamera e guardaroba; seguono quindi una «salle de compagnie»2, un salone ovale più piccolo e più intimo, una sala da pranzo con accanto il buffet e così via. Dall’altro lato del salone principale c’è l’«appartement de parade»3, che comprende varie sale e salottini da parata; lungo una di queste sale corre una grande galleria che, prolungandosi oltre l’ala contigua, se- para il giardino grande dai giardini più piccoli. In questo appartamento di parata non mancano camere da letto con tutti i dovuti accessori.

Questa suddivisione degli spazi sociali ha un significa- to ben preciso: L’«appartement de société» è destinato al- la cerchia più ristretta di amici del signore e soprattutto della dama. Qui essi, di solito al pomeriggio, ricevono co- loro che vengono a trovarli. Qui, in queste stanze predi- sposte non tanto per la rappresentanza ma piuttosto per la comodità, si svolge quella vita sociale più intima e meno inceppata da regole di etichetta che la storia del XVIII se- colo ci ha fatto conoscere come la vita dei salotti.

L’appartamento di parata, invece, è il simbolo di quel- la particolare posizione sociale che viene assunta dagli ari- stocratici dell’ancien régime, anche se non occupano al- cuna carica ufficiale. Qui, per lo più nella tarda mattina- ta, essi ricevono le visite ufficiali di persone di grado pari o superiore; qui trattano tutti quegli «affaires» della vita di

corte che li mettono in contatto con persone della socie- tà di corte al di fuori della loro più ristretta cerchia; qui ri- cevono le visite in qualità di rappresentanti della «casa».

La camera da letto di parata, con la sua anticamera parti- colare e i suoi cabinets4, serve inoltre a ricevere gli ospiti di grado elevato da onorare in modo particolare; qui infi- ne la dama, in quanto rappresentante della «casa», in cir- costanze speciali come ad esempio dopo un parto, sul suo

«lit de parade»5riceve le visite ufficiali. Questo coinvolgi- mento di molti aspetti della vita che noi considereremmo privati nella vita pubblico-sociale è estremamente caratte- ristico del modo di vivere di queste persone. Soltanto in base ad esso si può comprendere a fondo perché gli spazi sociali siano ripartiti tra «appartement de société» e «ap- partement de parade». Nell’esistenza di questi personag- gi privi di una professione, l’alto rango, e di conseguenza i relativi doveri di rappresentanza, in determinati casi con- ferisce al rapporto sociale, ad esempio alla visita, una se- rietà ed un valore che nella società borghese professiona- le hanno il loro corrispettivo nelle visite d’affari o profes- sionali di qualsiasi genere, e quasi per nulla nelle «visite private». Le visite professionali delle classi borghesi – e in queste sono naturalmente comprese anche quelle «visite private» che servono indirettamente a scopi professionali – sono caratterizzate dal loro nesso con eventuali possibi- lità di guadagno, con la carriera, con il mantenimento o il potenziamento della posizione professionale-sociale.

La differenziazione esistente negli spazi sociali della gen- te di corte, tra appartamento per i rapporti relativamente più intimi e appartamento per i rapporti più ufficiali, en- tro certi limiti presenta alcune analogie con la differenzia- zione degli spazi, tra quelli destinati ai rapporti privati e quelli destinati alla professione, per la società borghese.

Tale differenziazione permette di cogliere immediata- mente un dato del quale parleremo spesso e con maggior

4. Stanzini.

5. Letto di parata.

1. Appartamento di società.

2. Sala di compagnia.

3. Appartamento di parata.

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Nel secondo capitolo, l’autore evidenzia le differenze tra «l’ethos sociale della borghesia professio- nale», che impone l’obbligo di subordinare le spese alle entrate per consentire risparmi e investi- menti, all’«ethos del consumo per lo status», caratteristico della nobiltà di corte, che costringe a spendere in misura adeguata al proprio rango per non perdere il rispetto della società. Un vinco- lo, quest’ultimo, che inevitabilmente accentua i legami di dipendenza degli uomini di corte dal favore del re.

Proprio al potere di quest’ultimo è dedicato il capitolo successivo che, attraverso l’analisi del- l’etichetta e del cerimoniale in uso a Versailles, descrive la complessa gerarchia sociale che ha al suo vertice il palazzo reale.

poneva a costrizioni non meno forti di quelle che la vita professionale impone agli uomini di oggi in base a ten- denze analoghe.

Così i rapporti sociali a corte e nella società di corte hanno un loro duplice aspetto: da un lato hanno la stessa

centuati la soddisfazione e il divertimento, anche se non manca l’aspetto più ufficiale; negli incontri per i quali si aprono le sale di parata il carattere ufficiale del signore, la tutela dei suoi interessi e l’affermazione della sua casa hanno il primo posto [pp. 46-49].

I

l palazzo del re ha trovato la sua espressione suprema in una costruzione: il castello di Versailles. Dopo gli hotêls6, che sotto Luigi XIV non furono che dipendenze del pa- lazzo reale prima di diventare centri di una vita di corte relativamente decentrata, bisogna dunque esaminare da un punto di vista sociologico anche il punto di partenza di questo processo, cioè appunto il castello di Versailles, ed esaminarlo almeno sotto alcuni aspetti.

Ad un primo sguardo, ciò che si ha sott’occhio è qualco- sa di assai peculiare: un complesso di edifici in grado di ospitare parecchie migliaia di persone. Quanto al nume- ro, avrebbe potuto esservi raccolta la popolazione intera di una piccola città. Tuttavia queste migliaia di persone non vi abitano al modo consueto degli abitanti di una città: le singole famiglie, infatti, non costituiscono unità sociale i cui bisogni e i cui limiti sono adattati alle unità di spazio e delimitati a vicenda; questo complesso di edifici rappre-

senta, allo stesso tempo, la casa del re e la dimora almeno temporanea della società di corte nel suo complesso. In questa casa del re, almeno a una parte di questi nobili era sempre riservato un appartamento. Luigi XIV vedeva di buon grado che la sua nobiltà abitasse in casa sua ogniqual- volta egli vi teneva corte e si rallegrava ad ogni richiesta di un appartamento a Versailles. [...]

È difficile calcolare il numero preciso delle persone che abitavano o potevano abitare nel castello di Versailles.

Tuttavia ci viene riferito che nell’anno 1744 – calcolando anche la servitù – erano alloggiate nel castello circa 10.000 persone; e questa cifra può dare un’idea approssimativa della sua estensione. Naturalmente, in casi simili il castel- lo era stipato di persone dalle cantine al tetto.

Anche nel castello del re erano presenti tutti gli ele- menti che caratterizzano gli hotêls e che corrispondono alle esigenze abitative e ai costumi sociali dell’aristocrazia di corte. Ma mentre nelle case dei borghesi tali elementi si ripresentano in misura ridotta, qui sono ingigantiti, co- me elevati a una grande potenza: e ciò non soltanto per 6. I palazzi cittadini della nobiltà di corte.

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to i figli legittimi e i nipoti del sovrano (Enfants de Fran- ce), le principesse e i principi di sangue reale, il primo medico, il primo chirurgo, il primo cameriere personale e il primo paggio.

Vi era poi la seconda, la «grande entrée», riservata ai

«grands officier de la chambre et de la garderobe»11ed ai signori della nobiltà ai quali il sovrano aveva concesso ta- le onore. Seguiva quindi la «première entrée» per i letto- ri del re, l’intendente delle feste e dei divertimenti e altri.

Che il re fosse l’indiscusso «padrone di casa» nella corte e, di conseguenza, nell’intero paese, è di- mostrato anche dall’esame dei numerosi rituali celebrati quotidianamente nei suoi appartamenti, come per esempio il risveglio mattutino.

esigenze pratiche, ma anche come indici della posizione di potere del re in quanto depositario di prestigio. Ciò va- le innanzitutto per il cortile dinnanzi al castello. Certa- mente il re aveva bisogno di un cortile molto più grande di tutti gli altri nobili del suo regno per accogliervi le car- rozze, dato che presso di lui si recavano persone, e quin- di carrozze, in numero maggiore. Ma proprio come nel commercio il reale valore d’uso di una merce, il suo signi- ficato e scopo immediati, sono inferiori al significato e scopo mediati dal suo essere merce, ossia dal controvalo- re di una data quantità di denaro, così anche qui l’imme- diato valore d’uso sociale del cortile, come di qualsiasi al- tro oggetto d’uso, scompariva dinnanzi al suo valore di prestigio sociale. [...]

Non era sufficiente un solo cortile ad esprimere la di- gnità e il rango del re: qui troviamo dapprima un’ampia

«avant-cour»7, che chiunque venga da occidente deve percorrere a piedi o in carrozza e che assomiglia più ad una piazza aperta che a un cortile nel significato esatto del termine. Ai suoi lati, due viali, «allées», portano al castel- lo, fiancheggiati ciascuno da una lunga ala orientata da ovest a est e che erano destinati per lo più ai cancellieri e

ai ministri. Quindi si giungeva al castello vero e proprio.

Il cortile si restringe. Si attraversa una corte quadrata che finisce in un’altra più piccola – entrambe formano la

«Cour royale»8– e infine si arriva ad un terzo cortile an- cora più piccolo, il cortile di marmo, circondato per tre lati dal corpo centrale del castello. Questa parte centrale è così vasta che al suo interno si trovano ancora quattro al- tri piccoli cortili, due a destra e due a sinistra. E qui, al pri- mo piano di questo corpo centrale, vivevano il re e la re- gina con il loro seguito di corte. La maggior parte della

«Cour royale» è formata da due sottili prolungamenti del corpo centrale, da cui si dipartono verso nord e verso sud le due lunghissime e possenti ali laterali del castello. In quella a nord si trovano, tra l’altro, la cappella e, separato da un piccolo cortile, lo spazio per l’opera; in quella a sud vi sono tra l’altro gli appartamenti dei principi reali e dei fratelli del re. E tutta questa immensa costruzione, con le sue ali e i suoi cortili, con le sue centinaia di appartamen- ti, le sue migliaia e migliaia di stanze, con i suoi corridoi grandi e piccoli, quali bui quali luminosi, costituiva dun- que, almeno all’epoca di Luigi XIV, la vera dimora della corte e della sua società. [pp. 90-92]

8. Cortile reale.

7. Cortile anteriore.

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ll’ora che egli stesso aveva stabilito, di solito verso le 8 del mattino, il re viene svegliato dal primo cameriere par- ticolare (il «valet de chambre»), che dorme ai piedi del letto regale. Le porte vengono spalancate dai paggi. Uno di essi, intanto, ha avvertito il «grand chambellan»9, un al- tro ha avvertito la cucina di corte per la colazione, un ter- zo si pone sulla porta e lascia entrare soltanto i signori che hanno diritto d’ingresso.

Tale diritto era regolato con molto rigore: esistevano sei diversi gruppi di persone che potevano entrare successiva- mente. Si parlava dunque di varie «entrées»10; per prima vi era l’«entrée familière», cui prendevano parte soprattut-

9. L’ufficio di gran ciambellano era uno dei più elevati a corte. Co- lui che lo deteneva doveva sorvegliare tutti gli «ufficiali della came- ra del re».

10. Entrate.

11. Questo esempio dimostra l’intraducibilità di molti di questi titoli:

traducendoli con «alti o grandi ufficiali di camere o gran camerieri»

si creerebbero associazioni errate. Tutti questi incarichi di corte era- no venali; tuttavia necessitavano dell’approvazione del re e inoltre, al- l’epoca di Luigi XIV, erano riservati esclusivamente alla nobiltà. Né la struttura né le funzioni di questa gerarchia di corte possono essere mi- nimamente identificate con gli odierni concetti di ufficiali o funzio- nario.

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L’etichetta, dunque, è la rappresentazione di un ordine gerarchico istituzionalizzato che descrive la struttura della corte in un determinato momento ma non ne indica l’evoluzione in corso, poi- ché non sempre il rango ufficiale corrisponde all’effettiva posizione di potere. Per Elias, infatti, la società di corte è dinamica ed esprime una sua peculiare «razionalità» assimilabile, per alcuni aspetti, a quella borghese.

altri. Vi era, infine, una sesta «entrée», ed era la più ricer- cata di tutte: avveniva non attraverso la porta principale della camera ma attraverso una porta secondaria: era a di- sposizione dei figli del re, anche di quelli illegittimi, in- sieme alle loro famiglie ed ai generi, ed inoltre, al poten- te «surintendant des bâtiments»12. Appartenere a questo gruppo voleva dire godere di un favore particolare; infatti i suoi membri potevano entrare in ogni tempo nei gabi- netti reali, – a meno che il re non tenesse consiglio o do- vesse attendere a un lavoro particolare con i suoi ministri – e potevano restarvi fino a che il re si recava a messa e perfino quando egli era malato.

Come si vede, ogni atto era rigorosamente regolato. I primi due gruppi potevano accedere quando il re era an- cora a letto. Il re recava in capo una piccola parrucca sen- za la quale non si mostrava mai, neppure quando era a let- to. Quando poi si era alzato e il gran ciambellano insieme con il primo cameriere gli aveva porto il vestiario, veniva annunziato il gruppo successivo, la «première entrée».

Dopo che il re aveva calzato le scarpe chiamava gli «offi- ciers de la chambre», e le porte si spalancavano per la suc- cessiva «entrée». Il re prendeva i suoi abiti; il «maître de la

nunziava a bassa voce una preghiera. Nel frattempo, l’inte- ra corte attendeva già nella grande galleria che dietro la ca- mera da letto del re e in direzione dei giardini occupava l’intera ampiezza del corpo centrale al primo piano del ca- stello. Questo era dunque il «lever»14del re.

L’aspetto che maggiormente colpisce in questa ceri- monia è la rigorosa precisione organizzativa. Non si trat- ta però, è evidente, di un’organizzazione razionale in sen- so moderno, anche se ogni «mossa» è predeterminata, ma di un tipo di organizzazione nel quale ogni gesto conser- vava quel carattere di prestigio che era ad esso legato in quanto simbolo della divisione del potere. Ciò che nel- l’ambito dell’attuale struttura sociale ha per lo più – an- che se non sempre – carattere di una funzione seconda- ria là invece rappresentava una funzione primaria. Il re utilizzava i suoi momenti più privati per stabilire differen- ze di rango ed elargire distinzioni e manifestazioni di fa- vore o di sfavore. Appare dunque evidente che nella strut- tura di questa società e di questa forma di governo l’eti- chetta aveva una funzione simbolica di grande importan- za [pp. 94-97].

13. Maestro di abbigliamento.

14. Risveglio.

12. Sovrintendente dei fabbricati.

I

membri della corte dipendevano tutti, in misura maggio- re o minore, dal re in persona. La minima sfumatura nel comportamento del re verso di loro era dunque di grande importanza, esprimeva visibilmente il loro rapporto con il

re e la loro posizione entro la società di corte. Ma tale situa- zione di dipendenza, a sua volta, influiva attraverso varie mediazioni sul reciproco comportamento delle donne e degli uomini di corte. Nello stesso tempo, influenzando e

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modificando questo ordine gerarchico, si creava però un altro ordine gerarchico assai più differenziato, non ancora istituzionalmente sanzionato, assai mutevole ed effettivo:

esso era determinato dal favore di cui ciascuno godeva presso il re, dal suo potere e dalla sua importanza all’inter- no della complessa struttura di corte. Vi era, ad esempio, un ordine gerarchico istituzionale tra i duchi, determina- to in sostanza dall’anzianità della loro casata; esso era sal- damente fissato sul piano giuridico. Contemporaneamen- te, però, poteva accadere che un duca, appartenente a una casata meno antica, godesse, grazie ai suoi rapporti con il re o con la sua amante o con un altro gruppo più potente, di una considerazione maggiore di quella di un duca di più antico lignaggio. La posizione effettiva di una persona nel- l’intreccio della società di corte era sempre determinata da due elementi: dal suo rango ufficiale e dalla sua effettiva posizione di potere in quel momento; tuttavia, in ultima analisi, quest’ultimo elemento aveva maggiore peso sull’at- teggiamento della gente di corte nei suoi confronti. Perciò la posizione che ciascuno occupava volta per volta nell’or- dine gerarchico di corte era estremamente labile. La con- siderazione che uno si era conquistato a un dato momen- to lo spingeva immediatamente a desiderare di accrescere il suo rango ufficiale; naturalmente, tale accrescimento si- gnificava di necessità la retrocessione di altri, così tale aspi- razione rinfocolava l’unico tipo di lotta che, prescindendo dall’attività in guerra al servizio del re, era ancora possibile alla nobiltà di corte, cioè la lotta per garantirsi una certa po- sizione entro l’ordine gerarchico di corte. [...]

L’ordine gerarchico entro la società di corte era in co- stante mutamento: come già abbiamo detto, si trattava di un equilibrio quanto mai labile. Sconvolgimenti ora leg- geri e quasi impercettibili, ora gravi e assai percettibili, modificavano di continuo la posizione e le distanze tra le persone. Era di importanza vitale seguire dappresso que- sti sconvolgimenti, essere costantemente aggiornati. Era pericoloso comportarsi poco amichevolmente con qual- cuno le cui quotazioni a corte fossero in rialzo; ma non meno pericoloso mostrarsi troppo amichevoli con chi era invece nella china discendente dell’ordine gerarchico o magari prossimo a essere in disgrazia; e se lo si faceva bi- sognava avere un determinato scopo. Così era indispensa- bile mostrare un comportamento esattamente sfumato nei confronti di chiunque a corte. Il comportamento che le persone di corte consideravano volta per volta adegua- to verso un altro costituiva per quest’ultimo, e del resto per tutti gli osservatori, un’indicazione assai precisa della con- siderazione di cui al momento godeva. E poiché la con- siderazione di cui una persona godeva si identificava con

la sua esistenza sociale, le sfumature con cui, incontran- dosi, si esprimeva reciprocamente la propria opinione cir- ca tale considerazione erano di straordinaria importanza.

Tutta la faccenda aveva una certa somiglianza con la Borsa. Là come qui si andavano formando opinioni mu- tevoli circa i valori; ma mentre alla Borsa si tratta di valo- ri relativi alle aziende nell’opinione di coloro che investo- no capitali, a corte si trattava delle opinioni relative al va- lore dei vari individui; e mentre alla Borsa la minima oscillazione può essere espressa in cifre, a corte il valore di un individuo si esprimeva principalmente attraverso le sfumature del reciproco comportamento mondano-socia- le. [...]

Soltando tenendo presenti tutti questi punti di vista si arriva a comprendere lo specifico tipo di razionalità che esisteva nella cerchia della società di corte. Come qualsia- si altro, anche questo tipo di razionalità scaturisce dal pre- ciso controllo che si deve esercitare sui propri sentimenti.

Una struttura sociale entro la quale un buon numero di etero-imposizioni si trasforma in auto-imposizioni è la condizione indispensabile per la creazione di forme di comportamento che si cerca di definire con il concetto di

«razionalità». I concetti complementari di «razionalità» e

«irrazionalità» si riferiscono quindi alla rispettiva influen- za che dei sentimenti di breve durata e dei modelli con- cettuali di lunga durata hanno sul comportamento indivi- duale. Quanto maggiore è il peso dei secondi nel labile equilibrio delle tensioni tra le spinte affettive a breve ter- mine e quelle a lungo termine orientate sulla realtà, tan- to più il comportamento sarà «razionale», purché il con- trollo sulle spinte affettive non vada troppo oltre; infatti la pressione e la saturazione dei sentimenti costituiscono una componente integrante della realtà umana.

A seconda della struttura della realtà sociale stessa mu- teranno anche i modelli concettuali orientati sulla realtà che regolano il controllo del comportamento umano. Di conseguenza, la «razionalità» della gente di corte è diffe- rente da quella dei borghesi professionisti. Con un’anali- si più attenta si potrebbe però dimostrare che, sul piano dello sviluppo, la prima costituisce uno stadio e una con- dizione preliminari della seconda. In entrambe, infatti, per quanto riguarda il controllo del comportamento in determinati campi e situazioni sociali, le considerazioni realistiche a lungo termine hanno il sopravvento sugli im- pulsi emotivi temporanei. Tuttavia nel tipo di controllo borghese-professionale, il calcolo dei guadagni e delle perdite di chances di potere in campo finanziario sostie- ne un ruolo primario nella sua specifica «razionalità»; nel tipo aristocratico di corte tale calcolo invece si riferisce al-

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Dopo aver esaminato la natura e il funzionamento di questo sistema di dominio della monarchia sul paese, Elias non manca di evidenziare anche la dipendenza del re dall’etichetta e dalla stessa nobiltà di corte, indispensabile per la legittimazione del potere sovrano. Nella parte restante del li- bro, infatti, emerge un complesso «sistema di interdipendenze» che sembra innervare la società di antico regime nel suo insieme.

A giudizio dell’autore, questo equilibrio è il risultato di un complesso processo storico, a cui è dedicato un intero capitolo, il quinto, che evidenzia la trasformazione dei rapporti tra monarchia, nobiltà e borghesia nel corso dell’età moderna. Una delle conseguenze più interessanti di questa evoluzione, che spinge una parte della nobiltà cavalleresca a mescolarsi con la borghesia emer- gente e a trasformarsi in una nobiltà di corte (la cosiddetta «curializzazione della nobiltà guerrie- ra»), è la nascita di un «romanticismo aristocratico».

lata pianificazione della propria strategia nella competi- zione per il potere economico ma, come si è visto, da una pianificazione calcolata della propria strategia in vista del guadagno o della perdita di determinate chances di pre- stigio e di status, sotto la pressione dell’incessante compe- tizione per il potere.

Questo tipo di competizione si può riscontrare in mol- te strutture sociali, anzi è possibile che la si trovi in tutte le società. Ma ciò che si osserva nella società di corte ha un carattere esemplare: richiama infatti l’attenzione su una struttura sociale che spinge i suoi membri ad una par- ticolarmente intensa e specializzata competizione di sta- tus e di prestigio per quelle chances di potere.

Un punto di partenza molto più sicuro è quello che prende le mosse non già dai singoli individui ma dalla struttura sociale costituita da questi individui. Partendo dalla struttura sociale, non è difficile comprendere l’atteg- giamento accuratamente misurato, i gesti accuratamente calcolati, il linguaggio costantemente sfumato che erano divenuti una seconda natura per i membri di quella socie- tà: essi sapevano servirsene con facilità ed eleganza, ma in effetti quelle caratteristiche, così come il particolare con- trollo dei sentimenti, assolutamente necessario nella si- tuazione data, erano indispensabili in quanto strumenti dell’incessante competizione per il prestigio e lo status.

[pp. 106-11]

L

a curializzazione della nobiltà guerriera [...] rappresen- ta un momento di quel processo di graduale distacco dal- le sedi della produzione diretta di mezzi di nutrizione, cioè dall’agricoltura e dall’allevamento del bestiame, di- stacco che oggi definiremmo in modo forse un po’ ro- mantico come «sradicamento» o «estraneazione» dalla terra. E accenti romantici non mancano neppure nella rielaborazione che la nobiltà di corte fece di questa sua esperienza. Nel periodo di transizione, i nobili che erano ancora cresciuti nei possedimenti di famiglia dovettero

adattarsi alla vita di corte che era più raffinata, varia e ric- ca di rapporti, ma che esigeva anche un autocontrollo molto maggiore. Già in queste generazioni la vita di cam- pagna, i paesaggi della loro gioventù divennero sotto mol- ti aspetti oggetto di un’appassionata nostalgia per gli uo- mini e le donne di corte. Più tardi, quando la curializza- zione della nobiltà era ormai un fatto compiuto, quando ormai i membri della nobiltà di corte consideravano quel- la di campagna con malcelato disprezzo, come gente roz- za, la vita di campagna rimase nonostante tutto oggetto di

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Elias conclude il suo libro con un capitolo finale dedicato alle «cause sociali» della rivoluzione fran- cese. Ovvero, secondo l’autore, sono proprio la natura e il funzionamento della società di corte a spiegare l’inadeguatezza delle reazioni della monarchia e della nobiltà alle pressioni dei nuovi grup- pi sociali in ascesa, poi protagonisti della rivoluzione e della fine dell’antico regime. «La ripartizio- ne effettiva delle chances di potere si trasformò in modo da non corrispondere più alla ripartizione apparente dei centri di forza, radicata nel guscio istituzionale dell’antico regime. I gruppi al vertice, le élite monopolistiche del regime erano ormai prigioniere delle istituzioni; concorrevano recipro- camente a mantenersi nelle posizioni privilegiate di potere acquisite. Il loro irrigidirsi in tale corpo a corpo e l’incapacità di guardare in faccia alla propria perdita di funzionalità, connessi al carattere relativamente rigido delle loro fonti di entrate, che rese loro difficile fare concessioni economiche – magari limitando volontariamente i propri privilegi fiscali – tutti questi elementi impedirono una trasformazione pacifica delle istituzioni adeguata ai mutati rapporti di forza».

nostalgia. Il passato assunse i caratteri di un sogno; la vita di campagna divenne il simbolo della perduta innocen- za, della libera semplicità e naturalezza; divenne il con- traltare della vita di città e di corte con i suoi più pesanti vincoli, i suoi più complicati obblighi gerarchici e la sua maggiore esigenza di autocontrollo. Certamente nel cor- so del XVII secolo la curializzazione di alcune parti della nobiltà francese era ormai così progredita che le dame e i gentiluomini di corte non si sarebbero trovati affatto a lo-

ro agio se fossero stati costretti a ritornare alla vita di cam- pagna dei loro antenati, rozza, priva di raffinatezze e di co- modità. Ma nelle loro conversazioni mondane, nei loro libri e nei loro divertimenti avevano davanti agli occhi non la vita di campagna, la vita «naturale» quale era in re- altà: secondo le loro conversazioni sociali essa appariva idealizzata, un po’ come una vita di pastori e pastorelle che non aveva nulla a che fare con la vita reale, faticosa e spesso miserabile dei veri pastori. [pp. 292-93]

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