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L’INSUFFICIENZA RENALE CRONICA

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Academic year: 2021

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L’INSUFFICIENZA RENALE CRONICA

L’insufficienza renale cronica (IRC) è una condizione patologica caratterizzata dalla riduzione graduale e irreversibile della funzione renale, con una naturale tendenza progressiva. Il substrato anatomo-funzionale dell’IRC è rappresentato dalla perdita crescente dei nefroni funzionanti; ne consegue una riduzione del filtrato glomerulare renale (FGR) per almeno 3-6 mesi che in condizioni normali ammonta a 100-130 ml/min, spesso il declino graduale del filtrato glomerulare avviene nel corso di anni. Il grado di compromissione renale è inversamente proporzionale al numero residuo di nefroni funzionanti, per cui l’IRC può essere classificata in stadi graduali.

IRC lieve: FGR di 89-60 ml/min. In questa fase la riserva funzionale dei nefroni residui è tale che vi è un completo compenso biochimico-metabolico della ridotta funzione renale; non si osservano, quindi i sintomi di ICR (ipercreatininemia e iperazotemia).

IRC moderata: FGR di 59-30 ml/min. Si cominciano a osservare i segni dello scompenso funzionale per quanto riguarda l’escrezione delle scorie azotate, con conseguente aumento stabile dei valori di creatininemia e azotemia.

IRC grave: FGR di 29-15 ml/min. Oltre alla ritenzione azotata compaiono altre alterazioni biochimico-metaboliche.

IRC terminale: FGR<15 ml/min. È anche detta fase uremica, poiché l’accumulo nell’organismo dei cataboliti azotati determina una compromissione multisistemica, con numerose manifestazioni ematologiche, cardiocircolatorie, nervose, endocrine e ossee. Si può associare, inoltre, una marcata ritenzione idrica. In questa fase il paziente deve essere preparato alla terapia sostitutiva renale. Indipendentemente dalla causa iniziale, l'effetto finale

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della grave riduzione della massa nefronica è l’alterazione del funzionamento di quasi tutti gli organi e apparati corporei (Montinaro V., 2003).

Uremia è il termine che si usa generalmente per indicare la sindrome clinica osservabile nei pazienti con grave deficit della funzione renale, adottato originariamente per indicare alterazioni osservabili nell’IRC come ritenzione nel sangue dell’urea e degli altri prodotti terminali del metabolismo che vengono normalmente escreti con le urine. Tuttavia il termine uremia rappresenta qualcosa di più della sola insufficienza escretoria del rene. Nell’IRC vengono meno anche molte altre funzioni metaboliche ed endocrine che sono normalmente esercitate dal rene sano e il decorso progressivo verso l’insufficienza renale si accompagna spesso a malnutrizione, ad alterazioni del metabolismo dei carboidrati, dei grassi, delle proteine, e ad una deficitaria utilizzazione dell’energia. Quindi, il termine uremia si riferisce in senso generale alla costellazione di segni e sintomi associati alla IRC, indipendentemente dalla sua causa iniziale (Coe F.L. et al., 1999).

Le cause di IRC sono di vario tipo. In pratica tutte le nefropatie (glomerulari, vascolari e tubulo-interstiziali) possono progredire provocando un quadro di sclerosi renale che è alla base dell’IRC, che come già detto, ha la tendenza alla progressione verso l’uremia terminale. La velocità di progressione varia in base alla nefropatia in causa; si passa quindi da forme che evolvono nello spazio di pochi mesi (glomerulonefrite rapidamente progressiva) a forme che rimangono stabili per molti anni. Indipendentemente dalla nefropatia di base, si assiste ad un progressivo decremento del numero di nefroni funzionanti e almeno nelle fasi iniziali si instaura un meccanismo di compenso che consiste nell’aumento del FGR nei singoli nefroni residui, i quali possono anche manifestare un certo grado di ipertrofia. Il principale fattore responsabile di questa risposta adattativa è l’angiotensina II. Essa, infatti, esercita una prevalente azione di vasocostrizione sull’arteriola efferente glomerulare, lasciando per lo più

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intraglomerulare che aumenta il filtrato glomerulare del singolo nefrone. Se da un lato questo è un meccanismo di compenso della riduzione della massa nefronica, dall’altro rappresenta anche un meccanismo di usura dei nefroni funzionalmente attivi. Soprattutto la creatinemia è un indice indiretto della funzione renale: essa viene filtrata nel glomerulo renale e, tranne che nelle fasi avanzate dell’IRC, non viene riassorbita né secreta dal tubulo renale. Una prova del carattere cronico viene anche fornita dalla dimostrazione radiografica, ecografia, urografica o tomografica di riduzione delle dimensioni di entrambi i reni. Il riscontro di grossi cilindri nel sedimento urinario è specifico dell’IRC: l’ipertrofia e la dilatazione compensatoria dei nefroni residui spiegano l’aumentato diametro dei cilindri. La proteinuria è un reperto frequente ma non specifico come l’ematuria.

Il rene partecipa alla regolazione omeostatica dell’ambiente extracellulare rimuovendo alcune sostanze dal sangue e in alcuni casi trasferendovene altre. Ciò si realizza svolgendo una serie di funzioni: regolazione del bilancio idroelettrolitico, escrezione dei prodotti del catabolismo (urea, acido urico, creatinina, bilirubina), escrezioni di sostanze chimiche (farmaci, additivi alimentari, pesticidi), controllo della pressione arteriosa, secrezione di eritropoietina, sintesi della forma attiva della vitamina D e gluconeogenesi (Vander 1992). La produzione dell’urina inizia a livello del glomerulo, dove si forma un ultrafiltrazione del plasma. Con la riduzione della massa nefronica, i nefroni superstiti sani (o meno danneggiati) tendono a ipertrofizzarsi e a svolgere un maggiore carico di lavoro, così da compensare la perdita funzionale. La velocità di filtrazione glomerulare (GFR) dei singoli nefroni superstiti aumenta. Moltissimi dati suggeriscono che i nefroni soggetti a elevato carico escretorio per lungo tempo si danneggiano a causa di tali alterazioni adattative: quindi, il prezzo di questi adattamenti compensatori alla perdita di nefroni può essere in definitiva l’inarrestabile distruzione dei nefroni superstiti. Tra le principali conseguenze dell’insufficienza renale cronica vanno ricordate la ritenzione progressiva di metabolici azotati (uremia) e

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l’insufficienza progressiva della funzione tubulare; quest’ultima provoca precocemente l’incapacità di concentrare l’urina (poliuria) e anormalità dell’omeostasi biochimica (tra cui ritenzione di sale e di acqua, acidosi metabolica compensata, e altri disturbi elettrolitici ed in particolare l’iperpotassiemia). La ritenzione di sodio e di acqua può causare ipertensione. L’insufficienza dell’attivazione renale della vitamina D causa un iperparatiroidismo secondario e malattia dell’osso. Inoltre si hanno anche alterazioni ematologiche che si manifestano regolarmente e che contribuiscono alla sintomatologia dell’IRC. In questa situazione l’eritropoiesi è depressa per gli effetti sul midollo osseo delle sostanze tossiche, per la ridotta sintesi di eritropoietina da parte del rene malato o, molto meno frequentemente, per la presenza di inibitori dell’eritropoietina. La somministrazione di eritropoietina umana ricombinante produce un evidente incremento dell’ematocrito e della concentrazione di emoglobina; ciò dimostra che, probabilmente, il ridotto livello sierico di eritropoietina è il più importante di questi fattori.

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IL NEFRONE

La principale unità funzionale del rene è il nefrone, ciascun rene possiede circa un milione di nefroni, ognuno dei quali è capace di formare urina, raggruppati in numerose formazioni regolarmente disposte, chiamate, per la loro forma, piramidi renali. Il nefrone è costituito da due componenti fondamentali: il glomerulo e la capsula di Bowman, che insieme costituiscono il corpuscolo del Malpigli e che sono connessi alla prima rete capillare, e i sistemi tubulari renali corticale e midollare, associati alla seconda rete capillare. Il sistema tubulo renale è, a sua volta, costituito da diversi dotti (tubulo contorto prossimale, ansa di Henle, tubulo distale e dotto collettore) che in successione trasportano e modificano il liquido filtrato a livello del glomerulo fino alla pelvi renale. Man mano che l’ultra filtrato glomerulare scorre attraverso i tubuli, oltre il 99% della sua acqua e quantità variabili dei suoi soluti vengono normalmente riassorbiti nel sistema vascolare; piccole quantità di alcune sostanze vengono, inoltre, secrete nei tubuli. L’acqua tubulare residua con le sostanze in essa disciolte diventano urina. Il primo elemento del nefrone sul percorso del microcircolo è il glomerulo, (Fig.1) sede della filtrazione del sangue proveniente dalle arteriole afferenti.

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Fig.1

Le arteriole afferenti penetrano nel glomerulo dal polo vascolare e si suddividono in circa cinque rami maggiori. Ogni ramo si sviluppa poi in una singola rete capillare, supportata da un proprio tralcio di mesangio. I capillari glomerulari convergono nel dare origine a un’unica arteriola efferente, che lascia il glomerulo presso lo stesso polo vascolare da dove era penetrata l’arteriola afferente. La struttura del glomerulo è concepita come una rete capillare globulare anastomizzata che si invagina in un bulbo cavo, la capsula di Bowman, che rappresenta il fondo cieco di un lungo sistema di dotti tubulari ed è costituita da uno strato di cellule epiteliali. Ciò significa che le cellule endoteliali, si rivestono esternamente di uno strato epiteliale, in continuità presso il polo vascolare con le cellule che costituiscono la capusula di Bowman (Cattaneo, 1986). Le cellule della capsula di Bowman sono pavimentose e molto semplici come struttura, mentre le cellule epiteliali che rivestono il gomitolo dei capillari glomerulari sono più grandi e specializzate, caratterizzate da prolungamenti (pseudopodi) che prendono contatto con la membrana basale; per queste caratteristiche sono

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lume dell’esteso sistema tubulare del nefrone. Il sangue fluisce nel reticolo capillare glomerulare provenendo dall’arteriola afferente, a questo punto si verifica la sua ultrafiltrazione all’interno della rete capillare e il filtrato passa nello sazio urinifero e da qui nel sistema tubulare. Il sangue parzialmente filtrato lascia il glomerulo attraverso l’arteriola efferente e procede a garantire l’adeguato apporto di ossigeno al sistema tubulare.

Sul confine tra il sangue circolante e lo spazio urinifero si trova la parete specializzata dei capillari glomerulari, nel cui ambito si individua la barriera di filtrazione glomerulare costituita da: endotelio capillare (strato interno); membrana basale dei capillari glomerulari particolarmente spessa; podociti (strato epiteliale esterno). La membrana basale glomerulare è molto più spessa della membrana basale dei capillari normali e ha uno spessore medio di 310-350 nm nei soggetti sani. Proprio per il suo spessore funziona come barriera fisica contro il passaggio delle grosse molecole dal sangue allo spazio urinifero, inoltre sia la superficie della membrana che la superficie di alcuni pedicelli dei podociti espongono residui carichi negativamente (polianioni), costituiti da glicosaminoglicani, in particolare eparan-solfato, mentre sui podociti si trova la podocalicina, sostanza ricca di residui di acido sialico. La presenza di queste molecole polianioniche crea una barriera carica negativamente, capace di impedire il passaggio alle molecole cationiche.

Il mesangio è il tessuto di sostegno per la rete capillare del glomerulo ed è costituito da due componenti: le cellule del mesangio e la matrice mesangiale extracellulare. Le cellule mesangiali sono di forma irregolare e dotate di un gran numero di prolungamenti citoplasmatici che si estendono in modo apparentemente disordinato nell’ambito della matrice del mesangio, la matrice del mesangio è una sostanza amorfa prodotta dalle stesse cellule mesangiali che vi sono immerse e l’attraversano con i loro prolungamenti (Alan Stevens, James Lowe, 1993).

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Le manifestazioni cliniche dell’insufficienza renale cronica riconoscibili con i reperti istologici dimostrano che sono presenti: alterazioni strutturali della membrana basale glomerulare generalmente associate con un ispessimento; cambiando la sua composizione la membrana diviene più permeabile in quanto si ha una riduzione dei normali siti polianionici, che in condizioni normali fungono da repellenti delle proteine, prevenendone la filtrazione nelle urine, deposizione di una matrice mesangiale eccessiva, proliferazione di cellule endoteliali che provoca occlusione del lume dei capillari e quindi riduzione della filtrazione glomerulare, con un aumento della pressione arteriosa e dei livelli plasmatici di sostanze azotate (urea e creatinina). Sia la sindrome nefritica che quella nefrosica (sindromi da insufficienza renale parziale) terminali provocano la sostituzione cicatriziale dei glomeruli (ialinosi), con progressiva perdita di singoli nefroni. La ialinizzazione glomerulare è il frutto di una progressiva ed eccessiva produzione di matrice da parte delle cellule mesangiali, che colpisce i glomeruli come un processo diffuso. La massa di matrice mesangiale in espansione distrugge, lentamente ma progressivamente, l’architettura dei glomeruli, fino a quando il sangue cessa di fluire attraverso i capillari glomerulari, e il sangue ossigenato non passa più nelle arteriole efferenti e nel sistema capillare tubulare: i tubuli sono privati dell’apporto di sangue ossigenato, e le cellule tubulari muoiono irrevocabilmente o divengono atrofiche (Alan Stevens , James Lowe, 2001).

La compromissione della funzionalità renale si ripercuote sulla funzionalità di tutti gli organi del nostro apparto corporeo, per cui si è soliti parlare di patologie secondarie associate all’IRC: alterazioni cardiovascolari, alterazioni ematologiche, alterazioni polmonari, alterazioni ossee, alterazioni dermatologiche ed alterazioni neurologiche.

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INSUFFICIENZA RENALE E NEUROPATIE

Dal punto di vista neurologico sono state descritte alterazioni sia a carico del sistema nervoso periferico (neuropatia uremica) sia del sistema nervoso centrale (encefalopatia uremica).

La neuropatia periferica compare clinicamente nelle fasi più avanzate dell’IRC, si tratta di una neuropatia distale, generalmente simmetrica, di tipo mista, motoria e sensitiva: generalmente sono più interessati gli arti inferiori rispetto a quelli superiori. Le manifestazioni cliniche di questa neuropatia uremica sono più frequentemente rappresentate dalla così detta “sindrome delle gambe senza riposo”, dalla presenza cioè di sensazioni di dolore puntorio, formicolii, intorpidimento agli arti inferiori che insorgono a riposo, prevalentemente di notte, e vengono in parte alleviate dal movimento. Possono essere presenti sensazioni di bruciore, dolore al tocco e alla palpazione alla pianta e al dorso del piede, affaticabilità muscolare e crampi. Sono talora presenti alterazioni a carico del sistema nervoso autonomo, quali riduzione o assenza di sudorazione, alterazione della regolazione della pressione arteriosa, impotenza nell’uomo.

Nell’encefalopatia uremica le prime manifestazioni consistono in alterazioni della personalità, irritabilità, sindrome ansiosa, difficoltà all’attenzione, e perdita della memoria. Sono inoltre presenti turbe del sonno, con sonnolenza durante il giorno e insonnia notturna, fino allo sviluppo di una vera e propria depressione maggiore, soprattutto nei pazienti che vanno incontro a trattamento sostitutivo. Inoltre sono stati descritti due tipi di disturbi neurologici come peculiari dei pazienti in dialisi cronica: la demenza dialitica si osserva nei pazienti in dialisi da molti anni ed è caratterizzata da aprassia del linguaggio, demenza ed infine convulsioni e morte. L’intossicazione da alluminio rappresenta probabilmente la causa principale di questa sindrome. La sindrome da squilibrio dialitico insorge nelle prime sedute

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di emodialisi in rapporto alla rapida riduzione dell’azoto ureico plasmatici. I disturbi (nausea, vomito, cefalea e persino convulsioni) sono dovuti all’edema cerebrale e all’aumento della pressione intracranica per le rapide variazioni del pH e della osmolarità tra i fluidi intra- ed extracellulari indotte dalla dialisi.

Numerosi studi clinici dimostrano come tra le categorie in cui vi è una alta insorgenza della depressione vi sia quella di pazienti con insufficienza renale e dializzati (Jadulle et al., 2005; Taskapan et al., 2005; Zimmerman et al., 2001; Kimmel et al., 1993; Sacks et al., 1990). Recentemente lo studio DOOPS (Dialysis Outcomes and Practice Pattern Study) ha evidenziato come la depressione di per sé rappresenti un fattore predittivo indipendente di mortalità e ospedalizzazione nei pazienti dializzati (Lopes et al., 2002).

La depressione è una patologia psichiatrica che interessa, in modo variabile per quel che concerne sintomatologia, durata e gravità, circa il 20% della popolazione, con prevalenza femminile. Studi epidemiologici dimostrano che circa il 40-50% dei fattori di rischio è di tipo genetico (Sanders et al., 1999; Fava and Kendler, 2000). Tuttavia lo studio della genetica della depressione si è dimostrato decisamente ostico e difficoltoso proprio per la complessità di questa patologia, che coinvolge numerosi geni (Burmeister, 1999). A complicare la cosa stà il fatto che comunque la vulnerabilità alla depressione è solo in parte genetica: importanti fattori sono lo stress, gli eventi traumatici, e alcune infezioni virali (Akiskal, 2000; Fava and Kandler, 2000).

Per quanto riguarda la depressione, storicamente l’eziopatogenesi era spiegata con la “teoria monoaminergica”, pietra miliare per la ricerca neurofarmacologica, che individuava in una disfunzione del sistema delle monoamine la base biologica della sintomatologia depressiva e delle manifestazioni comportamentali associate alla patologia (Schildkraut J.J., 1965; Charney D.S., 1998).

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FARMACI ANTIDEPRESSIVI

Gli antidepressivi sono farmaci con struttura chimica e azioni farmacologiche assai diverse, che vengono accomunati per l’effetto sul tono dell’umore; sulla base del meccanismo d’azione è possibile individuare diverse classi di farmaci antidepressivi:

• inibitori delle monoaminossidasi (IMAO),

• inibitori non selettivi della ricaptazione delle monoamine (antidepressivi triciclici, ATC), • inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI),

• inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina (NARI), • inibitori misti (SNRI),

• inibitori recettoriali (NASSA).

Tuttavia il meccanismo d’azione di questi farmaci (aumentata biodisponibilità dei neurotrasmettitori) è un evento acuto che si manifesta entro minuti od ore dalla loro somministrazione; questo mal si concilia con la realtà clinica, in cui occorrono da settimane a mesi di trattamento continuato con farmaci per ottenere una risposta adeguata. Questa è una delle principali considerazioni che hanno portato all’evoluzione dell’ipotesi monaminergica. Rimane valido il ruolo fondamentale dei sistemi serotoninergico e noradrenergico nella fisiopatologia dei disturbi dell’umore, ma si cerca di identificare i veri bersagli molecolari a lungo termine dell’azione degli antidepressivi.

Analizzando i pathways attivati dalle monoamine tra cui l’adenosina monofosfato ciclico (cAMP) e l’attivazione della protein Chinasi A (PKA) (Charney D.S., 1998), Fosfolipasi C (PLC) e la Protein Chinasi calcio- calmodulina dipendente (PKC) (Tiraboschi E. et al., 2004), è possibile osservare che tutte convergono su un importante fattore di trascrizione, CREB (cAMP Response Element Binding).

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CREB è coinvolto nella regolazione dell’espressione genica in risposta ai più svariati stimoli, quali neurotrasmettitori, ormoni peptidici, fattori di crescita e attività neuronale (Shaywitz A.J. and Greenberg M.E., 1999). Ciò indica che CREB è un punto chiave nel controllo delle risposte adattative cellulari: modulerebbe numerosi aspetti dell’attività neuronale, per esempio l’eccitazione, lo sviluppo, i fenomeni di plasticità sinaptica; le proteine la cui sintesi è regolata da CREB sarebbero coinvolte nella crescita sinaptica, meccanismo mediante il quale le informazioni di recente acquisizione vengono consolidate.

Tra molteplici geni target che sono regolati da CREB e che potrebbero giocare un ruolo chiave nell’azione terapeutica degli antidepressivi e nella fisiopatologia della depressione c’è la neurotrofina BDNF (Brain Derived Neurotrophic Factor).

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MODIFICAZIONI NEUROANATOMICHE DA STUDI POST-MORTEM

Studi post mortem su pazienti depressi hanno evidenziato una riduzione della dimensione neuronale nella corteccia orbito-frontale, una riduzione sia in numero che in dimensione delle cellule gliali a livello della corteccia prefrontale ed orbitofrontale, ed una riduzione nello spessore corticale e nel volume dei gangli basali in pazienti con depressione (Manji et al., 2001, Ongur et al., 1998, Rajkowska, 2000a and Rajkowska, 2000b). Il numero delle cellule può viceversa incrementare nell’Ipotalamo, il che può spiegare i sintomi neurovegetativi di questo disordine.

La perdita della glia è ben documentata ed interessa la corteccia prefrontale orbitale e mediale, così come alcune porzioni del cingolato anteriore: queste anomalie gliali sono state evidenziate e riduzioni della densità gliale risultano specifiche dei disturbi dell’umore (Rajkowska, 2000b).

Anomalie a livello dendritico e dei terminali sinaptici, a supporto di una plasticità sinaptica aberrante o di danno nello sviluppo neuronale, sono state registrate. Nonostante ripetute dimostrazioni di atrofia ippocampale, rimane da chiarire se questi si verifica quanto dimostrato in modelli animali, cioè riduzione della cellularità e della neurogenesi (Czeh et al., 2001).

La riduzione del numero delle cellule gliali fa pertanto escludere il coinvolgimento di una risposta infiammatoria nella perdita neuronale (in tal caso si osserverebbe un aumento del numero delle cellule della glia associato a gliosi), mentre l’aspetto atrofico delle popolazioni cellulari suggerisce l’innescarsi di fenomeni di morte cellulare per apoptosi.

Le cellule gliali svolgono molte funzioni e sono partners attivi nella trasmissione neuronale; il ridotto numero di questo tipo cellulare può essere coinvolto in quanto osservato

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dagli studi di neuro imaging sul ridotto metabolismo del glucosio a livello della corteccia prefrontale (Tsacopoulos and Magistretti, 1996).

Gli studi di Brain Imaging hanno fornito una gran quantità di informazioni riguardanti cambio di dimensione e funzione della corteccia prefrontale, dell’Ippocampo e dell’Amigdala (Campbell et al., 2004, Mayberg and Fossati, 2004 and Bench et al., 1995).

In particolare il lavoro di Sheline et al., (1996, 2003) ha dimostrato: 1. una riduzione del volume ippocampale nei pazienti depressi,

2. una correlazione tra alterazioni morfo-anatomiche e durata della patologia 3. un recupero della perdita volumetrica successivamente alla terapia farmacologia. In questo studio le osservazioni emerse dal gruppo di pazienti in terapia ha anche evidenziato come il fenomeno dell’atrofia ippocampale venga aggravato dall’aumentare degli episodi depressivi, la qual cosa dimostra che l’atrofia è il risultato piuttosto che al causa della patologia.

Infine sempre studi autoptici su pazienti depressi hanno evidenziato una riduzione di importanti meccanismi molecolari di regolazione genica a livello della corteccia temporale (che include l’Ippocampo), in particolare CREB (Dowlatshahi et al., 1998). Il ruolo di CREB nella depressione è ormai accettato, se è vero che CREB costituisce uno dei possibili futuri target per l’azione di farmaci specifici, tra cui inibitori delle fosfodiestreasi, gli enzimi che degradano cAMP; a tal proposito, alcuni gruppi hanno riportato, tra le azioni degli antidepressivi, l’upregulation del pathway del cAMP a livello di Ippocampo e Neocortex ( Nestler et al., 1989; Duman et al., 1997 and Thome et al., 2000).

L’insieme di questi dati, mostrano come l’eziopatogenesi della patologia depressiva sia assimilabile a quella di altre patologie neurodegenerative, spostando pertanto l’attenzione terapeutica sui meccanismi in grado di preservare l’integrità morfo-funzionale.

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PLASTICITÁ NEURONALE E NEUROGENESI

Una chiave di svolta nella comprensione dei meccanismi alla base delle patologie neurodegenerative e delle alterazioni funzionali coinvolte anche nei meccanismi che regolano l’apprendimento e la memoria, è stata fornita dalle scoperte riguardanti le capacità adattive del cervello e l’esistenza di popolazioni neuronali con potenzialità replicative nel cervello adulto.

LA PLASTICITÁ NEURONALE

La plasticità neuronale è un meccanismo cruciale attraverso il quale il cervello, sia maturo che in sviluppo, si adatta ai cambiamenti ambientali; contribuisce ai meccanismi funzionali del sistema nervoso e, in particolare, all’apprendimento e alla memoria. I cambiamenti nella plasticità possono avvenire a livello molecolare e sinaptico, coinvolgendo le proteine, il numero e l’efficienza sinaptica.

Le principali conseguenze della plasticità neuronale sono le modifiche sinaptiche attività-dipendenti, i cambiamenti nell’eccitabilità dell’elemento postsinaptico, la riorganizzazione della mappa corticale (promosso dai neurotrasmettitori e dai loro recettori) e l’estensione di aree specializzate in seguito a patologie neurologiche o all’apprendimento.

La plasticità del SNC si manifesta a livello cellulare con modifiche della crescita dendritica, dello sviluppo delle arborizzazioni assonali, del rimodellamento sinaptico, e della creazione di nuove sinapsi; questi aspetti sono strettamente correlati col fenomeno della neurogenesi (Mesulam, 1999).

Tra questi eventi, il rimodellamento sinaptico e la sinaptogenesi sono ampiamente influenzati dai fattori neurotrofici (Patapoutian and Reichardt, 2001).

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LA NEUROGENESI

L’Ippocampo è una delle due zone neurogeniche, ben documentate, del SNC adulto; l’altra è la zona subgranulare, che dà origine ad i neuroni del bulbo olfattorio. Nell’Ippocampo le cellule progenitrici sono localizzate a livello della zona subgranulare e si dividono per dar origine a nuove cellule che migrano nello strato delle cellule granulari dove si differenziano in neuroni (Gage, 2000; Gould et al., 2000). I nuovi neuroni estendono i loro dendriti fino allo strato molecolare e gli assoni allo strato piramidale CA3, e hanno caratteristiche sia morfologiche che fisiologiche tipiche delle cellule granulari (Gage, 2000).

L’esistenza di questi nuovi neuroni che vanno ad integrare nella circuiteria ippocampale può verosimilmente giocare un ruolo nell’apprendimento e memoria (Barnea and Nottebohm, 1994; Gross, 2000).

La percentuale di proliferazione e sopravvivenza dei nuovi neuroni è regolata positivamente o negativamente da tutta una serie di stimoli (Duman 2004a); ad esempio, lo stress è uno dei più forti fattori di regolazione negativa della neurogenesi: l’esposizione a acuto o ripetuto stress riduce la neurogenesi nell’ippocampo adulto (Duman 2004a).

Diversamente, la neurogenesi aumenta in condizioni stimolanti l’attività neuronale (per es. enriched environment, apprendimento, esercizio), suggerendo che questo processo sia anche positivamente regolato e dipenda dalla plasticità neuronale (Gould et al., 1999a; Kempermann et al.,1997; van Praag et al., 1999).

Inoltre fenomeni di neurogenesi sono stati dimostrati in altre regioni encefaliche successivamente ad un insulto di tipo ischemico (Arvidsson et al., 2002, Gould and Tanapat, 1997, Magavi et al., 2000 and Nakatomi et al., 2002).

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LE NEUROTROFINE E LA TEORIA NEUROTROFICA DELLA

DEPRESSIONE

Gli effetti patologici dello stress sull’ippocampo hanno contribuito alla formulazione di una recente ipotesi, quella che propone il ruolo dei fattori neurotrofici nell’eziologia della depressione e nel suo trattamento (Duman et al., 1997 ; Altar, 1999).

I fattori neurotrofici, il cui capostipite è l’NGF, sono stati isolati nel SNC, inizialmente caratterizzati per la loro capacità nel regolare la crescita neuronale e la differenziazione durante lo sviluppo, ma sono ormai noti come potenti regolatori della plasticità e della sopravvivenza di neuroni e glia anche nell’adulto.

L’ipotesi neurotrofica della depressione attribuisce alla riduzione del supporto neurotrofico la responsabilità patologica a livello ippocampale durante lo sviluppo della depressione, e pertanto l’azione degli antidepressivi su queste molecole può essere la chiave interpretativa nella regressione dalla sintomatologia. A tal proposito il BDNF sembra giocare un ruolo fondamentale: in modelli animali su ratto, stress sia acuto che cronico sono in grado di ridurre l’espressione del BDNF a livello del giro dentato e delle cellule piramidali dell’ippocampo (Smith et al., 1995a).

LA FAMIGLIA DELLE NEUROTROFINE

Studi condotti dal premio nobel Rita Levi Montalcini et al., portarono alla scoperta che cellule maligne di topo, del tipo noto come Sarcoma 180, sintetizzano e rilasciano una molecola che svolge un ruolo essenziale nel differenziamento e nella funzionalità delle cellule nervose sensitive e simpatiche (Montalcini R., Hamburger V., 1953; Cohen S., Levi-Montalcini R., 1956; Cohen et al., 1954; Cohen, 1960): questa molecola è stata denominata

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fattore di crescita del nervo (NGF) ed è oggi il prototipo della famiglia proteica delle neurotrofine (NTs); successivamente a questa scoperta sono stati intrapresi molti studi atti ad isolare altre molecole strutturalmente e funzionalmente correlate all'NGF.

Nel 1982, Barde et al., hanno isolato dal cervello di maiale il fattore (BDNF) (Barde et al., 1982; Leibrock J et al., 1989). A seguire sono stati identificate la neurotrofina 3 (NT-3) e la neurotrofina 4/5 (NT-4/5) (Barde, 1990).

Le NTs sono generate come precursori pre-pro-neurotrofinici all'interno del reticolo endoplasmatico, lunghi approssimativamente 240–260 amminoacidi (aa), processati e secrete come proteine omodimeriche mature nello spazio extracellulare (lunghezza del monomero: 118–129 aa ; 12 KDa) (Halban et Irminger, 1994; Merighi, 2002; Rothman et Orci, 1992 ; Presley et al., 1997).

I RECETTORI DELLE NEUROTROFINE

Le neurotrofine attivano due differenti tipi di recettore:

1) i recettori Trks (chinasi tropomiosina-connessa) appartenenti alla famiglia di recettori tirosin-chinasici

2) il recettore p75, un membro della superfamiglia dei recettori per il fattore di necrosi tumorale (TNF).

Ogni NT lega uno specifico recettore Trk, in particolare NGF attiva TrkA, mentre BDNF e NT-4/5 attivano TrkB e NT-3 attiva TrkC (Kaplan et Miller, 2000); per quanto riguarda p75 studi in vitro hanno dimostrato come questo recettore leghi preferenzialmente la forma immatura delle NTs (Lee R. et al., 2001).

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intracellulare e delle vie di trasduzione Ras/ERK (extracellular signal regulated kinase), PI3K/Akt (Phosphatidylinositol-3-OH kinase) e PLC-γ1 (phospholipase C) (Kaplan et Miller, 2000; Pawson et Nash, 2000), che culminano nell' attivazione di alcuni fattori di trascrizione che alterano l' espressione genica.

Il recettore p75 se coespresso con i recettori Trks aumenta l'affinità di legame delle diverse NTs per i loro specifici recettori. Il segnale di p75 è tuttavia duplice, in quanto innesca un segnale che regola la sopravvivenza cellulare, ed un secondo segnale con attività apoptotica. Il legame delle NTs al recettore p75 attiva NF-κB, la Jun-chinasi e la sfingomielinasi acidica. NF-κB promuove la sopravvivenza, mentre la Jun chinasi e la sfingomielinasi promuovono l' apoptosi. Il segnale di Trk sopprime l'attivazione della Jun chinasi e della sfingomielinasi, ma non l'induzione di NF-κB.

In condizioni fisiologiche il legame delle NTs mature ai recettori Trks e p75 promuove la sopravvivenza cellulare, poichè il segnale di sopravvivenza mediato da Trk sopprime il segnale pro-apoptotico proveniente da p75 ed agisce sinergicamente col segnale anti-apoptotico proveniente da p75 (Dobrowsky et al., 1995; Yoon et al., 1998; Mazzoni et al., 1999; Aloyz et al., 1998; Maggirwar et al., 1998; Hamanoue et al., 1999).

Negli stati patologici invece predomina il segnale pro-apoptotico proveniente da p75. L'apoptosi è innescata quando non si ha più una situazione di equilibrio tra i due recettori, perchè p75 è up-regolato o perchè è aumentata la concentrazione della pro-NT, che da studi in vitro è dimostrato legarsi ed attivare preferenzialmente p75 (Lee R. et al., 2001).

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LE VIE DI TRASDUZIONE DEL SEGNALE

Il legame della NT al recettore Trk può attivare tre pathways importanti (Fig.2), (Kaplan et Miller, 2000; Pawson et Nash, 2000):

1) la proteina Ras: attivata attraverso degli adattori proteici, in particolare un residuo di tirosina fosforilato del recettore (Y 490) recluta la proteina Shc, che viene fosforilata e, a sua volta, recluta nei pressi della membrana il complesso Grb-2/ SOS (son of Sevenless). Questo porta all'attivazione di Ras che può attivare in modo transiente PI3K o la via delle MAP chinasi (protein- chinasi mitogeno-attivate); in particolare la via della MAPK ERK (Extracellular Related Kinase). Questo, che è il principale pathway, ha come bersaglio finale la fosforilazione della proteina CREB (cAMP Responsive Element Binding protein), un fattore di trascrizione responsabile della trascrizione di geni codificanti per proteine anti-apoptotiche della famiglia Bcl-2 otre a geni per i fattori neurotrofici stessi.

2) la chinasi 3 fosfatidilinositolo (PI3K): viene attivata dal complesso di proteine adattatrici Shc-Grb2-Gab1 o dalla proteina Ras. In entrambi i casi PI3K genera dei prodotti

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dipendenti (PDKs). PDK attiva Akt che a sua volta fosforila alcune proteine importanti nel controllo della sopravvivenza cellulare, ad esempio: fosforila BAD (Bcl2/ Bclx- associated death promoter) che è una proteina membro della famiglia Bcl-2 che, non fosforilata, promuove l'apoptosi legando Bcl-xL; attiva il fattore di trascrizione NF-κB che promuove la sopravvivenza neuronale; inibisce il fattore di trascrizione Forkhead che controlla l'espressione di geni promuoventi l'apoptosi e inibisce p53 che è una proteina in grado di indurre apoptosi.

3) la fosfolipasi C- γ1 (PLC-γ1): porta alla produzione di inositolo-3-fosfato (IP3) e

diacilglicerolo (DAG). IP3 induce il rilascio di Ca2+ dai depositi intracellulari portando

all'attivazione della proteina chinasi Ca2+-calmodulina dipendente (PKC) che a sua volta innesca la via delle MAPK.

TRASPORTO RETROGRADO E ANTEROGRADO

Le NTs sono state originariamente scoperte come fattori target derivati, prodotti cioè dalle cellule che costituiscono il target dell’innervazione, in grado di regolare la sopravvivenza e la differenziazione dei neuroni innervanti (Hamburger and Levi-Montalcini, 1949; Cohen et al., 1954). Nel far questo le NTs sfruttano il ben noto trasporto assonale retrogrado (Fig.3) delle proteine dal terminale al corpo cellulare: successivamente alla somministrazione di NTs, a livello del terminale assonico si

Fig.3 Trasporto retrogrado: le NTs (sfere viola)

rilasciate dai tessuti target (T) legano e attivano i recettori Trks (blu) al terminale nervoso.

I Trks attivati vengono endocitati per formare gli "endosomi di segnalazione" (cerchi bianchi).

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forma un complesso ligando-recettore attivato che viene endocitato e racchiuso in vescicole trasportate attivamente lungo i microtubuli (Ehlers et al., 1995; Watson et al., 1999); il recettore all'interno delle vescicole rimane cataliticamente attivo e trasmette segnali anche lungo gli assoni.

La formazione di questo complesso ligando-recettore (Fig.4) dà luogo a due tipi di segnale: un segnale locale a livello del terminale assonico, a prescindere dalla formazione degli endosomi, e un segnale che agisce nei corpi cellulari trasmesso dai recettori attivati trasportati dagli endosomi.

Per quanto riguarda il segnale locale, a livello del terminale assonico, la fosforilazione dei Trks assonali (Riccio et al., 1997; Watson et al., 1999)

e induce l'attivazione locale di ERK1/2 (Watson et al., 2001; Atwal et al., 2000), segnale che determina la crescita dell'assone (Campenot, 1977; Zhang et al., 2000; York et al., 2000); oltre a questa, all'interno dell'assone è stata osservata l’attivazione della cascata PI3K-Akt, anch’essa coinvolta nella crescita dell'assone (Atwal et al., 2000; Kuruvilla et al., 2000).

Recentemente è stato documentato che molecole di BDNF possono anche essere trasportate in modo anterogrado (Nawa and Takei, 2001), supportando le evidenze circa il ruolo del BDNF come neurotrasmettitore. In effetti il BDNF ha molte delle caratteristiche proprie di un neurotrasmettitore: la sintesi presinaptica, l'immagazzinamento vescicolare, il rilascio evocato dalla depolarizzazione, la localizzazione post-sinaptica di TrkB, le azioni post-sinaptiche, l'inattivazione ed il riciclaggio di BDNF (Altar et al., 1998).

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IL BDNF (BRAIN-DERIVED NEUROTROPHIC FACTOR)

Tra le NTs, il BDNF è la molecola neurotrofica maggiormente diffusa nel cervello dei mammiferi, sia adulti che in fase di sviluppo. Il BDNF regola la sopravvivenza e la differenziazione dei neuroni del sistema nervoso periferico (SNP) (Fritzsch et al., 1997), mentre nel sistema nervoso centrale (SNC) sembra avere essenzialmente un ruolo nella differenziazione e nella modulazione delle funzioni neuronali (Murer et al., 2001).

Il passaggio da pro-NT a proteina matura avviene ad opera dell'enzima "Furina" o di specifiche convertasi (Seidah et al., 1996). Le vescicole di secrezione sono diverse, a seconda che il meccanismo di secrezione sia costitutivo o regolato:

 i granuli secretori della via costitutiva si fondono con la membrana plasmatica anche in assenza di uno specifico meccanismo d'attivazione (Halban et Irminger, 1994; Hokfelt et al., 2000; Harter et Reinhard, 2000).

 le vescicole della via regolata sono più grandi e si fondono successivamente ad un aumento della concentrazione intracellulare di Ca 2+ (Lang et al., 2001), il che fa del

BDNF una molecola con comportamento simile ai classici neurotrasmettitori.

ESPRESSIONE DEL BDNF NEL SNC

L'espressione del BDNF nel ratto adulto è abbondante nell'ippocampo, nella neocorteccia, nell'amigdala, nel cervelletto (Ernfors et al., 1990, 1992; Maisonpierre et al., 1990; Hofer et al., 1990) inoltre l'mRNA del BDNF è stato ritrovato anche nell'ipotalamo, nel setto e nei nuclei adrenergici del tronco encefalico (Castren et al., 1995; Katoh-Semba et al., 1997).

Nel SNC, l'espressione del BDNF è regolata positivamente dall'attività neuronale (Lindholm et al., 1994; Lindvall et al., 1994); questo fenomeno è stato ben documentato

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nell'ippocampo dove l'espressione del BDNF è fortemente influenzata dai livelli fisiologici e patofisiologici dell'attività neuronale (Zafra et al., 1990; Ernfors et al., 1991; Isackson et al., 1991).

Analisi in vitro ed in vivo effettuate nell'ippocampo, nella corteccia cerebrale e nell'ipotalamo del ratto hanno dimostrato che la regolazione attività-dipendente di BDNF è mediata dai neurotrasmettitori classici: in generale, l'mRNA del BDNF è up-regolato dal glutammato, dall'acetilcolina e dalla serotonina, mentre è down-regolato dal GABA. Il significato biologico di questa regolazione è duplice:

1) un aumento localizzato provvede ad un feedback positivo sulla funzione sinaptica; 2) un aumento in seguito ad un insulto neuronale può proteggere i neuroni

dall'eccitotossicità (Lindholm et al., 1994; Lindvall et al., 1994; Marty et al., 1997).

ESPRESSIONE PERIFERICA DEL BDNF

Oltre che nelle popolazioni neuronali, l'mRNA del BDNF è stato trovato anche in molti tessuti ed organi periferici non neuronali. Alcuni studi effettuati sul ratto riportano la sua presenza nell'aorta (Scarisbrick IA. et al., 1993), nei reni, nelle ghiandole sottomandibolari, nelle ovaie, nei gangli della radice dorsale (Ernfors P. et al., 1990), nel cuore (Hiltunen JO. et al., 1996), nella retina, nei muscoli, nei polmoni (Maisonpierre PC. et al., 1990; Maisonpierre PC. et al., 1991) e nelle cellule endoteliali.

Il BDNF è presente anche nel circolo ematico: la prima evidenza della presenza di BDNF nel plasma e nel siero umano è emersa circa una decina di anni fa (Rosenfeld RD. et al., l995; Radka SF. et al., 1996).

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attivazione durante il processo di coagulazione (Fujimura H. et al., 2002). Potenziali sorgenti di BDNF presente nel plasma umano sono l'endotelio vascolare, la muscolatura liscia (Maisonpierre PC. et al., 1991), i macrofagi e i linfociti attivati (Braun A. et al., 1999; Gielen A. et al., 2003; Kerschensteiner M. et al., 1999) ed eosinofili (Noga et al., 2003). La funzione principale del BDNF contenuto in queste popolazioni cellulari e nelle piastrine è quella di supportare la sopravvivenza neuronale e di stimolare la riparazione neuronale e assonale nei siti dell'infiammazione (Kerschensteiner et al., 1999) e durante le lesioni assonali che si verificano nelle ferite (Batchelor et al., 2002).

RUOLO DEL BDNF SULLA NEUROGENESI E LA NEUROPLASTICITÁ

La sopravvivenza del singolo neurone dipende dalle sue connessioni sinaptiche (Goldberg and Barres, 2000): studi condotti su colture cellulari dimostrano che l’attivazione della via del cAMP o l’esposizione a fattori neurotrofici aumenta la sopravvivenza e la crescita dei neuroni (Ghosh et al., 1994; Goldberg and Barres, 2000; McAllister et al., 1996).

La sopravvivenza e la crescita attività-dipendenti dei neuroni possono verificarsi con diversi meccanismi (Goldberg and Barres, 2000):

1. un aumento del numero delle connessioni sinaptiche e dell’attività neuronale può elevare l’espressione di fattori neurotrofici, tra cui BDNF, nelle cellule post-sinaptiche;

2. un aumento nel numero delle connessioni sinaptiche può essere il risultato di un aumento della secrezione di BDNF da parte delle cellule pre-sinaptiche, nel caso del trasporto anterogrado del BDNF;

3. la depolarizzazione o l’attivazione della cascata del cAMP nei neuroni post-sinaptici può aumentare la responsività alla stimolazione con fattori neurotrofici.

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Gli eventi che caratterizzano lo sviluppo e che quindi sono responsabili della plasticità sono la proliferazione, il differenziamento, la formazione dei contatti sinaptici, il rimodellamento assonale, la crescita assonale e la crescita dell'albero dendritico (Kandel ER. et al., 2003): tutti questi eventi sono indotti da vari fattori tra i quali ritroviamo le NTs e in particolare il BDNF.

Fig.5

Inoltre questi eventi sono il risultato dell’attivazione di meccanismi molecolari complessi che hanno come target la modulazione dell’espressione di specifici geni; in tutto questo CREB riveste un ruolo centrale (Fig.5).

Il ruolo del BDNF nella plasticità sinaptica a lungo termine nell'ippocampo e nella neocorteccia è, oggi, ben documentato (Lessmann, 1998; Schuman, 1999; Schinder et Poo, 2000 e Poo, 2001).

Vari esperimenti hanno dimostrato che la sintesi di BDNF è aumentata dai livelli fisiologici dell'attività sinaptica (Patterson et al., 1992; Castren et al., 1992; Dragunow et al., 1993; Rocamora et al., 1996); questo suggerisce che il BDNF eserciti un feedback positivo sulla plasticità sinaptica. Effettivamente, l'applicazione esogena di BDNF è in grado di aumentare l'efficacia presinaptica aumentando, ad esempio, il rilascio del glutammato nelle sinapsi eccitatorie (Carmignoto et al., 1997; Lessmann et Heumann, 1998; Li et al., 1998a; Li et al., 1998b; Bradley et Sporns, 1999; Schinder et al., 2000; Taniguchi et al., 2000; Paul et al., 2001).

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IL BDNF NELLE PATOLOGIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE

Dato il ruolo centrale del BDNF nel promuovere la sopravvivenza neuronale e i processi di crescita durante lo sviluppo, nonché di proteggere i neuroni da insulti di varia natura, cambiamenti dei suoi livelli endogeni o della sua biodisponibilità, potrebbero contribuire alla patogenesi di alcune malattie neurologiche. In effetti alterazioni della produzione e della secrezione di BDNF sono state riportate per varie malattie: tra le quali malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer (AD) e il morbo di Parkinson (PD) che sono associate con una diminuzione dei livelli di BDNF nel cervello (Connor B. et al., 1997; Howells DW. et al., 2000; Levivier M. et al., 1995; Michalski B. et al., 2003; Parain K. et al., 1999; Phillips HS. et al., 1991); malattie del disturbo dell'umore come la depressione caratterizzata da una minore concentrazione di BDNF sia a livello centrale (cervello) che periferico (sangue) (Altar CA. et al., 1999; Chen B. et al., 2001; Shimizu E. et al., 2003) ed ancora, malattie infiammatorie come la sclerosi multipla associata con un aumento della sintesi di BDNF nei siti dell'infiammazione.

Evidenze sperimentali attestano che stress acuti e cronici diminuiscono l’espressione dell’mRNA del BDNF nell’ippocampo; l’effetto è particolarmente marcato a livello delle cellule granulari del giro dentato, ma si riscontra anche a livello delle cellule piramidali delle aree CA1 e CA3 (Duman R.S. and Monteggia L.M., 2006).

BDNF E ANTIDEPRESSIVI

Il fatto che la risposta terapeutica ai farmaci antidepressivi si manifesti solo in seguito a un trattamento prolungato ha indotto a ipotizzare che, affinché essa si produca, sia necessario

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l’istaurarsi di modificazioni nella plasticità strutturale e funzionale (Duman R.S. et al., 1997; Nestler E.J. and Barrot M., 2002).

Nel 1995 il gruppo di Duman ha dimostrato per la prima volta che il trattamento cronico, ma non quello acuto, con diversi antidepressivi (ATC, SSRI, IMAO e stimolo elettroconvulsivante) era in grado di indurre, nell’ippocampo del ratto, l’espressione di BDNF e del suo recettore TrkB (Nibuya et al., 1995).

Osservazioni da modello animale di stress (Fig.6), hanno permesso di evidenziare che alcune classi di antidepressivi permettono di recuperare la riduzione delle arborizzazioni dendritiche dei neuroni piramidali ippocampali (Kuroda and McEwen, 1998; Norrholm and Ouimet, 2001), così come di aumentare la neurogenesi nel giro dentato (Malberg et al., 2000; Duman et al., 2001; Manji et al., 2001).

Fig.6

Le evidenze sperimentali confermano quanto già da tempo ampiamente documentato dalla clinica circa l’efficacia terapeutica, infatti solo la somministrazione cronica di antidepressivi aumenta i livelli di BDNF nelle aree cerebrali interessate (Nibuya M. et al., 1995; Duman et Vaidya, 1998; Malberg et al., 2000), così come la terapia elettroconvulsiva (Nibuya M. et al., 1995; Duman et Vaidya, 1998), determinano un aumento dell'espressione del BDNF nel

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veniva indotta ansia da privazione di etanolo, ha evidenziato che la riduzione di BDNF che si verifica in questo modello animale poteva essere antagonizzata con la somministrazione di fluoxetina (Pandey S.C. et al.,1999).

L’induzione del BDNF da parte degli antidepressivi è almeno in parte mediata dal fattore di trascrizione CREB (cAMP response element binding protein); infatti l’espressione genica di BDNF è indotta sia in vivo che in vitro da CREB (Tao et al., 1998 and Conti et al., 2002) e la maggior parte degli antidepressivi è in grado di aumentare l’espressione di CREB in diverse aree cerebrali, compreso l’Ippocampo attraverso l’attivazione di sistemi di protein kinasi che modulano positivamente l’attivazione di CREB, con conseguente aumento della sintesi di BDNF e di molecole antiapoptotiche della famiglia delle Bcl-2 (Nibuya et al., 1996; Thome et al., 2000).

Fig.7

Questi aspetti riassunti in figura 7, dimostrano che il funzionamento degli antidepressivi va ben oltre la semplice modulazione delle concentrazioni monaminergiche: il risultato finale è infatti un aumento dell’attività post sinaptica che si traduce in potenziamento dei meccanismi

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di plasticità neuronale, sopravvivenza, cellulare, neurogenesi: ovvero la regolazione delle neurotrofine.

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Lo scopo di questo lavoro è stato lo studio di alcuni meccanismi molecolari coinvolti nell’insorgenza della MDD in un modello sperimentale di IRC.

Evidenze epidemiologiche attestano infatti che pazienti con IRC manifestano un’alta incidenza di episodi depressivi.

Alla luce delle recenti acquisizioni circa l’eziopatogenesi della MDD e del ruolo ricoperto dalle neurotrofine, abbiamo accentrato le nostre valutazioni sulle variazioni di BDNF in un modello animale di IRC su ratto.

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