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IL PROCESSO TRIBUTARIO

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IL PROCESSO TRIBUTARIO

Milano, 18 febbraio 2015

IL RICORSO PER CASSAZIONE Avv. Prof. Mariacarla Giorgetti

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SOMMARIO: 1. CENNI INTRODUTTIVI (PAG. 1). – 2. MODIFICHE APPORTATE ALLE DISPOSIZIONI DEL C.P.C. IN TEMA DI RICORSO PER CASSAZIONE. (PAG. 3). 3.

ILLUSTRAZIONE DEI MOTIVI (PAG.4).–3.1.LA REDAZIONE DEL RICORSO (PAG.8).–4.IL CONTRORICORSO IN CASSAZIONE E IL RICORSO INCIDENTALE (PAG. 13). – 4.1. LA FASE DECISORIA (PAG.14).–4.2.L’EVENTUALE FASE DI SOSPENSIONE, EX ART.373 C.P.C.(PAG. 16).–5.L’EVENTUALE FASI DI RINVIO (PAG.17).–5.1.CRITICITÀ (PAG.20).

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1. Cenni introduttivi.

Ai sensi dell’art. 62 del D. Lgs. n. 546/1992, avverso le sentenze delle Commissioni Tributarie Regionali è possibile proporre ricorso per cassazione.

Come noto, infatti, anche nel processo tributario, oltre ai due gradi di merito, è prevista la possibilità di ricorrere alla Suprema Corte di Cassazione per motivi di legittimità di cui all’art. 360 c.p.c.

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Anche in ambito tributario, perciò, il ricorso per cassazione è un mezzo di gravame a critica vincolata per uno degli specifici motivi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1 – 5 , c.p.c.

Funzione precipua del giudizio di cassazione è quello di eliminare i c.d. “errores in procedendo” (errori nello svolgimento del giudizio) e/o i c.d. “errore in iudicando”

(errori nell’applicazione delle norme di diritto o nell’iter logico seguito dal Collegio giudicante).

Nel processo tributario, diversamente da giudizio civile, non è previsto il ricorso “per saltum” avverso le sentenze delle Commissioni Tributarie Provinciali, “omisso medio”, atteso che l’art. 62 del D. Lgs. n. 546/19992 non richiama l’art. 360, comma 2, c.p.c.

Anche il ricorso per cassazione, avverso una sentenza della Commissione Tributaria Regionale, al pari del giudizio civile, giusta il disposto dell’art. 365 c.p.c., deve essere sottoscritto da un avvocato munito di procura speciale ed iscritto nell’apposito albo il ricorso per cassazione, a pena di inammissibilità del ricorso stesso. A mente del successivo art. 366 del c.p.c. il ricorso per cassazione deve contenere, sempre a pena di inammissibilità dello stesso, l’indicazione delle parti, della sentenza o della decisione impugnata1, la sommaria esposizione dei fatti di causa (necessario per assolvere, tra l’altro, al principio di c.d. autosufficienza del ricorso per cassazione), gli specifici motivi di ricorso secondo quanto stabilito dall’art. 366-bis c.p.c., l’indicazione della procura e la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda.

1 Alcuni in dottrina ritengono che sia possibile proporre ricorso per cassazione anche avverso le ordinanze e i decreti della Commissione Tributaria Regionale ma con contenuto decisorio, cfr., M. Finocchiaro,

“Commentario al nuovo contenzioso tributario”, Milano, 1996, pag. 836.

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Il giudizio di Cassazione si svolge, diversamente dai due gradi di merito, senza una fase

“istruttoria”, che si avvia con la notifica2 di un ricorso che poi dovrà essere depositato, a cura dell’Attore, a pena di improcedibilità3, ex art. 369 c.p.c., nella cancelleria della Suprema Cortenel termine di giorni venti dall'ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto.

L’attore dovrà depositare il proprio ricorso unitamente agli atti e documenti sui quali il ricorso si fonda. Anche nel giudizio di cassazione non è ammessa la produzione di atti e documenti che non siano già stati prodotti nei precedenti gradi di giudizio ad eccezione dei quelli concernenti la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso.

La fase di cassazione, poi, in assenza di una specifica disciplina dettata dal D. Lgs. n.

546/1992, sarà regolata dalle disposizioni del codice di rito e ciò, tra l’altro, per quanto riguarda il luogo e modo delle notificazioni e delle comunicazioni.

Con la legge 69 del 2009 e successive modifiche e integrazioni sono state apportate modifiche significative anche alle disposizioni che disciplinano il ricorso in Cassazione.

E’ stato definitivamente abrogato l’art. 366 bis c.p.c., in punto di quesito di diritto e, per contro è stato introdotto l’art. 360 bis c.p.c., che prevede il c.d. “filtro” in Cassazione, consistente in un esame preliminare di ammissibilità dei ricorsi delegato ad un collegio composto da magistrati di provenienza delle diverse sezioni.

2 Il ricorso per cassazione, giusta il disposto dell’art. 51 del D. Lgs. n. 546/1992 dovrà essere notificato alla controparte entro 60 giorni dalla notifica della sentenza, oppure, in assenza di notifica, entro il termine di sei mei dal giorno del deposito della sentenza in CTR.

3 Improcedibilità che può essere rilevata anche d’ufficio stante il carattere perentorio del termine.

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2. MODIFICHE APPORTATE ALLE DISPOSIZIONI DEL C.P.C. IN TEMA DI RICORSO PER CASSAZIONE.

Le modifiche al processo in Cassazione:

Art. 360 bis c.p.c. - Inammissibilità del ricorso.

Il ricorso è inammissibile:

1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa;

2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo.

La nuova legge ha apportato modifiche significative anche alle disposizioni che disciplinano il ricorso in Cassazione.

E’ ormai certa l’abrogazione dell’art. 366 bis c.p.c., in punto di quesito di diritto.

La legge, ha, per contro, introdotto l’art. 360 bis c.p.c., che prevede il c.d. “filtro” in Cassazione, consistente in un esame preliminare di ammissibilità dei ricorsi delegato ad un collegio composto da magistrati di provenienza delle diverse sezioni.

Il testo della nuova disposizione enuncia che il ricorso è dichiarato inammissibile in due ipotesi:

-) quando il provvedimento impugnato ha deciso questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa (art. 360 bis n.1 c.p.c.);

-) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo ( art. 360 bis n. 2 c. p.c.).

Art. 366 bis c.p.c. - Formulazione dei motivi. (articolo abrogato)

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Nei casi previsti dall'articolo 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4), l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall'articolo 360, primo comma, n. 5), l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Con la riforma, come anticipato, è definitivamente espunto dal Codice di procedura civile l’art. 366 bis c.p.c., che stabilisce l’inammissibilità del ricorso per mancanza della formulazione del quesito di diritto con cui deve concludersi il motivo nei casi previsti dall’art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3), e 4) c.p.c.

Onde coordinare il testo della legge, la riforma modifica anche l’art. 375, n. 5, c.p.c., eliminando da quest’ultimo il riferimento alla decisione in camera di consiglio in presenza di ricorso inammissibile per difetto dei requisiti previsti dall’art. 366 bis c.p.c.

L’art. 366 bis c.p.c., nella prospettiva del legislatore, avrebbe dovuto guidare la S.C.

nell’individuare immediatamente l’oggetto del ricorso e nel verificare più rapidamente la conformità del medesimo o meno rispetto ai propri orientamenti di legittimità, oltre a contenere la tendenza di molti avvocati a trasformare il giudizio di cassazione in una terza istanza, dovendo tradurre il motivo di ricorso in un preciso quesito da sottoporre alla Corte nel rispetto delle ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c., nn. 1-5.

L’istituto, tuttavia, si è rivelato fonte di notevole confusione ed incertezza interpretativa.

La giurisprudenza della stessa S.C. ha assunto, nel tempo, posizioni divergenti.

Nell’intento originario del legislatore e nell’interpretazione in principio espressa dai giudici di legittimità, doveva essere dichiarato inammissibile solo il ricorso che non

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recasse la formulazione di un quesito di diritto o che fosse provvisto di quesito assolutamente generico (così Cass. Civ., S.U., n. 36/2007).

In seguito, tuttavia, numerose e diverse questioni interpretative circa il quesito di diritto furono sollevate nella prassi e dalla dottrina, obbligando la S.C. ad intervenire ripetutamente sull’argomento, onde porre ordine nella materia senza, peraltro, mai davvero riuscire a sopire la questione e, talvolta, elaborando indirizzi giurisprudenziali non sempre convergenti.

Basta scorrere alcuni dei principali arrêtes della S.C. in punto per rendersi conto dell’incertezza regnante in materia.

In un primo momento, la S.C. ha enunciato che il quesito non può essere unico, ma deve essere formulato separatamente rispetto a ciascuna censura formulata (Cass. n.

27130/2006).

Successivamente, la S.C. ha ulteriormente precisato che il quesito multiplo è inammissibile perché richiede che l'attività della parte di redazione del quesito di diritto sia integrata con un intervento interpretativo della Corte, che sconfinerebbe facilmente nella manipolazione o nella correzione (Cass. n. 1906/2008).

Il quesito di diritto, ancora, per la S.C. deve essere esplicito ed individuabile come tale e non deve essere dedotto in via implicita dal complessivo contenuto argomentativo del motivo, seppur sia, comunque, riconosciuta libertà di forma e di collocazione del quesito (Cass., S.U., n. 7258/2007).

I giudici di legittimità hanno anche enunciato che il quesito non può consistere in una domanda che si risolva in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell'interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la corte

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di cassazione in condizione di rispondere al quesito con l'enunciazione di una regola iuris (principio di diritto) che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all'esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Cass. S.U., n. 2658/2008).

Il quesito di diritto, nello stesso tempo, seppur idoneo a consentire l’enunciazione dell’astratta regula iuris, deve essere specifico e conferente rispetto alla fattispecie, al motivo di ricorso ed al vizio della sentenza dedotto con il motivo medesimo (Cass. S.U., n. 36/2007).

Sennonché non vi è perfetta specularità quesito giuridico ed enunciazione del principio di diritto da parte della S.C,, atteso che l'art. 384 c.p.c. prevede la pronuncia del principio di diritto solo in relazione ai motivi di ricorso di cui al n. 3 dell'art. 360 (violazione e falsa applicazione di norme, ecc.); mentre quando risolve questioni poste ai sensi dei dell'art. 360, nn. 1, 2 e 4, c.p.c., l'enunciazione del principio è facoltativa e legata solo alla "particolare importanza" della questione decisa .

In un primo momento, altresì, parve alla S.C. di dover estendere l’onere di formulazione ad ogni altro ricorso alla S.C. che avesse natura impugnatoria (es: il ricorso per motivi di giurisdizione ex art. 362, primo comma, avverso le decisioni di giudice speciali.

Cass., S.U., n. 7258/2007, cit.).

Successivamente, invece, è stato chiarito che l’art. 366 bis c.p.c. si estende anche a ricorsi diversi da quello ordinario, e in particolare al ricorso per regolamento di competenza, al ricorso per revocazione, ai ricorsi avverso le decisioni dei Giudici speciali per motivi attinenti alla giurisdizione e ai ricorsi in materia elettorale, mentre non si applica invece al regolamento preventivo di giurisdizione, che tecnicamente non è un’impugnazione.

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La frammentata prassi giurisprudenziale sin qui solo sommariamente rammentata rende evidente il fallimento di un istituto di cui erano buone e condivisibili le finalità, ma stritolato ed irrigidito, sino alla paralisi, da un eccessivo formalismo.

Art. 375 c.p.c. - Pronuncia in camera di consiglio.

La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio quando riconosce di dovere:

1) dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall’articolo 360;

2) ordinare l'integrazione del contraddittorio o disporre che sia eseguita la notificazione dell'impugnazione a norma dell'articolo 332 ovvero che sia rinnovata;

3) provvedere in ordine all'estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia;

4) pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione;

5) accogliere o rigettare il ricorso principale e l’eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza.

La riforma è intervenuta anche sulle ipotesi di pronuncia in camera di consiglio da parte della Corte di cassazione.

La nuova legge ha sostituito i casi previsti dall’art. 375 n. 1 e 5 c.p.c. I casi previsti dall’art. 375 n. 2, 3, 4 c.p.c. sono, invece, rimasti i medesimi previsti dal vigente art.

375 c.p.c.

L’art. 375 c.p.c. stabilisce, ora: -) al n. 1, che la Corte, sia a sezioni unite che a sezioni semplici, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio quando riconosce di dovere dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c.;

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-) al n. 2, che la stessa cosa avviene quando è occorre accogliere o rigettare il ricorso principale e l’eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza.

La norma è stata ritoccata per adattarne il contenuto al nuovo filtro di ammissibilità.

Anzitutto, scompare il riferimento al difetto dei requisiti previsti all’art. 366 bis c.p.c., contemplato al n. 5 dell’art. 375 c.p.c., quale ipotesi di declaratoria di inammissibilità del ricorso in camera di consiglio: ciò in ragione dell’abrogazione dell’art. 366 bis c.p.c.

e dell’istituto del quesito di diritto.

Il difetto dell’indicazione dei motivi di cui all’art. 360 c.p.c., invece, trasmigra al n. 1 dell’art. 375 c.p.c.

Art. 376 c.p.c. - Assegnazione dei ricorsi alle Sezioni.

Il primo presidente, tranne quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5).

Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all’assegnazione alle sezioni semplici.

La parte, che ritiene di competenza delle Sezioni unite un ricorso assegnato a una Sezione semplice, può proporre al primo presidente istanza di rimessione alle Sezioni unite, fino a dieci giorni prima dell'udienza di discussione del ricorso.

All'udienza della Sezione semplice, la rimessione può essere disposta soltanto su richiesta del pubblico ministero o d'ufficio, con ordinanza inserita nel processo verbale.

L’articolo 47, comma 2 della legge 69/2009 recita:

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All’ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, dopo l’articolo 67 è inserito il seguente:

«ART. 67‐bis. – (Criteri per la composizione della sezione prevista dall’articolo 376 del codice di procedura civile).

A comporre la sezione prevista dall’articolo 376, comma 1, del codice di procedura civile, sono chiamati, di regola, magistrati appartenenti a tutte le sezioni».

L’art. 376, co. 1, c.p.c., come modificato, consacra la prassi già invalsa, presso la Corte di cassazione, ed alla cui stregua un gruppo designato di magistrati si occupa dell’esame preliminare dei ricorsi, onde scremare quelli che possono essere decisi in camera di consiglio mediante la procedura semplificata.

Ciò è reso evidente anche dalla novellazione del T.U. sull’ordinamento giudiziario, che vede l’introduzione di un nuovo art. 67 bis, il quale stabilisce che la sezione prevista dall’art. 376 c.p.c. (quella che in gergo è chiamata “struttura”) è composta da magistrati appartenenti a tutte le sezioni, con ciò formalizzando l’esistenza di un apposito collegio a ciò deputato.

L’art. 376, co. 1, c.p.c. prevede, invero, che il primo presidente, tranne quando ricorrono le condizioni previste dall’art. 374 c.p.c. e, cioè, quando la Suprema Corte si pronuncia a Sezioni Unite, assegna i ricorsi ad un’apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375, primo comma, n. 1) e 5) c.p.c. Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all’assegnazione alle sezioni semplici.

Art. 380 bis c.p.c. - Procedimento per la decisione sull’inammissibilità del ricorso e per la decisione in camera di consiglio.

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Il relatore della sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, se appare possibile definire il giudizio ai sensi dell’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia.

Il presidente fissa con decreto l’adunanza della Corte. Almeno venti giorni prima della data stabilita per l’adunanza, il decreto e la relazione sono comunicati al pubblico ministero e notificati agli avvocati delle parti, i quali hanno facoltà di presentare, il primo conclusioni scritte, e i secondi memorie, non oltre cinque giorni prima e di chiedere di essere sentiti, se compaiono.

Se il ricorso non è dichiarato inammissibile, il relatore nominato ai sensi dell’articolo 377, primo comma, ultimo periodo, quando appaiono ricorrere le ipotesi previste dall’articolo 375, primo comma, numeri 2) e 3), deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione dei motivi in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio e si applica il secondo comma.

Se ritiene che non ricorrono le ipotesi previste dall’articolo 375, primo comma, numeri 2) e 3), la Corte rinvia la causa alla pubblica udienza.

La legge di riforma delinea un nuovo procedimento in camera di consiglio per l’esame preliminare di ammissibilità/inammissibilità dei ricorsi, al nuovo art. 380 bis c.p.c.

La riforma sostituisce integralmente l’art. 380 bis c.p.c. oggi vigente.

L’esame circa l’ammissibilità dello stesso è compiuto deciso dalla Suprema Corte in camera di consiglio con ordinanza non impugnabile, da un apposito collegio composto da magistrati appartenenti a tutte le sezioni.

La norma si occupa, anzitutto, delle ipotesi in cui il ricorso è giudicato inammissibile.

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Il relatore della sezione di cui all’art. 376, co. 1, c.p.c., se appare possibile definire il giudizio ai sensi dell’art. 375, co. 1, nn. 1) e 5) c.p.c., ossia con una pronuncia di inammissibilità, deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia. Il presidente fissa con decreto l’adunanza della Corte.

Il decreto e la relazione che giustificano l’inammissibilità del ricorso devono essere comunicati, almeno venti giorni prima dalla data stabilita per l’adunanza, al pubblico ministero e notificati agli avvocati delle parti, i quali hanno la facoltà di presentare il primo conclusioni scritte, e i secondi memorie, entro cinque giorni dall’adunanza, e di chiedere di essere sentiti, se compaiono.

Tale procedura, nota anche con il nome di “opinamento”, consente a tutte le parti coinvolte di poter interloquire prima che la S.C., in camera di consiglio, emetta la pronuncia di inammissibilità, con tutte le conseguenze del caso, tra cui in primis il passaggio in giudicato della decisione impugnata.

Come sì è appena illustrato, i difensori delle parti, oltre a presentare memorie, hanno anche la possibilità di chiedere di essere sentiti: se tali adempimenti non saranno intesi come inutili orpelli formalistici, è evidente l’importanza che tale snodo processuale può assumere nel consentire alla Corte di sfrondare i ricorsi manifestamente inammissibili, e volti a reintrodurre surrettiziamente un terzo grado di merito, dai ricorsi veramente meritevoli di passare al vaglio dei giudici di legittimità.

Starà alla bravura ed alla capacità di persuasione dei difensori dimostrare che il ricorso è meritevole di essere assegnato ad una sezione per l’esame e la decisione dello stesso.

E deve, altresì, desumersi che se il ricorso supera tale vaglio, successivamente non sarà più possibile, per la sezione, rigettarlo per inammissibilità.

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Deve reputarsi che il vaglio preliminare compiuto dal collegio finisca con l’includere anche l’esame degli altri eventuali motivi di inammissibilità di cui agli artt. 365, 366 e 371 c.p.c., atteso che la nuova formulazione dell’art. 380 bis c.p.c. sembra includere - e, così, chiudere - ogni questione relativa al vaglio di ammissibilità del ricorso.

L’art. 380 bis, co. 3, c.p.c. si occupa degli altri caso di decisione del ricorso con la procedura semplificata in camera di consiglio per ragioni particolarmente lampanti di ammissibilità e che rendono, comunque, superflua la procedura ordinaria.

Prevede, infatti, la norma, che se il ricorso non è dichiarato inammissibile, il relatore nominato ai sensi dell’art. 377, co. 1, ultimo periodo, quando appaiono ricorrere le ipotesi previste dall’art. 375, co. 1, nn. 2) e 3), deposita in cancelleria una relazione con la coincisa esposizione dei motivi in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio, e si applica il secondo comma dell’art. 380 bis c.p.c: si tratta delle ipotesi in cui è necessario ordinare l'integrazione del contraddittorio o disporre che sia eseguita la notificazione dell'impugnazione a norma dell'articolo 332 ovvero che la stessa sia rinnovata; oppure delle ipotesi in cui si debba provvedere in ordine all'estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia.

Il n. 4, dell’art. 375 c.p.c., relativo alle istanze di regolamento di giurisdizione o di competenza non è espressamente richiamato dall’art. 380 bis c.p.c. novellato per la semplice ragione che tali istituti hanno una loro propria natura e disciplina che li differenzia dalla generalità dei ricorsi per cassazione (cfr. artt. 47 e ss. c.p.c.).

La Corte, infine, se ritiene che non ricorrono le ipotesi previste dall’art. 375, primo comma, nn. 2) e 3) c.p.c., rinvia la causa alla pubblica udienza ( art. 380 bis co. 4 c.p.c.).

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14 2. Illustrazione dei motivi.

Come sopra sinteticamente illustrato i motivi di ricorso sono divisi in “errores in procedendo”, ossia quelli determinati da una erronea applicazione della legge processuale e che si indentificano con i casi di cui all’art. 360, comma 1, n. 1, n. 2, n. 4 e n. 5, ove la Suprema Corte per l’analisi di tali censure sarà anche giudice del fatto, e i c.d. “errores in iudicando” che vengono identificati con il motivo di ricorso di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.4

A mente dell’art. 360 c.p.c., “Le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione:

1) per motivi attinenti alla giurisdizione;

2) per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza;

3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro;

4) per nullità della sentenza o del procedimento;

5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.”

Alla luce di quanto sopra possono essere impugnate le sentenze emanate dalle Commissioni Tributarie Regionali con ricorso per Cassazione soltanto per motivi attinenti alla giurisdizione (cfr. n. 1), per violazione delle norme sulla competenza (cfr.

n. 2), per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (cfr. n. 3), per nullità della sentenza o del procedimento (cfr. n. 4), per omessa, insufficiente o contraddittoria

4 Nunzio Santi di Paola, “Contenzioso Tributario – Commento sistematico e giurisprudenza del D. Lgs. n.

546/1992 nel testo vigente”, Maggioli Editore, 2011, pag. 1443.

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motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio (cfr. n. 5).

Mentre non si registrano particolari problemi interpretativi per quanto concerne i punti nn. 1 e 2 dell’art. 360 c.p.c., qualche parola in più si ritiene opportuno spendere per i successivi punti.

Con particolare riguardo al punto n. 3 di cui all’art. 360 c.p.c., giova evidenziare che la Suprema Corte ha chiarito la natura ed efficacia delle circolari emanate dall’Agenzia.

In particolare, il Supremo Collegio ha statuito che “Le circolari della p.a. sono atti interni destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l'attività degli organi inferiori e, quindi, hanno natura non normativa, ma d'atti amministrativi, sicché la loro violazione non è denunciabile in cassazione ai sensi del comma 1, n. 3, dell'art. 360 c.p.c.” (Cass. 30.5.2005, n. 11449).

In buona sostanza, è possibile ritenere che le circolari dell’Amministrazione Finanziaria hanno natura non normativa, in quanto si tratta di atti amministrativi, ma documenti interni destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l’attività degli organi inferiori.

Di talché. le Commissioni Tributarie possono legittimamente non uniformarsi a quanto ritenuto dall’Amministrazione nelle circolari ed risoluzioni da esse emanate; ne consegue che la violazione delle stesse da parte delle Commissioni Tributarie non è, ai sensi dell’art. 360, co. I, n. 3, c.p.c., motivo di ricorso per Cassazione per asserita violazione di legge.

Altro aspetto non secondario attiene a quanto disciplinato dal n. 4 dell’art. 360 c.p.c., ovvero se possa proporsi gravame per abuso di diritto in virtù della citata norma di legge.

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Sul punto, la sentenza dirimente è la Sezioni Unite del 2006, poi confermata nel 2008, a mente della quale “Il potere-dovere del giudice di conformarsi al diritto comunitario nella decisione della controversia comporta la necessaria disapplicazione delle regole processuali di diritto interno che, precludendo in sede di legittimità l’esame di questioni non specificamente dedotte dal ricorrente e l’introduzione di nuove questioni di fatto, impediscono la piena applicazione delle norme comunitarie” (Cass., S.U., 18.12.2006, n. 26948).

In altri termini, il Supremo Collegio mette in evidenza che la fattispecie di abuso del diritto ha assunto rango comunitario e ciò comporta l’obbligo della sua applicazione d’ufficio a prescindere da specifiche deduzioni di parte, anche per la prima volta nel giudizio di cassazione; pertanto rientra nel su indicato n. 4) anche la fattispecie di abuso del diritto.

2.1. La redazione del ricorso.

Quanto alle modalità di redazione ed esposizione dei motivi, i Giudici di Legittimità hanno oramai fornito attraverso le proprie sentenze un vero e proprio vademecum, indicando, sia come devono essere redatti per superare il filtro di inammissibilità, sia quali atti devono essere allegati.

Interessante, in tal senso, è quanto statuito dalla Suprema Corte in un recente arresto a mente della quale “In tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all'art.

366, n. 3, c.p.c., la pedissequa riproduzione dell'intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in

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quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso. (Nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso articolato con la tecnica dell'assemblaggio, mediante riproduzione integrale in caratteri minuscoli di una serie di atti processuali: sentenza di primo grado, comparsa di risposta in appello, comparsa successiva alla riassunzione a seguito dell'interruzione, sentenza d'appello ove mancava del tutto il momento di sintesi funzionale, mentre l'illustrazione dei motivi non consentiva di cogliere i fatti rilevanti in funzione della comprensione dei motivi stessi)” (Cass., S.U., 11.4.2012, n. 5698).

In buona sostanza, il Supremo Collegio ha chiarito che nel ricorso per Cassazione gli atti del giudizio di merito non possono essere trascritti integralmente, altrimenti si viola il principio di autosufficienza.

Fondamentale quindi per l’avvocato è sapere sintetizzare fatti e giudizi.

Precisazione non di poco conto se si considera che, prima del 2006, la legge non prevedeva che nel ricorso per Cassazione dovessero essere indicati specificamente gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fondava, ma solo che il ricorrente depositasse, entro 20 giorni dalla notifica del ricorso, gli atti e i documenti.

Questo, però, non aveva impedito alla Cassazione - nel corso degli anni, a partire dalla sentenza n. 5656 del 1986, di formulare un principio nuovo, definito come

“autosufficienza del motivo di impugnazione”, con il quale sono state richieste indicazioni sempre più precise e puntuali per arrivare alla decisione solo leggendo il ricorso e senza dover ripercorrere a ritroso, tutti gli atti dei precedenti gradi di giudizio.

I ricorsi ritenuti dalla Corte non autosufficienti sono stati dichiarati inammissibili.

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Con il risultato che spesso, gli avvocati – per la paura di incorrere nella inammissibilità – finivano con il redigere ricorsi sempre più lunghi e complessi, che appesantivano il lavoro dei giudici.

Di fatto il principio della “sommaria esposizione dei fatti di causa”, per paura di sbagliare, è stato soddisfatto da molti avvocati allegando all’istanza in Cassazione, l’intero ricorso di primo grado e tutti gli atti successivi, tanto da rendere difficile individuare la materia del contendere.

Ora, invece, le Sezioni Unite hanno definitivamente chiarito che costituisce onere del ricorrente fare una sintesi in modo da permettere la piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata, solo leggendo il ricorso.

Inoltre la pedissequa riproduzione di tutti gli atti processuali è, per un verso, superflua, per altro verso, non è idonea a sostituire la sintetica esposizione dei fatti, poiché, hanno spiegato i giudici, “equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non serve affatto che sia informata), la scelta di quello che rileva davvero in relazione ai motivi di ricorso”.

Al contrario, la testuale riproduzione (in tutto o in parte) degli atti e dei documenti è richiesta quando si ritiene che la sentenza di merito sia censurabile per non averne tenuto conto, e che se lo avesse fatto, la decisione sarebbe stata diversa: in questo caso la Cassazione deve verificare che quanto il ricorrente afferma trovi effettivo riscontro negli atti, ma non è tenuta a cercarli e a leggerli nella loro interezza.

Con altra pronuncia, sempre le Sezioni Unite avevano statuito che nel processo tributario in Cassazione “la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, comma 2, d.lg. 31 dicembre 1992 n. 546 restano acquisiti al fascicolo d'ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente

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non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d'ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla S.C. ex art. 369, comma 3, c.p.c., a meno che predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte” (Cass., S.U., 3.11.2011, n. 22726).

In altri termini, l’obbligo di allegare gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda non sussiste, in quanto, per questi ricorsi le parti non dispongono dei fascicoli.

Il ricorrente quindi non deve produrre il proprio fascicolo, che si trova nel fascicolo d’ufficio di cui deve chiedere la trasmissione da parte delle commissioni tributarie.

La selezione di ciò che integralmente rileva in funzione della pedissequa riproduzione, nonché la esposizione sommaria dei fatti di causa, entrambe correlate ai motivi di ricorso, vanno insomma fatte per la Cassazione dal difensore del ricorrente che, per essere iscritto nell’albo degli avvocati cassazionisti ha l’esperienza e la competenza necessarie per un compito di sintesi, non delegabile.

3. Il controricorso in Cassazione e il ricorso incidentale.

La parte verso alla quale è stato notificato il ricorso per cassazione, se intende contraddire, giusta il disposto dell’art. 370 c.p.c., deve farlo mediante un controricorso, che deve essere notificato al ricorrente nel domicilio eletto per la fase di cassazione, entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso.

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Qualora la controparte non presenti il controricorso potrà partecipare all’udienza di discussione orale ma non svolgere attività difensiva (deposito di memorie).

Nel controricorso la parte resistente chiederà il rigetto del ricorso principale esponendo, similmente al ricorso principale, giusta il richiamo contenuto nell’art. 370, comma 2, c.p.c. all’art. 365 e 366 del c.p.c., le ragioni per le quali il ricorso non deve essere accolto.

Il controricorso deve essere notificato nel domicilio eletto dal ricorrente entro venti giorni dalla scadenza, per il ricorrente, per il deposito del ricorso principale, ossia, in altre parole, entro quaranta giorni dalla notifica del ricorso stesso.

Nei venti giorni successivi alla notifica del controricorso, poi, il resistente dovrà – a pena di improcedibilità – depositare presso la cancelleria della Suprema Corte, il proprio controricorso insieme con gli atti e documenti e con la procura speciale, se conferita con atto separato.

Il resistente nel proprio controricorso, oltre a prendere posizione sui motivi di ricorso proposti dal ricorrente principale, ai sensi dell’art. 371, comma 1, c.p.c., se anch’esso vuole impugnare tale sentenza, potrà proporre ricorso incidentale. In siffatta ipotesi il ricorrente principale potrà, a sua volta, proporre controricorso avverso il ricorso incidentale proposto dal resistente, secondo la scansione temporale sopra descritta.

Infine è possibile, per il resistente, proporre ricorso incidentale condizionato, nell’ipotesi in cui il resistente voglia impugnare la sentenza solo nell’ipotesi in cui venga accolto il ricorso principale e subordinatamente a detto accoglimento.

Ciò che può accadere allorquando, il resistente è risultato vincitore nel merito della controversia ma soccombente su alcune questioni preliminari e/o pregiudiziali.

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21 3.1. La fase decisoria.

Con il deposito del ricorso e dell’eventuale controricorso, la cancelleria della Cassazione trasmette gli atti al primo presidente, il quale ai sensi dell’art. 376 c.p.c., assegnerà il ricorso alla c.d. “sezione filtro”, che verificherà la sussistenza dei presupposti per la decisione in camera di consiglio (art. 375 c.p.c.) od a sezioni unite (art. 374 c.p.c.).

In tutte le atre ipotesi detta sezione rimetterà gli atti al primo presidente che procederà all’assegnazione del ricorso alle sezioni semplici.

Una volta fissata l’udienza questa verrà comunicata, ai difensori delle parti costituite, almeno venti giorni prima dell’udienza (art. 377 c.p.c.) e gli stessi potranno predisporre una memoria scritta da depositare in cancelleria non oltre cinque giorni prima dell’udienza (art. 378 c.p.c.).

All’udienza così fissata il Giudice relatore riferirà i fatti rilevanti per la decisione, il contenuto della sentenza impugnata e i motivi del ricorso e del controricorso.

Dopo di che il Presidente invita le parti svolgere le loro difese.

Infine il pubblico ministero espone – oralmente – le sue conclusioni.

Nel corso dell’udienza non sono ammesse repliche, ma i difensori delle parti possono, sempre nel corso di tale udienza, presentare alla Corte brevi osservazioni scritte sulle conclusioni rassegnate dal pubblico ministero.

Salvi i casi in cui la Corte ritenga di decidere in camera di consiglio, decisioni che vengo assunte con ordinanza, la decisione della Suprema Corte avverrà con sentenza e all’esito della discussione in pubblica udienza.

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3.2. L’eventuale fase di sospensione, ex art. 373 c.p.c.

Come noto la proposizione del giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 373 c.p.c., non sospende la fase l’esecuzione della sentenza. Tuttavia è previsto che lo stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata possa disporre con ordinanza non impugnabile, su istanza di parte e valutato il grave pregiudizio discendente dall’esecuzione della sentenza stessa, che l’esecuzione della sentenza sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione.

La dottrina e la stessa Amministrazione finanziaria hanno da sempre ritenuto inapplicabile al giudizio tributario la previsione di cui all’art. 373 c.p.c.5.

Anche la giurisprudenza di merito, in più occasioni, ha stabilito che non si applichi al giudizio tributario il disposto di cui all’art. 373 c.p.c.

Altra parte della dottrina6 e della giurisprudenza7, invece, ritiene applicabile, anche al giudizio tributario, l’art. 283 e l’art. 373 c.p.c.

Si ritiene che, come sottolineato da attenta dottrina, sarebbe necessario un intervento normativo sul punto, così da eliminare le divergenti soluzioni assunte, in particolare, dalla giurisprudenza di merito8.

5 Capolupo, “Sospensione cautelare. Una questione ancora aperta, in Il fisco, n. 32/2001, 10850; Tesauro,

“La tutela cautelare nel procedimento di appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale, in Boll.

Trib., 1999, 1733; Agenzia delle Entrate, circolare n. 73 del 31 luglio 2001, in il fisco, n. 31/2001, 10653.

6 P. Russo, “Manuale di diritto tributario”, Milano, 1999, 514

7 CTR Genova, sez. VI, 31 maggio 1999; CTR Trieste, sez. X, 16 dicembre 1999, n. 15.

8Nunzio Santi di Paola, “Contenzioso Tributario – Commento sistematico e giurisprudenza del D. Lgs. n.

546/1992 nel testo vigente”, cit., pag. 1533.

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23 4. L’eventuale fase di rinvio.

A mente dell’art. 63 de D.Lgs. n. 546/1992, “1. Quando la Corte di Cassazione rinvia la causa alla Commissione Tributaria provinciale o regionale la riassunzione deve essere fatta nei confronti di tutte le parti personalmente entro il termine perentorio di un anno dalla pubblicazione della sentenza nelle forme rispettivamente previste per i giudizi di primo e di secondo grado in quanto applicabili.

2. Se la riassunzione non avviene entro il termine di cui al comma precedente o si avvera successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio l'intero processo si estingue.

3. In sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti alla Commissione Tributaria a cui il processo è stato rinviato. In ogni caso, a pena d'inammissibilità, deve essere prodotta copia autentica della sentenza di Cassazione.

4. Le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza cassata e non possono formulare richieste diverse da quelle prese in tale procedimento, salvi gli adeguamenti imposti dalla sentenza di Cassazione.

5. Subito dopo il deposito dell'atto di riassunzione, la segreteria della Commissione adita richiede alla cancelleria della Corte di Cassazione la trasmissione del fascicolo del processo”.

L’art. 63 del D. Lgs. n. 546/1992 disciplina i casi in cui la Suprema Corte, accogliendo il ricorso abbia rinviato per la decisione al giudice di merito.

L’introduzione del giudizio di rinvio avviene mediante riassunzione del giudizio avanti alla Commissione Tributaria a cui la Suprema Corte abbia disposto il rinvio, entro il

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termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza della Suprema Corte di cassazione.

L’atto di riassunzione dovrà seguire le forme del giudizio da riassumere e, pertanto, nel giudizio tributario, mediante ricorso, da notificare alla controparte e da depositarsi avanti alla Commissione Tributaria competente.

La segreteria della Commissione Tributaria in cui è stato depositato l’atto in riassunzione richiederà alla cancelleria della Suprema Corte la trasmissione del fascicolo del giudizio.

Tale fase seguirà le regole dettate per il giudizio ordinario avanti alla Commissione Tributaria Provinciale o Regionale adita che integra una nuova ed autonoma fase di giudizio di natura rescissoria che si concluderà con una sentenza che, senza sostituirsi ad altra pronuncia, statuirà direttamente sulle domande proposte dalle parti, benché le parti, anche nel giudizio di rinvio, conservano le stesse posizioni processuali che avevano nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza cassata, non potendo formulare richieste diverse da quelle già proposte in detto procedimento.

Alle parti è fatto divieto proporre nuovi documenti, salvo che la parte non abbia potuto produrli per causa di forza maggiore.

Le parti, perciò, nel giudizio di rinvio non potranno rassegnare conclusioni diverse da quelle già rassegante nel precedente giudizio di merito, salvo che detta necessità non sia sorta proprio a seguito della sentenza di cassazione.

Tale giudizio di rinvio si definirà con sentenza che dovrà coordinarsi (quanto al contenuto) con la sentenza della Suprema Corte di cassazione.

Se la Suprema Corte abbia disposto il rinvio per violazione delle norme di diritto, il giudice dovrà attenersi, nella sua decisione, al principio di diritto enunciato nella

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sentenza rescindente, mentre qualora la Suprema Corte abbia rinviato ad altro giudice per vizi di motivazione allora, in generale, il giudice del rinvio avrà la stessa pienezza dei poteri che aveva il giudice che ha pronunciato la sentenza cassata.

Infine si osserva che la sentenza del giudice di rinvio sarà soggetta ai normali mezzi di impugnazione previsti per tale grado.

Infine, il comma quinto dell’articolo in commento si chiude con una disposizione che riguarda specificamente un aspetto di meccanica processuale.

Esso, infatti, impone alla segreteria del giudice di rinvio di richiedere alla cancelleria della Corte, subito dopo il deposito dell’atto di riassunzione, il fascicolo del processo.

4.1. Criticità.

La disposizione di cui all’art. 63, co. II, del D.Lgs. n. 546/1992, in tema di ricorso per Cassazione, testualmente dispone che “Se la riassunzione non avviene entro il termine di cui al comma precedente o si avvera successivamente una causa di estinzione del giudizio di rinvio, l'intero processo si estingue”.

Detta norma è altamente penalizzante in materia tributaria, poiché l’estinzione dell’intero processo determina, automaticamente, la definitività dell’atto amministrativo impugnato (avviso di accertamento, di rettifica, cartella esattoriale ecc.), senza possibilità di potersi avvalere dell’art. 310, co. I, c.p.c., perché il breve termine perentorio di sessanta giorni dalla notifica dell’atto è abbondantemente trascorso9. La norma, così come formulata, può portare a delle situazioni assurde e fortemente penalizzanti per il contribuente.

9Art. 21, co. I, D.Lgs. cit.

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Basti pensare, per esemplificare, all’ipotesi in cui un contribuente che ha visto annullato l’avviso di accertamento sia in primo, che secondo grado; in siffatta ipotesi potrebbe accadere che l’Ufficio propone ricorso per Cassazione e questa, in accoglimento del ricorso, dispone il rinvio alla Commissione Tributaria regionale.

Orbene, così facendo l’Ufficio non ha alcun interesse processuale a riassumere il giudizio, perché, è nell’interesse dell’Agenzia far estinguere l’intero processo rendendo definitivo l’avviso di accertamento, in precedenza annullato.

Infatti, attesa la funzione del processo tributario, come processo di annullamento di atti impositivi normativamente predeterminati, la sua estinzione in fase di rinvio determina il consolidarsi di tali atti.

Per impedire ciò, dovrà essere sempre il contribuente ad attivarsi per la riassunzione, anche se perdente in Cassazione (come nel caso sopra esemplificato).

Orbene, in tale contesto, è evidente la posizione processuale di privilegio del fisco nei confronti del contribuente.

Per evitare ciò, tenuto conto della peculiarità del sistema tributario, si auspica una revisione della norma citata, volta a limitare l’estinzione non all’intero processo, ma facendo passare in giudicato soltanto la sentenza impugnata (come peraltro previsto dall’art. 338 c.p.c. nelle cause di appello).

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