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INTRODUZIONE 1. Premessa: il colonialismo

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

1. Premessa: il colonialismo

Con il termine “colonialismo” si intende a grandi linee un progetto politico e economico volto a introdurre tra popoli ritenuti di civiltà “inferiore” un regime di controllo e sfruttamento del territorio, con il trasferimento più o meno stabile di gruppi di coloni nelle nuove località interessate. Nel tempo, si sarebbe poi formato un soggetto comunitario che si sarebbe poi reso indipendente dal paese colonizzatore, restandone tuttavia collegato sotto vari aspetti, incluso quello culturale.

Il processo di formazione di una comunità va di pari passo con la ristrutturazione o la destrutturazione delle comunità etniche pre-esistenti: tale processo viene messo in atto attraverso un insieme di iniziative politiche e sociali e misure economiche connesse a principi ideologici che hanno legittimato pratiche di segregazione, subordinazione e violenza ai danni delle popolazioni colonizzate. Questa prassi discriminante è stata ormai lungamente discussa e descritta allʼinterno di numerosi scritti, quali documenti privati e pubblici, lettere, testimonianze storiche, rapporti governativi e opere scientifiche e letterarie.

Il colonialismo non è sicuramente un fenomeno moderno poiché, già a partire dal II secolo a.C, lʼImpero Romano aveva allargato i propri confini dallʼArmenia fino allʼAtlantico; nel XIII secolo Gengis Khan aveva guidato i Mongoli alla conquista del Medio Oriente e della Cina; tra il XIV e il XVII secolo lʼImpero Atzeco si affermò soggiogando altri abitanti del Messico e così via, fino ad arrivare al flusso del moderno colonialismo europeo. Le conseguenze di questʼultimo sono però molto più tangibili rispetto a quelle generate dalle colonizzazioni menzionate sopra, perchè i colonizzatori europei non si sono limitati a sfruttare le risorse dei paesi conquistati, ma ne hanno in genere ristrutturato in modo capillare lʼassetto socio-politico, mantenendo un

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complesso di relazioni che hanno legato strettamente le aree dominate al paese colonizzatore.

Quello della colonizzazione europea è stato, quindi, un fenomeno di particolare importanza, manifestatosi a partire dal sedicesimo e diciassettesimo secolo: esso ha comportato lʼistituirsi di un dominio politico, economico e culturale di una nazione europea generalmente su una extraeuropea, caratterizzata da un forte grado di sottosviluppo.

Nel nostro caso, sarà preso in considerazione il controllo esercitato dallʼImpero britannico, che, con il picco raggiunto nellʼOttocento, nei primi anni del Novecento vantava lʼassoggetamento di circa lʼ80% del territorio mondiale e circa il 25% della popolazione del globo, legata a più di 90 territori diversi tra cui Africa, Asia, Nord America, Caraibi, Australasia, alcuni paesi sulla costa dellʼOceano Pacifico, nonché regioni europee.

I principi fondanti di questo tipo di colonialismo ruotavano intorno allʼidea di un “dispotismo illuminato” o paternalistico, con una tendenza allʼassimilazione, ovvero a una qualche parificazione delle colonie e dei suoi abitanti con la metropoli e i suoi cittadini; prevaleva cioè un intento civilizzatore delle popolazioni ritenute arretrate.

Alla base della “missione civilizzatrice” vi era però la convinzione che il sistema sociale, i valori etici e culturali dei colonizzatori fossero superiori a quelli dei colonizzati. Il colonialismo si configura, dunque, non solo come un processo di sfruttamento politico ed economico, ma anche come una conquista culturale da parte del colonizzatore relativamente a forme di arte, di conoscenza, di pratiche e credenze religiose, le quali sono state spesso studiate, classificate, filtrate o alterate dagli europei. È attraverso un discorso “coloniale” (colonial discourse) che le arti, la letteratura, gli scritti scientifici e i reports amministrativi europei hanno tendenzialmente tratteggiato la figura del nativo come “primitivo”, “pagano”, “immorale”, “vulnerabile” o “effemminato”.

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“soffocare” la voce delle popolazioni indigene, e che sarà oggetto di questo studio, è il diffondersi di una sorta di “colonialismo linguistico”, ossia lʼinfluenza della lingua europea su quella indigena, esclusa ad esempio nei codici ufficiali dellʼamministrazione burocratica e istituzionale.

La lingua europea, percepita dalla popolazione locale come “straniera”, finì per diventare quella veicolare e di maggior prestigio nel paese interessato, quella che talora contaminava la lingua nativa e che si aveva più interesse a parlare. Nella seconda metà del Novecento, con il raggiungimento dellʼindipendenza da parte dei paesi colonizzati, si presentò la questione della scelta tra lʼadozione di una lingua autoctona come lingua ufficiale, oppure la conferma dellʼinglese, con allʼinterno una serie di varianti creolizzate.

2. Il postcolonialismo e gli Studi Postcoloniali

Il termine “postcoloniale” si è imposto a partire dagli anni Ottanta come uno dei concetti chiave per la comprensione delle dinamiche connesse alla società transnazionale contemporanea, e si presta ad una pluralità di interpretazioni.

Il postcolonialismo è a sua volta la fase storica associata al processo di decolonizzazione (il periodo che coincide con il raggiungimento dellʼindipendenza di nazioni come lʼAfrica, lʼAsia e il Sud America), ma definisce anche in senso epistemico e ideologico lʼinsieme di teorie e critiche emerse con lʼattivismo anticoloniale e i movimenti politici nati nei paesi sopra citati, interessati a promuovere la rivalutazione e la riaffermazione della loro storia, “liberandola” dalla sindrome coloniale. Parallelamente, gli studi postcoloniali sono diventati un ambito di studio frequentato anche dalle istituzioni culturali e accademiche dellʼex-Impero.

C. L. Innes, in The Cambridge Introduction to Postcolonial Literatures in English (2007), ci ricorda la distinzione tra il termine “post-coloniale”, che si riferisce più strettamente al periodo in cui un paese cessa di essere materialmente sotto il dominio di un potere coloniale, come lʼImpero

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britannico o quello francese, e comincia a riprendere il controllo del proprio potere amministrativo, e il termine “postcoloniale”, che invece si riferisce in senso più ampio, letterario e culturale, allʼinsieme di studi che approfondiscono le conseguenze generate dal colonialismo nelle aree coinvolte. Questa seconda accezione, partendo dallʼambito degli studi sociologici britannici, ha assunto la forma di un imponente campo di ricerche trasversale alle varie discipline umanistiche. Le riflessioni inerenti a questʼambito, infatti, si collocano in uno spazio interdisciplinare per definizione, nel quale confluiscono teoria sociale, storia, antropologia, letteratura, filosofia politica e studi culturali. Si tratta, in realtà, di un campo ormai estremamente vasto ed eterogeneo, allʼinterno del quale si individuano molteplici direzioni. In ogni modo, è comunque possibile mettere in evidenza alcuni aspetti comuni, a partire dai quali molti studiosi hanno impostato le proprie analisi.

Secondo quanto, allʼinterno di Postcolonialism: A Guide for the Perplexed (2010), afferma Pramod K. Nayar, il postcolonialismo costituisce un insieme di approcci critici, idee e metodologie che si propongono di rileggere la storia invocando ideali di giustizia sociale, emancipazione e democrazia in opposizione ai fattori esemplificati da razzismo, discriminazione e sfruttamento. Ma lʼapproccio postcoloniale indaga anche la condizione originaria del colonizzato e la tipologia di oppressione perpetrata a suo danno.

Gli autori che si possono definire “postcoloniali” sono moltissimi, ma, al di là della prospettiva individuale di ogni singolo scrittore, ciò che costituisce un filo rosso è il riconoscimento dellʼevento della colonizzazione come un crocevia fondamentale per un confronto con il trauma e la configurazione degli assetti e dei rapporti odierni.

Il corso della storia è stato fortemente influenzato dal colonialismo e dallʼimperialismo, che hanno evidentemente inciso sui nuovi fenomeni di globalizzazione e di controllo economico che giovano ben poco ai gruppi minoritari. Partendo da questi presupposti, un orientamento ideologico postcoloniale promuove al contrario unʼapertura al multiculturalismo e a una

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visione egalitaria che denuncia forme di recrudescenza di razzismo differenzialista e di assolutismo etnico.

Leela Gandhi definisce il postcolonialismo “as a theoretical resistance to the mystifying amnesia of the colonial aftermath. It is a disciplinary project devoted to the academic task of revisiting, remembering and, crucially, interrogating the colonial past”.1

Gli studi postcoloniali forniscono un insieme metodologicamente variegato di approcci e indirizzi che pongono al centro dellʼindagine critica il confronto tra culture un tempo, o tuttora, in relazione di subordinazione. È una pratica di lettura che coinvolge lʼaspetto politico, in quanto analizza gli strumenti utilizzati dal dominio coloniale per sottomettere altre popolazioni, con interventi sistematici sui diversi organi della vita sociale. Con questa vasta operazione di conquista, la letteratura inglese, così come la storiografia, lʼarte e lʼarchitettura, sono state elevate a punti di riferimento connessi ai fondamenti razziali che hanno poi marginalizzato il nativo. Ciò ha inevitabilmente generato un processo dialettico che nel tempo ha determinato il costituirsi di identità ibride che lottano nel tentativo di trovare una propria definizione.

Il postcolonialismo come progetto di riforma culturale, secondo Frantz Fanon (1925-1961), trova le proprie origini nei movimenti libertari dellʼanticolonialismo, in cui forti erano le idee di indipendenza politica, riscatto del nativo e di una cultura precoloniale, oltre a una seria pressa di coscienza dei problemi interni alla neo-nazione.

Frantz Fanon, Mahatma Gandhi, Aimé Césaire e Amilcar Cabral sono alcuni dei pensatori più influenti che hanno definito le premesse costitutive del postcolonialismo.

Lʼindiano Mahatma Gandhi (1869-1948) ha avuto un ruolo fondamentale nella promozione di una sfida al colonialismo, basata su una morale che però fa appello alla “resistenza passiva” e ai principi della non-violenza. Propose così, 1 Leela Gandhi, Postcolonial Theory: A Critical Introduction, New York, Columbia University Press, 1999, in Pramod K. Nayar, Postcolonialism: A Guide for the Perplexed, London, Bloomsbury Publishing, 2010, p.4.

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per lʼIndia, una rinascita morale, economica e sociale autogestita, con una graduale crescita della consapevolezza. Sarà una fonte di ispirazione per moltissimi autori e attivisti coinvolti nella militanza anti-razzista, come Nelson Mandela.

Frantz Fanon, psichiatra nativo di Martinica, ebbe lʼoccasione di osservare da vicino gli effetti del colonialismo sullʼidentità del nativo, unʼidentità sulla quale lo psichiatra riflette in alcuni dei suoi lavori, come Black Skin, White Masks (1967), The Wretched of the Earth (1963) e Towards the African Revolution (1967).

I mali dellʼAfrica, secondo Fanon, devono essere ricercati in primo luogo nella condizione di sfruttamento e violenza a cui questa nazione è stata sottoposta. Qui, lʼuomo di colore avrebbe perso completamente il suo passato e la sua cultura a causa del dominio coloniale e avrebbe iniziato a costruire unʼidea di sé filtrata dallo sguardo dellʼuomo bianco. Questʼultimo si sarebbe elevato a epitome di una perfezione che lʼuomo di colore avrebbe tentato di emulare, indossando “a white mask over his black skin”.2

Fanon riconosce, inoltre, lʼimportanza di alimentare un sentimento di nazionalismo in grado di esprimersi attraverso una cultura e una letteratura nazionali. Wretched of the Earth è lʼopera con cui, riflettendo sulle sorti drammatiche di neri ed ebrei, egli invitò la popolazione di colore a riprendere in mano le redini della propria storia facendo appello ai miti e alle tradizioni africane, così da far “resuscitare” lʼidentità nera. È qui che entra in gioco lʼintellettuale che, liberandosi dellʼeredità di sudditanza coloniale, promuove lo sviluppo di una fiera coscienza nazionale, anche ricorrendo a unʼapologia della violenza.

Aimé Césaire (1913-2008), anche lui originario di Martinica, mise a nudo la natura perversa del colonialismo sottolinenando gli effetti di abbruttimento generati sia sullʼuomo bianco che sullʼuomo di colore. Per affossare il rifiuto coloniale delle culture native, Césaire fece appello al concetto di “negritude”, 2 Frantz Fanon, Black Skin, White Masks (1967), cit. in Pramod K. Nayar, Postcolonialism: A

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ossia lʼinsieme dei valori propri di una tradizione culturale nera vitale, nelle sue diverse affermazioni ed espressioni. Il termine fu introdotto da Jan Paule Sartre, che nella prefazione alla Anthologie de la Nouvelle Poésie nègre et malgache (1948) cercò di analizzare lʼessenza della spiritualità dei neri, in particolare rivelandone caratteri di originalità e di rivendicazione della propria dignità e del proprio valore.

Infine Cabral (1924-1973), di Guyana, è stato un importante pensatore in ambito postcoloniale poiché ha interpretato la lotta anticoloniale come uno strumento per promuovere una guerra contro qualsiasi forma di dominio, includendo fenomeni recenti di neocolonialismo. Lʼindipendenza politica, la ristrutturazione dellʼordine interno e lo sviluppo di modelli democratici e socialisti sono, secondo Cabral, lʼunico modo attraverso il quale le popolazioni native possono ritrovare una forma di compattezza e identità autentica.

Nellʼambito del pensiero postcoloniale, hanno avuto un ruolo importante anche tre distinti filoni dʼindagine critica: il primo è stato inaugurato dal palestinese Edward Said con lʼopera Orientalism (1978); il secondo è quello della filosofa statunitense di origine bengalese Gayatri C. Spivak, che, in unʼintervista del 1990 intitolata “The Post-colonial Critic”, ha definito inequivocabilmente il discorso coloniale come il prodotto di assiomi imperialistici fondati sul concetto di razza e di genere3; il terzo filone è quello

che si ispira al pensiero di Homi K. Bhabha, che in opere quali The Location of Culture (1994) si sofferma sulla figura complessa del soggetto coloniale, sullʼidea di stereotipo, sul “terzo spazio” e sui processi di ibridazione e specularità nei quali sono coinvolti colonizzati e colonizzatori.

Orientalism (1978) di Edward Said (1935-2003), che è stato professore di inglese presso la Columbia University, si è rivelato un libro cardine, in quanto ha rivolto sistematicamente lo sguardo a “the theory, poetics and practice of representations, by European, of the Arab world, Asia, China and Japan”, ovvero alla modalità e ai codici pregiudiziali attraverso i quali lʼEuropa ha 3 Pramod K. Nayar, Postcolonialism: A Guide for the Perplexed, 2010, cit., p. 26.

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rappresentato lʼOriente e i rapporti intrattenuti con questo universo esotico da un Occidente che si è invece dipinto come razionale ed evoluto.

Punto nodale dellʼanalisi di Said in questo suo primo studio è lʼindividuazione delle connessioni che legano lʼavvallo di teorie orientaliste, in Europa e negli Stati Uniti, con il nascere e lʼampliarsi del dominio imperialista, coloniale e neocoloniale.

Allargando i confini dellʼanalisi di Said è possibile riconoscere, alla base delle teorie orientaliste, meccanismi di creazione dellʼidentità di una cultura in contrapposizione a culture “altre”. Lʼorientalismo si presenta, così, come un progetto realizzato dal mondo occidentale in vista di un inquadramento subordinante del mondo orientale.

Nel suo libro A Critic of Postcolonial Reason (1999), Gayatri Chakravotry Spivak (Calcutta, 1942), nota femminista e studiosa di letteratura comparata con unʼottica che verte sul postcoloniale, ha affrontato unʼenorme varietà di temi, tutti legati alla questione relativa al colonialismo e ai suoi effetti a lungo termine, con particolare attenzione alla condizione delle donne nei paesi del Terzo Mondo. La pensatrice indiana vede la causa di molte disparità odierne nei lasciti del colonialismo e dellʼimperialismo europei, colpevoli di aver sfruttato e marginalizzato le culture e le identità non occidentali. Nellʼottica di Spivak, gli assiomi dellʼimperialismo hanno esercitato nei confronti dei popoli colonizzati una particolare forma di violenza, definita “epistemic violence”, estremamente insidiosa poiché capace di minare alla base lʼautostima e la soggettività.

Nel noto saggio “Can the Subaltern Speak?” (1988), Spivak fa appello al termine “subalterno”, riprendendo la definizione di Antonio Gramsci, per riferirsi ai gruppi socialmente subordinati dalle classi egemoni. La studiosa si chiede se sia possibile, per il subalterno, parlare, raccontare la propria storia e costituirsi come soggetto. In particolare, la Spivak esamina il caso estremo del rituale del sati4, secondo il quale la vedova è costretta dalla società e dalle sue

4 Il “Sati” è un vocabolo indiano che significa “la moglie buona, fedele” e designa una pratica che prevedeva che, una volta morto il marito, la moglie si bruciasse viva in segno di

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gerarchie patriarcali, a immolarsi sulla pira del marito defunto, diventando così il soggettto subalterno tacitato per antonomasia. La risposta iniziale alla domanda posta come titolo del saggio è negativa: schiacciata dalle mille parole che vengono dette su di lei, la subalterna rimaneva muta, inerme, senza la possibilità di salvarsi. Del resto, la figura della donna nativa, secondo Spivak, è doppiamente marginalizzata in quanto donna e colonizzata. La posizione della filosofa si fa, con il passare del tempo, meno rigida, inducendola a ipotizzare che forse, in modi e con linguaggi spesso inediti, la subalterna può riuscire a parlare.5

Homi Bhabha (Mumbai, 1949), è un filosofo indiano naturalizzato statunitense, docente presso lʼUniversità di Harvard. È considerato uno dei principali teorici del postcolonialismo grazie alle sue disquisizioni capillari sulle ambiguità del discorso coloniale. Allʼinterno del discorso ideologico di Bhabha e degli studi postcoloniali in genere, un ruolo fondamentale è giocato dal concetto di “ibridità” (e dalla nozione ad esso associata di “mimicry”), con riferimento a quegli incroci inattesi che sono determinati dal processo stesso di emulazione dellʼautorità coloniale. Essi contribuiscono in realtà a indebolirla, favorendo delle dinamiche di decostruzione ironica e negoziazione culturale che portano alla formazione di soggettività in-transizione, in grado di sovvertire le relazioni di dominio da cui sono nate.

Lʼimitazione è quindi quella del colonizzatore da parte del colonizzato, processo che sembrerebbe prendere la forma di un tentativo di sovversione, poiché rende instabile la differenza tra “noi” e “loro” e introduce una prospettiva critica e demistificante.

Lʼinsieme degli studi postcoloniali, dai loro primi importanti segnali fino ad oggi, ha contribuito in maniera determinante alla nascita di una tradizione critica e letteraria che si propone di restituire la voce ai “subalterni”, ai popoli oppressi, attraverso contenuti antielitari e un fine che consiste nel dare vita ad devozione verso il proprio coniuge. Http://www.treccani.it/enciclopedia/tag/sati. [consultato il 4/07/2017].

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un rapporto più egualitario tra le diverse popolazioni mondiali. Questa letteratura dei paesi delle ex colonie europee è stata solitamente definita “postcoloniale”, o anche nascente o emergente, finchè ai nostri giorni si preferisce usare lʼespressione “anglofona” o “in inglese”, a conferma delle sue qualità e della sua statura transnazionali. Essa offre un quadro ricco e variegato di testimonianze di nazioni che, insieme alla conquista dellʼindipendenza, hanno trovato un modo per raccontarsi.

Come ho già rilevato, la vastità e le distinte declinazioni di questo tipo di produzione rendono difficile arrivare a una definizione univoca, ma sicuramente esiste una caratteristica comune a queste letterature, alle cui origini più o meno distanti si situa un passato coloniale allʼinterno del quale unʼidentità etnica pre-esistente è stata repressa a favore dellʼaffermarsi di una realtà europea lì trapiantata. Gli autori di queste opere letterarie sono abitanti o nativi delle ex colonie, oppure discendenti di seconda e terza generazione. Agli inizi, predominante è stato il bisogno di ricostruire e sondare lʼincontro con il colonizzatore. Il colonizzato, sulla cui personalità si imposero le categorizzazioni di “femminile”, “infantile”, “rude”, “barbaro” e “superstizioso”, intendeva ora esprimere la propria identità, ribellandosi a schemi culturali imposti dallʼesterno.

Unʼentità definita “anormale”, “esotica”, “inferiore” mirava insomma a rivendicare la propria capacità di giudizio e la propria appartenenza alla terra che le ha dato i natali. La cultura occidentale è vista in questo contesto “rovesciato” come ingabbiata in una razionalità arida e in unʼoggettività limitante, a totale discapito della fluidità, del pluralismo e della stratificazione.

Molti scrittori africani, indiani, antillani e caraibici dovranno quindi fronteggiare questioni complesse come lʼoralità, la multiculturalità, il rapporto con la globalizzazione e la difesa di unʼidentità etnica culturale che, comunque, dialoga anche imprescindibilmente con le radici europee.

Nella letteratura postcoloniale esistono dʼaltronde differenze sul piano tematico, stilistico e contenutistico, dovute alla diversa natura dellʼesperienza

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di sudditanza e alle peculiarità di tradizioni e territorio. Lʼintento di un importante filone della critica è stato quello di trovare dei caratteri unificanti, associati ad esempio alla condizione fisica o psicologica dellʼesilio, al conflitto razziale, al rapporto travagliato con la storia, al passato e alla sua ricostruzione. Infatti, per tutti gli scrittori coinvolti nelle dinamiche della colonizzazione, la consapevolezza delle proprie radici e della propria storia rappresenta una cifra da cui ripartire, in particolare per coloro a cui sono state direttamente negate o sottratte.

Allʼinterno del grande panorama culturale e letterario di nostro interesse, gli intellettuali menzionati precedentemente sono considerati coloro che hanno dato forma a teorie divenute basilari per unʼindagine della suddetta letteratura: Frantz Fanon, Edward Said, Homi Bhabha e Gayatri Chakravorty Spivak hanno a loro volta dialogato con le teorie filosofiche di Theodor Adorno, Hélène Cixous, Jacques Derrida, Jean-Paul Sartre, lo psicoanalista Jacques Lacan e il sociologo e filosofo Michel Foucault. Lʼimpulso dato da questi autori e pensatori allo sviluppo di un pensiero sulle realtà postcoloniali ha toccato argomenti di carattere razziale e sociologico, etico e ideologico, comprese le dinamiche dei rapporti etnici e il concetto di nazionalità e appartenenza.

La letteratura di matrice postcoloniale è dunque correlata a una storia di oppressione, giogo, discriminazioni razziali e violazioni dei diritti umani; essa si pone al contempo come una letteratura di emancipazione, di critica e di trasformazione, poiché lo scrittore si assume qui la responsabilità di mettere in discussione lʼideologia europea, promuovendone una rilettura in chiave critica e spesso antitetica.

La letteratura di lingua inglese si orienta anche in direzione femminile o femminista, restituendo la voce alle donne che sono state tacitate da un ambiente androcentrico; è una letteratura in movimento che riconosce pure un ruolo fondamentale al patrimonio della trasmissione orale. Infine, pur esprimendosi attraverso lʼinglese, essa plasma un idioma contraddistinto da

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sintassi e ritmi propri, aderenti allʼurgenza peculiare del messaggio. A un senso antico di dipendenza è subentrata lʼappropriazione “creativa” della lingua dellʼImpero, trasformata con una molteplicità di variazioni idiomatiche, sintattiche, lessicali. Una lingua scandita da un ritmo diverso per esprimere una realtà altra.

3. La diffusione e le varianti del World English

Il colonialismo moderno, come già detto, è stato un fenomeno politico, economico e culturale che ha prodotto un cambiamento radicale negli assetti globali e che è culminato nel ventesimo secolo con una diffusione ad ampio raggio della lingua inglese in tutti quei paesi che hanno avuto, o tuttora hanno legami di dipendenza con la Gran Bretagna.

Lʼinglese, eletto a veicolo comunicativo tra gruppo dominante e subalterni, oltre che a circolare tra le diverse etnie presenti allʼinterno di una data realtà geografica, è diventato con il passare del tempo una lingua internazionale.

In epoca recente, lʼaccademico austriaco Edgar W. Schneider nel suo Postcolonial English (2007) ha delineato un quadro delle caratteristiche peculiari assunte dalle varietà dellʼinglese nel mondo, caratteristiche derivanti da un processo evolutivo fortemente legato alla storia coloniale e postcoloniale, dai molteplici rapporti intessuti tra i gruppi comunitari. Il modello di sviluppo della lingua in questione (definito Modello Dinamico) non sarà qui preso in considerazione nel suo profilo propriamente glottologico, ma sarà comunque un indicatore che ci consentirà di valutare lʼimpatto di un codice linguistico in spazi geografici e contesti ad esso estranei.

Lʼinglese era la lingua ufficiale di una delle potenze europee più influenti che iniziò il proprio processo di forte espansione coloniale tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo. Già durante il periodo elisabettiano, comunque, lʼInghilterra si era adoperata per sfidare il dominio spagnolo, portoghese, francese e olandese. A partire dal 1600, il Nord America e i Caraibi divennero

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dei poli dʼattrazione e, contemporanemente, vennero costituite delle tratte commerciali con lʼAfrica e lʼOriente. Tra la fine del 1700 e i primi decenni dellʼʼ800 lʼinglese si era diffuso grazie alle esplorazioni in molte aree costiere dellʼOceano Pacifico, oltre che nellʼAustralasia e in Sud Africa; lʼinglese era anche ovviamente la lingua parlata negli Stati Uniti dʼAmerica, futura potenza militare ed economica e motore di unʼulteriore espansione globale. Tutti questi fattori hanno fatto sì che lʼinglese iniziasse a configurarsi come lingua franca utilizzata nelle comunicazioni internazionali, nella politica, nel commercio, nei media e così via.

Schneider figura tra coloro che hanno impiegato la denominazione di “inglese postcoloniale”, richiamandosi ai trascorsi storico-politici, ma anche alle contaminazioni e alle variabili che lo contraddistinguono. Si tratterebbe di una lingua nuova, stratificata, esistente in una gamma di fenomenologie (dal pidgin al creolo). In alcuni casi, lʼinglese è stato “accusato” di aver sradicato il ceppo indigeno, i dialetti e le culture pre-esistenti, al punto da essere ostracizzato, bandito e addirittura denominato “killer language”6. Al contrario,

in altri paesi lʼinglese è stato appunto adottato come lingua franca (anche dopo il conseguimento dellʼindipendenza) per facilitare la comunicazione tra le diverse etnie coesistenti, al pari di un idioma che viene fatto proprio rielaborandolo e “addomesticandolo”.

Lʼinglese postcoloniale, chiaramente, assume caratteri diversi rispetto a quelli dello “Standard English”, categoria che designa lʼuso di un vocabolario privo di influenze regionali e la presenza di una grammatica conforme alle regole del linguaggio scritto. La pronuncia normata è invece quella denominata RP7 (Received Pronunciation), anche se non esiste in questo caso una norma

internazionale vera e propria. La pronuncia è uno degli aspetti sui quali si registrano alti margini di cambiamento, insieme alle scelte lessicali (con lʼarricchimento del vocabolario attraverso lʼintroduzione di parole locali, 6 David Crystal, The Language Revolution, Cambridge, UK, Polity Press, 2004, p. 2.

7 La Received Pronunciation è la pronuncia dellʼinglese britannico che viene generalmente adottata come parametro nellʼinsegnamento agli studenti non madrelingua ed è anche utilizzata nella trascrizione fonetica dei principali dizionari.

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neologismi e contaminazioni diafasiche) e ad una diversa costruzione della frase.

Naturalmente, lʼentità e la fenomenologia di queste modifiche dipendono da diverse variabili, in particolar modo dalla tipologia di contatto avvenuta in origine tra colonizzato e colonizzatore (più pacifica e “tollerante”, oppure di carattere militare e dittatoriale).

In termini generali, contatti più sporadici sono alla base dei prestiti lessicali isolati, mentre contatti più consistenti possono produrre fenomeni di creolizzazione, oppure la nascita di linguaggi misti.

A tale proposito, Saliloko Mufwene8 fa una distinzione tra tre differenti tipi

di colonizzazione che avrebbero fortemente influenzato lʼentità del contatto tra nativo e settler, e da cui derivano specifici caratteri linguistici:

• dal “colonialismo commerciale” sarebbero derivati contatti sporadici, finalizzati principalmente allo scambio di merci. Lo scopo di questo tipo di colonialismo fu dominare le rotte commerciali e, di conseguenza, i contatti interetnici furono così limitati che lʼinglese acquisito dai membri della popolazione indigena si rivelò circoscritto allʼaspetto lessicale (pidgin).9 Nel tempo, il pidgin di base inglese si

sarebbe sviluppato in due modi differenti: da una parte, fu adottato come lingua franca entrando in competizione con le altre lingue tribali e le varietà regionali; dallʼaltra assunse sempre più prestigio diventando una lingua vera e propria per lʼintera popolazione (come è avvenuto nellʼAfrica orientale). È importante sottolineare il fatto che il 8 Salikoko Mufwene, The Ecology of Language Evolution, in Edgar W. Schneider,

Postcolonial English, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, pp. 8-9, 204-206.

9 Il pidgin è “un codice linguistico che si forma in situazioni di contatto plurilingue fra gruppi socio-culturali che per circostanze diverse si trovano a interagire, e il cui uso di solito è circoscritto a certi domini (frequentemente gli scambi commerciali) e coesiste con quello delle lingue materne di ciascun gruppo. Il processo di formazione di un pidgin è caratterizzato di solito da un contatto linguistico disuguale in termini di posizione socio-economica dei gruppi, e non profondo, perchè limitato ai contenuti piuttosto ristretti” Enciclopedia Treccani: http://www.treccani.it/enciclopedia/pidgin, [Consultato il 05/05/2017].

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colonialismo di tipo commerciale è un fenomeno molto instabile, che tende ad evolvere nel sistema di colonialismo dʼinsediamento o di sfruttamento;

• il “colonialismo di sfruttamento” riguarda tutti quei territori posti sotto il controllo amministrativo e giuridico europeo, a partire soprattutto dal diciannovesimo secolo. Esso implica una segregazione sociale e una distribuzione gerarchica del potere. Infatti, benchè la comunità dei colonizzatori fosse numericamente inferiore, questa accentrava in sé il potere politico ed economico. Lo scopo sostanziale del colonialismo di sfruttamento era quello di arricchire i paesi europei, (in particolare rientranti nellʼImpero Britannico) e non quello di influenzare linguisticamente e culturalmente le popolazioni che abitavano nelle aree colonizzate. La figura del lessificatore europeo è stata introdotta inizialmente solo per fornire unʼistruzione ai colonizzatori e ai missionari affinchè potessero svolgere le loro funzioni di ambasciatori e esecutori del potere britannico. Insieme a loro, però, ricevettero unʼistruzione anche membri selezionati delle popolazioni indigene (lʼestensione alle masse era invece considerata pericolosa per il mantenimento del potere). Nel corso del tempo la formazione si estese ad un numero sempre più elevato di funzionari intermediari.

Ciò che accadde frequentemente in questo tipo di colonie, una volta raggiunta lʼindipendenza, fu il progressivo allontanamento della popolazione europea, che iniziò a tornare nella madrepatria. Questo fenomeno, però, non comportò un cambiamento rilevante a livello linguistico. Infatti, lʼinglese continuò ad esercitare una forte influenza nella comunicazione e iniziò a configurarsi come trait dʼunion tra il vecchio e il nuovo mondo;

• il “colonialismo dʼinsediamento” si basava sullʼaffidamento delle terre del nuovo continente ai coloni, che avevano il compito di amministrare, gestire lʼusufrutto ed evangelizzare i territori

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assoggettati. Questi ultimi si contraddistinguevano per uno squilibrio demografico tra la stragrande maggioranza di immigrati europei e le decimate comunità indigene sopravvissute. A livello linguistico, iniziò dunque a svilupparsi un idioma dalla forte impronta europea con qualche marginale aspetto apportato da prestiti dalle lingue indigene. Solo in anni relativamente recenti la dignità delle lingue parlate dalle popolazioni native è stata rivalutata, come avviene oggi con la lingua Maori in Nuova Zelanda, che, seppur non riconosciuta come codice ufficiale, vanta il supporto da parte dellʼintera popolazione.

Ciò che il modello proposto da Mufwene non mette tuttavia a fuoco è lʼesistenza di colonie fondate per uno sfruttamento ambientale specifico (anche se sempre di matrice mercantilistica): creare delle piantagioni di prodotti “esotici”. In questi contesti, la popolazione indigena è stata completamente sradicata (come a Barbados) o decimata e indebolita (come è avvenuto nelle Hawaiʼi) e sostituita con manodopera importata dagli europei e proveniente da diverse aree del mondo (come lʼAfrica e lʼIndia). Il controllo del potere è quindi esercitato anche in questo caso dal colonizzatore (seppur in minoranza numerica), ma, molto più che in altre circostanze, qui la popolazione indigena subisce una violenza fisica feroce. Il fenomeno linguistico che si manifesta in questo perimetro conduce alla cosiddetta “creolizzazione”10, che ha alla base

unʼibridazione di lingue e culture coesistenti, e assume poi strutture morfosintattiche autonome.

Possiamo concludere che la tipologia di sviluppo di un sistema coloniale, piuttosto che un altro, ha fortemente influenzato le fisionomie linguistiche nei 10 La creolizzazione, in ambito linguistico, è il fenomeno per il quale lʼuso di un pidgin si evolve e si amplia ad altri domini, espandendo quindi non solo le sue funzioni socio-culturali, ma anche il suo lessico e i suoi tratti morfologici e sintattici. È nelle circostanze in cui un pidgin può diventare la lingua madre di un certo gruppo socio-culturale, che si parla di processo di creolizzazione. Il creolo che ne emerge è considerato una lingua a pieno titolo, visto che è il codice di un gruppo sociale che lʼha formata e che in essa si identifica. La maggior parte dei fenomeni di creolizzazione linguistica sono sorti come conseguenza dellʼespansione coloniale europea che si è protratta dal XV al XX secolo. http://www.treccani.it/vocabolario/creolizzazione. [Consultato il 4/07/2017].

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territori coinvolti, da cui hanno poi preso forma varietà dʼinglese alquanto diverse tra loro. Nonostante ciò, molti studiosi, tra cui Schneider, tendono a considerare lʼ“inglese postcoloniale” come un fenomeno che presenta pur sempre un carattere unitario, che segue un modello essenziale di sviluppo unico e applicabile a tutte le realtà coloniali.

4. Lʼidentità linguistico-culturale nella letteratura anglofona

I who am poisoned with the blood of both, Where shall I turn, divided to the vein?

I who have cursed

The drunken officer of British rule, how choose Between this Africa and the English tongue I love?

Betray them both, or give back what they give? How can I face such slaughter and be cool?

How can I turn from Africa and live?

(Derek Walcott, “A Far Cry from Africa”)11

Lʼimporsi di una lingua estranea ha inevitabilmente condotto al costituirsi di identità ibride, personalità che lottano in direzione di un riconoscimento che non sempre riescono a trovare. In ambito letterario, affiora spesso un io poetico dilaniato dallʼimpossibilità di scegliere tra la cultura delle origini e quella di adozione.

Lʼuso di una lingua non autoctona è stato oggetto, anche in tempi più recenti, di studi e approfondimenti da parte di autori e intellettuali interessati alla letteratura postcoloniale (nel nostro caso, quella anglofona). Il linguaggio è un argomento fondamentale allʼinterno del discorso coloniale e delle sue fasi successive, in quanto ha coinvolto le dinamiche di potere e un intero sistema di valori. Esiste poi la dimensione semantica ed epistemica, ossia la capacità del linguaggio di conferire un nome alla realtà, di dare un senso e incidere su di essa.

Il controllo sul linguaggio da parte di un centro imperiale – ottenuto a 11 Derek Walcott, “A Far Cry from Africa”, in Id., Collected Poems 1948-1984, London,

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scapito della circolazione delle lingue native, considerate “impure” – resta il più potente strumento di regolamentazione culturale. Ogni persona assoggettata ha dovuto misurarsi con la lingua parlata dalle nazioni “civilizzatrici”, una lingua che è al contempo famigliare e estranea, che si pone al confine tra il sé e lʼaltro. Il linguaggio può essere percepito come autentico solo nel momento in cui entra in rapporto con le intenzioni, la sfera concettuale e di appartenenza del parlante. Significativa è a tal proposito unʼosservazione di Bachtin:

Prior to this moment of appropriation, the word does not exist in a neutral and impersonal language (it is not, after all, out of a dictionary that the speaker gets his words!), but rather it exists in other peopleʼs mouths, in other peopleʼs contexts, serving other people intentions: it is from there that one must take the word and make it oneʼs own.12

La questione del linguaggio è stata a lungo oggetto di dibattiti tra gli scrittori, i critici e i lettori legati allʼambito della postcolonialità. In alcuni paesi, la discussione ha riguardato la legittimità o meno del ricorso al linguaggio imposto dal colonialismo. In altri, come lʼAustralia, il Canada e i Caraibi, il dibattito si è invece maggiormente focalizzato sulle varianti dellʼinglese stesso.

Per citare alcuni casi emblematici, si pensi a Ngũgĩ Wa Thiongʼo, scrittore keniano che, dopo aver scritto cinque romanzi e due componimenti in inglese, ha deciso di usare solo ed esclusivamente la propria lingua madre. Opere come The Devil on the Cross (1980) e Matigari (1986), scritte di suo pugno in gikuyu, prendono ispirazione da ballate e racconti folclorici e si ripropongono di ricostituire unʼidentità nazionale ed etnica rifiutando di avallare una realtà assimilabile alla cultura inglese:

I believe that my writing in Gikũyũ language, a Kenyan language, an African language, is part and parcel of the anti-imperialist struggles of Kenyan and African peoples.13

12 Michail Bachtin, “Discourse in the Novel”, in The Dialogic Imagination, ed. Michael Holquist, Austin, University of Texas Press, 1981, p.421.

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In “Return to the Roots”, lo stesso autore sottolinea lʼimportanza di una letteratura in lingua nativa comprensibile dallʼintera popolazione keniota:

“To choose a language is to choose a world”, once said a West Indian thinker, and although I do not share the assumed primacy of language over the world, the choice of a language already pre-determines the answer to the most important question for producers of imaginative literature: For whom do I write? Who is my audience? … If a Kenyan writer writes in English – no matter how radical the content of that literature – he cannot possibly directly talk to the peasants and workers of Kenya. If a Kenyan acts a play in English, he cannot possibly be assuming a truly Kenyan audience14.

Allo stesso modo, un critico nigeriano, Obianjunwa Wali, in “The Dead End of African Literature” (1963), sostiene che qualsiasi testo letterario di autori africani non possa essere scritto in inglese perchè perderebbe il suo substrato semantico; lʼuso di una lingua europea limiterebbe i destinatari ad una cerchia ristretta di accademici formatisi in università occidentalizzate.

Al contrario, autori e critici quali Chinua Achebe, Salman Rushdie (1947) e James Baldwin (1924-1987) promuovono lʼuso dellʼinglese come strumento plasmabile, capace di favorire la diffusione delle loro esperienze e della loro parola. Achebe, rispondendo alla critica mossa da Wali riguardante la “sterilità” di unʼopera africana scritta in inglese, sottolinea come in realtà sia possibile leggere numerosi esempi di opere composte in epoche diverse da autori africani tuttʼaltro che insignificanti come John Bekederomo, Olaudah Equiano, Casely Hayford e Christopher Okigbo. Per Achebe, così come per Rushdie, lʼinglese permette inoltre agli autori di raggiungere un pubblico internazionale.

Altre posizioni si rintracciano in autori caraibici come Derek Walcott (1930-2017), Kamau Brathwaite, Olive Senior (1941) e George Lamming (1927).

Walcott, autore dalla statura letteraria indiscussa, scrive i suoi componimenti in un inglese standard che risulta, però, arricchito da una sintassi

The Language Debate in African Literature, Egerton University, online,

http://www.academia.edu/8015888/THE_LANGUAGE_DEBATE_IN_AFRICAN_LITER ATURE, p.28. [Consultato il 05/07/2017].

14 Ngugi Wa Thiongʼo “Return to the Roots”, in Writers in Politics, London, Heinemann, 1981, pp. 53-54.

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ed un vocabolario connotati di elementi tratti da idiomi locali. La mescolanza di lingue diverse o lʼuso parallelo di lingue sviluppatesi grazie al contatto tra due culture differenti ricorre in modo più marcato in Brathwaite, storico e scrittore barbadense. In una delle sue opere di maggiore rilievo, come si vedrà, egli conierà il termine nation language, ovvero un inglese creolizzato orgogliosamente fatto proprio dai caraibici. Allo stesso modo, si può parlare di lingua creola anche in Nigeria: si pensi ad esempio a Ken Saro-Wiwa, che adotta un mélange di registri che spaziano dallʼinglese standard agli idiomi indigeni. Ulteriori esempi di lingue miste sono lo Sheng (combinazione di Swahili e Inglese) e lʼHinglish (impostato su confluenze tra lʼInglese e lʼHindi), che stanno conoscendo un processo di grande diffusione grazie ai mass media.

Per quanto riguarda le sottotipologie del creolo, è interessante notare le caratteristiche del patois che si è formato in varie isole caraibiche, tra cui emerge il patois giamaicano adottato dalla poetessa Louise Bennet. La scrittrice motiva la propria scelta lessicale affermando che “one reason I persisted writing in dialect was because […] there was such rich material in the dialect that I wanted to put on paper some of the wonderful things that people say in dialect. You could never say 'look here' as vividly as 'kuyah'”15.

Un altro autore contemporaneo di spicco come David Dabydeen (1955) (autore di origine guyanese, naturalizzato britannico), pubblicherà una raccolta di poesie intitolata Slave Song (1984) scritta in un creolo guyanese che si fonda su intrecci lessicali e morfologici tra lʼinglese e codici linguistici indiani e africani.

Possiamo concludere affermando che i dibattiti sulle scelte linguistiche caratterizzanti la letteratura anglofona hanno inizialmente fatto emergere unʼopposizione netta tra unʼidea di “linguaggio letterario” (affiliato alle forme dello Standard English) e altre “voci” volte ad esprimere le esperienze delle comunità autoctone. Negli ultimi decenni questo tipo di opposizione è andata 15 Cooper, Carolyn, “Noh Lickle Twang: An Introduction to the Poetry of Louise Bennett”,

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sfumandosi; ciò si è verificato in modo sensibile nella produzione letteraria caraibica, aperta e pronta ad incorporare un complesso potenziale espressivo. Questo si verifica nella convinzione che “it is in the continuum of expression from Standard to Caribbean English that the veracity of the experience lies”16.

16 Marlene Nourbese Philip, She Tires Her Tongue, Her Silence Softly Breaks, Middletown, Wesleyan University Press, 2015, p.84.

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CHINUA ACHEBE

1. Un quadro biografico

Chinua Achebe nacque il 16 novembre del 1930 con il nome di Albert Chinualumogu nella città di Ogidi, appartenente allo stato di Anambra, nella parte sud-orientale della Nigeria. La città era popolata da una comunità Igbo alla quale apparteneva anche la sua famiglia, che poi si convertì al protestantesimo, entrando a far parte della Protestant Church Mission Society (CMS). Il costante contatto tra la cultura tradizionale da una parte e quella cristiana occidentale dallʼaltra consentirono a Chinua di crescere in un ambiente sostanzialmente integrato e rispettoso delle due entità. Il padre, Isaiah Okafor Achebe, insegnante in una scuola missionaria, così come la madre Janet Anaenechi Iloegbunam, consolidarono il contatto con le radici folcloristiche che avrebbe caratterizzato la maggior parte delle sue opere, avvicinando il figlio ai rituali ancora praticati nella cultura Igbo e al patrimonio storico-narrativo popolare. La perfetta (benchè temporanea) sintesi delle due componenti culturali, occidentale e Igbo, traspare nello stesso nome di Achebe, Albert Chinualumogu, nel quale vennero accostati i termini di una preghiera Igbo che invocava protezione divina e stabilità ad un omaggio ad Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, il principe consorte della regina Vittoria. Solo dopo aver raggiunto la maturità e, per coerenza con i suoi ideali militanti, iniziò a firmarsi con il solo nome Igbo abbreviato, come ricoderà lui stesso con un velo di ironia:

I was baptized Albert Chinualumogu […] so if anyone asks you what the Her Britannic Majesty Queen Victoria had in common with Chinua Achebe, the answer is: they both lost their Albert! As for the second name, which in the manner of my people is a full-length philosophical statement17, I simply cut it in two, making it more businesslike without, I

17 Il secondo nome deriva da unʼespressione filosofica della comunità Igbo a cui apparteneva Chinua Achebe dal significato “Dio combatterà in mio favore”.

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hope, losing the general drift of its meaning18.

Nel 1942 lʼintera famiglia si trasferì nel villaggio di Nekede, dove lo scrittore entrò in contatto con lʼarte Mbari19, unʼaltra espressione della cultura

Igbo che lo influenzò in tutto il suo percorso di produzione letteraria. Allʼetà di 14 anni, Achebe venne iscritto al Governament College di Umuahia, dove dovette abbandonare la propria madrelingua in favore dellʼinglese, al fine di rispettare il regolamento imposto dallʼistituzione alla quale, in quel momento, era stata affidata la sua formazione. Fu in questa occasione che lo scrittore riuscì a comunicare con molti studenti che provenivano da diverse zone della Nigeria.

Quattro anni più tardi, si iscrisse allo University College di Ibadan, consorziato con lʼUniversità di Londra, inizialmente alla Facoltà di Medicina, per poi indirizzare la propria formazione verso materie che suscitavano in lui un maggiore interesse, quali Inglese, Storia e Teologia. La stessa università era frequentata anche da studenti che poi diventeranno autori molto importanti, quali il Premio Nobel Wole Soyinka, il romanziere Elechi Amadi, il poeta e drammaturgo John Pepper Clark e il poeta Christopher Okigbo. Presso questa università lʼautore conseguì la laurea in Letteratura e Lingua Inglese.

Dopo un breve incarico di insegnamento, nel 1954 si trasferì a Lagos, grande centro urbano dove entrò a far parte della Nigerian Broadcasting Corporation20 come direttore di unʼemittente esterna, ricoprendo questo ruolo

18 Chinua Achebe, “Named for Victoria, Queen of England” 1973, in Hopes and

Impediments: Selected Essays 1965-1987, London, Heinemann, 1988, p.63.

19 Lʼarte Mbari è un rituale in onore della dea Igbo della Terra, Ana/Ani, celebrato su presunta richiesta della divinità, che manifestava il suo volere attraverso la divinazione. Il veggente sceglieva alcune persone del villaggio che venivano condotte nella foresta, dove, sotto la supervisione di artisti e artigiani, costruivano un tempio e lo riempivano di manufatti. Quando tutto il lavoro era stato concluso, i prescelti rimasti isolati per molto tempo avvisavano il resto del villaggio e fissavano un giorno in cui sarebbe avvenuta la celebrazione dellʼopera con musiche, danza e banchetti (cfr. Chinua Achebe, “African Literature and Restoration of Celebration”, Kunapipi, vol. XII, n.2, 1990, Special issue In Celebration of Chinua Achebe, p.2).

20 La Nigerian Broadcasting Corporation, oggi Federal Radio Corporation of Nigeria, è una corporazione che regola lʼente radiotelevisivo nigeriano e che si occupa della circolazione delle notizie e lʼeventuale limitazione delle stesse al contesto della Nigeria.

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fino al 1966. Qui si occupava della preparazione di testi destinati alla diffusione orale, cosa che lo aiutò molto nella familiarizzazione con le differenti sfumature che esistono tra lingua scritta e lingua parlata. Durante questo periodo si dedicò anche alla stesura della sua opera più celebre, ossia Things Fall Apart. Nel 1956 fu selezionato per frequentare la Staff School della BBC a Londra, dove migliorò le sue abilità e le sue tecniche di scrittura ed entrò per la prima volta in diretto contatto con la società inglese.

Tornato in Nigeria, si dedicò alla revisione del romanzo Things Fall Apart, che venne modificato e affinato con una ristrutturazione della storia e della prosa. Lʼopera venne pubblicata il 17 giugno del 1958 dalla nota casa editrice Heinemann, dopo essere stata rifiutata da moltissimi altri editori, che consideravano la narrativa africana un elemento ancora incapace di suscitare interesse nel mercato internazionale. Nello stesso anno, Achebe incontrò colei che divenne sua moglie e la madre dei suoi quattro figli, Christie Okoli.

Il 1960 è lʼanno in cui venne pubblicato il suo secondo romanzo, No Longer At Ease, incentrato su Obi, funzionario pubblico nonché nipote del protagonista del romanzo precedente, Things Fall Apart, di cui vennero riprese le fila.

Qualche mese dopo il riconoscimento dellʼindipendenza alla Nigeria, il 1° ottobre del 1960, lʼautore partì per un tour nellʼAfrica orientale, durante il quale si rese conto delle politiche di impianto razzista e segregazionista ancora vigenti in questo paese. Negli anni successivi, i viaggi interessarono gli Stati Uniti dʼAmerica e il Brasile, mete molto importanti per lui perchè scenari cruciali della tormentata diaspora africana21.

Al suo ritorno in Nigeria, fu nominato Director of External Broadcasting ed uno dei suoi primi incarichi fu quello di contribuire alla creazione della stazione radio Voice of Nigeria. Nel 1964 venne poi inaugurata la collana African Writer Series, di cui lʼautore era redattore generale, allʼinterno della quale furono raccolti tutti gli interventi dei partecipanti ad un importante 21 Il termine “diaspora africana” si riferisce sia al processo di dispersione di africani lontano dal continente di origine, sia ai singoli protagonisti di questa stessa dispersione, conseguenza di una scelta o di migrazione forzata. www.Encyclopedia.com. [Consultato: 05/05/2017].

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convegno di scrittori africani in lingua inglese tenutosi presso il Makerere University College di Kampala, in Uganda. In questa occasione Achebe ebbe la possibilità di conoscere Kofi Awoonor, Wole Soyinka e Langston Hughes, oltre che di leggere lʼopera di Ngugi wa Thiongʼo, Weep Not Child.

Sempre nel 1964, Achebe pubblicò il terzo romanzo della trilogia iniziata con Things Fall Apart, Arrow of God. Ambientato nel villaggio di Umaro allʼinizio del XX secolo, il testo descrive lotte inter-etniche e narra la storia di Ezeulu, sacerdote del Dio Ulu, che chiede al figlio di apprendere la cultura dei colonizzatori per carpirne i segreti. Dai conflitti intestini, lo sguardo è ben presto rivolto allʼoperato delle politiche coloniali britanniche, con il sostegno dei missionari cristiani, cosicchè la traiettoria teleologica occidentale sembra imporsi a scapito della cultura e delle istituzioni locali.

In A Man of the People (1966), Achebe passerà a descrivere la vita allʼinterno di un immaginario paese africano che ha appena raggiunto lʼIndipendenza ed è tuttavia teatro di un colpo di stato. Questo avvenimento, benchè fittizio, richiama gli sconvolgimenti connessi al maggiore Chukwuma Kaduna Nzeogwu (1937-1967), che nel gennaio 1966 giocò un ruolo fondamentale nellʼimporre un regime di tipo militare in Nigeria. A causa della somiglianza tra gli eventi narrati nel romanzo e la realtà politica nigeriana, Achebe attirò lʼattenzione dei militari, che sospettavano di una violazione dei segreti riguardo ai piani golpisti, e dovette rifugiarsi nel suo villaggio natale, che nel 1967 si separò dalla Nigeria entrando a far parte di un nuovo stato che prese il nome di Repubblica del Biafra. In seguito, si traferì a Enugu, dove fondò la Citadel Press insieme allʼautore Christopher Okigbo. La prima opera edita in questa sede fu How the Leopard Got His Claws, che sarà poi inserita in una più ampia raccolta di racconti.

Nel luglio dello stesso anno, lʼesercito nigeriano attaccò la Repubblica del Biafra per sopprimere la ribellione, dando inizio ad una guerra fratricida che si protrasse fino al 1970, catalizzando lʼopinione pubblica mondiale, colpita dalla catastrofe umanitaria provocata da questi scontri. La stessa famiglia di Achebe

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fu costretta a trasferirsi ad Aba, capitale del Biafra, e lʼamico Christopher Okigbo morì durante il conflitto. A lui Achebe dedicò dei versi commemorativi in Igbo tradotti poi in inglese con il titolo Dirge for Okigbo.

Il profilo morale e politico dellʼautore fu poi pubblicamente riconosciuto quando venne nominato ambasciatore della nuova Repubblica del Biafra e cominciò a viaggiare per lʼEuropa, dove continuò a impegnarsi nel progetto editoriale legato alla African Writer Series. Le condizioni in Biafra continuavano tuttavia a peggiorare e la famiglia dovette trasferirsi a Umuahia, nuova sede del governo. Lo scrittore venne stavolta incaricato di collaborare con un apposito comitato alla stesura di un documento che contenesse i principi e le idee di ispirazione democratica che avrebbero dovuto accompagnare lʼera postbellica a sostegno di una nuova coscienza nazionale, e che fu pubblicato con il titolo The Ahiara Declaration.

Gli anni seguenti furono caratterizzati da numerosi viaggi allʼinterno degli Stati Uniti, che generarono nellʼautore un forte sentimento di indignazione per lʼatteggiamento aspramente razzista da lui percepito nei confronti dellʼAfrica. Quanto alle questioni interne, il conflitto civile terminò nel gennaio del 1970, dopo la resa del Biafra, e Achebe, insieme alla famiglia, tornò a vivere a Ogidi, entrando a far parte dellʼestablishment dellʼuniversità di Nsukka. A partire da questo momento, però, le possibilità di viaggiare per lui si ridussero drasticamente, a causa della revoca del passaporto da parte del governo nigeriano, motivata dallʼappoggio che egli aveva garantito al Biafra.

Dopo la guerra, collaborò alla fondazione di tre riviste a sfondo culturale, continuando a dedicarsi al suo lavoro di scrittore. Nel 1972 pubblicò la raccolta di racconti Girls at War e gli fu offerta una cattedra presso lʼuniversità del Massachussetts di Amherst. Il contatto con un panorama accademico internazionale di stampo occidentale gli consentì di approfondire ulteriormente la percezione distorta che qui si aveva dellʼAfrica, consapevolezza che lo stimolò alla stesura del provocatorio An Image of Africa: Racism in Conradʼs “Heart of Darkness”, uno dei saggi più controversi e influenti nella storia

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della critica letteraria inerente lʼAfrica, in cui egli si propose di mettere in luce la forma mentis razzista che a suo avviso emergeva nel capolavoro conradiano. Nello stesso anno fu pubblicata anche una raccolta di saggi intitolata Morning yet on Creation Day, a cui seguiranno nel 1984 The Trouble with Nigeria, Hopes and Impediments nel 1988, Home and Exile nel 2000, fino ad arrivare a The Education of a British-Protected Child nel 2009.

Achebe sarebbe poi tornato allʼUniversità della Nigeria, e nel 1976, gli fu conferito il primo National Merit Award. Nel 1982 si concesse una pausa dagli impegni del mondo accademico e cominciò a dedicare più tempo allʼattività redazionale per Okike, una delle tre riviste culturali fondate dopo la guerra del Biafra, divenendo anche attivo nel Peopleʼs Redemption Party (PRP)22, fino ad

assumerne la presidenza nel 1983.

In concomitanza con le elezioni di quellʼanno, pubblicò The Trouble with Nigeria, in cui attaccava duramente la classe politica e la società nigeriana per la mancanza di solidarietà e collaborazione. Dopo le elezioni, caratterizzate da episodi di violenza e accuse di frode, Achebe fu coinvolto in una discussione con il nuovo governatore dello stato di Kano che lo portò allʼamara decisione di abbandonare il PRP e, profondamente deluso da un certo tipo di prassi politica, a mantenere le distanze da qualsiasi altro partito.

Lo scrittore trascorse ciò nondimeno la maggior parte degli anni ʼ80 a tenere discorsi pubblici, a partecipare a conferenze e a lavorare al suo quinto romanzo. Allo stesso tempo, ricevette molti titoli onorifici. Anthills of the Savannah, pubblicato nel 1987, comparirà tra i finalisti del Booker Prize For Fiction. Significativamente, il romanzo tratta di un colpo militare nellʼimmaginario paese di Kangan, nellʼAfrica Occidentale, a conferma di come in Achebe non sia mai venuto meno il coinvolgimento etico e sociologico 22 Il Peopleʼs Redemption Party era un partito politico nigeriano della sinistra progressista, spesso considerato figlio nella Seconda Repubblica della Northern Elements Progressive

Union, fondata da Mallam Aminu Kano (1920-1983). Alcuni esponenti del partito furono

Abubakar Rimi, Balarabe Musa e Dr. Edward Ikem Okeke. Fu bandito dopo il colpo di stato militare del 1984 ad opera del Generale Buhari. Un nuovo partito con lo stesso nome è stato fondato nel 1999, ma non rispecchia lʼideologia di quello precedente (crf. Peopleʼs Redemption Party. Http://prp.com.ng. Accesso: 05/05/2017).

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nei confronti delle sorti africane.

Il 22 marzo del 1990, mentre si stava dirigendo a Lagos, lo scrittore rimase purtroppo vittima di un incidente automobilistico che lo lasciò paralizzato agli arti inferiori. Poco tempo dopo, fu nominato Charles P. Stevenson Professor di Lingua e Letteratura presso il college di Annandale-on-Hudson, New York, dove rimase per oltre quindici anni. Nel 2009 divenne David and Marianna Fisher University Professor of African Studies presso la Brown University di Providence, Rhode Island, dove ricoprì un ruolo importante nel proseguimento del progetto volto a far conoscere al mondo la “vera” Africa. Esso prese appunto il nome di Achebe Colloquium on Africa, iniziativa a cui parteciparono docenti e studiosi, personalità politiche, scrittori e tutti coloro che condividevano un particolare interesse nei confronti della situzione africana.

Gli ultimi due premi di cui lʼautore venne insignito furono il Man Booker International Prize nel 2007 e il Dorothy and Lillian Gish Prize nel 2010. Durante la sua luminosa carriera, Achebe ha ricevuto più di 40 titoli di Dottorato e laurea ad honorem da università sparse in tutto il mondo. Si è spento a 83 anni, il 21 marzo del 2013 a Boston.

2. La produzione saggistica

Nel contesto della letteratura postcoloniale, lʼartista si sente molto spesso investito del ruolo di portavoce di istanze sociali e politiche cruciali per la presa di coscienza e lo sviluppo della società di cui fa parte; egli tende, dunque, a porsi in un ruolo simile a quello di educatore o addirittura di un profeta. Questo tipo di scrittore è inoltre sensibile allʼesigenza di ricostruire la memoria collettiva. Questa necessità era molto sentita anche dal giovane Achebe, che si propose di fornire strumenti per indagare affidabilmente la storia, una storia occultata e distorta dal sistema coloniale.

Nelle raccolte di saggi di Achebe si coglie al meglio lʼesigenza di dare voce al continente africano, alla sua cultura e alla sua storia. Qui lʼautore tratta

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diverse tematiche di carattere sociale, politico e culturale che costituiranno poi i fondamenti del suo pensiero e del suo immaginario riscontrabili nel corpus di poesie, racconti e romanzi che egli scriverà durante tutto lʼarco della sua carriera letteraria.

Frequentemente, questi saggi sono stati redatti sulla base di interviste o incontri a cui lʼautore ha partecipato in occasioni importanti. La maggior parte dei discorsi tenuti da Achebe nel corso di lezioni accademiche, cerimonie di premiazione e conferenze sono la fonte principale da cui attingere per poter scavare nel profondo delle logiche il pensiero di questo autore, riguardo tematiche di diverso calibro e carattere.

“The Novelist as a Teacher” (1964) sintetizza il pensiero di Achebe per quanto riguarda, appunto, il compito dellʼartista in una società complessa e travagliata come quella africana, un ruolo che dovrebbe idealmente racchiudere in sé quello dello storico, del critico e del mentore. Lo scrittore è chiamato a misurarsi con il passato al fine di analizzare in modo critico il presente per arrivare poi a collaborare nel condurre il popolo al cambiamento verso il futuro. Tutto ciò si realizzerebbe nel rispetto della verità, come lʼautore ribadisce in “My Home Under Imperial Fire” (Home and Exile) e in “African Literature as Restoration of Celebration” (The Education of a British-Protected Child). Benchè trasposta allʼinterno della finzione letteraria, questa verità deve comunque essere percepibile, capace di emergere tra le nervature della narrazione.

Morning Yet On Creation Day, una delle sue opere più significative, raccoglie quindici saggi scritti da Achebe tra il 1961 e il 1974. Il libro è diviso in due sezioni: la prima mette in luce le difficoltà che gli autori africani devono affrontare nel tentativo di dare origine ad una letteratura autonoma che riesca a liberarsi da canonizzazioni, ideologie e preconcetti europei; la seconda sezione è invece a sfondo più personale, trattandosi di una raccolta di testimonianze autobiografiche. La stessa impostazione di matrice autobiografica si riscontra nella raccolta The Education of a British-Protected Child, del 2009, in cui sono

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stati inseriti saggi già pubblicati e altri inediti. Anche in questo caso, vi si identifica il ruolo dello scrittore “ideale” capace di disancorarsi da un tipo di istruzione estranea e alienante a favore di un percorso di riscoperta delle proprie radici. Lo scrittore ideale dovrebbe essere al tempo stesso anche un cittadino ideale, poiché egli è prima di tutto membro di una comunità al cui buon governo è tenuto a cooperare con un senso di coscienza civile.

Così come era avvenuto in No Longer at Ease e A Man of the People, nelle raccolte di saggi Morning Yet On Creation Day e Home and Exile Achebe affronta una tematica che gli sta molto a cuore, ossia il rapporto tra la cultura e il fenomeno del colonialismo. Egli mette in evidenza come le opere degli scrittori contemporanei africani continuino a essere influenzate da presupposti estetici e compositivi europei, che sono profondamente legati a una mentalità estranea a quella del continente africano. Egli invita il lettore a riflettere sullʼimportanza di ricordare il passato e conoscerlo nel profondo, al fine di evitare che il ciclo di una storia distruttiva si ripeta. Come è possibile evitare tutto ciò? Cercando di capire quali sono stati gli errori anche delle popolazioni africane, riflettere su “where the rain began to beat us”23 per dare nuova vita a

una civiltà e a una cultura che è stata rimossa dalla presenza dominante del mondo occidentale. Emerge anche in questo caso la passione di Achebe, la sua profonda fiducia nel potere della letteratura di risvegliare gli animi assopiti e far maturare in loro una nuova coscienza. LʼAfrica sarebbe stata sempre rappresentata come “the other world”, lʼantitesi dellʼEuropa e della civilizzazione, rivelando così sul piano psicologico la profonda inquietudine nutrita dallʼOccidente riguardo questioni identitarie e di autoaffermazione e la sua costante necessità di delinearsi costruendo unʼimmagine ad hoc del suo opposto, come ben ci conferma Edward Said nel suo Orientalism. Questa immagine dellʼAfrica sarebbe caratterizzata dallʼassenza di esseri umani civilizzati al suo interno – gli stessi africani vengono privati della loro umanità e parificati ad animali – in unʼottica che rafforza lʼideologia coloniale.

23 Ezenwa-Ohaeto, Chinua Achebe, A Biography, Oxford, & Bloomington, Indiana University Press, 1997, p. 191.

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La necessità di rispondere al discorso imperialista codificato in questo tipo di letteratura è stata una delle ragioni che ha incoraggiato Achebe a scrivere il suo primo romanzo; lo stesso autore ha dichiarato che: “the story we had to tell could not be told for us by anyone else no matter how gifted or well intentioned”.24 Questo è anche il principio che Achebe ha seguito nella stesura

di uno dei saggi più controversi della critica postcoloniale, e che si propone di decostruire in tal senso unʼopera cardinale di Joseph Conrad (1857-1924) quale Heart of Darkness (1899), qui considerata come massima espressione di un discorso funzionale al convalidamento del ruolo del colonizzatore (An Image of Africa: Racism in Conradʼs “Heart of Darkness”).

In occasione della “World Bank Presidential Lecture Africa is People” del 1991, Achebe tenne un discorso che sarà poi pubblicato in The Education of a British-Protected Child, in cui attaccò duramente il concetto principe su cui a suo avviso si sarebbe basato il colonialismo: lʼindividualismo (legato a una mentalità opportunista o maternalista). Ridurre il tutto allʼunità significherebbe andare contro natura, una natura che è invece impostata su un salutare pluralismo. Di conseguenza, Achebe si attiva per fornire unʼalternativa al mondo occidentale, aprendo gli orizzonti dellʼalterità e del confronto collettivo. Certo, Achebe è stato uno scrittore nigeriano che ha scritto principalmente a proposito della Nigeria e della sua gente, gli Igbo, ma si può affermare che egli sia riuscito a cogliere perfettamente lʼanima molteplice e variegata del continente africano, caratterizzato da una varietà di flora e fauna, oltre che di lingue, popolazioni e civiltà. È stato in grado di diagnosticare e vagliare le ferite provocate dal colonialismo e le sofferenze del neocolonialismo, coinvolgendo questioni di attinenza più ampia: la guerra, lʼinquinamento, il razzismo, la mancanza di rispetto nei confronti dellʼambiente e del concetto stesso di umanità.

Nelle pagine dei suoi saggi emerge pure un sentimento nostalgico nei confronti della propria madrepatria, dalla quale si è dovuto allontanare 24 Chinua Achebe, “Named for Victoria, Queen of England”, cit., p. 25.

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