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1.2 Morfologia 1.1Classificazione 1. INTRODUZIONE

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1. INTRODUZIONE

1.1 Classificazione

Il virus dell’epatite C (HCV), identificato da oltre vent’anni, è un membro della famiglia Flaviviridae.

Questa famiglia si suddivide in tre generi:

1. Flavivirus, a cui appartengono virus trasmessi da artropodi come il virus della Febbre gialla, il virus Dengue e il virus del Nilo Occidentale. Le infezioni da Flavivirus possono causare una sintomatologia che può andare da manifestazioni febbrili di scarso rilievo clinico a febbre emorragica o encefaliti con elevati tassi di mortalità.

2. Hepacivirus, di cui fa parte solo HCV che causa epatite cronica, cirrosi del fegato ed epatocarcinoma. Il virus ha un’elevata eterogeneità genomica; sono infatti stati caratterizzati sei diversi genotipi (da 1 a 6) all’interno dei quali si trovano molti sottotipi.

3. Pestivirus, virus che non infettano l’uomo come ad esempio il virus della diarrea bovina, il virus del colera suino e il virus della malattia di Border delle pecore.

1.2 Morfologia

La particella virale ha una forma sferica con diametro che varia da 55 a 65 nm. Nella porzione più interna del virione si trova il nucleocapside formato da un genoma a RNA a singolo filamento con polarità positiva racchiuso in un involucro proteico (capside) a forma icosaedrica. Il capside è a sua volta circondato da un rivestimento lipoproteico (envelope) di origine cellulare in cui sono ancorate le glicoproteine virali E1 ed E2 (FIG. 1.1).

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(Immagine tratta da: www.chiron.com/images/library/hcv.jpg)

FIG. 1.1: Morfologia del virus dell’epatite C.

1.3 Organizzazione genomica

Il genoma virale di HCV è formato da una molecola ad RNA a singolo filamento con polarità positiva di circa 9.6 Kb. La molecola contiene una grande open reading frame (ORF) fiancheggiata all’estremità 5’ e 3’ da regioni non tradotte (UTR). Queste contengono elementi che agiscono in cis sull’RNA, importanti per la traduzione e replicazione del genoma virale. L’elemento IRES nella regione 5’UTR media infatti la traduzione dell’RNA e quindi la formazione di un’unica grande poliproteina di 3010 aminoacidi che verrà processata da proteasi cellulari e virali determinando la produzione di 10 proteine sia strutturali che non-strutturali. La poliproteina può infatti, essere divisa in due regioni: la prima lunga circa un terzo del genoma, è posta vicino all’N-terminale e codifica le proteine strutturali come la proteina core, le glicoproteine di superficie E1 ed E2 e il polipeptide p7, mentre i restanti due terzi dell’RNA più vicini al C-terminale codificano per le proteine non-strutturali come NS2, NS3, NS4A, NS4B, NS5A ed NS5B (FIG. 1.2).

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Nel genoma di HCV oltre a questa ORF codificante la poliproteina è presente una seconda ORF che si sovrappone alla sequenza della proteina core. Questa cornice di lettura alternativa manca di un codone di inizio AUG e ciò suggerisce che per la sua eventuale espressione sia necessario un evento di traduzione inusuale.

(Immagine tratta da: Dubuisson et al., 2007; modificata)

FIG. 1.2: a Rappresentazione schematica del genoma virale (S= sequenze

codificanti le proteine strutturali; NS= sequenze codificanti le proteine non strutturali).

b Posizionamento della poliproteina sul Reticolo Endoplasmatico dove verrà

processata da proteasi cellulari e virali.

a.

b. a.

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1.4 Proteine strutturali

PROTEINA CORE

La proteina core è una RNA-binding protein implicata nella formazione del nucleocapside e viene prodotta dalla poliproteina grazie all’azione di una peptidasi dell’ospite. E’ stato dimostrato che la forma matura del core consiste in una alfa-elica dimerica che può essere divisa in 2 domini: i due terzi dell’elica vicini all’N-terminale costituiscono il dominio idrofilico (D1) mentre la restante parte vicino al C-terminale fa parte del dominio idrofobico (D2).

La proteina core è infatti in grado di formare omodimeri attraverso la porzione amino-terminale, processo che sembra necessario per la formazione del capside ed inoltre, legandosi al 5’UTR del genoma virale determina il blocco della traduzione e permette l’incapsidamento di quest’ultimo (Shimoike et al., 1999). I meccanismi di assemblaggio del nucleocapside di HCV sono poco conosciuti ma è stato ipotizzato che il legame della proteina core con lo strato fosfolipidico sia uno step importante per l’assemblaggio (Boulant et al., 2005).

La proteina core sembra interagire con varie proteine cellulari ed influenzare numerose funzioni della cellula ospite (McLaunchlan 2000, Tellinghiusen et al., 2002). E’ stato proposto infatti un suo coinvolgimento nel signaling cellulare, nell’apoptosi, nella carcinogenesi e nel metabolismo dei lipidi. In molti casi comunque, non è chiaro se queste interazioni avvengono nel corso di una normale infezione o sono artefatti di una espressione ectopica o di una over-espressione.

GLICOPROTEINE E1 ED E2

Le glicoproteine E1 ed E2 sono rilasciate dalla poliproteina grazie a proteasi cellulari e sono componenti essenziali dell’envelope del virione. Queste proteine si estendono nella poliproteina dall’aminoacido 192 al 383 per E1 e dall’aminoacido 384 al 746 per E2 ed hanno rispettivamente un peso molecolare di circa 35 e 72 kDa. Esse sono proteine transmembrana di tipo I glicosilate con un grande ectodominio all’N-terminale ed una regione idrofobica di ancoraggio al C-terminale. E1 ed E2 si assemblano come un eterodimero non covalente che si ritrova sulla superficie del virione ed è coinvolto nell’entrata del virus nella cellula ospite (Lavie et al., 2007).

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Nella sequenza della glicoproteina E2 sono state identificate due regioni ipervariabili (HVR). La prima è costituita da 27 aminoacidi dell’ectodominio di E2 ed è chiamata HVR1. L’elevata variabilità di questa regione sembra essere dovuta principalmente a meccanismi di evasione del virus dal sistema immunitario. Infatti un clone HCV privo di HVR1 mostra un’infezione fortemente attenuata in scimpanzé ipotizzando un ruolo funzionale di questo dominio, probabilmente nell’entrata del virus. Malgrado la variabilità della sequenza di HVR1, la conformazione risulta altamente conservata tra i vari genotipi. Inoltre HVR1 è una regione globalmente basica ed i suoi residui basici modulano l’entrata del virus nelle cellule. La seconda regione ipervariabile di E2, HVR2, è importante per il legame con recettori cellulari (Dubuisson et al., 2007).

Gli ectodomini di E1 ed E2 sono altamente modificati da legami con glicani. E1 ed E2 possiedono rispettivamente più di sei e undici potenziali siti di glicosilazione e la maggior parte di essi sono ben conservati. E’ importante sottolineare che alcuni glicani svolgono un ruolo importante nel ripiegamento della glicoproteina di HCV o nell’entrata del virus (Helle et al., 2007). Vista l’importanza delle glicoproteine di superficie, queste risultano essere un buon target per lo sviluppo di molecole antivirali che bloccano l’entrata di HCV nelle cellule bersaglio.

p7

La proteina p7 è un piccolo polipeptide idrofobico di 63 aminoacidi localizzato nella poliproteina di HCV tra le proteine strutturali e non strutturali e viene rilasciato grazie ad un taglio proteolitico di una peptidasi dell’ospite localizzata nel reticolo endoplasmatico (RE). p7 infatti, ha 2 domini transmembrana ed i suoi domini N e C-terminali sono orientati verso il lume del RE. E’ stato dimostrato che p7 forma canali ionici in membrane lipidiche artificiali e quindi viene ipotizzato che questa proteina possa appartenere alla famiglia delle viroporine (Griffin et al., 2003).

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1.5 Proteine non strutturali

NS2

La proteina NS2 è una proteina integrale di membrana di 21-23 kDa. Essa possiede un dominio N-terminale costituito da residui idrofobici che formano 3 o 4 eliche transmembrana che sono inserite nel doppio strato lipidico della membrana del RE mentre la regione C-terminale probabilmente è esposta nel citoplasma (Suzuki et al., 2007). I 130 aminoacidi del C-terminale di NS2 insieme con i primi 180 aminoacidi della proteina NS3 formano il complesso proteinasico NS2-3. Il ruolo di questo complesso sembra limitato al taglio autoproteolitico in cis della giunzione fra NS2 e NS3 (Dubuisson, 2007).

NS3

NS3 è una proteina multifunzionale dato che gli ultimi 180 nucleotidi della sua regione amino-terminale producono una serina-proteasi responsabile del processamento a livello dei siti NS3/4A, NS4A/B, NS4B/5A e NS5A/B, mentre la porzione carbossi-terminale ha attività di NTPasi/elicasi essenziale per la trascrizione e la replicazione del genoma di HCV (Dubuisson, 2007).

NS4A

NS4A è una piccola proteina che pesa circa 6 kDa e funziona da cofattore di NS3, potenziandone quindi l’attività protesica. La regione centrale della proteina NS4A è coinvolta nel processamento della poliproteina virale (Suzuki et al., 2007).

NS4B

NS4B è una proteina integrale di membrana di circa 27 KDa. NS4B sembra avere un ruolo diretto nella riorganizzazione delle membrane cellulari per formare strutture membranose presenti nel citoplasma chiamate “membranous web” utilizzate da HCV per replicare (Egger et al., 2002).

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NS5A

E’ una fosfoproteina ancorata alla membrana che esiste nella forma fosforilata (56 kDa) e iperfosforilata (58 kDa). Il significato funzionale di queste due forme è ancora sconosciuto ma NS5A è essenziale per la replicazione del genoma del virus. E’ stato inoltre dimostrato che questa proteina è implicata nella modulazione della risposta cellulare all’interferon (Tan et al., 2001).

NS5B

NS5B è una proteina di circa 65 KDa ed è l’RNA polimerasi RNA dipendente codificata dal virus. L’enzima ha la tipica struttura “dita-palmo-pollice” (fingers-palm-thumb) delle polimerasi (Lesburg et al., 1999).

Essa forma un complesso di replicazione con altre proteine virali e cellulari il quale si associa a membrane intracellulari (Schmidt-Mende et al., 2001).

1.6 Ciclo replicativo

Il ciclo replicativo di HCV è un processo costituito da varie fasi. Il primo step prevede il legame del virus attraverso l’eterodimero E1-E2 con recettori presenti sulla superficie cellulare. Uno dei primi recettori cellulari identificati è stato un membro della famiglia delle tetraspanine chiamato CD81. Esso è implicato in molte attività come l’adesione cellulare, la motilità, la metastasi, l’attivazione cellulare, la trasduzione del segnale, la proliferazione e differenziamento delle cellule B e T (Levy et al., 1998). CD81 è costituito da 4 domini transmembrana e 2 loop extracellulari: Small extracellular loop (SEL) e large extracellular loop (LEL). E’ stato ipotizzato che il legame di E2 al CD81 possa dipendere principalmente da LEL (Cocquerel et al., 2006). Esistono però delle linee cellulari umane che esprimono CD81 ma non sono suscettibili all’infezione da HCV e quindi è stato ipotizzato che altre molecole cellulari possano essere coinvolte nell’interazione virus-cellula. Infatti alcuni studi hanno riportato anche l’interazione di E2 con SR-B1, un recettore scavenger di classe B tipo I dotato di 2 domini transmembrana ed un dominio extracellulare. SR-B1 è un recettore capace di internalizzare i propri ligandi specifici come le lipoproteine ad alta

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densità (HDL) ed è altamente espresso sugli epatociti. E’ stato dimostrato che SR-B1 è coinvolto nell’entrata del virus nella cellula e lega E2 (Cocquerel et al., 2006). Altri recettori candidati al legame con HCV sono le proteine delle giunzioni occludenti di membrana (tight junctions), la Claudina-1 (CLDN-1) che sembra essere coinvolta nell’ingresso del virus nella cellula più tardivamente rispetto a CD81 (Evans et al., 2007) e l’Occludina (OCLN) identificata solo recentemente (Ploss et al., 2009). Altri possibili candidati sono i recettori lipoproteici a bassa densità (LDL receptors) in quanto è stato osservato un’associazione fisica di HCV con LDL o VLDL (lipoproteine a bassissima densità). E’ stato perciò ipotizzato che l’LDL receptors potrebbe permettere l’internalizzazione di HCV quando il virus è legato a queste lipoproteine (Cocquerel et al., 2006; Suzuki et al., 2007). Anche le lectine di tipo C (calcio dipendenti), come L-SIGN e DC-SIGN sono state studiate come possibili recettori per la loro affinità con le proteine dell’envelope di HCV, però queste non sono espresse sugli epatociti e quindi non possono funzionare da recettori su queste cellule. Un possibile ruolo di L-SIGN e DC-SIGN potrebbe essere quello di legare il virus e trasferirlo agli epatociti (Suzuki et al., 2007).

Nonostante non siano ancora noti del tutto i recettori coinvolti nell’ingresso di HCV, il risultato dell’interazione virus/cellula è l’endocitosi del virione. La successiva fusione dell’envelope virale con la membrana endosomiale determina il rilascio del nucleocapside nel citoplasma cellulare. Il genoma virale viene quindi a trovarsi all’interno della cellula ospite ed essendo costituito da una molecola di RNA a polarità positiva, funzionerà direttamente da RNA messaggero (mRNA) e verrà quindi tradotto. La traduzione IRES-dipendente determina la formazione di una poliproteina che trasloca al reticolo endoplasmatico rugoso; questa verrà poi processata da proteasi cellulari e virali che determineranno la produzione delle proteine virali.

La replicazione del genoma avviene nel citoplasma e procede attraverso un intermedio a RNA a polarità negativa che funziona come stampo per produrre i genomi virali. Tale processo è guidato da NS5B. E’ stato inoltre ipotizzato che NS5B in associazione con altre proteine virali e cellulari possa formare un complesso replicativo associato a membrane intracellulari (Schmidt-Mende et al.,2001). Anche i vari genomi progenie neo-sintetizzati verranno in seguito utilizzati come mRNA per la sintesi delle proteine virali.

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La fase successiva prevede l’assemblaggio delle particelle virali. Questa fase non è stata ancora compresa nei dettagli ma sembra che, contemporaneamente all’oligomerizzazione delle proteine capsidiche, l’interazione della proteina core con l’RNA del virus sia un evento importante. In particolar modo la proteina core si lega al 5’ UTR, blocca la traduzione e determina quindi l’incapsidamento del genoma virale (Shimoike et al., 1999).

L’acquisizione dell’envelope sembra sia dovuta dalla gemmazione delle particelle virali attraverso le membrane del reticolo endoplasmatico dove sono ancorate E1 ed E2. Infine il rilascio delle particelle virali avviene attraverso la via secretoria della cellula e quindi passando dall’apparato del Golgi (FIG. 1.3).

(Immagine tratta da: Dubuisson et al., 2007)

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1.7 Tropismo d’ospite

HCV è un virus patogeno per l’uomo ed ha come organo target primario il fegato. In vivo e in vitro è stato osservato che la replicazione del genoma virale avviene infatti principalmente negli epatociti ed in misura minore nelle cellule emopoietiche come le cellule dendritiche e i linfociti B (Goutagny et al., 2003; Sung et al., 2003).

In vivo, oltre ad infettare l’uomo, il virus può infettare solo lo scimpanzé (Bartenschlager et al., 2000). Quest’animale infatti mostra un’elevata omologia genetica (circa il 98.5%) con l’uomo e molte analogie sono osservabili anche nella progressione della malattia. Per questi motivi, lo scimpanzè risulta un ottimo modello animale per lo studio del virus. Esso però presenta anche diversi svantaggi quali i costi elevati per il mantenimento dell’animale e ragioni etiche nell’uso dello scimpanzè come modello animale (Grakoui A. et al., 2001).

Uno dei limiti maggiori nello studio di HCV è la mancanza di un sistema adeguato di propagazione in vitro del virus. Per questo motivo negli anni si sono sviluppati dei sistemi di surrogati di HCV che hanno cercato di colmare le lacune sulla conoscenza della morfologia, del ciclo cellulare, della patogenesi e della risposta immunitaria indotta dal virus. Uno dei sistemi maggiormente utilizzato prevede la formazione di virus pseudotipizzati mediante, per esempio, l’ancoraggio delle glicoproteine di HCV sull’envelope di virus eterologhi come oncoretrovirus o lentivirus (Bartosch et al., 2003; Drummer et al., 2003; Hsu et al., 2003). Questi sistemi mimano sia l’interazione di HCV con le cellule target consentendo l’entrata virale sia le proprietà sierologiche del virus wild-type (Logvinoff et al., 2004).

1.8 Modalità di trasmissione

HCV è trasmesso principalmente per via parentale cioè attraverso il sangue. In questo caso i principali mezzi di contagio sono aghi e siringhe che vengono utilizzati più volte soprattutto per uso di droghe per via endovenosa. Anche le

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trasfusioni di sangue prima degli anni 90 hanno rappresentato un forte fattore di rischio. Successivamente lo screening obbligatorio del sangue basato sulla ricerca di anticorpi anti-HCV, ha notevolmente ridotto la percentuale di trasmissione dell’infezione per via trasfusionale. L’infezione può essere trasmessa durante interventi odontoiatrici, agopuntura ma anche tramite strumenti per effettuare tatuaggi o piercing, se la strumentazione usata non è monouso o perfettamente sterilizzata. Il virus viene trasmesso inoltre per via sessuale anche se in misura minore. La probabilità di trasmissione da madre a figlio è bassa ma aumenta notevolmente se la madre ha livelli elevati di viremia HCV ed è infetta anche dal virus dell’immunodeficienza umana (HIV) (Roberts and Yeung, 2002).

1.9 Epidemiologia

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il 3% della popolazione umana, circa 170 milioni di persone, è infetta da HCV ed ogni anno nel mondo si registrano dai 3 ai 4 milioni di nuovi casi. La percentuale di infezione varia però nelle diverse aree geografiche (FIG. 1.4). Questi dati sono spesso sottostimati, l’infezione infatti decorre in modo asintomatico ed il soggetto avverte le conseguenze dell’infezione solo molti anni dopo la trasmissione.

In Italia le persone HCV positive sono circa un milione con un gradiente che varia dal nord al sud e con l’età. In passato infatti, la fonte maggiore di infezione erano le trasfusioni di sangue da donatori positivi e quindi i pazienti ultrasessantenni infetti in maniera cronica risultano essere percentualmente più numerosi.

Oggi si conoscono sei diversi genotipi di HCV e un grande numero di sottotipi che sono distribuiti più o meno frequentemente nelle diverse aree geografiche.Infatti, i genotipi 1, 2 e 4 si ritrovano prevalentemente in Africa centrale e orientale, il genotipo 5 in Sud Africa, e i genotipi 3 e 6 in Cina, Sud-Est asiatico e nel subcontinente indiano. In queste aree ci sono inoltre un gran numero di sottotipi per ogni genotipo (Simmond et al., 2005).

Nel resto del mondo, in particolare nelle zone industrializzate, si ritrovano un piccolo numero di sottotipi di HCV che si sono ampiamente diffusi grazie a vie di

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trasmissioni estremamente efficaci come le trasfusioni di sangue o l’uso di droghe per via endovena. I più prevalenti sono 1a, 1b, 2a, 2b, 2c, 3a, 4a e 5a. In particolare, in Italia, il genotipo più frequente è l’1b seguito da 1a e 2a.

(Immagine tratta da: www.klinikum.uni-heidelberg.de/HCV.104920.0.html)

FIG. 1.4: Diffusione dell’infezione da HCV nel mondo

1.10 Patogenesi e decorso della malattia

Le prime manifestazioni cliniche dovute all’infezione da HCV compaiono dopo sei mesi circa dall’esposizione al virus. Inizialmente s’instaura una fase acuta che generalmente non viene riconosciuta in quanto la maggior parte delle persone infette da HCV non mostra alcun sintomo clinico; solo nel 10-30% dei casi sono presenti sintomi aspecifici come nausea, dolori muscolari, articolari e febbre. Lieve itterizia ed ingrossamento del fegato sono rari e possono avvenire solo in un terzo dei pazienti. E’ difficile che in questa fase si verifichino casi di epatite fulminante. Questi sintomi specifici possono comparire dopo qualche mese dall’infezione quando i livelli di alanina transferasi (ALT) generalmente sono elevati (fino a 10 volte più del normale) e si può rintracciare l’RNA di HCV nel sangue. Dopo l’episodio acuto il 20 o 30% dei casi guarisce, risulta negativo all’RNA virale e possiede ALT normalizzate mentre il

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70-80% dei pazienti evolve in epatite cronica. Nel corso del lungo stato di epatite cronica, si sviluppano gradualmente danni al fegato. Generalmente la maggior parte degli individui con epatite cronica non mostra alcun sintomo per decine di anni ed il solo segno della malattia può essere l’affaticamento. Circa il 20% di questi pazienti sviluppa infatti dopo circa 20 anni cirrosi del fegato e la progressione può essere più rapida a causa dell’uso di alcol, dell’età avanzata in cui si contrae l’infezione oppure dalla co-infezione con altri virus come il virus dell’epatite B (HBV) o HIV (Matthews and Dore, 2008).

I pazienti con cirrosi epatica, soprattutto se di sesso maschile, hanno una maggior probabilità di sviluppare carcinoma epatocellulare, una delle complicanze più gravi dell’infezione cronica da HCV. Il rischio di sviluppare tumore epatico per questi pazienti, si aggira intorno all’1-4% ogni anno.

In aggiunta ai danni epatici ci possono essere importanti manifestazioni extra-epatiche e le più frequenti sono certamente le crioglobulinemie.

1.11 Trattamento

L’infezione da HCV già dagli anni ottanta veniva trattata con terapie a base di interferone α (IFN −α) che spesso riuscivano ad ottenere la normalizzazione delle transaminasi in molti pazienti. L’IFN- α può essere combinato con la ribavirina, un analogo nucleosidico della guanosina, che sembra inibire l’attività dell’RNA polimerasi RNA-dipendente attraverso una deplezione intracellulare del pool guanosinico. Questo trattamento, nonostante alcuni risultati efficaci, può causare gravi danni collaterali come lo sviluppo di anemia emolitica nel 20% dei casi. Inoltre la risposta al trattamento sembra strettamente legata al genotipo virale.

Negli ultimi anni sono state sviluppate delle molecole di interferone legate covalentemente ad una molecola di glicole polietilene (Peg-IFN). Questi “interferoni peghilati” hanno un’emivita più lunga all’interno dell’organismo rispetto all’INF nativo e determinano per questo motivo una maggiore attività del farmaco. L’uso combinato di Peg-IFN e ribavirina varia in base al genotipo di HCV da trattare. La ribavirina viene infatti dosata in base al peso del paziente ed i genotipi 1 e 4 necessitano un

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dosaggio maggiore rispetto ai genotipi 2 e 3. Anche la durata della terapia è variabile, 48 settimane per i pazienti con genotipo 1 o 4, 24 per i genotipi 2 o 3. Questi trattamenti hanno determinato una risposta positiva stimata tra il 45 e 55% nei gruppi con genotipo 1 o 4 ma può arrivare all’80% nei gruppi con genotipo 2 o 3 (Dhillon et al., 2008).

Ad oggi non sono disponibili vaccini per prevenire l’infezione da HCV. Gli studi sono infatti ostacolati dalle limitate conoscenze dei meccanismi immunologici e dalla mancanza di modelli in vitro per lo studio del virus. Inoltre l’eterogeneità genomica virale determina un ulteriore complicazione per lo sviluppo di un vaccino efficace (Tedaldi, 2005).

1.12 Risposta immunitaria

L’infezione provocata da HCV evoca una risposta immunitaria sia di tipo cellulo-mediato che umorale. L’insorgenza di un’infezione cronica sottolinea che i processi di difesa immunitaria specifici per HCV non hanno avuto successo.

RISPOSTA CELLULO-MEDIATA

I responsabili della risposta cellulo-mediata sono i linfociti T i quali sono capaci di riconoscere antigeni (Ag) solo se in associazione con le molecole del Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC). I linfociti si distinguono in 2 sottopopolazioni con diverse funzioni: i linfociti T helper (Th) e i linfociti T citotossici (CTL). I CTL sono implicati sia nella risoluzione di infezioni virali, in quanto determinano l’eliminazione delle cellule infette, sia nel controllo di alcuni tumori.

Queste cellule, caratterizzate dalla presenza del recettore superficiale CD8, possono riconoscere antigeni estranei solo se presentati in associazione a molecole MHC di classe I, espresse dalla maggior parte delle cellule del nostro organismo. E’ infatti il legame del recettore delle cellule T (T cell receptor, TCR) con l’antigene esposto sulla cellula bersaglio che attiva l’apoptosi delle cellule infette (o tumorali) grazie ad un meccanismo mediato da recettori o basato sui granuli litici (Russell and Ley, 2002). Nel caso di infezione da HCV, è proprio l’attività citotossica dei CTL

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rivolta verso gli epatociti infetti che determina danni tissutali al fegato (Rosen et al., 2003).

L’altra sottopopolazione dei linfociti T, Th, (cellule CD4 positive) è capace di riconoscere Ag di HCV che vengono però presentati in associazione con MHC di classe II situate sulla superficie delle cellule APC (antigen presenting cells) come monociti, macrofagi, cellule dendritiche e linfociti B. L’attivazione dei Th determina principalmente la produzione di citochine capaci di indurre la maturazione completa dei CTL e dei linfociti B. Le diverse citochine prodotte permettono la distinzione dei Th in due classi (Th1 e Th2).

IFN-

γ

è la citochina maggiormente prodotta dai Th1 che orientano la risposta immunitaria specifica in senso cellulo-mediato attivando la risposta infiammatoria mentre i Th2 stimolano l’immunità umorale e la produzione di anticorpi, rilasciando prevalentemente IL-4 e IL-10 che prevengono l’eccessiva distruzione tissutale limitando l’infiammazione (Rosen et al., 2003).

Nella fase acuta di infezione da HCV, la forte risposta delle cellule T è strettamente associata al contenimento dell’infezione mentre se la risposta dei Th è inefficiente, l’infezione da HCV persiste (Ishii and Koziel 2008; Thimme et al., 2001; Day et al., 2002).

Il genoma virale appare nel plasma pochi giorni dall’infezione e tipicamente raggiunge un picco alla sesta/decima settimana. Il basso controllo della viremia dovuto al fallimento della risposta immunitaria, determina la persistenza virale (FIG.

1.5a) e lo sviluppo di una infezione cronica. Al contrario una vigorosa risposta

immunitaria può abbassare i livelli di viremia e contemporaneamente indurre un innalzamento dei livelli di transaminasi nel sangue (FIG. 1.5b, 1.5c). Questa risposta può avvenire in maniera transiente (FIG. 1.5b) o definitiva (FIG. 1.5c). Nel primo caso, dopo un certo periodo di tempo, la risposta immunitaria diminuisce e questo comporta un ulteriore innalzamento della viremia dopo fasi ondulanti che determina la cronicizzazione dell’infezione. Nel secondo caso la forte risposta immunitaria invece persiste nel tempo e conduce alla definitiva risoluzione dell’infezione.

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(Immagine tratta da: Bowen et al., 2005; modificata)

FIG.1.5: Grafici indicanti i livelli di viremia, la risposta delle cellule T CD4+, la risposta delle cellule T CD8+ e i livelli di transaminasi nel siero nel corso dell’infezione da HCV.

RISPOSTA UMORALE

In seguito al contatto del linfocita B con antigeni di HCV, il proprio complesso MHC di classe II carica peptidi antigenici che verranno riconosciuti dal linfocita Th che si attiva rilasciando citochine. Questo processo stimola la proliferazione e il differenziamento del linfocita B in plasmacellula, che produrrà una grande quantità di anticorpi (Ab).

Una piccola porzione di questi anticorpi può bloccare l’entrata del virus nella cellula target e per questo vengono denominati Ab neutralizzanti (NAb). Essi rappresentano una prima linea di difesa adattativa che limita la diffusione del virus e

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l’efficacia di molti vaccini antivirali è basata proprio sull’induzione degli NAb a scopo protettivo.

Ab specifici contro HCV possono essere rilevabili da 7 a 31 settimane dopo l’infezione e la risposta umorale è diretta verso vari epitopi virali.

In particolare i primi Ab rilevabili nel siero sono rivolti verso la proteina NS3 (Ab anti-c33) e la proteina core (Ab anti-capside o Ab anti-22C); in seguito si sviluppano anche gli anticorpi contro la proteina NS4 e le glicoproteine E1 ed E2 (Orland et al., 2001).

La HVR-1 della glicoproteina E2 è stata identificata come uno dei maggiori target degli NAb e grazie a studi in vivo sullo scimpanzé è stato possibile sottolineare l’importanza di questi NAb per una risposta immunitaria efficace e protettiva contro una successiva infezione (Farci et al., 1994).

La capacità del virus di persistere nell’ospite in presenza NAb rimane un aspetto ancora da chiarire. Sono stati ipotizzati diversi meccanismi mediante i quali HCV sfugge alla risposta immunitaria umorale. Uno degli aspetti fondamentali è l’elevata variabilità del genoma virale indotta durante la replicazione mediata dalla RNA polimerasi RNA-dipendente. La presenza di varianti virali nello stesso individuo (quasispecie) permette al virus di eludere la risposta immunitaria (Gremion et al., 2005; Bowen et al., 2005). In particolare la presenza di mutazioni al livello della HVR1 sembra determinante nello stabilire l’infezione nell’uomo (Farci et al., 2000).

Anche le lipoproteine a bassa densità sono implicate nell’attenuazione dell’attività degli NAb favorendo l’ingresso del virus nella cellula bersaglio (Voisset et al., 2006).

Infine l’elevato livello di glicosilazione delle proteine E1 ed E2 possono modulare l’immunogenicità di HCV limitando il legame degli Ab con gli epitopi presenti sulla superficie del virione; questo meccanismo è stato osservato anche per HIV (Wei et al., 2003). In particolare i glicani leganti E2 contribuiscono a ridurre il legame del virione agli NAb e allo stesso tempo facilitano l’entrata del virus nella cellula target interagendo con il CD81 (Helle et al., 2007).

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VALUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ NEUTRALIZZANTE DI ANTICORPI ANTI-HCV

Classicamente, un test in vitro per la misurazione di NAb nel sangue contro un determinato virus prevede il miscelamento di dosi scalari di siero o plasma in esame con una dose fissa di particelle virali. Il complesso viene poi aggiunto ad una coltura cellulare suscettibile all’infezione virale. Nel caso di HCV, la mancanza di un sistema semplice, affidabile e riproducibile che permetta la produzione di particelle HCV ha sinora impedito l’utilizzo di questo metodo per chiarire definitivamente il ruolo degli NAb anti-HCV in soggetti con epatite C di vario grado (Zeisel et al., 2007). Solo grazie al recente sviluppo di test di neutralizzazione di ultima generazione è stato possibile identificare gli NAb contro HCV e porre le basi della conoscenza della risposta immunitaria di tipo umorale. Infatti il metodo per la ricerca di anticorpi neutralizzanti ideato e messo a punto dal Dr. David C. Montefiori presso la Duke University Medical Center di Durham, NC, per HIV, è diventato per robustezza, sensibilità e plasticità uno standard di riferimento a livello internazionale (Mascola et al., 2005; Polonis et al., 2008). Tale sistema prevede l’utilizzo di virus ingegnerizzati (detti anche vettori virali) (vedi § 1.13, 1.14) che possiedono esternamente le glicoproteine di superficie (Env) di HIV utilizzate dal virus per infettare le cellule bersaglio. Per determinare la neutralizzazione anticorpo-mediata, queste particelle virali ingegnerizzate vengono mescolate con diluizioni scalari di siero o plasma di pazienti HIV-positivi; l’infettività residua viene poi calcolata su cellule target suscettibili all’infezione. In questi test è molto importante l’utilizzo di un gene reporter facilmente rivelabile che permetta l’immediata valutazione dell’effettiva neutralizzazione virale da parte degli anticorpi che possono impedire l’ingresso del virus nelle cellule bersaglio. Il gene reporter può essere espresso o dal virus ingegnerizzato o dalla cellula target utilizzata per l’infezione.

Basandosi sullo stesso principio François-Loïc Cosset; Laboratoire de Vectorologie Rètrovirale et Therapie Gènique, Ecole Normale Supèriere de Lyon ha sviluppato dei vettori retrovirali che possiedono le glicoproteine di superficie E1 E2 di HCV (Bartosch et al., 2003) da poter utilizzare in test di neutralizzazione.

Tuttavia, nonostante lo sviluppo di queste metodiche per individuare anticorpi ad attività neutralizzante anti-HCV, il ruolo di questi rimane oggetto di

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1.13 Vettori virali

I virus ingegnerizzati vengono usati per veicolare un gene esogeno in una cellula bersaglio (trasduzione) e per questo motivo vengono definiti vettori virali. I virus, infatti, sono veicoli naturali di acidi nucleici all’interno di cellule bersaglio in quanto per milioni di anni si sono evoluti diventando sempre più efficienti nell’infettare le cellule e introdurvi il loro materiale genetico. Numerosi tipi di virus, opportunamente modificati e resi sicuri per l’uomo, possono essere utilizzati per diversi scopi:

1. In terapia genica, il vettore virale che esprime un gene terapeutico all’interno di uno specifico tessuto permette il trattamento o la prevenzione di una particolare patologia (Lundberg et al.,2008).

2. In vaccinazioni, per introdurre nell’ospite un vettore codificante un immunogeno capace di indurre una risposta immunitaria protettiva, specifica e duratura nel tempo (Pistello et al., Submitted).

3. In test in vitro finalizzati a valutare l’effettiva entrata in cellule target del vettore virale esprimente un gene reporter, facilmente rilevabile (Mascola et al., 2005).

Per questi scopi sono stati ampiamente utilizzati varie particelle virali, sia con genoma a DNA come adenovirus e herpes virus sia con genoma ad RNA come i retrovirus e i lentivirus (Bouard et al., 2008).

1.14 Vettori retrovirali e lentivirali

I retrovirus sono virus che possiedono un genoma costituito da due molecole di RNA a singolo filamento a polarità positiva racchiuso in un capside rivestito ulteriormente da un envelope lipidico. Il genoma dei retrovirus nelle cellule target è retrotrascritto dalla DNA-polimerasi RNA-dipendente virale in una molecola lineare di DNA doppia catena che si integra nel genoma della cellula. Proprio per questa caratteristica, i retrovirus sono senza dubbio uno dei sistemi vettore più studiati, essi possono infatti integrare stabilmente un gene di interesse e permettere la sua

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espressione costitutiva nella cellula target. Esistono diversi tipi di vettori retrovirali come, ad esempio, quelli basati sul virus della leucemia murina (MLV), che hanno però l’inconveniente di poter trasdurre solo cellule in attiva replicazione in quanto è necessaria la disgregazione della membrana nucleare affinché il complesso di pre-integrazione possa accedere alla cromatina (Thomas et al., 2003). Questo limite può tuttavia essere superato utilizzando vettori basati sui lentivirus (un genere appartenente alla famiglia Retroviridae), che mantengono tutte le caratteristiche dei vettori basati sui retrovirus ma hanno sviluppato un meccanismo attivo di trasporto al nucleo del complesso di pre-integrazione e quindi sono in grado di trasdurre sia cellule in divisione che cellule quiescenti.

I vettori retrovirali e lentivirali sono generalmente prodotti usando un sistema split-component con il quale i geni necessari alla produzione del vettore sono generalmente forniti da costrutti separati che vengono co-trasfettati in appropriate linee cellulari (Connolly, 2002). Generalmente vengono utilizzati 3 costrutti a DNA: uno denominato packaging contenente due open reading frame (ORF) gag e pol che codificano proteine strutturali ed enzimatiche virali, un costrutto env che esprime l’envelope virale ed infine, il vettore di trasferimento con il transgene alle cui estremità sono presenti le due LTR, necessarie all’integrazione del gene d’interesse nel genoma della cellula ospite e la sequenza di incapsidamento (Ψ) (quindi è l’unico costrutto ad essere incapsidato nella particella virale).

La possibile patogenicità residua ha spinto verso l’utilizzo di vettori derivati da lentivirus dei primati, come il virus dell’immunodeficienza della scimmia (SIV) (Mangeot et al., 2002), o, per ulteriore sicurezza, vista la loro incapacità di infettare l’uomo, da quelli dei non-primati come il virus dell’immunodeficienza felina (FIV) o il virus dell’anemia infettiva equina (EIAV) (Siapati et al., 2005).

1.15 FIV e Vettori FIV-derivati

FIV è un virus appartenente alla famiglia Retroviridae, al genere lentivirus al quale appartengono virus come HIV-1, HIV-2 e SIV.

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FIV causa nel gatto (ospite naturale) una patologia simile a quella indotta da HIV nell’uomo, caratterizzata da una degenerazione del sistema immunitario dell’animale che favorisce l’instaurarsi di infezioni opportunistiche che ne determinano la morte. FIV inoltre presenta numerose omologie con HIV, tra cui l’organizzazione del genoma, il meccanismo di replicazione e l’effetto citopatico in vitro ma la specie-specificità del virus dell’immunodeficienza felina rende questo virus privo di rischi biologici per l’uomo.

Il virione maturo di FIV consiste in una particella sferica di circa 100-125 nm di diametro composto da envelope fosfolipidico sul quale si trovano la glicoproteina virali di superficie chiamata SU (o gp120) implicata nel riconoscimento del recettore presente sulla superficie della cellula target e la glicoproteina transmembrana detta TM (o gp40) che favorisce la penetrazione del virus all’interno della cellula ospite.

Al di sotto dell’envelope, e ad esso associato, si trova la matrice, costituita dalla proteina virale di matrice MA (o p15) che garantisce la corretta incorporazione delle proteine virali di superficie nel virione maturo. Più internamente si trova il core con simmetria icosaedrica e costituito dalle proteine del capside denominate CA (o p25). Il core contiene il genoma virale costituito da 2 filamenti identici di RNA monocatenario a polarità positiva e le proteine virali enzimatiche ad esso associate come la reverse transcriptase (RT), una DNA polimerasi RNA-dipendente, l’integrasi (IN), che permette l’integrazione del DNA provirale in quello cellulare e la proteasi (PR), responsabile del processamento di alcuni trascritti virali (FIG. 1.6 ) .

(Immagine tratta da: http://people.rit.edu/japfaa/HIV.jpg)

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Il genoma di FIV ha una lunghezza di circa 9,4 kb e possiede un CAP all’estremità 5’ ed una coda di poli (A) all’estremità 3’.

Come tutti i retrovirus, FIV possiede dal 5’ al 3’ tre grandi open reading frame (ORF) denominate, gag (codificante per la componente strutturale del virus), pol (codificante gli enzimi virali) ed env (codificante per le glicoproteine virali di superficie) e inoltre sono presenti altre tre piccole ORF chiamate ORF-A, vif e rev che codificano per proteine regolatorie, fondamentali per il corretto svolgimento del ciclo replicativo.

Il genoma provirale possiede alle due estremità le long terminal repeats (LTR), generate dalla duplicazione delle sequenze terminali dell’RNA genomico virale durante la retrotrascrizione; sono lunghe circa 350 pb e contengono i domini U3, R ed U5 che contengono siti regolatori multipli (Bigornia et al., 2001) (FIG. 1.7).

FIG. 1.7: Genoma provirale di FIV.

Il primo studio in vitro su un vettore FIV è stato descritto nel 1998 (Poeschla et al, 1998) e a questo sono seguite varie fasi di ottimizzazione (Johnston et al., 1999; Curran et al., 2000). Nei primi studi le modificazioni del genoma virale erano ridotte al minimo e le sequenze cis-agenti erano di solito mantenute. Questi vettori, una volta pseudotipizzati, erano usati per trasdurre diversi tipi cellulari. Per poter superare le limitazioni del tropismo virale ed utilizzare i vettori FIV-derivati anche in cellule diverse da quelle feline sono stati sviluppate opportune modificazioni. Ad esempio per superare la bassa attività trascrizionale dell’LTR di FIV sono stati sviluppati vettori contenenti il promotore del citomegalovirus umano (CMV) al posto dell’intera regione U3 dell’LTR per adattare il modello FIV a cellule umane. Ulteriore modificazione dei vettori hanno coinvolto la delezione di Vif ed ORF-A, che non sono risultati necessari per l’efficienza del vettore, al contrario del sistema Rev-RRE,

RRE

vif rev

Orf A

LTR gag pol env RRE LTR

vif rev

Orf A

LTR

LTR 5’ gag pol env RRE LTR 3’

vif rev

Orf A

LTR

LTR gag pol env RRE LTR

vif rev

Orf A

LTR

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implicato nel trasporto dal nucleo al citoplasma dell’RNA virale (grazie al legame della proteina Rev con la sequenza RRE) che risultava indispensabile per la produzione di alti titoli di particelle virali (Johnston et al., 1999). Solo in seguito è stato possibile sostituire il sistema Rev-RRE di FIV l’elemento di trasporto costitutivo del Mazon-Pfizer monkey virus (CTE citoplasmatic trasport element) (Curran et al., 2000).

Analogamente a tutti i vettori lentivirali, i vettori FIV si basano su un sistema split-component, e quindi consistono di tre o quattro componenti a seconda se la proteina Rev venga espressa dal costrutto di packaging o da un plasmide diverso.

La separazione spaziale degli elementi del genoma virale e la delezione di proteine virali non necessarie, garantiscono una maggior sicurezza del vettore perché è minimizzata la possibilità di formare particelle virali infettanti.

Figura

FIG. 1.1: Morfologia del virus dell’epatite C.
FIG.   1.2:  a  Rappresentazione   schematica   del   genoma   virale   (S=   sequenze
FIG. 1.3: Rappresentazione schematica del ciclo cellulare di HCV.
FIG. 1.4: Diffusione dell’infezione da HCV nel mondo
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Riferimenti

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