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disabilità grave. Le due categorie dello stroke risultano essere l’emorragico

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1. Introduzione

L’ictus cerebrale costituisce la seconda causa di morte, la terza causa di

disabilità a livello mondiale e la prima causa di disabilità negli anziani. Nel

35% dei pazienti colpiti da ictus, globalmente considerati, residua una

disabilità grave. Le due categorie dello stroke risultano essere l’emorragico

e l’ischemico, caratterizzato quest’ultimo da un insufficiente apporto di

sangue che non soddisfa la richiesta di ossigeno e nutrienti da parte del

cervello

1

. L’ischemia cerebrale può essere sostenuta dalla trombosi in situ

di un’arteria cerebrale su base, per esempio, aterosclerotica, dall’embolismo

(es. cardioembolismo) o da un’ipoperfusione sistemica che interessa

pertanto anche altri organi

2

. Lo schema di classificazione TOAST è stato

realizzato per evidenziare le varie cause di ictus ischemico secondo i 5

maggiori meccanismi fisiopatologici

3

. Poiché lo schema di classificazione

TOAST originale è stato sviluppato nei primi anni ‘90, i continui progressi

nella valutazione dell’ictus con la diagnostica per immagini hanno

permesso sempre più di frequente l’identificazione di potenziali cause

cardiache e vascolari di ictus

4

. Questi progressi hanno portato ad una quota

crescente di ictus classificati come “indeterminati” poiché nella definizione

rigorosa del TOAST risulta “indeterminato” quando risultano esserci “due o

più cause potenziali”. Per tale motivo è stato ideato un algoritmo

computerizzato che si avvale di uno schema di classificazione stile

(2)

5

questionario chiamato Causative Classification System (CCS) che mostra

una propria utilità nell’indagare i sottotipi di ictus ischemico

5

.

L’ipertensione è il fattore di rischio più comune e più importante, inclusa

l’ipertensione sistolica isolata. Studi epidemiologici indicano che v’è un

graduale aumento di incidenza di malattia coronarica e ictus al crescere

della pressione sanguigna sopra 110/75 mmHg

6,7

. Tuttavia, queste

osservazioni non dimostrano una relazione causale, poiché l’aumento della

pressione sanguigna potrebbe essere un marker per altri fattori di rischio

come l’aumento di peso corporeo, che è associato alla dislipidemia,

all’intolleranza al glucosio e alla sindrome metabolica. Il fumo aumenta il

rischio di malattia vascolare, più che raddoppiando il rischio di ictus

8

. Il

rischio di ictus ischemico diminuisce nel tempo dopo la cessazione del

fumo. In una serie di donne di mezza età, ad esempio, il rischio aumentato

tra gli ex fumatori in gran parte scompariva dai due ai quattro anni dopo la

cessazione del fumo

8

. Gli studi epidemiologici hanno individuato molteplici

fattori che aumentano il rischio di ictus. Alcuni di questi fattori non possono

essere modificati, principalmente l’età, ma costituiscono tuttavia importanti

indicatori per definire le classi di rischio. Altri fattori possono essere

modificati con strategie non farmacologiche o farmacologiche: il loro

riconoscimento costituisce la base della prevenzione sia primaria sia

secondaria.

(3)

6 Per l’ischemia cerebrale i fattori di rischio:

non modificabili:

- età;

- fattori genetici;

- fattori etnici;

- storia di gravidanza patologica per eventi ostetrici negativi placenta-mediati (preeclampsia e/o disordini ipertensivi in gravidanza, perdite fetali, ridotto peso alla nascita e parto pretermine, diabete gestazionale);

- menopausa precoce.

modificabili ben documentati:

- ipertensione arteriosa;

- fibrillazione atriale;

- altre cardiopatie (infarto miocardico acuto, cardiomiopatie, valvulopatie, forame ovale pervio e aneurisma del setto interatriale, placche arco aortico);

- ipertrofia ventricolare sinistra;

- diabete mellito;

- dislipidemia;

- obesità;

- iperomocisteinemia;

- stenosi carotidea;

- fumo di sigaretta;

- eccessivo consumo di alcool;

- ridotta attività fisica;

- dieta;

- anemia a cellule falciformi.

Il profilo dei fattori di rischio cerebrovascolare differisce a seconda dei

diversi sottotipi di ictus ischemico. La fibrillazione atriale e la cardiopatia

ischemica sono prevalenti nei pazienti con ictus cardioembolico,

l’ipertensione e il diabete nei pazienti con ictus lacunare mentre

l’arteriopatia periferica, l’ipertensione, il diabete, un precedente attacco

ischemico transitorio nei pazienti con ictus aterotrombotico. Gli attacchi

(4)

7

ischemici transitori costituiscono un fattore di rischio ben documentato per ictus cerebrale ischemico, soprattutto nelle prime ore successive all’evento.

Sono stati descritti altri fattori che probabilmente aumentano il rischio di ictus ma che al momento non appaiono completamente documentati come fattori indipendenti di rischio. Fra questi:

- emicrania;

- sindrome metabolica;

- sindrome delle apnee ostruttive da sonno;

- insonnia;

- uso di contraccettivi orali;

- terapia ormonale sostitutiva;

- anticorpi antifosfolipidi;

- aumento dell’apoB/apoA1 ratio;

- aumento della lipoproteina (a) e della Lp-PLA2;

- alterazioni dei fattori dell’emostasi;

- infiammazione e infezioni;

- malattie infiammatorie intestinali;

- uso di droghe;

- inquinamento atmosferico;

- lesioni vascolari neuroradiologicamente;

- evidenti ma clinicamente silenti;

- iperuricemia;

- eccessivo stress;

- orari di lavoro eccessivi (> 55 ore/settimana);

- basso livello di istruzione;

- condizioni socio-economiche povere;

- depressione.

(5)

8

L’età è il maggiore fattore di rischio per l’ictus. L’incidenza di ictus

aumenta con l’età e, a partire dai 55 anni, raddoppia per ogni decade. La

maggior parte degli ictus si verifica dopo i 65 anni

9

. L’ictus è definito come

un deficit neurologico focale improvviso non convulsivo. Nella sua forma

più grave il paziente diviene emiplegico e persino comatoso, un evento

talmente drammatico da meritare una denominazione propria (apoplessia,

colpo o accidente cerebrovascolare). Nella sua forma più lieve esso può

essere caratterizzato da un deficit neurologico banale, tale da non destare

preoccupazione o richiedere attenzione medica. Tra questi due estremi

esistono tutti i gradi di severità, ma in tutte le forma di ictus la caratteristica

determinante è il profilo temporale degli eventi neurologici. È il modo

improvviso, questione di secondi o minuti, con il quale il deficit

neurologico si sviluppa che lo identifica come vascolare. Gli ictus embolici

si manifestano tipicamente all’improvviso ed il deficit raggiunge il suo

massimo quasi subito. Gli ictus trombotici possono avere un esordio

ugualmente improvviso, ma molti evolvono più lentamente, in un periodo

di diversi minuti, ore e a volte giorni; in quest’ultimo caso l’ictus

progredisce in maniera saltatoria, cioè a gradini piuttosto che in modo

progressivo; proprio negli infarti lacunari si verifica un’occlusione dei

piccoli rami perforanti (di diametro compreso fra 50 e 200 μm) delle arterie

cerebrali; gli infarti che ne derivano possono essere così piccoli o localizzati

in modo tale da non causare alcun sintomo. La rimozione del tessuto

malacico lascia una piccola cavità o lacuna. La base dello stato lacunare è

un’aterosclerosi insolitamente grave che si è estesa ai rami più sottili delle

grandi arterie. Le lacune sono situate, in ordine discendente di frequenza,

nel putamen e nel caudato, nel talamo, nella base del ponte, nella capsula

interna e nella sostanza bianca emisferica profonda; il fatto che causano

(6)

9

sintomi dipende esclusivamente dalla loro localizzazione. Le forme sintomatiche più frequenti risultano:

- emiplegia motoria pura;

- ictus sensitivo puro;

- impaccio motorio della mano-disartria;

- emiparesi ipsilaterale-atassia.

I sintomi possono insorgere improvvisamente o evolvere nell’arco di alcune ore, ma in determinate situazioni il deficit neurologico si sviluppa per gradi e in maniera relativamente lenta, in un periodo della durata anche di 2-3 giorni, simulando una piccola emorragia.

L’altro aspetto importante del profilo temporale è l’arresto della

progressione e quindi della regressione del deficit neurologico focale in

quasi tutti gli ictus, tranne in quelli fatali. Per quanto riguarda la rapidità di

involuzione, a un estremo vi è la sindrome focale che migliora velocemente

e straordinariamente nell’arco di minuti, fino a un’ora: si tratta del TIA

(transient ischemic attack). Non è raro che un esteso deficit causato da un

embolia regredisca spontaneamente in modo clamoroso nel giro di poche

ore o giorni, mentre nel caso degli ictus trombotici è frequente che la

regressione dei sintomi avvenga gradualmente (nell’ambito di settimane o

mesi) e che il deficit residuo sia considerevole. Un decorso caratterizzato da

deterioramento graduale nel corso di diversi giorni o settimane viene

generalmente attribuito a una patologia non vascolare. Il deficit neurologico

riflette sia la localizzazione che le dimensioni dell’infarto (o

dell’emorragia). L’emiplegia è il segno classico di tutte le malattie

cerebrovascolari, ma vi sono molte altre manifestazioni che si estrinsecano

in un infinito numero di combinazioni. Queste comprendono confusione

(7)

10

mentale, intorpidimento e deficit sensitivi di diversi tipi, afasia, alterazioni del campo visivo, diplopia, vertigine, disartria e così via. Le sindromi neurovascolari che si vengono così a costituire consentono di localizzare la lesione (talvolta da poter specificare il vaso arterioso interessato) e di capire se si tratta di un infarto od emorragia. Per quanto riguarda gli effetti di un’occlusione arteriosa focale sul tessuto cerebrale dipendono dalla localizzazione dell’occlusione. Se l’ostruzione è prossimale al circolo di Willis (cioè dalla parte del cuore), le arterie comunicanti anteriore e posteriore sono spesso in grado di prevenire l’infarto. In caso di occlusione della carotide interna nel tratto cervicale, vi può essere un flusso anastomotico retrogrado dalla carotide esterna attraverso l’arteria oftalmica o attraverso rami di collegamento minori tra la carotide esterna ed interna.

In caso di occlusione di un’arteria principale l’estensione dell’area

infartuale può essere nulla (grazie ai circoli anastomotici) oppure

comprendere l’intero territorio del vaso; tra questi due estremi si osservano

varie condizioni intermedie nell’estensione e nel grado di reversibilità

dell’infarto. Altri fattori modificanti l’ischemia contribuiscono a

determinare l’estensione della necrosi. La velocità di occlusione è

importante; un restringimento graduale dei vasi consente l’apertura di

circoli collaterali. Il livello della pressione arteriosa può influire sulla loro

efficacia; l’ipotensione, in una fase critica, può infatti rendere inefficaci i

circoli anastomotici. Si ritiene che anche l’ipossia e l’ipocapnia abbiano un

effetto peggiorativo. Il deficit neurologico specifico è ovviamente correlato

alla localizzazione e alla dimensione dell’infarto o del focus ischemico. Se

l’infarto è nel territorio di un’arteria carotidea predominano, come è logico

attendersi, i segni monolaterali; le comuni conseguenze sono rappresentate

da emiplegia, emianestesia, emianopsia, afasia e agnosie di determinati tipi.

(8)

11

Nel territorio dell’arteria basilare, i segni di infarto sono frequentemente bilaterali; tetraparesi, emiparesi, deficit sensitivi monolaterali o bilaterali si manifestano in concomitanza con paralisi dei nervi cranici o altri segni segmentari del tronco cerebrale o cerebellari, accompagnati da diplopia, disartria e vertigini in varie combinazioni.

La principale causa di morte nella prima settimana è direttamente conseguente al danno cerebrale; seguono poi le cause di morte secondarie all’immobilizzazione. Tra queste sono più frequenti le polmoniti e le embolie polmonari. Anche piaghe da decubito, infezioni e malnutrizione possono essere cause di morte se non prevenute e trattate in modo adeguato.

Le complicanze relative alla fase acuta possono coinvolgere fino al 60% dei pazienti ospedalizzati e nei 2/3 dei casi possono essere multiple. Per quanto riguarda l’handicap residuo dopo un mese dall’evento il 55% dei pazienti ha perso lo stile di vita precedente ed è dipendente da altri negli atti della vita quotidiana. Tale percentuale può diventare molto più alta (fino al 95%) nel caso degli ictus ischemici gravi, mentre è considerevolmente più bassa (fino al 45.5%) nelle sindromi lacunari e nelle sindromi del circolo posteriore.

Il paziente affetto da ictus presenta un recupero spontaneo che può essere

facilitato da un intervento riabilitativo. La storia naturale della malattia

prevede che la maggior parte del recupero sensitivo-motorio e cognitivo

avvenga nei primi 3 mesi

10,11,12

. Le capacità funzionali migliorano

ulteriormente, sia pure con minore intensità e rapidità nei successivi tre

mesi, per poi stabilizzarsi entro l’arco dell’anno

13

. Il recupero della

disabilità sembra avvenire nel 50% dei pazienti affetti da afasia entro il

primo mese, ma prosegue oltre i primi sei

14

. La maggior parte del recupero

della menomazione è raggiunto in media in 11 settimane, mentre il miglior

(9)

12

recupero dell’auto-accudimento e della capacità di movimento si ottiene in 12,5 settimane

15

.

1.1. La gestione del paziente con ictus: prevenzione del danno secondario e terziario nella fase precoce dell’ictus

La valutazione delle attività compromesse dal danno cerebrovascolare fin dai primi giorni dell’esordio della sintomatologia rappresenta un obiettivo assistenziale importante quanto una corretta diagnosi clinica. Questo infatti consente di organizzare più correttamente il percorso assistenziale, prevenire le complicanze e contenere i fattori che possono ostacolare il recupero intrinseco o compensatorio. Per “danno secondario” si intende il disordine funzionale che colpisce sistemi anche lontani dalle strutture compromesse dalla lesione, in relazione ai disturbi percettivi, all’attivazione di pattern motori patologici o dei processi psicologi di adattamento alle menomazioni conseguenti al danno cerebrovascolare. Il “danno terziario” è invece indotto dalle conseguenze dell’immobilità (decubiti, retrazioni, etc.) e dalle conseguenze psichiche e comportamentali conseguenti alla situazione disabilitante ed alle difficoltà di comunicazione. Il medico di Medicina Interna che si prende carico del paziente ricoverato deve conoscere questi molteplici aspetti.

- Conservazione dell’integrità cutanea

Le piaghe da decubito sono una complicanza completamente evitabile e

quando si verificano rallentano il recupero del paziente (per es. favorendo la

spasticità); una quotidiana valutazione deve essere effettuata

16

.

(10)

13 - Prevenzione della spalla dolorosa

Risulta molto comune dopo lo stroke. Questo tipo di complicanza

interferisce negativamente con il programma riabilitativo e, in generale, con

le possibilità di recupero

17

. Durante il primo anno dopo l’ictus i pazienti con

emiplegia soffrono di dolore alla spalla

18

. Tra i pazienti che presentano

dolore entro la prima settimana dall’evento i 2/3 continueranno ad averlo ad

un anno dopo l’ictus. Sono state riconosciute diverse condizioni

patogenetiche che possono causare questa sindrome che è, molto

probabilmente multifattoriale

18

: sublussazione acromionomerale

19

, lesione

della cuffia dei rotatori, spalla congelata, sindrome da conflitto delle

strutture articolari della spalla con tendinite del bicipite, tendinite del

sovraspinoso ed ipertono in intrarotazione, artrite acromioclavicolare, artrite

glenomerale. Alla spalla dolorosa si associano frequentemente le seguenti

condizioni neurologiche:1) ipotonia dei muscoli della spalla che favorisce

una sublussazione glenomerale 2) spasticità 3) perdita della sensibilità

propriocettiva profonda 4) neglect 5) deficit di campo visivo. Una piccola

proporzione di pazienti presenta la sindrome dolorosa complessa regionale,

con connotazione algo-distrofica o sindrome della spalla mano, le cui

caratteristiche sono: dolore nell’abduzione, nella rotazione esterna e

flessione omerale, edema e dolore nella regione carpale, edema della mano,

modifiche della temperatura, del colore e della secchezza della cute della

regione coinvolta, osteoporosi. È importante porre una diagnosi eziologica

per riconoscere le lesioni trattabili (fratture, tendinite, etc.) in modo efficace

da quelle per le quali non si è ancora certi di quale sia il trattamento più

appropriato. La prevenzione di questa sindrome avviene nella fase acuta

all’interno di un programma di mobilizzazione e posizionamento con

coinvolgimento del paziente e dei parenti

20

.

(11)

14 - Prevenire infezioni polmonari

Sono le più comuni cause di morte nelle prime settimane dopo l’ictus. Le condizioni respiratorie sono spesso compromesse, soprattutto negli ictus più gravi, sia in relazione alla preesistenza dei disturbi ventilatori, che alla concomitanza di infezioni favorite dalla ridotta mobilità toracica con conseguente stasi delle secrezioni bronchiali. Le infezioni polmonari correlano infatti con l’immobilità, con il riflesso della tosse poco valido e con la disfagia. La prevenzione più importante è rappresentata da una valutazione molto precoce della disfagia al fine di ridurre la possibilità di aspirazione. Comunque, il posizionamento seduto, la precoce mobilizzazione (entro le prime 24 ore), l’esecuzione di respiri profondi, l’aerosolterapia risultano di grande aiuto nell’ottica di prevenire complicanze infettive.

- La prevenzione della trombosi venosa profonda e della embolia polmonare

I pazienti risultano a rischio di entrambe le patologie per la combinazione di

immobilità degli arti e per ridotto livello di attività

21

. Ci sono presidi

meccanici e farmacologici che dipendono anche dal tipo di stroke,

emorragico od ischemico. Le linee guida dell’American College of Chest

Physicians (nona edizione) hanno documentato una riduzione della

mortalità generale utilizzando o l’eparina non frazionata o l’eparina a basso

peso molecolare rispetto a non dare terapia anticoagulante

22

. Una meta-

analisi

23

ed una review di Cochrane che coinvolgeva 9 trials e 3137 pazienti

confermava la superiorità dell’eparina a basso peso molecolare su quella

non frazionata

24

. Le calze elastiche a compressione graduata in un grande e

randomizzato trial clinico al quale partecipavano 2518 pazienti hanno fallito

(12)

15

nel dimostrare un effetto positivo o negativo nell’incidenza di una TVP prossimale sintomatica o di embolia polmonare mentre hanno documentato un aumentato rischio di complicazioni cutanee

25

. In una review di Cochrane (2 trials per 2615 pazienti) non si dimostrava né una significativa riduzione di TVP né riduzione di mortalità

26

.

- Trattamento dell’incontinenza urinaria e fecale

Risultano complicanze comuni; fino al 15% dei pazienti 1 anno dopo lo stroke presentano incontinenza urinaria

27

. La prevalenza dell’incontinenza fecale si aggira sul 40% dei pazienti “acutamente” mentre diminuisce nel corso del tempo attestandosi ad un 20% dei pazienti seguiti dal reparto alla riabilitazione. L’età e la compromissione funzionale risultano essere fattori di rischio per l’incontinenza fecale nell’ammissione per ictus

28

. Sebbene ci siano dati considerevoli sul tasso di incontinenza urinaria, risultano pochi gli studi pubblicati che documentano interventi terapeutici migliorativi. Il suggerimento di rimuovere il catetere vescicale entro le 24 ore è basata sulle raccomandazioni del Centers for Disease Control and Prevention recommendations for all hospitalized patients to prevent catheter- associated urinary tract infections e non risulta specifica per lo stroke

29

.

- Rischio di cadute

Fino al 70% di pazienti dimessi per stroke nel corso dei 6 mesi dopo la

dimissione cadono

30

. Una più grande quota di fratture che interessa l’anca

ed il bacino interessa gli individui con stroke (27%) confrontata con meno

del 10% di quelli della popolazione di anziani

31

. Ovviamente la

compromissione più o meno significativa di sistemi quali la vista,

l’equilibrio, l’andatura, la percezione aumentano la consapevolezza della

(13)

16

paura di cadere e ciò sicuramente peggiora la qualità di vita, condiziona psicologicamente il paziente che paradossalmente per la riduzione dell’attività fisica, proprio per la paura, contribuisce essa stessa ad un maggior rischio di cadute

32

.

1.2 Intervento riabilitativo

Il paziente viene ricoverato per ictus ischemico in Medicina a Pontedera;

una volta effettuati gli approfondimenti diagnostici tramite esami strumentali ed ematici e stabilita la terapia medica viene richiesta la consulenza fisiatrica (il martedì ed il venerdì mattina il fisiatra ed il fisioterapista si recano in reparto).

In tutti i pazienti, tranne quelli più gravi, a partire da alcuni giorni dopo

l’ictus gli arti paralizzati dovrebbero essere sottoposti a una serie completa

di movimenti passivi. Lo scopo è quello di evitare la contrattura (e la

periartrite), specialmente a livello della spalla, del gomito, dell’anca e della

caviglia. Bisogna fare in modo che sia la dolenzia che il dolore negli arti

paralizzati non interferisca con gli esercizi. I pazienti devono essere

trasferiti dal letto alla poltrona non appena l’ictus è completo ed il quadro

clinico stabile

33

. Durante il recupero va effettuata al più presto una stima

delle difficoltà di deglutizione e, in caso vi sia rischio di aspirazione, vanno

eseguiti adeguati aggiustamenti della dieta. Quasi tutti gli emiplegici

recuperano entro certi limiti la capacità di camminare, generalmente in un

periodo di 3-6 mesi; questo dovrebbe essere uno degli obiettivi della

riabilitazione. Il principale fattore limitante è costituito dalla perdita delle

sensibilità profonde o dall’anosognosia in aggiunta all’emiplegia. Spesso è

necessario un sostegno, corto o lungo, per l’arto inferiore. Attraverso

(14)

17

l’insegnamento di nuove strategie ai pazienti con atassia cerebellare, le alterazioni dell’equilibrio e della deambulazione possono essere rese meno invalidanti. Le poche ricerche disponibili sull’efficacia della riabilitazione dopo un ictus indicano che una fisioterapia più intensa può permettere di ottenere risultati migliori in relazione alla capacità di deambulazione ed alla destrezza globale

34,35

.

La riabilitazione, accanto agli interventi farmacologici della fase acuta, si

può ritenere la principale forma di intervento per i pazienti che hanno subito

un ictus. Lo studio AVERT è lo studio clinico più ampio mai realizzato

nell’ambito della riabilitazione neurologica, di forte impatto sotto molti

profili, in grado di aprire molteplici discussioni e numerosi spunti per futuri

studi clinici, il cui grandissimo merito attribuibile è l’aver introdotto, ormai

in maniera diffusa anche se disomogenea per approccio e aspetti

coordinativi, la riabilitazione precoce nel trattamento dei pazienti con esiti

di ictus, a partire dalle Stroke Unit e dalle Unità di Terapia Intensiva

Neurologica

36

. La riabilitazione è finalizzata ad ottenere il recupero della

menomazione, l’ottimizzazione delle abilità residue e il miglioramento della

partecipazione. L’obiettivo è quello di migliorare la qualità della vita

attraverso il recupero del miglior livello fisico, cognitivo, psicologico,

funzionale e delle relazioni sociali nell’ambito dei bisogni e delle

aspirazioni dell’individuo e della sua famiglia. Il primo obiettivo deve

essere la valutazione di ogni paziente con ictus che si ricovera allo scopo di

inquadrare le condizioni cliniche e definire il progetto riabilitativo. La

valutazione deve essere il più precoce possibile. Si definisce progetto

riabilitativo l’insieme di proposizioni, elaborate da un gruppo riabilitativo

multidisciplinare, coordinato da un medico specialista competente in

riabilitazione, che tenendo conto dei bisogni, delle menomazioni e delle

(15)

18

disabilità recuperabili, delle abilità residue, nonché delle preferenze del paziente e dei suoi familiari, definisce nelle linee generali gli obiettivi, i tempi e le azioni necessarie per il raggiungimento degli esiti desiderati. Uno degli elementi che determina l’efficacia dell’intervento riabilitativo è la definizione di obiettivi cioè l’identificazione, da parte del gruppo multidisciplinare, di specifici obiettivi da raggiungere in un dato periodo di tempo con l’accordo del paziente e della famiglia

37,38

. All’interno del progetto riabilitativo, il programma definisce le aree di intervento specifiche, gli obiettivi a breve termine, i tempi e le modalità di erogazione degli interventi, la verifica e gli operatori coinvolti. Il programma riabilitativo deve essere puntualmente verificato e periodicamente aggiornato durante il periodo di presa in carico. Costituiscono obiettivi generali della valutazione:

- documentare la diagnosi di ictus, l’eziologia, l’area cerebrale coinvolta, le manifestazioni cliniche, le comorbilità, lo stato clinico e funzionale prima dell’evento;

- stabilire i trattamenti necessari durante le fasi della malattia acuta;

- stabilire quanto il paziente possa beneficiare della riabilitazione;

- definire il progetto riabilitativo più appropriato;

- monitorare i progressi durante la riabilitazione;

- monitorare i progressi dopo il ritorno alla vita sociale.

Valutazione della menomazione I principali punti da valutare sono:

1. stato di coscienza;

2. deficit motori, forza muscolare, anormalità del tono muscolare e sinergie

patologiche;

(16)

19 3. deficit somatosensoriali;

4. deficit delle funzioni cognitive (attenzione, memoria, aprassia, neglect, afasia, agnosia, funzioni esecutive);

5. deficit della coordinazione e dell’equilibrio (compreso il cammino);

6. disartria;

7. deficit della visione (acuità visiva, campo visivo e visione binoculare);

8. disturbi comportamentali e dell’umore;

9. aspetti funzionali: nutrizione, idratazione, deglutizione, continenza degli sfinteri ritmo sonno-veglia.

Valutazione della disabilità

La valutazione della disabilità consiste nella quantificazione della capacità di svolgere le attività quotidiane nell’ambiente di vita della persona disabile. Tale valutazione può essere fatta in senso assoluto esaminando la performance nello svolgere le singole azioni (lavarsi, mangiare, camminare, vestirsi, avere cura di sé etc.) oppure in senso relativo dando importanza ad attitudini personali e sociali, ad esempio la disabilità reale derivante dal disturbo di comunicazione è diversa tra chi esercita lavori manuali (muratore, artigiano, etc.) e chi esercita lavori che prevedono abilità comunicative (avvocato, venditore ambulante, insegnante etc.). In questo caso il concetto di disabilità è assimilabile, per certi aspetti al concetto di handicap. Per la quantificazione della disabilità le scale più usate sono:

l’indice di Barthel e la FIM (Functional Indipendance Measure).

(17)

20

(18)

21

(19)

22

L’indice di Barthel è stato sviluppato nel 1965 per valutare le condizioni funzionali e le capacità di mobilità dei pazienti neuromuscolari e muscoloscheletrici degli ospedali per malati cronici del Maryland

39

. Viene usato per valutare il grado di indipendenza di un paziente nell’esecuzione di alcuni compiti di attività di vita quotidiana.

La Misura d’Indipendenza Funzionale (FIM) è la misura di disabilità più

utilizzata e accettata dalla comunità internazionale; sviluppata in USA nel

1983 per valutare il costo di trattamenti riabilitativi è utilizzata per

valutare le condizioni funzionali, i progressi e i risultati di pazienti in

riabilitazione; è una scala di misura utilizzabile per tutti i pazienti e

per tutte le patologie per stabilire il livello di disabilità di un individuo in

termini di bisogno di assistenza.

(20)

23

(21)

24

1.3. Percorsi clinico riabilitativi del paziente con ictus ischemico

La fase post acuta deve svilupparsi lungo un percorso che tenga conto delle diverse componenti cliniche, personali e sociali della persona ammalata, in modo tale da poter applicare il progetto riabilitativo, ottenendo il miglior rapporto costo beneficio. Se è vero che il programma riabilitativo può produrre effetti positivi anche in soggetti con disabilità minimali, occorre definire criteri di priorità di intervento per individuare chi può trarne maggior beneficio. Un punto critico è rappresentato dai tempi riferiti al passaggio da un ambito riabilitativo ad un altro. Ad esempio il passaggio tra l’ospedale dell’acuzie a quello riabilitativo o al territorio deve avvenire in tempi rapidi (non oltre la settimana) per garantire un’appropriata prosecuzione del programma definito.

Le attività sanitarie di riabilitazione possono essere distinte sia in relazione all’intensità e alla complessità che alla quantità e alla qualità di risorse assorbite in:

a) attività di riabilitazione intensiva: dirette al recupero di disabilità importanti, modificabili, che richiedono un impegno medico specialistico ad indirizzo riabilitativo particolarmente elevato per complessità e durata dell’intervento (oltre 3 ore al giorno);

b) attività di riabilitazione estensiva: caratterizzate da un moderato

impegno terapeutico a fronte di un forte intervento di supporto assistenziale

verso i soggetti in trattamento. L’impegno clinico e terapeutico è comunque

tale da richiedere una presa in carico specificamente riabilitativa e

complessivamente le attività terapeutiche sono valutabili tra una e tre ore

giornaliere.

(22)

25

Gli interventi di riabilitazione intensiva sono erogabili in regime di:

1. ricovero a ciclo continuativo (degenza ordinaria);

2. ricovero a ciclo diurno (day hospital).

Gli interventi di riabilitazione estensiva sono erogabili presso:

1. le strutture ospedaliere di lungodegenza riabilitativa;

2. i presidi ambulatoriali di recupero e rieducazione funzionale territoriali e ospedalieri;

3. i presidi di riabilitazione extraospedaliera a ciclo diurno e/o continuativo;

4. i centri ambulatoriali di riabilitazione;

5. le residenze sanitarie assistenziali (RSA);

6. le strutture residenziali o semiresidenziali di natura socio-assistenziale, i centri socio riabilitativi e il domicilio.

In generale le attività di riabilitazione sono erogate mediante una rete di servizi ospedalieri ed extraospedalieri in regime:

- di ricovero ospedaliero a ciclo continuativo e/o diurno;

- residenziale a ciclo continuativo e/o diurno;

- ambulatoriale, extramurale, domiciliare o RSA.

La decisione relativa all’invio del paziente verso un programma di

riabilitazione deve basarsi su criteri quanto più possibile oggettivi. Questi

debbono prevedere livelli di priorità al fine di privilegiare coloro che

possono trarre maggior beneficio da un progetto riabilitativo.

(23)

26

Per una corretta scelta dell’ambiente riabilitativo è necessario che la valutazione standardizzata si basi sia su dati clinici che su dati di contesto (personali, familiari e sociali).

Per la scelta dell’ambiente riabilitativo i parametri di valutazione dovrebbero essere i seguenti:

Condizioni Cliniche: - Deficit neurologici; - Complicanze e comorbilità; - Aspetti funzionali (deficit nutrizionali, integrità cutanea, etc.).

Elementi di rilievo: - Condizioni fisiche premorbose; - Condizioni mentali e capacità di apprendimento; - Stato emotivo e motivazione.

Fattori sociali e ambientali: - Presenza di sostegno familiare; - Qualità della vita precedente all’ictus; - Etnia e lingua madre; - Accettazione dell’ictus da parte del paziente e dei familiari; - Preferenze e aspettative del paziente e dei familiari; - Caratteristiche della casa e dell’ambiente.

Gli interventi inquadrabili come riabilitazione intensiva sono rivolti al trattamento di menomazioni molto gravi e disabilità complesse con eventuali patologie associate, che richiedono la permanenza in ambiente riabilitativo dedicato e l’interazione con altre discipline specialistiche.

Possono essere erogati in regime di ricovero ordinario continuativo o in regime di day hospital.

Riabilitazione intensiva ospedaliera a ciclo continuativo

Il livello di stabilità clinica è il criterio principale in base al quale si decide se sia opportuno avviare un paziente alla riabilitazione intensiva ospedaliera.

La riabilitazione intensiva deve essere quindi riservata a chi può sostenere

almeno 3 ore di riabilitazione al giorno su un piano fisico, cognitivo e

(24)

27

motivazionale; la riabilitazione intensiva deve essere iniziata prima possibile ed esercitata nelle prime settimane dall’evento acuto.

La sindrome clinica è un altro criterio di scelta. L’ictus lacunare ha le possibilità di recupero migliori e può non richiedere un trattamento intensivo quando la menomazione è particolarmente lieve

40,41

. Altro criterio è la sostenibilità di un programma riabilitativo intensivo. Se il paziente non è in grado di sopportare un trattamento riabilitativo intensivo per la gravità del quadro clinico, le comorbilità, l’età, etc., può non essere ammesso alla riabilitazione intensiva.

Riabilitazione estensiva

Le linee guida nazionali prevedono che gli interventi di riabilitazione estensiva siano rivolti al trattamento di:

1. disabilità transitorie e/o minimali che richiedono un semplice e breve programma riabilitativo;

2. disabilità importanti con possibili esiti permanenti che richiedono una presa in carico a lungo termine e un “progetto riabilitativo”.

L’intervento di riabilitazione estensiva implica comunque un progetto riabilitativo e può essere erogato nelle seguenti strutture:

1. strutture di riabilitazione estensiva;

2. presidi ambulatoriali;

3. centri ambulatoriali di riabilitazione;

4. RSA;

5. domicilio

42

.

(25)

2. Scopo del lavoro

Sono stati analizzati i pazienti colpiti da ictus ischemico dal 2016 in poi,

dimessi dalla Medicina di Pontedera con l’indicazione di essere seguiti per

la terapia riabilitativa o a domicilio o ambulatorialmente; di tali pazienti è

stata raccolta la presenza delle varie comorbilità, se erano già in terapia

antiaggregante per esempio o quali classi di farmaci stessero facendo

(soprattutto per l’ipertensione arteriosa). Tali dati sono stati confrontati con

pazienti, in teoria molto più gravi (ma ciò risulta essere l’oggetto

dell’osservazione), che hanno proseguito un percorso c/o la Riabilitazione

Neurologica di Volterra che è in stretto contatto con l’ospedale di

Pontedera. La presenza di molteplici comorbilità peggiora il quadro clinico

di presentazione dell’ictus ischemico? L’essere già in terapia antiaggregante

risulta un fattore che attenua la gravità dell’ictus ischemico? Ci sono dei

fattori di rischio o delle patologie che risultano essere un fattore di rischio

indipendente per la gravità di presentazione dell’ictus (ischemico)? A

queste domande abbiamo cercato di dare delle risposte.

(26)

3. Materiali e metodi

Sono stati arruolati 164 pazienti ricoverati dal 2016 in Medicina a

Pontedera per ictus ischemico confermato dalla TC e/o dalla RMN encefalo

e nel medesimo periodo 111 pazienti che hanno proseguito il percorso di

riabilitazione intensivo c/o Riabilitazione Neurologica di Volterra; sono

state documentate alcune comorbilità che il paziente presentava alla presa

in carico in reparto tra cui: ipertensione arteriosa, diabete mellito (sono stati

tutti casi di diabete tipo 2), cardiopatie (cardiopatia ischemica, valvulopatie,

cardiomiopatie, scompenso cardiaco con FE < 50%), fibrillazione atriale in

terapia anticoagulante (questo dato per avere un’idea di quanti pazienti

andavano incontro ad un evento ischemico cerebrale pur essendo “sulla

carta” in terapia anticoagulante), pregresso stroke ischemico/TIA,

dislipidemia. Sono stati considerati anche altri fattori tra cui l’arteriopatia

obliterante agli arti inferiori, la BPCO, storia di neoplasia attiva, infezioni

nei tre mesi precedenti. Dal punto di vista terapeutico è stata presa in

considerazione una precedente terapia antiaggregante, le statine ma anche

farmaci per l’ipertensione tra cui ACE inibitori o sartani, betabloccanti,

diuretici, calcio-antagonisti. L’obiettivo che si è voluto perseguire è un

confronto tra questi due gruppi di degenti per mettere in rilievo eventuali

differenze: i pazienti più impegnativi dal punto di vista riabilitativo

presentavano anche maggiori comorbilità?

(27)

4. Risultati e conclusioni

Dal punto di vista statistico ci troviamo di fronte a due gruppi relativamente

esigui pertanto il lavoro presenta dei limiti. Il primo passo è stato quello di

capire se le due popolazioni risultassero confrontabili. Dall’analisi dell’età

dei pazienti evidenziata dal “box and whiskers plot”, riportato di seguito, si

può dedurre che questa è confrontabile nei due gruppi osservati. Il “box and

whiskers plot” (trad. diagramma a scatola e baffi) è una rappresentazione

grafica utilizzata per descrivere la distribuzione di un campione tramite

semplici indici di dispersione. Viene rappresentato tramite un rettangolo

diviso in due parti, da cui escono due segmenti. Il rettangolo (la “scatola”) è

delimitato dal primo e dal terzo quartile, q1/4 e q3/4, e diviso al suo interno

dalla mediana, q1/2. I segmenti (i “baffi”) sono delimitati dal minimo e dal

massimo dei valori. In questo modo vengono rappresentati graficamente i

quattro intervalli ugualmente popolati delimitati dai quartili. Con il grafico

qui sottorappresentato, pertanto, si considera l’età dei due gruppi di pazienti

(mediana 81 anni Medicina Pontedera; mediana 79 anni Riabilitazione di

Volterra) dalla quale si desume che i degenti possono essere confrontati

perché simili; infatti il grafico risulta utile per verificare con un colpo

d’occhio se la distribuzione ha una proporzione di numeri piccoli e grandi

equilibrata oppure se sono più numerosi i valori piccoli, oppure quelli

grandi (in questo caso l’età). Si può inoltre apprezzare che il gruppo delle

(28)

31

donne è significativamente spostato in alto rispetto a quello degli uomini a

conferma che l’ictus ha una maggiore prevalenza in una fascia di età più

bassa negli uomini come è evidenziato in letteratura.

(29)

32

Di ciascun gruppo di pazienti riporto la tabella con le percentuali relative all’incidenza dei fattori considerati:

Pontedera Volterra

Sesso M 79/164 (48.17%)

F 85/164 (51.82%)

M 48/111 (43.24%) F 63/111 (56.75%) Ipertensione arteriosa 127/164 (77.43%) 87/111 (78.37%) Diabete tipo 2 57/164 (34.75%) 32/111 (28.82%)

Pregresso stroke

ischemico/TIA

31/164 (18.91% ) 31/111 (27.93% )

FA in terapia anticoagulante 18/164 (10.98%) 21/111 (18.92%) Cardiopatie 42/164 (25.61%) 38/111 (34.24%) Neoplasia in fase attiva 13/164 (10.98%) 10/111 (9.1%)

BPCO 9/164 (5.49%) 13/111 (11.72%)

Statine 59/164 (35.98%) 35/111 (31.53%)

Terapia antiaggregante 42/164 (25.61%) 36/111 (32.43%)

AOAI 4/164 (2.44%) 8/111 (7.21%)

Infezione nei 3 mesi precedenti

5/164 (3.04%) 15/111 (13.51%)

ACE inibitori/sartani 89/164 (54.26%) 53/111 (47.74%) Beta-bloccanti 60/164 (36.58%) 44/111 (39.63%) Diuretici 65/164 (39.63%) 50/111 (45.04%) Calcio-antagonisti 40/164 (24.39%) 35/111 (31.53%)

Non ci sono dubbi nel commentare che i due gruppi di degenti siano molto

simili (anche dal punto di vista delle comorbilità) e non si osserva alcun

fattore che presenti una percentuale significativamente più alta (o bassa) in

(30)

33

una delle due popolazioni: non si può certo affermare che l’11.72% (13 pazienti) che ha la BPCO e che si trova a Volterra è statisticamente più significativo del 5.49% (9 pazienti) a Pontedera; il campione statistico infatti è troppo esiguo per giungere a conclusioni.

Il significato di questo lavoro è essenzialmente cercare di comprendere se il fisiatra ed il fisioterapista nella scelta del paziente (nell’indirizzarlo cioè verso una struttura specializzata alla riabilitazione, mediante ricovero ordinario) tiene in considerazione le comorbilità del ricoverato e la sua fragilità.

Si è reso necessario valutare se tra i due gruppi ci fossero delle differenze nel numero delle comorbilità osservate per ogni paziente ed eventualmente se queste fossero controllate tramite terapie. Per avere un’idea sulla differenza di comorbilità tra i due gruppi di degenti abbiamo assegnato arbitrariamente a ciascuna “condizione” sopracitata un punteggio di 2, all’ipertensione un punteggio di 5 e a ciascun farmaco un punteggio -1 a significare una sorta di protezione per la relativa comorbilità. Ad esempio:

un iperteso con punteggio di 5 che assume un ACE inibitore e diuretico

avrà un punteggio di 3 a differenza di un iperteso che assume la quadruplice

terapia e che ha un punteggio di 1. All’ipertensione viene invece assegnato

un punteggio più alto, 5, perché i farmaci considerati nel lavoro sono

essenzialmente antipertensivi. In tal modo a ciascun paziente è associato

una sorta di punteggio di rischio che ci permette di confrontare

ulteriormente le due popolazioni. Una volta assegnati i punteggi ogni

paziente è stato suddiviso in 3 classi: punteggio ≤ 3 (rischio basso), tra 3-6

(rischio medio), > 6 (rischio alto). Se si osserva le distribuzioni dei rischi

(31)

34

nei 2 gruppi (Pontedera, Volterra) si apprezza una maggiore presenza di casi “a rischio alto” c/o la Riabilitazione di Volterra:

Non si osserva una significativa differenza rispetto al sesso del paziente.

Questo indicherebbe che la scelta del fisiatra è risultata adeguata in quanto ha deciso di proseguire l’iter terapeutico c/o un centro di riabilitazione (tramite ricovero ordinario) che risulta adatto a un malato impegnativo.

A ulteriore conferma della validità dei metodi utilizzati abbiamo analizzato

il sottogruppo di pazienti ipertesi in terapia antiaggregante; anche in questo

caso viene confermata la tendenza a ricoverare pazienti più gravi a Volterra.

(32)

35

(33)

5. Nuove prospettive

Durante la mia frequenza in Medicina a Pontedera ho avuto il piacere di notare come si è creata una collaborazione tra l’ospedale ed il Polo Sant’Anna Valdera che ospita i laboratori di ricerca e l’amministrazione dell’Istituto di Biorobotica. Credo che il futuro possa riservare ai pazienti affetti da ictus ischemico la possibilità di intraprendere un percorso di riabilitazione in gran parte domiciliare grazie all’ausilio di ortesi robotiche, dispositivi robotici che aiutano ed assistono nei movimenti; certo, i costi al momento sono significativi ma non dobbiamo pensare che le spese durante un ricovero ordinario in Riabilitazione Neurologica a Volterra (per esempio) siano da sottovalutare oppure che i costi di gestione in un programma di riabilitazione domiciliare siano esigui. In questi mesi ho avuto personalmente modo di provare l’APO (Active Pelvis Orthosis):

un’ortesi robotica attiva progettata per fornire assistenza ai movimenti di

flesso-estensione dell’anca pensata per fornire assistenza nelle attività

deambulatorie della vita quotidiana a pazienti che soffrono di lievi disabilità

del cammino e che preservano un livello di mobilità sufficiente ad iniziare i

movimenti e mantenere una postura eretta. La struttura meccanica del

dispositivo APO è composta da un telaio in fibra di carbonio al quale è

connesso un guscio ortopedico per l’interfacciamento fisico con il tronco

dell’utente. Due bracci laterali in fibra di carbonio (uno per ogni lato)

(34)

37

sostengono i gruppi di attuazione del dispositivo i quali, attraverso un

sistema di trasmissione della coppia opportunamente progettato,

trasferiscono l’azione meccanica del dispositivo all’arto della persona in

modo ergonomico e confortevole. All’interno della catena cinematica del

telaio sono infatti inseriti dei meccanismi che permettono l’abduzione-

adduzione passiva dell’anca che, assistita nel piano sagittale, può comunque

compiere liberamente i movimenti nel piano frontale. Due link in fibra di

carbonio si interfacciano infine al segmento prossimale dell’arto inferiore

dell’utente per mezzo di gusci ortopedici. Il dispositivo è in grado di

cooperare con l’utente, fornendo potenza attiva in specifiche fasi del ciclo

del passo con la minima impedenza meccanica, ovvero applicando la

minima interazione resistiva a livello dell’interfaccia, senza limitarne i

movimenti volontari. La struttura meccanica dell’APO, il cui peso totale è

di circa 5 kg, è stata progettata al fine di coprire un largo percentile delle

antropometrie della popolazione; dei meccanismi di regolazione

opportunamente progettati permettono al dispositivo di poter essere

indossato con un peso che va dai 50 ai 100 kg e un’altezza compresa tra

1.65 m e 1.85 m. Questo dispositivo rappresenta un tutore che aiuta nel

movimento (che in parte deve arrivare dal paziente). Ci sono anche

dispositivi per gli arti superiori con caratteristiche analoghe. Sicuramente

tali dispositivi avranno un impatto tangibile nel futuro, credo soprattutto

nell’anziano che potrà contrastare il “rischio allettamento” e forse anche

nella prevenzione delle cadute.

(35)

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7. Ringraziamenti

Ringrazio il Dott. Roberto Andreini che ha reso speciale quest’ultimo periodo della specializzazione sia perché grazie a Lui sono cresciuto professionalmente, ma soprattutto perché ho ricevuto tanta stima e affetto come persona che ricambio a mia volta.

Ringrazio tutti i Colleghi della Medicina di Pontedera perché ciascuno di loro mi ha riservato sorrisi, consigli e stimoli professionali:

Claudio, Benedetta, Gabriella, Miriana, Mauro, Roberto, Rosanna, Moreno, Anna, Silvia, Pasquale e Gioacchino.

Ringrazio Silvia, mia moglie, del suo straordinario sostegno nella preparazione di questa tesi, ma soprattutto perché grazie a Lei sono un uomo e un medico migliore.

Ringrazio i miei genitori, mia sorella e i miei suoceri che mi hanno supportato in questi anni di specializzazione, incoraggiato nei momenti difficili e gioito con me nei momenti belli.

Ringrazio inoltre tutti i miei amici presenti oggi, 5 luglio 2017, e

quelli che non hanno potuto esserci: il mio affetto verso di voi è smisurato.

(43)

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