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~ 122 ~ 3.2.2. Indisponibilità del tributo e art. 53 Cost.

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~ 122 ~ 3.2.2. Indisponibilità del tributo e art. 53 Cost.

Più suggestiva, almeno prima facie, è la tesi di quanti, nel tempo, hanno fatto riferimento all’art. 53, co. 1, Cost. e derivato l’indisponibilità del credito tributario dall’esigenza di assicurare il giusto e perequato riparto dei carichi pubblici tra i consociati, secondo la capacità contributiva di ognuno

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. Gli assertori di tale orientamento, peraltro dominante in dottrina, fanno leva su argomenti affatto dissimili da quelli addotti a sostegno della concezione dell’imposta come quota, porzione individuale di una spesa collettiva di cui il singolo deve inderogabilmente farsi carico, in ragione della sua forza economica, per non alterare il criterio di ripartizione insito nelle leggi tributarie sostanziali

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.

215 Si vedano, principalmente, FALSITTA, G., Natura e funzione dell’imposta, cit.; Id., Profili della tutela costituzionale della giustizia tributaria, cit.; BEGHIN, M., Giustizia tributaria e indisponibilità dell’imposta, cit., 679 ss.; MOSCATELLI, M.T., op. cit., passim.;

PICCIAREDDA, F., Contribuzione e consenso nel diritto tributario, in Studi economico- giuridici, LXI, Napoli, 2009, 495 ss. In senso contrario, oltre a VERSIGLIONI, M., Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., 385 ss., e RUSSO, P., op. ult. cit., 595 ss., cfr. BATISTONI FERRARA, F., Accertamento con adesione, cit., 28, il quale, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di provvedimenti di clemenza, esclude che l’art. 53 possa valere a fondare il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria e, in particolare, a conferirgli rango costituzionale. Si veda, tuttavia, in tempi più recenti, Id., Profili di incostituzionalità dell’accertamento con adesione e della programmazione fiscale, in Corr. trib. n. 24 del 2007, 1954 ss., in cui l’Autore individua il fondamento dell’indisponibilità del credito tributario proprio nel principio di capacità contributiva.

216 Ove si riconoscesse all’Amministrazione finanziaria il potere di disporre del credito tributario verrebbe ad essere alterato il meccanismo di partecipazione alla comune contribuzione costruito dal legislatore e si assisterebbe, a fronte di una stessa capacità contributiva, a prelievi differenziati in ragione di scelte discrezionali dell’autorità fiscale.

Si parla, per l’appunto, di “fondamento ontologico e costituzionale dell’indisponibilità del tributo” (cfr. G. FALSITTA, Natura e funzione dell’imposta, cit., 65 ss., ove si precisa che

“L’indisponibilità può derivare dalla legge o da contratto o, infine, dalla natura del diritto.

Di questo terzo tipo è la indisponibilità del credito di imposta. Nel caso di indisponibilità per natura il diritto che di volta in volta viene in considerazione violenterebbe la propria essenza e frusterebbe la sua funzione esistenziale se gli si volesse attribuire connotazioni

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Non è un caso che il massimo sostenitore del fondamento ontologico, prima ancora che giuridico, dell’indisponibilità del credito di imposta (Falsitta), ravvisi, nel primo comma dell’art. 53, il riconoscimento, a livello costituzionale, del suddetto principio

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, declinazione, a sua volta, in ambito

dispositive. La indisponibilità scaturisce perciò dai limiti impliciti nel credito di imposta, il quale metterebbe capo ad un istituto anfibologico se potesse infrangere detti limiti e veicolare poteri dispositivi, ossia poteri in grado di introdurre variazioni ai criteri di riparto codificati nella legge di imposta e dei quali il debito d’imposta imputato al singolo soggetto passivo è applicazione. La funzione di riparto è nella natura dell’istituto. È, pure, nella sua natura che il riparto al quale è preposto sia conforme a legge. Perciò è nel sistema stesso del diritto tributario la necessità di negare la esistenza di una fonte normativa (il potere dispositivo) in grado di integrare, come che si voglia, il regolamento legislativo del riparto rispetto al singolo caso. Si tratta dunque di un diritto indisponibile in sé, nella sua consistenza funzionale, di un diritto che nasce inglobando la limitazione intrinseca della assenza dei poteri dispositivi normalmente presenti all’interno di ogni diritto soggettivo.

Codesta connotazione consustanziale ed oggettivamente rilevabile trova la sua giustificazione, la sua incancellabile ragion d’essere nella inevitabile lesione degli interessi altrui (degli interessi, si badi bene, di tutti gli altri membri della platea contributiva dei soggetti passivi della stessa imposta) che il concreto esercizio del potere dispositivo (con rinunzie, transazioni, rimessioni) causerebbe. Tale esercizio non farebbe che alterare, rispetto a singoli membri della platea contributiva, ad iniziativa demandata ad organi della Amministrazione finanziaria, i criteri di riparto legislativamente stabiliti con efficacia erga omnes, verso tutti e verso ciascuno, sostituendo ad essi altri e diversi criteri, creati dall’Amministrazione di volta in volta e violando, con ciò stesso, il principio fondamentale di giustizia che è la uguaglianza”).

217 Così FALSITTA, G., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., 197 ss.: “L’imposta è credito con funzione di ripartizione. L’indisponibilità di tale credito è corollario che deriva, per consecuzione logica, dal teorema suddetto. Non vi è bisogno, perciò, di un riconoscimento costituzionale della indisponibilità. Questo spiega perché la Corte di cassazione, in ogni tempo, e quindi ben prima del 1948, abbia affermato senza esitazione e tentennamenti il principio della indisponibilità dell’imposta. Nella sentenza Cass., sez. un., 15 maggio 1939, n. 1661, si definisce perentoriamente “la materia tributaria indisponibile, incompromessibile, intransigibile.

Circa ottant’anni dopo, la stessa Cass., SS.UU. 2 novembre 2007, richiama e riconferma i

“principi fondamentali di inderogabilità delle norme tributarie, indisponibilità dell’obbligazione tributaria, vincolatività della potestà impositiva ed irrinunciabilità del prelievo tributario”. Il motivo di tale continuità di pensiero nella configurazione dogmatica del tributo, in ogni sua fase esistenziale, è costituito dalla natura e funzione dell’imposta.

Perciò non occorre attendere il 1948 per vederli riconosciuti ed affermati. Però, dopo tutto, tale riconoscimento, dal 1948, non manca ed esso rafforza il principio. L’indisponibilità

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tributario, del dovere di solidarietà e del principio di uguaglianza sanciti, rispettivamente, dagli articoli 2 e 3 della stessa Carta

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.

Il collegamento tra le citate norme costituzionali risulta di palmare evidenza sol che si consideri la lettera dell’art. 53, co. 1

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: esso, per un verso, enuncia

accompagna il credito di imposta dalla sua nascita alla sua estinzione. La rinuncia, totale o parziale, all’incasso dell’imposta “dovuta” e da riscuotere ferirebbe ab imis il principio fondamentale di perequata ripartizione della spesa tra i consociati in ragione della capacità contributiva che sta a base della vigente costituzione fiscale. Perciò rinunce che tocchino l’an e il quantum non sono legittime. Ed eventuali leggi ordinarie che abbiano potuto disporre nel passato e che potranno essere introdotte in futuro in violazione dei predetti parametri non potrebbero sfuggire a declaratoria di illegittimità costituzionale. Altro discorso deve farsi con riguardo al quomodo e al quando della riscossione. In tali ambiti ben delimitati e circoscritti, si noti bene, la legge accorda all’Amministrazione finanziaria poteri dispositivi di varia indole e intensità, da considerare con favore perché normalmente finalizzati ed esclusivamente funzionalizzati ad accrescere le possibilità di un felice esito dell’esazione arrecando meno fastidio o danno all’esecutando (rateazioni, pagamento con cessione di beni culturali, sospensioni variamente garantite con molteplici strumenti, ecc.) e niente affatto lesivi dei principi di equo riparto. Ma a questo riguardo è d’uopo ribadire che le facoltà dell’Amministrazione non si estendono nemmeno all’an e al quantum debeatur a titolo di interessi per ritardata o dilazionata esazione. Ed è del resto noto che sospensioni, dilazioni, rateazioni, non implicano affatto né rinuncia né abbattimento parziale degli interessi. In definitiva, la linea divisoria tra ciò che all’Amministrazione è consentito e ciò che è vietato, è scolpita nella Costituzione e denominasi perequato riparto dei carichi.

Questa linea vale nella fase di accertamento del credito ma, a maggior ragione, non può non valere nella susseguente fase di incasso del credito. Insomma, non v’è chi non comprenda che se l’Amministrazione non può disporre di un credito incerto, illiquido e inesigibile (tale è il credito prima della notifica dell’atto di imposizione), a fortiori non può disporre dei crediti iscritti o iscrivibili a ruolo, che sono già certi, liquidi ed esigibili”.

218 Per la ricostruzione dell’indisponibilità quale attributo genetico del credito tributario in conseguenza della particolare natura della pretesa erariale poiché espressione della funzione pubblica volta all’equo riparto tra i consociati del carico fiscale, si rimanda, anche per l’illustrazione dei profili critici di non poco momento che si accompagnano a siffatta elaborazione, al paragrafo 3.1.

219 L’art. 53, considerato vera e propria “norma cardine” dell’intero sistema tributario, è inserito nel titolo IV dedicato ai “rapporti politici”. In questo modo si è inteso sottolineare come la capacità contributiva esprima, anzitutto, un criterio ordinatorio dei rapporti tra consociati e tra i consociati e lo Stato: criterio di salvaguardia dei diritti dei primi ma, al contempo, fondamento del loro dovere contributivo, alla stessa stregua di altri doveri, come quello di voto, il dovere di difesa della Patria, il dovere di fedeltà alla Repubblica e di obbedienza alla Costituzione e alle leggi.

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il dovere di tutti

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di contribuire alla copertura delle spese pubbliche, in stretta connessione con l’art. 2 Cost.; per altro verso, e qui sta soprattutto la

Lo Statuto albertino del 1848 non parlava di capacità contributiva: per l’art. 25, tutti i regnicoli dovevano contribuire ai carichi dello Stato “nella proporzione dei loro averi”.

La capacità contributiva è nozione anzitutto economica e, come formula normativa, comparve per la prima volta nei lavori preparatori della Costituzione, in una proposta di articolato formulata da Lelio Basso, nel corso della seduta del 16 novembre 1946 della prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione. La proposta non venne approvata. Aldo Moro e Giuseppe Dossetti, nelle dichiarazioni di voto, tuttavia, riconobbero la necessità di prevedere in Costituzione una specifica disposizione riguardante le prestazioni patrimoniali imposte.

L’Assemblea costituente si occupò dell’argomento nella seduta del 23 maggio 1947. In quella sede, a firma, tra gli altri, di Edgardo Castelli ed Ezio Vanoni, venne riproposto il principio di capacità contributiva come criterio fondante la contribuzione obbligatoria per

“tutti quanti partecipano alla vita economica, sociale o politica dello stato”. Nello svolgimento della discussione, fu proprio Castelli a riassumere le proposte emerse nel corso dei lavori ed a formulare, d’intesa con Luigi Meda e Salvatore Scoca, una proposta conclusiva, in termini esattamente corrispondenti a quelli poi trasfusi nell’art. 53, co. 1.

Durante il dibattito, tuttavia, l’Assemblea non si soffermò tanto sulla nozione in sé di capacità contributiva: di essa, infatti, si parlò di passata nell’intervento di Meuccio Ruini, presidente della “commissione dei 75”, che la definì “formula tecnicamente preferibile”

rispetto alla nozione di “averi”, adottata nello Statuto albertino, e a quella di “mezzi”, contemplata nella Costituzione della Repubblica di Weimar. Piuttosto, l’Assemblea si preoccupò di un profilo, per così dire, contenutistico di detta capacità. Dalla lettura dei resoconti si desume con chiarezza come il timore dei costituenti, messo particolarmente in luce da Scoca e ripreso da Ruini, fosse quello di evitare che l’imposizione colpisse chi possedeva soltanto “un minimo necessario al soddisfacimento delle esigenze inderogabili della vita”. Il tema delle esenzioni fu a lungo dibattuto. Alla fine prevalse la proposta, formulata dallo stesso Ruini, e condivisa da Villani, di evitare l’inserimento in Costituzione di un’autonoma previsione su questo tema, e non perché non fosse condivisa l’esigenza di preservare da imposizione quelle minime ricchezze, ma perché si ritenne che, a questo fine, fosse già sufficiente il principio di capacità contributiva. Principio che, come diffusamente esposto da Ruini nella seduta del 23 maggio 1947, contiene “in germe già l’idea delle limitazioni e delle esenzioni per il fatto che colui il quale dovrebbe contribuire non ha capacità contributiva [ … ] ed in tali condizioni senza dubbio si trova chi non ha il minimo indispensabile per vivere” (approfondimenti ulteriori in MOSCHETTI, F., Capacità contributiva, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 2; FALSITTA, G., Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio di capacità contributiva nella Costituzione, in Riv. dir. trib., 2009, I, 97 ss.).

220 L’Assemblea costituente si occupò anche del profilo soggettivo del dovere di contribuzione e, in sul tema, due furono gli interventi più rilevanti: il primo di Castelli, che,

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sua specificità, indica la capacità contributiva

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come criterio in base al quale ripartire tali spese tra i consociati

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conformemente al disposto dell’art. 3 Cost.

“pur non nominandoli”, intendeva usare una locuzione in grado di ricomprendere tra i soggetti passivi dei tributi anche gli stranieri; il secondo di Ruini, il quale, pur raccogliendo questa indicazione, propose di adottare una formulazione sintetica, più adatta ai testi costituzionali: “non è necessario entrare in locuzioni vaghe: basta dire che “tutti devono concorrere”. Quel “tutti” riguarda anche gli stranieri”. Anche in questo caso, la proposta di Ruini, formulata nella seduta dell’Assemblea del 23 maggio 1947, divenne articolato costituzionale ed espressione del principio di universalità del tributo che, in armonia con il fondamentale canone di uguaglianza formale, affermato dall’art. 3, co. 1, Cost., deve colpire, ricorrendone i presupposti, tutti i soggetti senza distinzioni, privilegi o discriminazioni di sorta.

221 Il concetto di capacità contributiva apparve, ai primi commentatori, come una “scatola vuota”. La tesi svalutativa del principio, però, non attecchì e la letteratura più attenta, come la giurisprudenza della Corte costituzionale, propose interpretazioni volte a riempire quella

“scatola” di contenuti pregnanti (GIARDINA, E., Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961; MOSCHETTI, F., Il principio di capacità contributiva espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2007, passim; la giurisprudenza della Corte si può vedere richiamata in BATISTONI FERRARA, F., Commentario della Costituzione fondato da G. Branca, continuato da A. Pizzorusso, Rapporti politici, (art. 53- 54), Bologna-Roma, 1994, sub art. 53, t. Branca, sub art. 53, Bologna-Roma, 1994, e in DE MITA, E., Fisco e Costituzione, Milano, 1984 e 1993). Il cuore sostanziale del principio è la forza o capacità economica riconducibile ad elementi in grado di esprimerla nella sua oggettività. Ne discende che, mentre non possono essere elevati a presupposto di un tributo fatti non idonei a manifestare una forza simile (così, ad esempio, le connotazioni fisiche di un soggetto, le sue convinzioni ideologiche o religiose, il suo orientamento sessuale, l’appartenenza ad una etnia o altri elementi similari), rimangono senz’altro attratti in quella nozione il reddito, il patrimonio e il suo incremento di valore – indici diretti di capacità contributiva – i consumi, i trasferimenti e gli affari giuridici - indici indiretti di capacità contributiva (DE MITA, E., Capacità contributiva, in Dig. comm., II, Torino, 1987, 454 ss.).

Elementi ulteriori si sono aggiunti in tempi recenti: il valore netto della produzione, posto a fondamento dell’imposta regionale sulle attività produttive, e l’uso o la produzione di risorse inquinanti, “presupposto” di alcuni c.d. tributi ambientali. Su questi ultimi si è aperto un vivace dibattito. Quanto ai c.d. tributi ambientali, la loro riconduzione all’art. 53 non è l’unica soluzione prospettabile. È possibile che essi siano qualificabili come prelievi bensì ablativi di una porzione della ricchezza prodotta dall’attività nella quale tali sostanze sono impiegate o prodotte, ma non riproduttivi dall’art. 53 del titolo giuridico legittimante il prelievo medesimo. Sembra che il titolo di quella ablazione possa risiedere nel danno o

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nell’illecito e, dunque, che sia possibile qualificarla come obbligazione riparatoria o sanzionatoria, anziché contributiva.

Con riguardo al valore netto della produzione il nocciolo del problema è se l’esercizio di un’attività d’impresa o di lavoro autonomo cui quel valore è riferibile, comportando la nascita dell’obbligazione d’imposta indipendentemente dal reddito, non possa finire per determinare una sorta di confisca parziale del bene, ovvero dell’azienda genericamente intesa, dal quale scaturisce quello stesso valore netto. La questione, dunque, è se il presupposto dell’IRAP esprima una reale attitudine alla contribuzione, oppure se una consimile attitudine si debba ritenere assente poiché il prelievo legato a questa imposta può compromettere, anche solo potenzialmente, l’integrità della fonte, ovvero e in termini ancor più comprensivi, la proprietà individuale. Su questo aspetto la dottrina è divisa in schiere irriducibilmente contrapposte. La Corte costituzionale, da parte sua, parzialmente modificando precedenti orientamenti, ha adottato una lettura puramente oggettiva o oggettivistica dell’art. 53 (C. cost. 21.5.2001, n. 156, in www.cortecostituzionale.it; in dottrina, favorevolmente, GALLO, F., Le ragioni del fisco, Bologna, 2011, 79 ss.; in netta e aspra contrapposizione, FALSITTA, G., L’imposta confiscatoria, in Id., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, cit., 217 ss.; SCHIAVOLIN, R., L’imposta regionale sulle attività produttive. Profili sistematici, Milano, 2007; MOSCHETTI, F., Il principio di capacità contributiva, cit., 46 ss; GAFFURI, F., Il senso della capacità contributiva, in Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., 31 ss.). Il problema richiamato, in linea teorica, non attiene soltanto all’IRAP, ma riguarda, all’evidenza, tutti i tributi e, in particolare, quelli reddituali e patrimoniali, ed anche, sempre in teoria, forme nuove di prelievo radicate su elementi che solo in tempi recenti sono stati messi a fuoco (GALLO, F., L’uguaglianza tributaria, Napoli, 2012, passim).

È ferma convinzione di GIOVANNINI, A. (Id., Capacità contributiva e imposizione patrimoniale: discriminazione qualitativa e limite quantitativo, in Rass. trib., 2012, 1131 ss.) che il principio scolpito nell’art. 53 sganci la tassazione dal depauperamento che essa può determinare nel patrimonio del contribuente preesistente al prelievo. Detto in negativo, non crei o non imponga l’esistenza di un legame col diritto di proprietà, inteso come elemento

“costitutivo” della persona e della sua attitudine alla contribuzione. Per il principio costituzionale è sufficiente che l’elemento prescelto a presupposto del tributo sia in sé rilevante economicamente o lo sia almeno potenzialmente come produttivo di una ricchezza ulteriore rispetto a quella che esso, elemento, già esprime; potenzialità che gli conferisce una qualità ulteriore, giuridicamente apprezzabile, espressiva, per l’appunto, di una sua oggettiva idoneità alla contribuzione. L’art. 53, ponendo un criterio di ripartizione delle spese pubbliche e affidandosi a tal fine alla capacità contributiva, riprende e consacra il solo criterio in grado di dare a quella capacità una connotazione sostanziale: la forza economica (GALLO, F., Le ragioni del fisco, cit., 89 ss.; FEDELE, A., La funzione fiscale e la capacità contributiva nella Costituzione italiana, in Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., 14 ss.; BATISTONI FERRARA, F., Capacità contributiva, Enc. dir., Agg., III, Milano, 1999, 345 ss.).

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Emerge così la duplice funzione che il principio di capacità contributiva svolge nell’ordinamento tributario: una funzione solidaristica, nella parte in cui chiama tutti i consociati a concorrere, in base alla forza economica di ciascuno, alle spese necessarie alla sopravvivenza e al progresso della comunità statuale; ma anche una funzione garantista, laddove vincola il legislatore a coinvolgere nel concorso soltanto coloro che mostrano un’effettività attitudine alla contribuzione, nella misura e nei limiti in cui essa si manifesta

223

.

Come viene ormai largamente affermato, il fondamento di tale dovere contributivo non va rintracciato nella subordinazione dell’individuo ad un astratto potere di imperio, e dunque nella soddisfazione delle esigenze dello Stato-apparato

224

, né nel criterio commutativo

225

, ma nell’appartenenza del

222 Il principio in esame costituisce espressione di una regola fondamentale che presiede alla ripartizione dei tributi tra i consociati. Per la Corte costituzionale – con argomentare criticato in dottrina – il suo ambito applicativo, però, deve essere limitato alle sole imposte, con esclusione, quindi, dei tributi c.d. commutativi (posizione tralatiziamente ripetuta fin dalla sent. 2.4.1964, n. 30, in Giur. cost., 1964, 250. Cfr. MAFFEZZONI, F., Imposta, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 441 ss., specie 463).

223 Sulla connotazione essenzialmente solidaristica dell’art. 53, co. 1, Cost., MOSCHETTI, F., Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, passim, 59 ss.; sul suo ruolo primariamente garantistico, GAFFURI, F., L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969, 88 ss.; sui limiti al potere di imposizione, sia formale, sia sostanziale, che discendono dal principio, cfr. DE MITA, E., Il principio di capacità contributiva, in Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1991, 33; MARONGIU, G., I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, cit., passim.

224 Il principio di capacità contributiva, inserito in una Costituzione che ripudia la concezione liberale della finanza “neutrale” e che, al contrario, si apre al modello della finanza “funzionale”, ordina le entrate alla rimozione degli ostacoli economici che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei singoli, impediscono il pieno sviluppo della persona umana, secondo la tavola dei valori espressa nell’art 3, e, per il tramite delle leggi di spesa o di norme impositive di favore (di agevolazione o di esenzione), ordina la politica fiscale e di bilancio al conseguimento di finalità non soltanto tributarie, ma anche redistributive, così del carico, come della ricchezza (GALLO, F., L’uguaglianza tributaria, cit., 19 ss.).

225 Pure incarnato da un’obbligazione di stampo civilistico, il dovere tributario non trova la sua ragione in un rapporto commutativo tra singolo e Stato: non si adempie perché si riceve,

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singolo alla collettività organizzata e, di conseguenza, nell’interesse dei consociati alla partecipazione di ciascuno alle pubbliche spese, nonché alla commisurazione della partecipazione del singolo alla sua capacità economica, così da collocare, secondo l’orientamento prevalente, il dovere tributario tra quelli inderogabili di cui all’art. 2 Cost.

226

.

In questo senso, si individua il tratto distintivo del fenomeno impositivo nel profilo “comunitario” della fiscalità, evidenziandosi altresì che la necessità del concorso di tutti alle spese pubbliche ha riguardo a quella imprescindibilità del riparto che deriva dall’inserimento dell’individuo nella comunità organizzata

227

.

Se, dunque, in base ad una prima accezione, il fenomeno tributario si riconduce all’essenzialità del riparto, con esso si intende inoltre individuare il criterio attraverso il quale realizzare la distribuzione degli oneri gravanti sulla collettività, poiché l’affermazione della doverosità del concorso secondo capacità contributiva esprime un’esigenza di razionalità nella disciplina del

ma si adempie perché si partecipa alla stregua di membri di una comunità organizzata e, quindi, si adempie in qualità di corresponsabili delle sue esigenze e della sua sopravvivenza (FEDELE, A., Corrispettivi di pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, in Riv. dir. fin., 1971, II, 27 ss.; si riferisce “all’interesse individuale alla funzione riproduttiva dei pubblici servizi”, BERLIRI, L.V., op. cit., 56).

226 GALLO, F., Etica e giustizia nella nuova riforma tributaria, in Dir. prat. trib., I, 2004, 3, e in Pol. dir., 2003.

227 Così BERLIRI, L.V., op. cit., in cui “se si vuole dare un contenuto positivo al concetto ed alla definizione di imposta, occorre partire dalla funzione di riparto della legge di imposta”.

In argomento si confronti altresì: LA ROSA, S., Gli accordi nella disciplina dell’attività impositiva: tra vincolatezza, discrezionalità e facoltà di scelta, in La Rosa, S., Trittico di relazioni su “l’azione amministrativa tributaria”, Catania, 2008, 1 ss.; MARELLO, E., L’accertamento con adesione, cit., passim; MOSCATELLI, M.T., op. cit., 313 ss.; Id., La patologia delle definizioni consensuali, in Autorità e consenso nel diritto tributario, cit., passim; Id., Le fattispecie consensuali e negoziali nell’attività di accertamento ed in quella di riscossione del tributo, in Giust. trib., 2008, 659 ss.

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prelievo fiscale e di congruità nelle scelte attinenti ai criteri di ripartizione dei carichi pubblici

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.

La funzione impositiva è pertanto funzione di composizione degli interessi presenti nella collettività e di soluzione dei conflitti che si pongono in sede di istituzione ed attuazione dei tributi, attraverso l’individuazione della capacità contributiva quale fondamentale criterio per addivenire ad un equo riparto tra i consociati delle pubbliche spese

229

.

Pur nella difficoltà di sintetizzare le articolate problematiche in argomento, caratterizzate dalla molteplicità dei profili di interesse, può quindi considerarsi come ampiamente prevalente l’orientamento che, rintracciando la funzione del tributo in chiave solidaristica

230

, interpreta la fiscalità come funzione per

228 Così FEDELE, A., Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella costituzione italiana, cit., 972.

229 La ricchezza del singolo – detto in termini concisi – non è soltanto privata, ma, in parte, è anche pubblica, poiché “appartenente” allo Stato qualificato come collettività. Il tributo, pertanto, è il principale strumento attuativo della distribuzione del carico, al quale si collega l’interesse di “tutti” affinché quel dovere venga assolto dai singoli nella misura da “loro”

dovuta (VANONI, E., Elementi di diritto tributario, Padova, 1940, 47 ss.; FALSITTA, G., Natura e funzione dell’imposta, cit., 68). Il principio dettato dall’art. 2 Cost., quindi, in primo luogo, deve essere inteso come espressivo del dovere di solidarietà economica gravante sul singolo, perché è anzitutto uti singuli che la qualificazione solidaristica del dovere prende corpo, dovere che, per questo motivo, non può che trovare corrispondenza in un’obbligazione individuale a carattere pecuniario. Ma il principio in esame ha anche una faccia più propriamente sociale. Se valutato in questa dimensione, il dovere contributivo perde la configurazione giuridica individuale per assumere quella uti cives, riferibile a tutti i componenti la collettività. Il dovere giuridico singolo si diluisce e si fonde nel dovere di tutti e la distribuzione del carico non solo lascia il terreno della singola obbligazione giuridica per entrare nella dimensione macroeconomica e della finanza pubblica, ma può essere perfino guardata, quella distribuzione, dalla prospettiva opposta: anziché dell’imposizione, dalla prospettiva della spesa pubblica (BERGONZINI, E., I limiti costituzionali quantitativi dell’imposizione fiscale, I e II, Napoli, 2011, passim, specie vol.

I., 109 ss.).

230 La contribuzione obbligatoria ritrae la propria giustificazione dall’idea che il suo assolvimento soddisfi esigenze non individualistiche ma sociali, della collettività organizzata costituita intorno ai diritti dei singoli e delle formazioni sociali: il tributo rappresenta, per questo motivo, adempimento di un dovere inderogabile, in quanto “la

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realizzare il riparto dei carichi pubblici nel rispetto del principio di uguaglianza sostanziale

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.

Attribuita dunque alla fiscalità una “funzione comunitaria” sulla base di indici che esprimano, secondo criteri di razionalità, l’attitudine alla contribuzione di ciascun componente della collettività, l’alterazione di tale modalità del riparto – derivante dalla rinuncia, da parte dell’Amministrazione finanziaria, della totalità o di una frazione del tributo altrimenti esigibile nei confronti di singoli contribuenti – si traduce in un vulnus all’equilibrio fissato ex lege che comporta, come inevitabile conseguenza, la previsione di un maggiore aggravio fiscale per gli altri soggetti chiamati a concorrere alla copertura delle spese comuni

232233

.

ricchezza del soggetto rileva non solo come diritto, ma anche come dovere per la realizzazione di fini comuni” (MOSCHETTI, F., Capacità contributiva (Profili generali), in AA.VV., La capacità contributiva, Padova, 1993, 18-19, e Id., Il principio della capacità contributiva, cit., 59 ss.; MANZONI, I., Il principio di capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, 185 ss.; BATISTONI FERRARA, F., Capacità contributiva, cit., 345 ss.; ANTONINI, L., Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 200 ss. e 347 ss.; TESAURO, F., Istituzioni di diritto tributario, I, cit., 63 ss.; GIOVANNINI, A., Principi costituzionali e nozione di costo nelle imposte sui redditi, in Rass. trib., 2011, 609 ss.).

231 Se, dunque, l’inquadramento del dovere tributario tra quelli inderogabili di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. esprime l’esigenza della distribuzione tra i consociati degli oneri connessi all’appartenenza alla collettività, il legame dell’art. 53 Cost. con l’art. 3 Cost., affermato benché con diversità di accenti in dottrina e giurisprudenza, esprime altresì la necessità che la modalità del riparto risieda nella razionale distribuzione dei carichi, sicché “la diversa incidenza dell’onere fiscale sui singoli membri della collettività sia razionalmente collegata a situazioni effettivamente diverse da quelle degli altri consociati” (FEDELE, A., Appunti, cit., 23).

232 L’indisponibilità è allora attributo del credito tributario in conseguenza della particolare natura della pretesa del fisco, poiché espressione della funzione impositiva in quanto volta all’equo riparto tra consociati del carico fiscale. Per tale ricostruzione si rinvia ai più volte citati lavori di Falsitta sull’argomento. Volendo riassumere il concetto, in essi si afferma che nei confronti dei contribuenti l’Amministrazione finanziaria vanta un credito, un credito fiscale appunto, che è un credito della comunità. Esso nasce per ripartire tra i consociati spese comuni e si connota per la particolarità della suddivisione effettuata attraverso indici di riparto, ossia “… fatti e situazioni dai quali si fa dipendere la determinazione della quota

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di contribuzione facente carico a ciascun singolo e alla quale corrisponde il debito individuale di imposta di costui”. Si tratta, più esattamente, di “fatti e situazioni … che non hanno tanto la funzione di risolvere il conflitto di interesse esterno tra Stato e contribuente, quanto il conflitto interno tra contribuente e contribuenti, determinando appunto il relativo rapporto di partecipazione individuale alla comune contribuzione”. Infatti, per ciascun contribuente non è indifferente che gli altri contribuenti paghino in tutto o in parte la loro quota, né che il riparto sia corretto o scorretto, in quanto il vantaggio che deriva ad alcuni contribuenti ridonda a danno degli altri.

233 A ben altre conclusioni deve giungersi allorché la rinuncia, totale o parziale, al tributo che sarebbe ordinariamente dovuto, proviene dal legislatore, ed assume la veste dell’esenzione o di altra agevolazione fiscale (ad es., rinvio della tassazione, deduzione di spese, crediti di imposta, ecc.). Ciò in quanto trattamenti tributari di favore si possono giustificare, proprio alla luce degli artt. 2 e 3 Cost., se rivolti al perseguimento di interessi costituzionalmente rilevanti in grado di bilanciare il vulnus che, in prima battuta, sembra subire l’uguaglianza formale (si pensi a valori quali la famiglia, la salute, l’istruzione, il risparmio, la previdenza, l’assistenza, la cooperazione con carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, ecc.).

Secondo parte della dottrina (si veda, in particolare, POMINI, R., L’inderogabilità dell’obbligazione tributaria fra privato e Comune, cit., 58), le stesse esenzioni non derogano al principio di uguaglianza, ma indicano i casi in cui manca la capacità contributiva. Valutazione, questa, che spetta al legislatore ed è sindacabile dalla Corte costituzionale solo in caso di sua irragionevolezza.

Un ulteriore problema lungamente dibattuto è quello della legittimità dell’utilizzo del tributo per finalità extrafiscali, come l’incentivazione o la disincentivazione di taluni consumi o investimenti, la promozione di alcuni tipi di attività economica a scapito di altri, la ridistribuzione della ricchezza tra diverse categorie sociali o tra diverse zone del territorio dello Stato, e via dicendo. Orbene, deve ritenersi che l’utilizzo dell’imposizione tributaria per questi o altri fini di carattere extrafiscale sia legittimo a condizione che il legislatore non ricorra a forme di aggravio fiscale eccessive, atte a tradursi in un’espropriazione dell’indice tassato, e che le finalità di volta in volta perseguite godano di tutela sul piano costituzionale.

Sussistendo queste condizioni, vale quanto detto a proposito della legittimità costituzionale delle norme agevolative, sicché entro tali limiti può ritenersi ammesso l’impiego del tributo per finalità extrafiscali. Emblematici sono gli esempi costituiti dalla c.d. pornotax, istituita dall’art. 1, co. 466, L. 266/2005, allo scopo di colpire le imprese produttrici-distributrici di materiale pornografico e di incitamento alla violenza e, tramite il meccanismo di traslazione dell’imposta, i fruitori di tale materiale; la c.d. Robin Hood Tax, introdotta dall’art. 81, co.

16-18, L. 133/2008, mossa dalla filosofia di sottrarre a produttori e venditori di energia da fonti fossili i margini di extraprofitto ascrivibili a condizioni di mercato opportunistiche e speculative (prelievo dichiarato incostituzionale con sentenza n. 10/2015, non per motivi legati alla sua ratio, anzi ritenuta legittima, ma per questioni inerenti alla struttura e al carattere permanente di tale regime di tassazione); la maggiorazione dell’aliquota Ires a

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Ma il principio enunciato nell’art. 53, co. 1, Cost., se obbliga i consociati al rispetto del dovere contributivo, costituisce contemporaneamente un presidio affinché essi siano tassati solo per fatti economici espressivi di capacità contributiva – e nei limiti di tale capacità – garantendo in questo modo l’effettiva uguaglianza tributaria, che poi è anche giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici

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.

Viene dunque in rilievo la connotazione garantista del principio in esame, suscettibile di atteggiarsi, ad un tempo, come presupposto, parametro e limite quantitativo dell’imposizione fiscale. Quest’ultima, d’altra parte, essendo funzione strumentale al prelievo, presso i soggetti passivi delle diverse imposte, delle risorse finanziarie con cui far fronte alle spese pubbliche, rende imprescindibile il riferimento alla capacità economica di ciascun membro della comunità nella definizione dell’an e del quantum della rispettiva contribuzione obbligatoria

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carico delle c.d. società di comodo, prevista dall’art. 2, co. 36-quinquies, d.l. 138/2011, al fine di disincentivare l’utilizzo improprio della forma societaria.

234 In questa prospettiva, l’indisponibilità del credito tributario, intesa come inderogabilità del criterio di riparto fissato dalla singola legge di imposta, esprime la garanzia che il tributo sia attuato in conseguenza della capacità contributiva manifestata dal presupposto.

Le scelte cui è chiamato l’ufficio o ente pubblico, nella fase di accertamento dell’imposta, non sono discrezionali, nel senso di ponderazione dell’interesse pubblico collegato all’esercizio della potestà impositiva con gli altri interessi in gioco, ma sono decisioni finalizzate alla migliore determinazione del presupposto. Il principio in esame assicura, quindi, la giustizia nell’imposizione (FANTOZZI, A., Atti del convegno Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, cit.).

235 Lo studio della giurisprudenza costituzionale, tuttavia, ci dimostra che, in una prima fase, durata grossomodo fino alla metà degli anni ottanta, la Corte, esaltandone il profilo soggettivo, ha definito la capacità contributiva come l’idoneità soggettiva a sopportare l’obbligazione di imposta (C. cost., sent. 1968, n. 97: “vi è soggezione all’imposizione solo quando sussista una disponibilità di mezzi economici che consenta di farvi fronte”; Id., sentenze nn. 91/1972 e 200/1976, in www.cortecostituzionale.it), con la conseguenza che la commisurazione del carico tributario su ciascun soggetto deve essere parametrata ad indici concretamente rivelatori di capacità economica, riferibili al singolo contribuente, senza che su tale commisurazione possano incidere ricchezze da altri prodotte (C. cost, 15.7.1976, n.

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Ecco quindi spiegati i motivi per i quali la capacità contributiva funge contemporaneamente da presupposto e da parametro (o base di commisurazione) dell’imposta dovuta da ciascun consociato: in primo luogo, perché, in linea di principio, non può esservi dovere tributario in mancanza di una capacità economica soggettiva; secondariamente, perché tanto maggiore è la forza economica di un soggetto, tanto più elevato è il contributo che a questi può e deve essere richiesto

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179. In dottrina, cfr. MOSCHETTI, F., Il principio di capacità contributiva, cit., 45 ss.). In una fase successiva (dopo il 1985), in un crescendo inflessibilmente fermo e coerente, la Corte ha abiurato questo principio cardine dell’idoneità soggettiva e ha affermato che qualunque fatto espressivo di forza economica in sé, nella sua oggettività, può essere eretto dalla legge a presupposto di imposta, ancorché esso sia inidoneo a segnalare l’attitudine personale alla contribuzione del soggetto tassato. Il giudice delle leggi ha quindi finito per svilire la portata del termine “loro” nel contesto letterale dell’art. 53, co. 1, Cost., stabilendo per ciò che il contribuente deve pagare l’imposta anche se l’indice di ricchezza assoggettato a tassazione non è a lui riferibile (FALSITTA, G., Corso istituzionale di diritto tributario, cit., 71; in toni meno critici si esprime MELIS, G., Lezioni di diritto tributario, cit., 57, cui si rimanda anche per gli ampi richiami alla giurisprudenza costituzionale: “In tal senso, il concorso diviene non più un limite o una garanzia per il cittadino, bensì un criterio di ripartizione razionale e perequata dell’onere fiscale, con una sostanziale riconduzione del principio di capacità contributiva al principio di eguaglianza e la rivalutazione della

“ragionevolezza” del legislatore, intesta come razionalità, coerenza, non contraddittorietà delle sue scelte”).

236 Si tratta, a ben guardare, di una conclusione ovvia, dal momento che l’art. 53 Cost. va interpretato alla luce dell’intero sistema costituzionale e, in particolare, ponendo enfasi sul collegamento esistente tra tale norma e gli artt. 2 e 3 Cost., considerato che la prima costituisce la proiezione, nell’ambito tributario, del solidarismo e del principio di uguaglianza.

Proprio la lettura combinata dell’art. 53 con l’art. 3 Cost.: – da un lato, impone al legislatore di trattare in modo uguale situazioni espressive della medesima capacità contributiva, e in modo disuguale situazioni solo apparentemente identiche, ma in realtà sintomatiche di una diversa attitudine alla contribuzione; – dall’altro, consente allo stesso legislatore di utilizzare la leva fiscale al fine di migliorare la condizione dei meno abbienti, cercando di correggere gli squilibri sociali dovuti a situazioni sperequate di partenza, in un’ottica di giustizia redistributiva.

Particolarmente significativi sono, in proposito, i principi posti dalla Corte costituzionale con la sua prima sentenza in materia di uguaglianza (la n. 3 del 1957, in www.cortecostituzionale.it): 1) il concetto di eguaglianza “non va inteso nel senso che il

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Infine e soprattutto, la capacità contributiva costituisce il limite massimo al prelievo fiscale e in quest’ottica la locuzione va distinta da quella, all’apparenza equivalente, di capacità (o forza) economica. Infatti, la capacità contributiva presuppone la capacità economica, ma i due concetti non si identificano poiché non tutte le manifestazioni di capacità economica costituiscono anche manifestazioni di capacità contributiva, per l’ovvia ragione che, non può farsi carico delle pubbliche spese chi dispone di mezzi appena sufficienti a soddisfare i bisogni primari propri e del proprio nucleo familiare, o a fortiori chi non ha nemmeno lo stretto necessario per sopravvivere

237

. La tutela (o esenzione) del c.d. “minimo vitale” deve quindi ritenersi implicita nella nozione di capacità contributiva, di cui è espressione pure il divieto di innalzare il livello di tassazione al punto di snaturare l’obbligazione tributaria facendole assumere connotati latamente espropriativi o confiscatori

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legislatore non possa dettare norme diverse per situazioni che esso ritiene diverse”; 2) il legislatore deve “assicurare ad ognuno uguaglianza di trattamento quando eguali siano le condizioni soggettive e oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione”; 3) l’accertamento dell’esistenza e della rilevanza delle diversità di situazioni ricade nella sfera della discrezionalità legislativa; 4) tuttavia la Corte può controllare le scelte discrezionali del legislatore ed annullarle se sono irragionevoli.

Il canone della ragionevolezza – coincidente, in sostanza, con il dovere di coerenza e di non contraddizione – diventa così la barriera invalicabile di ogni scelta legislativa. Trasferito in campo tributario il principio di eguaglianza ha inglobato, nella giurisprudenza della Corte cost., la capacità contributiva, nel senso che le condizioni oggettive e soggettive da considerare per stabilire se vi sia o faccia difetto la parità di trattamento, sono proprio gli indici di capacità contributiva. È quindi legittimo affermare che il principio sancito dall’art.

53, co. 1, Cost., funge da elemento di completamento e di specificazione dell’uguaglianza nell’ordinamento tributario.

237 Ne consegue che non tutti gli elementi espressivi di capacità economica possono essere considerati come fatti al contempo espressivi di capacità contributiva: così, ad esempio, un reddito minimo, appena sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa per il suo possessore e per i suoi familiari, manifesta bensì capacità economica, ma non quella contributiva.

238 Riguardata dal punto di vista quantitativo, ossia dei limiti massimi dell’imposizione (BERGONZINI, G., I limiti costituzionali, cit., 452 ss.; per la letteratura tedesca, TIPKE, K.,

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Affinché il principio di capacità contributiva possa svolgere concretamente le fondamentali funzioni che gli sono assegnate, è indispensabile, stando all’insegnamento della Corte costituzionale, che il prelievo fiscale si appunti su fatti e situazioni (i c.d. indici di riparto) idonei a palesare un’attitudine alla contribuzione effettiva

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ed attuale

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, non già meramente supposta o remota.

I limiti costituzionali della pressione tributaria, in Riv. dir. trib., 2000, I, 761 ss.) è possibile offrire al principio di capacità contributiva una duplice valenza: come limite collegato alla non tassazione della ricchezza coincidente col c.d. minimo vitale, bensì espressione di una forza economica, ma non di una capacità contributiva (ANTONINI, L., op. ult. cit., 347 ss.);

e come limite coincidente pur sempre col minimo vitale, ma apprezzato, esso minimo, da una prospettiva capovolta e che, per semplicità, si può chiamare minimo vitale “rovesciato”.

Poiché il prelievo non può determinare l’indigenza, esso si deve arrestare là dove inizia il livello minimo di ricchezza necessaria per condurre una vita libera e dignitosa, pure quando chi ne sia colpito disponga, prima del prelievo stesso, di ricchezze superiori, anche di molto, a quelle coincidenti con quel minimo. In caso diverso ci troveremmo in presenza di un’imposta confiscatoria o ablativa: il tributo subirebbe una trasformazione qualitativa, smettendo i panni suoi propri per indossare quelli della sanzione (in termini condivisibili, FALSITTA, G., L’imposta confiscatoria, cit., 239-240, 272 ss.). E questa conclusione varrebbe non solo se il prelievo intaccasse il minimo vitale, ma anche se, in forza dell’applicazione di aliquote molto elevate, scarnificasse quasi totalmente una ricchezza ad esso assai superiore. Il che, d’altra parte, è vietato anche dalla regola iscritta nell’art. 42, co.

3, Cost.

Si tratta di verificare, allora, se vi è spazio, giuridicamente rilevante, per individuare un criterio cogente di limitazione quantitativa. È possibile che un principio capace di dar sostanza anche ad altri principi costituzionali possa essere ricercato nel 2° co. dell’art. 53 (sul quale, in generale, SCHIAVOLIN, R., Il principio di progressività del sistema fiscale, in Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., 151 ss.). La progressività, invero, non può essere intesa soltanto come criterio unidirezionale – “dall’alto verso il basso” – di redistribuzione delle risorse e ancor prima dei carichi pubblici a favore dei meno abbienti, criterio o regola che, attraverso un prelievo più che proporzionale rispetto al crescere della ricchezza, garantisce, col meccanismo della spesa pubblica, chi meno ha, soddisfacendo, così, gli interessi protetti dall’art. 2 Cost. e quello alla rimozione degli ostacoli indicato nel 2° co. dell’art. 3. La progressività come principio esprime un concetto relazionale o di rapporto tra situazioni oggettive e quindi, scavando ulteriormente, esprime l’idea che all’esito dell’imposizione la forbice preesistente tra ricchi e poveri – detto grossolanamente – deve essere bensì ridotta, ma in misura modulare. In misura tale, cioè, da scongiurare l’appiattimento verso il basso di situazioni originariamente diverse, l’azzeramento delle

“diseguaglianze legittime”, invece garantite dalla nostra Carta costituzionale.

239 Il giudice delle leggi ha in più occasioni affermato che la tassazione deve cadere su ricchezze effettive, quindi non fittizie o apparenti (tra le altre, C. cost., 28.7.1976, n. 200, in

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DE MITA, E., Fisco e Costituzione, I, cit., 483). Molteplici e rilevantissime sono le implicazioni che discendono dal requisito di effettività della capacità contributiva.

In primo luogo, esso comporta l’incostituzionalità, in linea di principio, delle presunzioni assolute nel diritto tributario, mentre le presunzioni relative, limitandosi a sollevare il Fisco dall’onere di provare determinati fatti fiscalmente rilevanti, non privano il contribuente della possibilità di dimostrare che la capacità contributiva presunta a suo carico è in tutto o in parte inesistente e, perciò, sono ammissibili se conformi a massime di comune esperienza (cfr. C. cost., sentenza n. 228/2014, in banca dati fisconline, relativa all’irragionevolezza dell’applicazione, ai lavoratori autonomi, della presunzione di imponibilità dei prelevamenti bancari), e tali da non addossare al privato oneri probatori impossibili da assolvere (c.d.

probatio diabolica).

Quanto sopra deve valere, per analogia di problematica, anche in ordine ai molteplici metodi, variamente denominati come “forfettari”, “sintetici”, “induttivi”, ecc., previsti dalle norme tributarie ai fini della quantificazione della base imponibile o dell’imposta, nonché per il sistema di determinazione catastale dei redditi fondiari, parimenti basato su criteri di

“media”, che a prima vista appaiono confliggenti con il requisito di effettività che deve contraddistinguere la capacità contributiva. I metodi di accertamento c.d. “induttivi”

debbono ritenersi legittimi nella misura in cui sia data la possibilità al contribuente di provare, nel contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria, che la propria capacità contributiva effettiva non corrisponde a quella ricostruita sulla base di presunzioni semplici.

Per ciò che concerne gli strumenti “paracatastali” di misurazione della ricchezza, collegati a coefficienti o indici, utilizzati in sede di accertamento per la determinazione del presupposto o della base imponibile, la loro conformità all’art. 53 Cost. è vincolata da alcune condizioni:

i risultati ai quali conducono devono, anzitutto, rispondere a canoni di ragionevolezza, logicità e normalità; ad essi deve essere possibile opporre una diversa ricostruzione probatoria e le prove a tal fine utilizzabili devono essere possibili e poter assumere concreto rilievo; essi, inoltre, quanto all’accertamento dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo, devono essere assistiti da ulteriori elementi probatori o, almeno, indiziari, così da garantire alla “realtà” contributiva ricostruita per il loro tramite un elevato grado di attendibilità. In dottrina, sul tema, cfr. LUPI, R., Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 75 ss.; TOSI, L., Il requisito di effettività, in La capacità contributiva, a cura di Moschetti, F., cit., 126 ss., e Id., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 80 ss. e 434 ss.

La determinazione catastale della base imponibile è stata parimenti ritenuta legittima in quanto, da un lato, il reddito medio ordinario corrispondente alla rendita catastale esprime una capacità contributiva non già fittizia, ma “figurativa”, poiché quando oggetto dell’imposta sia una “cosa produttiva, la base per la tassazione è data (e la capacità del contribuente è rivelata) dall’attitudine del bene a produrre un reddito economico e non dal reddito che ne ricava il possessore, dalla produttività e non dal prodotto reale”, dall’altro, la legge prevede la possibilità sia di correggere l’eventuale rilevante scostamento tra reddito reale del cespite e reddito medio ordinario della particella-tipo, sia di provare l’inesistenza di qualsiasi reddito (tale sistema è stato riconosciuto costituzionalmente legittimo dalla

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Corte costituzionale, non senza qualche forzatura, con sentenza 31 marzo 1965, n. 16, in Foro it., 1965, I, 1127).

Il postulato dell’effettività dovrebbe altresì comportare, a stretto rigore, l’espulsione dalla base imponibile delle componenti meramente nominali, prodotte dal processo inflattivo della moneta.

La Corte costituzionale, seguendo un indirizzo pragmatico, ha però ritenuto ininfluente, dal punto di vista del diritto, il processo di svalutazione della moneta, atteso che il legislatore può legittimamente scegliere di riferirsi ad essa quale unità nominale di misura (C. cost., 8.11.1979, n. 126, in Giur. it., 1980, I, 1, 353, e C. cost., 25.7.1983, n. 239, in Foro it., 1983, I, 2954).

Il requisito di effettività, inoltre, impone che la capacità contributiva venga determinata al netto dei costi sostenuti per produrre la ricchezza corrispondente. Sebbene l’ordinamento preveda eccezioni, anche significative, per lo più a motivo di una discriminazione qualitativa degli averi che in tal modo intende fondare, la regola generale rimane quella della “tassazione al netto”, regola che trova la sua più estesa operatività nelle imposte sui redditi (C. cost., 12.7.1965, n. 69, in Foro it., 1965, I, 1243; MANZONI, I., op. ult. cit., 131;

GIARDINA, E., op. cit., 207 ss.). In tempi più recenti, l’importanza della commisurazione dell’imposta ad un reddito netto è stata ribadita dalla Corte costituzionale in materia di accertamento induttivo, affermando l’obbligo di tenere conto – proprio in ossequio al principio di capacità contributiva – non solo dei maggiori ricavi, ma anche dell’incidenza percentuale dei costi relativi (C. cost., 8.6.2005, n. 225, in www.cortecostituzionale.it).

Il problema sul quale da tempo si discute è se a questo criterio si debba conformare anche la determinazione del reddito prodotto da un’attività reato, ossia e per meglio dire, la determinazione del profitto, prodotto o prezzo del reato che per la legge fiscale può, se non sottoposto a confisca o sequestro penale, rilevare alla stregua di reddito tassabile, a mente dell’art. 14, co. 4, l. 24.12.1993, n. 537 (GIOVANNINI, A, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Milano, 2000).

Ragionando per principi la risposta deve essere negativa (diversamente FALSITTA, G., Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. dir. trib., 2010, I, 349 ss.;

MARONGIU, G., Abuso del diritto o abuso del potere?, in Corr. trib., 2009, 1076 ss.;

TESAURO, F., Indeducibilità dei costi illeciti: profili critici di una norma di assai dubbia costituzionalità, in Corr. trib., 2012, 426 ss.). Un elemento che nella realtà pregiuridica è idoneo a manifestare forza economica di spesa, infatti, può non costituire oggetto di conforme valutazione sul piano del diritto. Non tutti i fenomeni astrattamente sintomatici di quella forza possono essere elevati a fattispecie giuridica e la circostanza che essi emergano sul terreno economico non è sufficiente affinché la legge li recepisca e li riconosca. La ragione di questa divergenza è semplice: la legge non è un guanto che calza a qualsiasi fenomeno poiché la forza di spesa di un elemento guardato nella sua matrice originaria deve essere sempre riportata ai principi posti a custodia del sistema. E la divaricazione tra qualificazione economica e qualificazione giuridica non è certo superabile invocando la norma sull’inerenza dettata dal testo unico delle imposte sui redditi: questo criterio, bensì

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utilizzabile nel procedimento interpretativo, interviene soltanto a posteriori, dopo cioè che i singoli componenti economici hanno superato il vaglio di conformità e per questa via sono stati elevati a fattispecie giuridica.

Per il diritto tributario si può qualificare alla stregua di costo la manifestazione di valore, misurata finanziariamente, di un bene o servizio, sostenuto per il perseguimento di interessi giuridicamente protetti riconducibili ad un’attività d’impresa o di lavoro autonomo.

L’art. 2 Cost. rafforza e, anzi, suggella queste considerazioni. Il principio di solidarietà impone di ritenere che la determinazione della capacità contributiva non possa essere condizionata da elementi economici finalizzati al conseguimento di interessi espulsi dalla qualificazione positiva dell’ordinamento. Come si è già detto, dall’art. 2 discende una regola sistematica fondamentale, che consente di dar corpo allo stesso vincolo solidaristico:

la regola della redistribuzione di una porzione della ricchezza privata; ricchezza che, se assunta a presupposto dell’imposta personale, conformemente alle regole di determinazione dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo, non può che essere stabilita per somma algebrica, comprensiva, come tale, degli elementi negativi (costi o spese) che concorrono a formarla. È questo modo che avviene la redistribuzione.

Ecco perché il costo di reato non può venire in considerazione come elemento negativo del reddito: se fosse ricondotto in quella somma algebrica, al pari del costo per sanzione pecuniaria, finirebbe per gravare, per essere ribaltato sulla collettività proprio in ragione dell’effetto redistributivo, generando, così, una conseguenza inconciliabile con la dimensione della legalità, presidio e cerniera del nostro ordinamento: i consociati sopporterebbero, seppure in frazione millesimale, la spesa che il reo ha sostenuto per commettere l’illecito. Il costo del reato, insomma, finirebbe per essere sopportato da chi è il soggetto passivo (diretto o indiretto, sulla base della tipologia di illecito, qui poco importa) del reato stesso. Senza troppi arzigogoli, quel costo si trasferirebbe (in parte) sulla collettività, che però è anche, contemporaneamente, vittima dell’illecito, e ciò, a tacere da altre considerazioni, fonderebbe una conseguenza paradossale all’evidenza e inaccettabile anche per il diritto (GIOVANNINI, A., Principi costituzionali e nozione di costo, cit., loc.

cit., e Id., Costo e sanzione nel reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2002, I, 875 ss.).

Il co. 4-bis dell’art. 14 della l. 24.12.1993, n. 537, introdotto dall’art. 2 della l. 27.12.2002, n.

289, disponeva, con chiarezza, l’indeducibilità integrale di siffatti costi, con la sola eccezione degli oneri connessi all’esercizio di diritto costituzionalmente garantiti (ad. es. le spese per l’assistenza legale). Più recentemente, con disposizione improvvida e malamente formulata (art. 8, co. 1, d.l. 2.3.12, n. 16) il legislatore è intervenuto prevedendo che “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 c.p.”.

Infine, può talvolta accadere che la legge, per effetto della violazione da parte del contribuente di taluni obblighi, determini effetti a lui sfavorevoli sul piano procedimentale,

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potenziando gli strumenti di controllo ed accertamento a favore dell’Amministrazione finanziaria o determinando preclusioni sul piano probatorio; oppure, sul piano sostanziale, maggiorando l’imponibile o negando la possibilità di fruire di agevolazioni, detrazioni e via dicendo. A tale riguardo, pur non mancando sentenze della Consulta che hanno ammesso la legittimità costituzionale di siffatte sanzioni “improprie”, è evidente che il requisito dell’effettività della capacità contributiva viene qui meno. Si tratta, infatti, di situazioni che possono determinare la tassazione di una capacità contributiva diversa da quella reale solo in quanto il contribuente non ha osservato determinati obblighi. Ne deriva, dunque, che una sanzione di tal fatta può semmai situarsi sul piano formale o procedimentale – sempreché non ne risulti irragionevolmente compresso il diritto di difesa – ma non anche su quello sostanziale, trattandosi peraltro di una situazione sostanzialmente omogenea a quella delle presunzioni assolute (ad es., una maggiorazione dell’aliquota d’imposta del 10%) già oggetto di censura in sede costituzionale, anche sotto lo stesso profilo della compressione del diritto di difesa, e non solo della tassazione di una capacità contributiva inesistente (MELIS, G., op. ult. cit., 69).

Dal complesso delle questioni appena trattate dovrebbe trarsi la conseguenza che la tutela della “ragion fiscale”, ossia dell’interesse pubblico alla raccolta di entrate tributarie sufficienti a soddisfare il fabbisogno finanziario dello Stato, non deve andare a scapito dell’esigenza di assicurare il giusto e perequato riparto dei carichi pubblici tra i consociati.

Tassare alcuno secondo parametri non idonei ad esprimere una capacità contributiva specifica ed effettiva per perseguire un interesse assertivamente predicato come superiore poiché appartenente allo Stato, è incompatibile sia col principio di capacità contributiva, sia col principio d’eguaglianza e con quello di solidarietà, se è vero, com’è da credere, che tutti questi principi non possono adattarsi a presupposti sostanziali “adulterati” da quell’interesse (sull’argomento, BORIA, P., Capacità contributiva, in Comm. Cost., I, a cura di Bifulco, R.

- Celotto, A. - Olivetti, M., sub art. 53, Torino, 2006, 1055 ss., e Id., L’interesse fiscale, cit.).

240 Quello dell’attualità non è un requisito autonomo della capacità contributiva, ma una specificazione del principio di effettività in base alla quale il tributo deve essere riferito ad un fatto idoneo a testimoniare una capacità economica attuale. Esso, in altre parole, deve colpire ricchezze che, al momento della tassazione, manifestano attitudine alla contribuzione, seppure si siano formate in tempi precedenti o se ne preveda la produzione in tempi relativamente prossimi alla tassazione medesima.

Quanto, in particolare, alle leggi d’imposta retroattive, pur vietate in linea di principio dall’art. 3, co. 1, l. 27.7.2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), esse sono ammissibili, ma ad alcune condizioni che la Corte costituzionale ha stabilito nel corso della sua evoluzione giurisprudenziale: il periodo trascorso dalla realizzazione dei fatti espressivi di capacità economica deve essere temporalmente contenuto, secondo una valutazione ispirata alla ragionevolezza; gli effetti economici di quei fatti devono permanere, sempre secondo ragionevolezza, nel patrimonio del contribuente; la tassazione ex post di quelle ricchezze deve essere prevedibile fin dall’inizio, in considerazione delle lacune normative originariamente esistenti nel sistema o a motivo dell’incerta formulazione della singola disposizione (C. cost., 20.7.1994, n. 315, in Giur. it., 1995, I, 2650). Quanto alle modifiche

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~ 141 ~

Inquadrate nella giusta prospettiva le innumerevoli implicazioni derivanti dell’adozione della capacità contributiva come criterio di massima per la ripartizione delle spese collettive, declinazione in ambito tributario del principio di uguaglianza, si comprendono sia le ragioni addotte a sostegno della tesi che rinviene nel primo comma dell’art. 53 Cost. il fondamento della natura indisponibile dell’obbligazione d’imposta, sia gli aspetti maggiormente problematici di siffatto ordine di idee.

Quanto alle prime, basti il rinvio all’imponente produzione scientifica di Falsitta sul tema

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normative in “corso d’anno”, sebbene generalmente ritenute ammissibili dalla Corte, l’art. 3 dello Statuto, già richiamato, le vieta espressamente. Pare così essere stata valorizzata la tesi che aveva postulato l’esistenza di un divieto di retroattività anche nel caso di disposizioni che, a periodo d’imposta iniziato, sostituivano il presupposto oggettivo o modificavano singoli fatti rilevanti nella costruzione di quel presupposto o della base imponibile: con simili modifiche, infatti, si “incide, alterandone le connotazioni, sulla capacità contributiva espressa da fatti già qualificati sul piano dell’ordinamento e realizzati in funzione di quella disciplina” (GIOVANNINI, A., Retroattività e stabilità delle leggi d’imposta, in Giur. it., 1995, I, 1, 2655 ss.; CONTRINO, A., Modifiche fiscali in corso di periodo e divieto di retroattività “non autentica” nello Statuto del contribuente, in Rass. trib., 2012, 589 ss.).

241 Ad onor del vero, riconducono l’indisponibilità del tributo al dovere generale di concorrere alle spese pubbliche secondo capacità contributiva anche quegli autori i quali affermano che l’obbligazione tributaria è espressione della sovranità finanziaria dello Stato o di altro ente pubblico, che le norme di diritto tributario sono norme di diritto pubblico e come tali inderogabili e che innanzi ad esse tutti i cittadini sono uguali (Così, ad es., POMINI, R., L’inderogabilità dell’obbligazione tributaria tra privato e Comune, cit., 52 ss..

Si vedano anche: TESORO, G., Principii di diritto tributario, cit., 48 ss., 451 s.; Id., Il principio dell’“inderogabilità” nelle obbligazioni tributarie della finanza locale, in Riv. it.

dir. fin., 1937, II, 56 ss.; INGROSSO, G., Diritto finanziario, Napoli, 1956, 98 s., 102 ss., 256 ss., nonché Id., Corso di finanza pubblica, Napoli, 1969, 18 ss., 217 ss., 244 ss.). Ma, come osserva GUIDARA, A., Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, cit., 119 ss., “tali argomentazioni, peraltro risalenti, appaiono alquanto generiche e poco conducenti, sembrano risentire di una non chiara percezione della distinzione tra potestà normativa tributaria e potestà amministrativa tributaria e, se riferite a quest’ultima, sembrano portare al risultato, inaccettabile, di escludere un potere di disposizione non soltanto del tributo, ma più in generale dei contenuti di tutte le funzioni amministrative, ossia sembrano escludere ogni considerazione di interessi diversi da quello che la funzione persegue. Inoltre, esse si possono egualmente ricondurre a tutte quelle norme costituzionali

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