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Giornata del Volontariato nei Tumori Rari. Sabato 11 settembre 2010 Ore Via Nizza 20 Torino GIORNATA DEL VOLONTARIATO NEI TUMORI RARI

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Giornata del Volontariato nei Tumori Rari

Sabato 11 settembre 2010 – Ore 09.15 - 18.00

Aula Magna della Congregazione delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli Via Nizza 20 – Torino

GIORNATA DEL VOLONTARIATO NEI TUMORI RARI

Aula Magna Congregazione Figlie della Carità San Vincenzo de’ Paoli

Torino - 11 settembre 2010

I tumori germinali del testicolo: è ancora un tumore raro?

(riflessioni epidemiologiche e di metodologia clinica)

“Il ruolo del Volontariato nel trattamento dei Tumori rari”

Ernesto Bodini (giornalista medico-scientifico)

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Convegno sul tema

I TUMORI GERMINALI DEL TESTICOLO: È ANCORA UN TUMORE RARO?

(Riflessioni epidemiologiche e di metodologia clinica)

Relazione:

“Il Ruolo del Volontariato nel trattamento dei Tumori rari”

Ernesto Bodini

(Giornalista medico-scientifico free-lance – Membro del GITR-GPS)

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Premessa

La solidarietà sociale in qualunque contesto deve essere sempre il frutto della libera convivenza, per la quale gli interessi spirituali, morali e materiali costituiscono nel tempo il benessere generale, purché ispirati all’effettiva giustizia e nel rispetto dei diritti di ciascuno. Oggi, più che mai, il “bisogno sociale” è sempre più impellente, ma è bene rispondere con professionalità e non “cedere” alla improvvisazione dettata dalla mera spontaneità, e tanto meno sostituirsi alle Istituzioni. Solo così, io credo, può crescere ed imporsi la cultura del “vero” volontariato.

Brevi cenni storici

Nel nostro Paese si è cominciato a parlare di volontariato verso la metà degli anni ’70, in occasione dello storico convegno nel 1975 della Caritas, a cui parteciparono diverse Associazioni dedite soprattutto all’assistenza e alla lotta all’emarginazione; evento che diede una svolta nell’impegno sociale verso i bisognosi. Si affermò la dimensione politica dell’impegno a favore del prossimo, tesa a cambiare il volto della società, e forse con l’intento di rimuovere le cause sociali del disagio lottando contro gli ostacoli della disuguaglianza economica e sociale, che sono quasi sempre all’origine di ogni forma di emarginazione. Il volontariato come “azione” sociale si è sempre più intensificato a causa delle inefficienze istituzionali e della continua domanda, soprattutto in ambito medico-sociale e socio-assistenziale con interventi a favore dei diversamente abili, anziani, malati cronici, etc. Palese manifestazione di una sfiducia nello Stato sociale e, i circa 6-7 milioni di italiani che versano in condizioni di estrema necessità (povertà e indigenza) ne è un altro significativo dato all’armante.

Alle molteplici domande di intervento degli anni ’70 hanno risposto persone di diversa estrazione sociale, culturale, politica e religiosa. Il settore del volontariato non esaurisce, però, le esigenze della solidarietà sociale che, come è noto, comprende istituti religiosi, cooperative sociali, fondazioni, gruppi di auto-aiuto, etc.; ma insieme formano il cosiddetto Terzo Settore o Non-profit. È evidente che il volontariato così impostato (regolato dalla Legge n. 266 dell’11/8/1991) è una colonna importante della nostra società, tanto che non se ne può fare a meno perché, oltre a garantire determinati servizi, esprime cultura e valori che vanno dalla centralità della persona umana e attenzione verso i più deboli e i più sofferenti, al senso civile di responsabilità e di partecipazione alla vita sociale; dal rispetto per gli altri e senso del servizio al disinteresse nell’azione di solidarietà; condizioni della propria esistenza e di quella altrui.

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Il volontariato in ambito oncologico

Il volontariato nell’ambito oncologico è presente in varie realtà e a diversi livelli di intervento. In Gran Bretagna, per fare qualche esempio fuori dal nostro Paese, dopo che è stato accertato che circa il 70% dei malati di cancro non era soddisfatto delle informazioni ricevute, si è costituito un Gruppo formato da pazienti, oncologi, farmacisti, dietologi, radiologi per valutare e sviluppare strategie di informazione. In Francia i Gruppi di sostegno sono nati alcuni anni fa con l’obiettivo di migliorare il dialogo all’interno delle famiglie. Negli anni ’90 in Danimarca l’Associazione per il Cancro (Danish Cancer Helpline) ha avviato un proficuo rapporto con l’Ordine dei Medici per organizzare corsi di comunicazione.

Nel nostro Paese nel 2004 è stata realizzata la prima completa Guida delle Associazioni di Volontariato in Oncologia, a cura delle Associazioni AIMac, ANGOLO e VELA in collaborazione con l’Istituto Italiano di Medicina Sociale, a seguito di un censimento delle stesse effettuato nel periodo aprile-ottobre 2003. Tale Guida riporta i recapiti di 560 Associazioni ed i relativi servizi erogati con gli orari di apertura. La Guida costituisce uno strumento utile non solo per i malati, i loro familiari e le strutture socio-sanitarie, ma anche per stabilire rapporti di collaborazione tra le Istituzioni e le Associazioni, al fine di consentire lo scambio di informazioni e conoscenze per migliorare la qualità della vita del malato oncologico. Scorrendo l’elenco della Guida non appare però alcuna associazione di volontariato dedita ai malati di tumore raro, ad eccezione credo, della Associazione Italiana Gist-Aig, per l’informazione e il sostegno dei malati di tumore stromale gastrointestinale.

Per quello che ci riguarda più da vicino, a Torino è operativa sul territorio nazionale l’associazione Gruppo Italiano Tumori Rari & Gruppo Piemontese Sarcomi (costituita nel 1996, oggi anche Onlus), preposta alla organizzazione e alla pianificazione degli studi epidemiologici, biologici, di metodologia clinica e assistenza dei tumori rari, che peraltro ha voluto questo convegno all’interno di una giornata dedicata. Proprio perché i tumori rari costituiscono un capitolo a parte dell’Oncologia per la loro peculiarità nell’assistenza, nella ricerca e nella metodologia di studio, viene da chiederci: oltre agli operatori preposti, quale il ruolo del volontariato per il loro trattamento, o meglio, per la loro assistenza e sostegno?

Va innanzitutto detto che i malati di tumore (come di altre patologie rare) spesso sono causa di disuguaglianza fra i cittadini nell’accesso ai servizi socio-sanitari per la poca disponibilità di strutture sanitarie e di conoscenze scientifiche adeguate. In questo contesto il volontariato attraverso varie iniziative può contribuire ad una maggior diffusione della cultura dell’assistenza e del sostegno; prodigarsi al costante censimento di questi pazienti, mantenere i rapporti con clinici, ricercatori e le istituzioni socio-sanitarie e socio-assistenziali; favorire l’informazione divulgando

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notizie ed eventi, e magari vivendo qualche momento “sul campo” realtà dove l’attenzione a non far male, a coinvolgere il malato e a mantener viva la sua speranza è quasi un “imperativo”, perché si ritiene che la malattia sia curabile sino a quando la natura non prova il contrario…

Poiché non mi risultano esperienze di volontariato particolarmente dedicato a pazienti colpiti da una forma rara di tumore con cui potermi eventualmente confrontare, da tempo mi sono imposto di avvicinarmi a questa realtà (oggi sempre più presente) sia per motivi di divulgazione (attività giornalistica) sia per sentirmi in qualche modo “più vicino” a questi pazienti e agli operatori sanitari, partecipando con discrezione e coinvolgimento a qualche momento della loro quotidianità ospedaliera…, oltre naturalmente a far parte del GITR & GPS. In più occasioni ho potuto rilevare dalla mia postazione di osservatore e gradito ospite che vi sono medici (oncologi in particolare) che sostengono: “Il malato, quale soggetto attivo, è anche spettatore e interprete della sua malattia, di qui la necessità del dialogo interpersonale, che non è mai tempo perso per fare una diagnosi, concordare una terapia … ipotizzare una prognosi, perché l’infermità umana è sempre un evento della vita personale”.

Queste potrebbero sembrare affermazioni ovvie, ma io credo che non è mai ovvio tutto quello che riguarda la sofferenza, specie se si è coscienti l’un l’altro (medico e paziente) che l’aspettativa può essere la cronicizzazione della malattia, della sofferenza stessa, e dell’epilogo… scontato. A questo proposito vorrei citare brevemente un passo di una delle mie esperienze, che in seguito ho descritto e divulgato.

La paziente che si presenta entrando lentamente, quasi claudicante, è medico ed ha 63 anni.

Ha un carcinoma del colon con diffuse metastasi a livello polmonare, epatico e osseo. Il dialogo tra lei e il medico, che nel frattempo aggiorna la sua scheda, è naturalmente molto aperto ma soprattutto preciso nei “termini tecnici”, impostato non solo sulla estrema lealtà tra medico e paziente, ma anche tra colleghi. La visita con la delicatezza che ogni paziente merita, soprattutto nel “rispetto” di quello stato di prostrazione che anche il più stoico dei sofferenti non riesce a celare…

Le prescrive con urgenza una radiografia e un dettagliato programma terapeutico, precisando che il quadro clinico è preoccupante e per questo dovrebbe sottoporsi ad una terapia leggermente più tossica che richiede cicli periodici di ricovero. Una alternativa che non lascia spazio ad altre scelte… (non sono quasi mai noti, soprattutto al pubblico, i casi di medici che diventano pazienti, più particolarmente chiamati all’autoconsegna, alla forza d’animo e all’abnegazione per la loro sensibilità professionale).

Dopo l’esame la paziente-medico ritorna con l’esito della Tac, per un ulteriore consulto e prescrizione terapeutica. Il medico oncologo la intrattiene alcuni minuti, quasi a voler dimostrare una maggior “disponibilità”, soffermandosi in particolare sull’evoluzione della sintomatologia e degli effetti collaterali dei farmaci che sta assumendo. È stanca, quasi

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sfinita, ma decisa a combattere (anche se a volte il medico, quando è lui stesso un paziente e più vulnerabile… soprattutto psicologicamente), confortata dal fatto che i “suoi” colleghi sono lì per lei, come per tutti gli altri malati, pronti a rispondere con la cura e il dialogo, mai troppo distanti da ciò che i loro pazienti rappresentano

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Già Aristotele (384-322 a.C.) aveva osservato che “quelli che provano dolore si sentono sollevati quando i loro amici possono dolere con essi”. A conclusione di questa esperienza (seguita da altre analoghe) ho rammentato quanto sosteneva Harriet Beecher Stowe (scrittrice statunitense 1811-1896): “Non c’è bisogno soltanto di amore e di buona volontà nella stanza di un ammalato; c’è bisogno anche di conoscenze e di esperienza”. Vivere “sul campo” esperienze come questa credo che non rientri soltanto nel mero esempio di volontariato, ma rafforza il senso della spontaneità partecipativa che, al di là di divulgarla o meno, richiama l’attenzione per la persona deputata a combattere quel “male raro”, ma non per questo meno meritevole di attenzioni e accorgimenti di altri malati colpiti da patologie più diffuse e più … curabili.

Esortazione per i volontari

Nell’ottobre 2008 si è tenuto a Perugia un incontro sul tema: “Le arti terapie per la qualità della vita. Percorsi espressivi in oncologia”, al quale sono stato invitato per tenere una relazione che avevo intitolato “Speranza e volontà di vivere attraverso l’arte e la cultura”. Traendo spunto da quel mio intervento, e da quanto sosteneva Goethe che “l’Arte, deve, se entra in rapporto con il dolore, stimolare quest’ultimo solo per alleviarlo e risolverlo in emozioni più elevate e consolatorie, e che il dolore ci insegna a condividere quello degli altri”, ritengo di poter fare alcune considerazioni e dare qualche suggerimento ai malati oncologici e ai volontari che intendono apportare loro conforto e sostegno.

La lotta alla malattia può riservare sorprese perché quando è il cancro a “dominare”

serve consapevolezza, coraggio, lasciando spazio a momenti più “deboli”; perciò narrare la propria malattia e il proprio Essere può assumere un significato a volte più determinante, e questo, non può che giovare al corpo e all’anima. La speranza è saper osservare oltre l’orizzonte, immaginando il “sostegno” della propria esistenza anche attraverso la creatività… È indubbio che la volontà di vivere non è un’astrazione teorica, ma una realtà fisiologica con caratteristiche terapeutiche. La professoressa Ana Aslan (Bucarest 1897-1988), gerontologa e geriatra di fama internazionale, sosteneva: “… la creatività è un aspetto della volontà di vivere, produce impulsi vitali cerebrali che stimolano la ghiandola pituitaria, provocando effetti sulla ghiandola pineale o l’intero sistema endocrino”.

Tale volontà è una finestra perennemente aperta sul futuro. Essa fa apparire alla persona tutto l’aiuto che il mondo esterno può darle e mette questo in connessione con la capacità propria dell’organismo di combattere la malattia. Rende il corpo umano

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capace di trarre il massimo da sé stesso magari esprimendosi con l’arte attraverso la quale la ricerca della perfezione non è da considerarsi una presunzione o una eresia, ma la più elevata manifestazione di un grande disegno fisico e spirituale. “La speranza – sostiene Jerome Groopman, ematologo, oncologo e scrittore di Boston – non deve venire mai meno in quanto rappresenta il sentimento confortante che proviamo quando scorgiamo con l’occhio della mente il cammino che può condurci a una condizione migliore…”.

Questa sua esortazione è data anche da una sua personale esperienza, che gli ha aperto la mente; e che vorrei citare. Per circa diciannove anni, dopo un intervento chirurgico non riuscito alla colonna vertebrale, ha vissuto in un labirinto di ridotte prestazioni fisiche e periodiche riacutizzazioni del dolore. Poi, grazie a una serie di circostanze fortuite, ha trovato una via d’uscita. Si è sentito come se gli avessero restituito la vita e ha capito che solo la speranza gli aveva permesso di riprendersi. “La speranza ritrovata – rammenta nel suo libro – mi aveva spinto a partecipare a un programma terapeutico impegnativo e originale e fornito la determinazione necessaria a portarlo a termine. Senza la speranza avrei trascorso il resto dei miei giorni prigioniero della sofferenza. Ma ho avuto anche la sensazione che nel mio caso la speranza avesse fatto di più che spingermi ad approfittare di un’occasione e a non arrendermi. Sono convinto che essa abbia avuto effetti reali e profondi non solo sul mio stato emotivo, ma anche su quello più propriamente fisico”. Esperienza di un medico che ha sofferto per molti anni, sia pur per una patologia non oncologica, ma che ugualmente lo ha messo di fronte a quella che io definirei una “terapia di supporto secondario”, ovvero la speranza che, va anche detto, non nasconde né sminuisce gli ostacoli e le insidie che incontriamo strada facendo. In altre parole, non bisogna confondere speranza e illusione.

Un’ultima esperienza che desidero citare riguarda la dottoressa Cristina Dealis, colpita da neuroblastoma in tenerissima età ed in seguito da altre patologie, per le quali sino all’età di 22 anni si è dovuta sottoporre a pesanti terapie e controlli periodici. Oggi, guarita, è medico oncologo, afferma: “Vivere il cancro da dentro, come malata, combattendo personalmente giorno per giorno, e nello stesso tempo viverlo da professionista (come medico), lottando insieme ai miei pazienti per sconfiggere i loro tumori, mi ha sempre dato una visuale molto complessa… Non arrendersi mai e non sentirsi mai i più sfortunati. E, dopo essersi abituati all’idea di poter convivere con la malattia, rimboccarsi le maniche, fidandosi del proprio medico, e convincersi che se ne può venir fuori. Solo così si può sperare di vincere la lotta”.

Goethe (1749-1832) invitava: “Sia nobile l’uomo, pronto ad aiutare e buono”. Oltre al

“nobile” invito di Goethe, vorrei concludere con un aforisma del dott. Albert Schweitzer (1875-1965): “Il primo passo nell’evoluzione dell’etica è un senso di solidarietà con altri esseri umani”.

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