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UNA LOGICA DELL’ESCLUSIONE Scopo del presente lavoro è lo studio di un aspetto specifico dell’opera di Teofilo Folengo, il trattamento riservato nel

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INTRODUZIONE

UNA LOGICA DELL’ESCLUSIONE

Scopo del presente lavoro è lo studio di un aspetto specifico dell’opera di Teofilo Folengo, il trattamento riservato nel Baldus prima di tutto – e lateralmente nelle altre opere macaroniche e volgari dell’autore mantovano – alle categorie del villano, della donna e dello straniero, che hanno occupato una posizione di marginalità sociale tradottasi sin dall’alto medioevo, nella tradizione letteraria, in centralità a scopo comico.

Più precisamente, è mia intenzione studiare le tre categorie come parti integranti del ‘sistema sociale’ interno al poema, nel quale esse rivestono un ruolo di primo piano: l’universo villanesco fa da sfondo ai primi undici libri e per quasi metà dell’opera è fonte pressoché inesauribile di spunti descrittivi e narrativi; le figure femminili sono altrettanto essenziali in quanto scandiscono i momenti salienti della vicenda di Baldo e compagni, fissando l’ambiguo equilibrio del poema tra comicità – le grassae Camoenae dell’invocazione – e ‘resti’ della tradizione avventuroso-cavalleresca – le streghe della seconda parte, contro cui l’eroe e i suoi sodali si trovano a dover combattere; infine le diverse tipologie di ‘stranieri’ – in particolare l’ebreo, il quale, anche se non propriamente ‘straniero’ è però avvertito come estraneo per ragioni religiose e culturali – svolgono un ruolo importante negli episodi di beffa dei libri dal VI al X, contribuendo a enfatizzare l’astuzia di alcuni personaggi o l’ingenuità di altri. Mi sono proposto di indagare le modalità con cui il testo folenghiano presenta queste tre categorie, sia per definire appunto un sistema di coordinate e costanti interne, sia per rintracciare analogie o varianti rispetto alla tradizione.

È inoltre mia intenzione provare a smentire il luogo comune per cui il Baldus sarebbe un’opera disordinata e incoerente, una specie di «poema dell’anarchia1». Da sempre il capolavoro folenghiano è stato oggetto di studi che ne hanno messo

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in risalto la struttura per ‘accumulazione’, e ne hanno analizzato ora questo ora quell’episodio senza inserirli in un discorso generale e onnicomprensivo; se si considera con attenzione la bibliografia folenghiana ci si può rendere conto che esistono pochissimi contributi – quasi tutti molto recenti – dedicati all’intero poema2, e che molti al contrario tendono a sottolinearne la scarsa tenuta strutturale. Passerò quindi in rassegna i personaggi e le situazioni che appartengono a ciascuna delle tre categorie, soffermandomi di volta in volta sui tratti che li caratterizzano e sul ruolo che giocano nell’economia del poema, allo scopo di dimostrare che tutte queste figure, individualmente o considerate nell’insieme del gruppo sociale di cui fanno parte, hanno una propria raison

d’être, insita in quella stessa varietas che è una delle cifre più evidenti del poema.

Nel primo capitolo, dedicato all’universo villanesco folenghiano, ho cercato anzitutto di ripercorrere per sommi capi la storia letteraria della figura del rusticus sin dai suoi inizi alto-medievali, dal momento in cui cioè si incontrano i primi esempi di una rappresentazione negativa della figura del contadino – villano in quanto abitante della villa, della campagna – elaborata da una cultura urbana che lo descrive come un essere bestiale, rozzo e avido, immerso nella materialità più cieca e ostile quindi ad ogni valore civile e spirituale. Seguendo gli studi di Rand e Le Goff, ho illustrato le origini del fenomeno, a partire dal paradosso secondo cui l’accanimento a livello sociale contro la classe contadina comincia allorché il ‘tipo’ del villano scompare quasi del tutto da ogni forma di cultura, dopo avere occupato una posizione di rilievo nella letteratura classica, se non altro nelle realizzazioni idealizzate della bucolica; quando la Chiesa sostituisce la realtà con il simbolo, perde interesse tutto ciò che ha a che fare con la materialità e con la pratica del lavoro inteso quale strumento di sussistenza. Reintegrata nelle rappresentazioni letterarie con la cultura feudale (in specie nella produzione dei menestrelli), in contesti per lo più basso-comici, la satira del villano nasce nella sua declinazione moderna con la ripresa economica dei secoli XI-XIII: i villani sono colpiti dalle invettive satiriche dei rappresentanti delle altre parti sociali, specialmente della plebe cittadina, come conseguenza del feroce antagonismo che

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oppone gli abitanti della città a quelli del contado, e che nel medioevo è rafforzato da precise ragioni sociali ed economiche, come l’ampia ondata di immigrazione urbana degli abitanti del contado cominciata dopo l’abolizione della servitù della gleba.

Delineate le ragioni che hanno determinato la nascita del fenomeno, ho preso in esame una serie di autori che offrono spunti interessanti sull’argomento. Alcuni di essi sono da collocarsi entro generi, come la novellistica, comici per loro stesso statuto e che quindi bene si prestano ad accogliere l’intento satirico: Boccaccio, Sacchetti, Sercambi, Sermini; altri, come Paolo da Certaldo, Giovanni di Pagolo Morelli, l’Alberti e Matteo Vegio, appartenendo alla classe dei proprietari dànno testimonianze notevoli sui cambiamenti intervenuti nelle relazioni tra signori e contadini, e più generalmente tra città e campagna (che diventano sempre più sinonimi di due sistemi di valori opposti, urbanitas e rusticitas, civiltà e inciviltà); ad altri ancora, come gli anonimi dell’Alfabeto o della Sferza dei villani, si devono opere antivillanesche per genere, nelle quali sono riuniti la maggior parte dei topoi che si vedono già ben delineati nel Folengo. In pochi di questi autori, come si vedrà, l’atteggiamento verso il villano risulta spietato come in certi passi del

Baldus, in quanto per lo più motivato da ragioni di natura sociale ed economica.

Ho quindi illustrato brevemente la storia della critica folenghiana a proposito del punto di vista dell’autore nei confronti dell’universo villanesco. Essa si è assestata su posizioni decisamente estremistiche e per questo talvolta inaccettabili: molti hanno insistito su una satira di tipo ‘negativo’, sottolineando di volta in volta l’ottusità o l’ignoranza dei villani folenghiani, altri si sono limitati a mettere in evidenza i rari momenti in cui il Folengo sarebbe meno crudele, e persino affettuoso, verso i valori contadini; la maggior parte si è tuttavia allontanata dal testo, sfuggendo all’analisi e cercando di avallare o smentire opinioni altrui, senza perciò aggiungere molto di nuovo.

Arrivato al testo, ho prima di tutto preso in considerazione le tre principali figure villanesche del Baldus – Berto Panada, Zambello e Tognazzo – cercando di analizzare puntualmente le parti a esse dedicate, per mostrare di volta in volta se cambia (e come cambia) l’atteggiamento folenghiano e quali topoi comici vengono utilizzati. Nel sistema testuale Berto rappresenta un’eccezione, essendo

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presentato e descritto secondo i tratti del ‘villano cortese’, capace di rimanere fedele alla propria condizione sociale e mantenere così fondamentali valori di

simplicitas e humilitas. La sua pur breve presenza testuale ha due funzioni

essenziali: ospitare i fuggiaschi Guido e Baldovina e far emergere le qualità della futura madre di Baldo, che non esita a farsi massera accantonando le proprie nobili origini e distinguendosi così da tante donne della letteratura cavalleresca; ed essere lui stesso padre putativo di Baldo, contribuendo in misura determinante alla formazione dell’eroe. Ho inoltre messo in evidenza, attraverso un confronto ravvicinato tra testo volgare e testo macaronico, la dipendenza di Berto Panada da due personaggi – l’uno pescatore, l’altro pastore – dell’Orlandino, sottolineando la presenza in nuce degli elementi descrittivi sostanziali confluiti in seguito nel poema maggiore.

Zambello e Tognazzo sono invece esempi del tipo tradizionale del villano, sporco e mal vestito, sciocco e ingenuo, e per questo facile a ingannarsi. Mi sono soffermato sui modelli che l’autore ha seguito per la loro presentazione, individuando le comuni caratteristiche fisiche e psicologiche, e ho illustrato il loro ruolo costitutivo nell’ambito delle beffe giocate da Cingar nella prima metà del

Baldus: le burle atroci di cui sono vittime, e le morti assurde cui vanno incontro,

non si spiegano infatti soltanto con il loro essere bersagli comici, ma soprattutto tenendo presente che essi sono i principali antagonisti di Baldo e dei suoi compagni nella sezione cipadense del poema, e quindi la loro fine è condizione necessaria perché l’eroe trionfi sull’universo villanesco in cui è nato e cresciuto.

Oltre alle figure di primo piano, ve ne sono altre che contribuiscono alla definizione del ‘paesaggio’ contadino e allo sviluppo dei primi dodici libri: è il caso di alcune sottocategorie quali i facchini bergamaschi o i pastori tesini, bersagli di terribili beffe o di violenti attacchi verbali che, pur essendo supportati dai più noti stereotipi antivillaneschi, assolvono importanti funzioni narrative. Infine, ho preso in considerazione le numerose occasioni nelle quali situazioni ed espressioni che attingono al repertorio comico tradizionale sono associate genericamente alla figura del villano: ho raccolto le varie immagini e similitudini relative all’universo e in particolare al lavoro contadino; l’insieme di ingiurie e pregiudizi associati agli abitanti della campagna; le modalità secondo cui si

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definisce in Folengo l’opposizione città/campagna. In questo senso un momento fondamentale è quello rappresentato dal discorso che il tiranno di Mantova, Gaioffo, pronuncia nel senato cittadino, nel libro IV, nel quale il contrasto tra

urbanitas e rusticitas è innestato su precisi richiami ai testi di Cicerone e

Sallustio.

Il secondo capitolo prende in esame l’atteggiamento folenghiano nei confronti della donna. Ho posto inizialmente il problema del complesso rapporto tra donna e letteratura, fondato sul dato di fatto che ogni scrittura letteraria che riguardi il sesso femminile dipende in qualche misura dall’occhio maschile che lo osserva e dalla mano che produce quella scrittura. Proprio come il villano, la donna è stata una figura socialmente emarginata in quanto ritenuta subumana (o sub-maschile): tale giudizio ne ha pesantemente influenzato la rappresentazione, trasformando parte della letteratura sulla donna in discorsi di stampo misogino/misogamo, o comunque volti a mettere in evidenza gli stereotipi anti-femminili. Una rapida rassegna di alcuni passi scritturali e patristici (Ambrogio, Tertulliano, Goffredo di Vendôme) consente di osservare in che modo il racconto della creazione abbia contribuito a formare un’immagine della donna quale essere indissolubilmente legato al peccato e al vizio, capace con il proprio comportamento di corrompere l’uomo. Non bisogna dimenticare che nella Genesi è la donna che si lascia sedurre dal serpente e trascina il compagno alla disobbedienza; è lei che riceve le peggiori maledizioni, e nella donna si identifica la prima responsabile della cacciata dal paradiso terrestre. È in questo modo che si definiscono i termini dell’opposizione tra uomo e donna, che percorreranno parte della tradizione letteraria italiana fino a Folengo e oltre. Se la letteratura classica e cristiana mette preferibilmente in mostra la donna come elemento di disturbo nei confronti dei valori maschili, diversi autori tra XII e XV secolo cercano di risolvere il problema elaborando veri e propri modelli di comportamento femminile. Le donne irrompono quindi nei testi di carattere pastorale e pedagogico, nei quali si attua il tentativo di elencare le ‘categorie’ che dovrebbero riunire le innumerevoli condizioni femminili; la donna viene pensata e ritratta non tanto nella sua individualità (di moglie, madre o figlia, naturalmente) quanto in relazione al posto che occupa all’interno del consorzio sociale. Vedremo che le descrizioni elaborate in questo periodo, come quella del

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Reggimento e costumi di donna di Francesco di Barberino, sono sì ampie e

articolate, ma tutt’altro che esaustive, poiché escludono di proposito categorie ‘scomode’ come le meretrici; in altre parole, viene raggiunta una sorta di formazione di compromesso tra ciò che le donna è e ciò che dovrebbe essere secondo il punto di vista del predicatore o del moralista che scrivono.L’immagine scritturale della donna incline per natura al vizio di lussuria è largamente presente ancora alla fine del Quattrocento, nelle prediche di Bernardino da Siena, in cui essa viene individuata in funzione dei problemi che riguardano il pubblico maschile. Al consueto repertorio di accuse nei confronti del comportamento femminile si accompagna una prima ammissione della possibile utilità sociale della donna, chiamata (si badi bene: una volta che l’uomo l’abbia aiutata a uscire dalla sua condizione di peccato e vanità) ad amare il marito e a esercitare verso di lui un ruolo di freno, impedendo per esempio la diffusione della sodomia.

In modo assai più spietato è svolto il tema misogino in altri tipi di testi. Già i

Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, il più antico componimento

italiano che ha per tema la donna, propongono una serie di figure femminili con lo scopo dichiarato di denunciare le nefandezze delle «malvasie femene» e gettare discredito sul loro sesso, proclamando che l’uomo, che tende per istinto a cercare la compagnia femminile, è condannato alla rovina e alla perdita della ragione. A simili conclusioni pervengono, come vedremo, Boccaccio nel Corbaccio e Masuccio Salernitano, il quale ammette apertamente che sarà per lui impossibile descrivere tutte le imperfezioni e i vizi del «muliebre sesso». Abbiamo considerato infine una serie di autori appartenenti al filone della poesia comico-realistico – Rustico Filippi, Cecco Angiolieri, Pieraccio Tedaldi – che insistono in modo particolare sull’insaziabile sessualità della donna (soprattutto della vecchia laida e spregevole, secondo il modello medievale del vituperium vetulae) e sugli aspetti più repellenti del suo corpo, stabilendo associazioni tra fascino femminile,

libido e pratiche stregonesche, che ritroviamo nella seconda parte del Baldus.

Nel considerare il modo in cui l’universo femminile viene rappresentato nel poema, sono partito da due luoghi a mio avviso paradigmatici e dislocati nelle due metà dell’opera: il lungo discorso con cui Tognazzo cerca di dissuadere Cingar dal punire Berta per essersi azzuffata con Lena (VI 358-404) e la dura invettiva

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con la quale lo stesso Merlino commenta la morte imminente di Leonardo, causata da una delle tante ‘puttane’ che abitano la terra (XVI 489-558). I due brani riuniscono la maggior parte dei topoi misogini che si trovano nel Baldus: la stupidità delle donne; la loro naturale predisposizione all’irascibilità e alle urla; lo sfrenato desiderio di ricchezza che le rende veri e propri mostri di avaritia; la lussuria, per soddisfare la quale attentano alla castità dei giovani, portandoli alla rovina con la loro opera di corruzione. Nel caso del libro XVI i vizi femminili risultano tanto peggiori in quanto confrontati con i valori di purezza e onestà incarnati da Leonardo, cui Pandraga darà la morte; all’onestà del giovane principe si contrappone infatti, spietatamente, l’insaziabile desiderio delle donne, per soddisfare il quale esse ricorrono a magie e incantesimi diventando esperte nell’arte stregonesca. Avremo modo di verificare che tutti i personaggi femminili folenghiani, dalle grassae Camoenae dell’invocazione alle mogli di Baldo e Zambello, partecipano in una certa misura di tale natura stregonesca, incarnata poi dalle tre sagae che l’eroe e i suoi sodali affrontano nei libri conclusivi. È significativo il fatto stesso che i protagonisti siano chiamati a combattere non saraceni o mostri ‘tradizionali’, come accade in genere nella letteratura cavalleresca precedente e contemporanea, ma appunto un gruppo di streghe, a significare un dualismo di fondo tra valori positivi maschili e valori negativi (o controvalori) femminili.

L’esplorazione dell’universo femminile del Baldus comincia dalla descrizione del Parnaso folenghiano e delle muse «pancificae» che lo abitano. Esse possiedono caratteristiche decisamente anticonvenzionali: quasi tutte hanno nomi locali, sono sgraziate e in là con gli anni, e svolgono l’attività culinaria che consente all’autore di nutrirsi in corso d’opera, traendo dal cibo l’ispirazione poetica necessaria alla produzione dell’impasto macaronico. Proprio perché sono impegnate a comporre e cuocere senza sosta gnocchi e lasagne, le muse mostrano tratti alchemico-stregoneschi che le accomunano a molte tra le figure di donna del poema: una di loro, Striax, porta addirittura nel nome l’indicazione della propria natura. Sin dall’inizio viene dunque a fissarsi, nell’associazione donna/strega, una delle cifre essenziali del libro, del resto confermata dalle peculiarità attribuite ad altri personaggi, come Berta e Lena. Se la moglie di Baldo, in particolare, ripudia

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i figli avuti con l’eroe e finisce per diventare maestra di stregoneria alla scuola di Gelfora (libro XXIII), quella di Zambello fa sfoggio della stupidità e degli stessi tratti animaleschi assegnati a Gelfora e alle sue compagne. Come ho cercato di mostrare nei paragrafi a loro dedicati, con il loro comportamento entrambe avvalorano l’idea che nel Baldus le relazioni uomo-donna sono fuorilegge: se un rapporto esiste – come nel caso di Guido e Baldovina, o in quelli dell’eroe e del suo fratellastro con le loro mogli – sarà incompleto, irrealizzabile e perciò infelice; quello del poema è un mondo essenzialmente maschile, in cui la donna trova spazio (uno spazio esiguo) alla sola condizione di essere limitata al proprio ruolo materno. È significativo, inoltre, che Berta e Lena ‘vivano’ e agiscano quasi esclusivamente in funzione dei protagonisti maschili: la prima è la spalla di Cingar nel corso delle beffe ai danni del vecchio Tognazzo, nei libri VI-IX, ed esce di scena poco oltre per ricomparire soltanto verso la fine; Lena, ripetutamente raggirata dallo stesso Cingar, viene uccisa dal marito, deciso a sperimentare le presunte virtù del coltello di san Bartolomeo.

Un’ampia parte di questo secondo capitolo è dedicata a Pandraga, Smiralda e Gelfora, le streghe contro cui l’eroe e i suoi compagni devono combattere nella sezione conclusiva del poema. Come vedremo, nella rappresentazione di queste tre figure il Folengo traduce sulla pagina precise conoscenze delle caratteristiche attribuite alle donne realmente accusate di stregoneria e dei verbali delle centinaia di processi istruiti in Veneto e Lombardia tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Tratti fisici e anagrafici, precisi riferimenti ai legami con il diavolo e alla partecipazione al sabba, descrizione dei fenomeni della metamorfosi animalesca e del volo notturno: tutto corrisponde alla costruzione del concetto colto di stregoneria, quale venne elaborato nei primi manuali della fine del Trecento, nonché dell’immaginario che doveva accompagnare l’idea della strega – o dello stregone – a livello popolare.

La rappresentazione dell’universo femminile come mondo di streghe e prostitute si spiega in parte legandola alla dimensione erotico-affettiva che caratterizza il poema nel suo insieme. Sin dal principio il Baldus smentisce l’idea di una sua eventuale appartenenza al genere cavalleresco venendo meno alla tradizionale dittologia ‘donne/amori’: la componente erotico-amorosa manca

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quasi del tutto e le poche figure femminili di primo piano veicolano valori negativi irreversibili, che escludono qualsiasi possibilità di un rapporto sereno e costruttivo tra i rappresentanti dei due sessi. Tutte le ralazioni uomo-donna – compresa quella di Guido e Baldovina, funzionale al concepimento e alla nascita dell’eroe – sono infelici, segnate dall’aggressività o semplicemente irrealizzate, destinate a perdersi. A ben vedere, nessuno dei personaggi di primo piano ha un legame stabile e duraturo con una donna: Cingar ha annegato la moglie Gnesina non potendo più sopportare le sue angherie; anche Lena, come si è detto, finisce uccisa dal marito Zambello, che vorrebbe ucciderla e resuscitarla a proprio piacimento con il falso coltello miracoloso; Bertolina, la moglie di Tognazzo, quando viene menzionata nel testo è già morta, e come tale la compiange il marito, paragonandola alle proprie vacche; Boccalo, infine, getta in mare la propria durante una tempesta, e l’autore lo presenta poco oltre ricordandone l’uxoricidio e le convinzioni misogine: «ille galantus homo, qui nuper in aequora bruttam / iecerat uxorem dicens non esse fagottum / fardellumque homini plus laidum plusque pesentum, / quae sit oca ingenio, quae vultu spazzacaminus» (XIII 117-21).

Si colgono vistose contraddizioni anche nella storia dello stesso Baldo. Nella sua adolescenza non c’è spazio per nessun accenno all’amore: il futuro eroe si appassiona alla letteratura cortese e cavalleresca, ma la sua prima (e unica) esperienza erotica consiste nell’innamoramento per Berta rapita alla famiglia e sposata immediatamente con l’approvazione di Sordello. Il rapido riferimento alla bellezza della sposa, prima fra tutte le fanciulle della città, cede il passo al precoce matrimonio, il quale ha una finalità meramente riproduttiva visto che Berta rimane incinta al primo tentativo. La brevissima digressione relativa all’inizio del rapporto tra Baldo e Berta non trova seguito: alla fine del libro V Baldo è rinchiuso in prigione e da quel momento non mostra nessun atteggiamento, né pronuncia parole riconducibili alla sfera amorosa; la moglie è protagonista comprimaria delle beffe dei libri VI-X, ma Baldo la ritrova soltanto alla fine del poema, annoverata significativamente tra le maestre di stregoneria. L’amore e la passione erotica sono dunque sentimenti estranei al sistema di valori del poema, e non agiscono nemmeno come pulsioni responsabili di spinte centrifughe (come

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avviene invece nell’Ariosto, dove i paladini si allontanano dalla propria missione per inseguire figure femminili sempre sfuggenti); la passione è soltanto una forma di perversione con le caratteristiche di una forza distruttrice, come quella provata dalla strega Pandraga nei confronti del pudico Leonardo e che porta alla morte di quest’ultimo.

L’assenza nel Baldus di una dimensione positiva nella concezione dell’amore è indubbiamente il risultato della misoginia che anima l’atteggiamento dell’autore, derivante in massima parte dalla tradizione predicatoria medievale. Quel che colpisce nella rappresentazione folenghiana della donna è il fatto che le figure femminili, al pari di quelle villanesche, sono egualmente escluse dal sodalizio che lega Baldo e i suoi compagni, e per questo quasi sempre derise o fatte oggetto di disprezzo. Nel corso del poema esse ricoprono ruoli antagonistici rispetto alle azioni dei protagonisti o sono destinate a occupare posizioni socialmente irrilevanti e non regolari, marginali all’interno della prospettiva ‘maschilista’ che governa l’opera. Nessuna donna del Baldus – neanche quelle mitologiche, rievocate qua e là all’interno di paragoni o similitudini – ama di un amore puro e sano, nessuna agisce o soffre per amore, né tantomeno rimane accanto al proprio uomo: le donne sono relegate nell’ambiente rusticale dei primi libri e partecipano delle sue corruttele, non hanno una parte determinante nello sviluppo della vicenda, e conservano nella migliore delle ipotesi semplici funzioni materne. Il mondo femminile va incontro insomma a una radicale processo di degradazione e disumanizzazione, funzionale alla sottomissione ai valori maschili.

Questo tipo di raffigurazione sembra confermata dal personaggio della madre del protagonista, Baldovina. Benché la sua relazione sia destinata a interrompersi a causa dell’abbandono dello sposo, lei è l’unica donna del poema a innamorarsi di un amore sincero; la sua passione non ha altri fini se non quello di unirsi in matrimonio con Guido. Ma la sincerità del sentimento non basta, perché a corte la loro sarebbe un’unione impossibile: anche il rapporto tra i futuri genitori di Baldo, apparentemente salvaguardato dal ruolo di eroe che spetterà al nascituro, si configura quindi come fuorilegge e ‘deviante’ per ragioni sociali e culturali, al punto che i due amanti sono costretti alla fuga e con essa perdono ogni privilegio o diritto. Sin da questa prima situazione la dimensione erotica assume chiari

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caratteri di irregolarità sociale e di incompletezza che comportano l’implicita condanna della relazione tra Guido e Baldovina; la decisione del paladino di abbandonare la compagna per partire eremita viene inoltre presentata come la più decorosa e motivata dalla necessità di legittimare quell’amore, purificandolo attraverso l’esperienza religiosa. Il punto di vista folenghiano sull’amore è dimostrato anche dall’evoluzione che subisce Baldovina. Se infatti la sua rappresentazione risulta per certi versi stereotipata nel contesto cortigiano e nell’ambito del rapporto con Guido, essa guadagna certamente in realismo e spontaneità a contatto con la figura di Berto, e ancora di più dopo la partenza del compagno, come se la vicinanza di quest’ultimo ne limitasse le possibilità inespresse. Con l’uscita di scena di Guido la donna pare acquisire una fisionomia e una consapevolezza delle proprie capacità che prima non possedeva, o delle quali non si dava traccia nel testo. Si prenda come esempio l’episodio della nascita di Baldo, quando la donna, rimasta sola nella capanna, è colta dalle doglie ma riesce ugualmente a partorire il bambino: il brano dimostra che per Baldovina, costretta a fare affidamento soltanto sulle proprie forze, l’amore è una condizione alla quale si può rinunciare senza drammi, a maggior ragione quando si tratti di dare alla luce il proprio figlio; uno status precario destinato a mutare, che passa in secondo piano rispetto alla priorità dell’affetto materno. Solo nel rapporto con il piccolo Baldo, sano in quanto libero da implicazioni erotiche, la donna trova infatti piena realizzazione di sé. La madre dell’eroe si affanna tanto per le sorti del bambino soprattutto perché ricorda le pene che ha dovuto sopportare a causa dell’uomo che ha amato e che l’ha lasciata sola alle prese con un figlio da crescere; non a caso in punto di morte invoca per quattro volte il nome di Guido, accusandolo di averla fatta precipitare dalle ‘altezze regali’ che le appartenevano. È inoltre un dato di fatto che dopo soli tre libri Baldovina scompare del tutto dalle pagine del Baldus, fatta salva una fugace e poco lusinghiera menzione da parte di Tognazzo, per altro funzionale a ricordare le circostanze della nascita dell’eroe; l’ottica misogina del Folengo impone che le figure femminili – eccetto le streghe della seconda parte, che avranno però un ruolo antagonistico – e l’amore eterosessuale svaniscano dall’orizzonte del protagonista, e questa imposizione non risparmia nemmeno gli affetti familiari.

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Il terzo capitolo prende in esame la categoria dello straniero, che nel poema folenghiano figura come obiettivo della stessa strategia comica che investe anche gli universi villanesco e femminile. Se però il mondo dei villani fa da sfondo a tutta la sezione cipadense del Baldus e fissa le coordinate fondamentali per la definizione dei personaggi di Berto, Zambello e Tognazzo, e la figura della donna svolge un ruolo determinante negli ultimi libri, identificandosi con la compagine stregonesca affrontata da Baldo e sodali, la costruzione dell’immagine dello straniero è affidata semplicemente a una serie di allusioni e accenni sparsi nel testo, relativi ai diversi clichés che nel corso del tempo hanno contribuito a formare il ‘carattere’ dei vari popoli. Fanno in parte eccezione gli ebrei, menzionati il più delle volte a proposito degli stereotipi più comuni – l’avidità, per esempio – ma protagonisti anche di spunti narrativi negli episodi di beffa della seconda cinquina di libri.

Ho cercato innanzitutto di dare una definizione di ‘straniero’ adeguata al genere di rappresentazione offerta nel Baldus, e che sia possibile derivare dai caratteri distintivi comuni alle diverse tipologie. Come si dirà più approfonditamente, prima di diventare un tema letterario quella dello straniero è una condizione esistenziale assunta da chiunque si accosti a una comunità che non è la sua e che si trovi a confrontarsi con istituzioni sociali, strutture e abitudini culturali diversi dai propri; è normale che gli appartenenti alla comunità o al gruppo sociale che accoglie lo straniero proiettino su di lui i propri pregiudizi culturali, quasi sempre caricati di valori simbolici e ideologici. Le caratteristiche attribuite allo straniero risultano in questo modo determinate dalla sovrapposizione con quelle del gruppo dominante; in altre parole sono strettamente legate alla sua diversità e alle peculiarità degli altri nei suoi confronti. La sua raffigurazione risente sempre di una visione del mondo etnocentrica, che eleva il proprio gruppo etnico a criterio di confronto con qualsiasi altra realtà antropologica.

Questo spiega come l’immagine dello straniero, nel Baldus e in tanti altri testi letterari e non, sia accompagnata da stereotipi legati a loro volta alle impressioni che i diversi popoli hanno suggerito viaggiando, diventando appunto ‘stranieri’ in altri paesi; sin dai loro primi spostamenti, italiani, francesi, spagnoli, tedeschi sono stati associati a luoghi comuni che hanno contribuito a delinearne la figura e

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che sono poi sopravvissuti al successivo mutamento dei contesti e delle coordinate storiche. Si è tentato di raccontare una piccola storia di questi clichés nazionali, raccogliendo le opinioni di teorici come Ravisius Textor, Giulio Cesare Scaligero e Henri-Jules Pilet de la Mesnardière, i quali, tra Cinque e Seicento, recuperarono i giudizi di alcuni autori classici contribuendo a fissare immagini – il tedesco avvinazzato, il francese incostante in amore, lo spagnolo valoroso in armi – che, intrecciate con le idee correnti, sarebbero giunte in qualche caso fino ai giorni nostri. La rappresentazione stereotipica dello straniero può essere verificata senza troppe difficoltà sulla letteratura di viaggio che a partire dalla metà del XV secolo accompagnò l’esplorazione del Nuovo Mondo; Si tratta di testi elaborati da navigatori come Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci e Giovanni da Verrazzano, che presentano l’altro da sé americano secondo la prospettiva europea, attraverso l’utilizzo di formule che ricorrono con una certa frequenza, fino a diventare appunto luoghi comuni; può valere da esempio la celebre Lettera

della Scoperta scritta a Luis de Santángel e Gabriel Sánchez nel febbraio-marzo

del 1493, in cui Colombo descrive gli indigeni appunto nel segno della differenza, sottolineando la stranezza degli ‘scoperti’ rispetto ai canoni culturali ‘regolari’ degli scopritori.

Nel poema gli stranieri hanno una parte marginale e sono soggetti a un tipo di rappresentazione che corrisponde a grandi linee a quella di tanti altri autori tra XIV e XVI secolo: i tedeschi sono sempre sporchi e ubriachi, i francesi inclini all’amore sfrenato e malati di sifilide, gli ebrei avidi e dediti all’usura. Partendo da alcune essenziali considerazioni numeriche, ho passato in rassegna i differenti popoli menzionati nel Baldus, analizzando le varie occorrenze testuali e mostrando di volta in volta come agisce lo stereotipo dell’alterità, in che maniera cioè lo straniero è estraneo rispetto ai criteri e ai giudizi dei protagonisti. Per ciascuna categoria, ho confrontato i modi della rappresentazione folenghiana con quelli utilizzati da altri autori quattro-cinquecenteschi, cercando di individuare analogie, punti di contatto o di divergenza rispetto, per esempio, alla tradizione della poesia burlesca o della novellistica (da Burchiello all’Aretino, dal Berni a Matteo Bandello). Attenzione particolare è stata riservata al personaggio dell’ebreo Sadocco, sia perché nel suo caso il cliché dell’estraneità agisce su un

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duplice piano, sociale e religioso, con la conseguente esasperazione dei meccanismi comici normalmente utilizzati per le altre categorie di stranieri, sia perché Sadocco è l’unica figura di ‘estraneo’ dotata di una propria autonomia testuale, partecipando attivamente – come vittima o come ignaro sparring partner di Cingar – alla beffa dello sterco di api ai danni di Zambello. In maniera analoga a quello che avviene per le donne e i villani, tutti questi tipi di stranieri condividono la medesima condizione di estraneità rispetto all’universo urbano e agli ideali di solidarietà che legano Baldo e i compagni: rimangono comunque esclusi dal sistema sociale del poema e finiscono per diventare vittime di beffe o materia di ridicolo. Come ribadiremo nelle conclusioni di questo lavoro, tutte e tre le categorie che saranno oggetto di discussione nelle pagine seguenti sono costrette, secondo modalità diverse ma con simili risultati, a subire l’esclusione dalla cerchia ristretta composta da Baldo e sodali: ugualmente ‘stranieri’ in quanto estranei a quella ristretta élite, sono destinati all’emarginazione e conseguentemente alla sconfitta. Del resto, è proprio questa ‘logica dell’esclusione’ a garantire la tenuta ideologica del poema, attraverso la definizione e contrario – per litote, si potrebbe dire – del gruppo dei protagonisti, meritevoli essi soltanto di giungere al termine del percorso che conduce alla «zucca levis» e alla scoperta dell’inanità della poesia.

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I miei più sinceri ringraziamenti vanno a Piero Floriani, che da diversi anni segue le mie ricerche e si è sempre dimostrato un interlocutore straordinariamente competente, oltre che disponibile e paziente. Ringrazio Luca Curti, co-tutore di questa tesi, che ha stimolato e seguito il mio lavoro sin dai suoi inizi.

Ringrazio sentitamente Massimo Scalabrini, che ha favorito in ogni modo la mia missione come visiting scholar presso la Indiana University di Bloomington, permettendomi di arricchire la mia ricerca con i suoi preziosi consigli nel corso dei pranzi del mercoledì. La mia gratitudine va inoltre a Giorgio Bernardi Perini, Mario Chiesa, Otello Fabris, Marco Faini e Massimo Zaggia i quali, di persona o attraverso i loro studi, hanno continuamente alimentato questo lavoro dispensandomi suggerimenti e indicazioni di natura bibliografica.

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Ringrazio mia madre, che ha fatto in tempo a trasmettermi la passione per la lettura e la letteratura; questo lavoro è dedicato anche alla sua memoria. Ringrazio mio padre e Silvia, persone di generosità e pazienza eccezionali, Sara e Pietro e Valentino: senza il loro supporto e il loro amore il lavoro di questi anni sarebbe stato molto più faticoso. Infine, la mia riconoscenza va agli amici che mi sono stati più vicini, facendomi ridere e sorridere: Andrea Accardi, Thomas Bocchi, Cecilia Fanucci, Alex Fiorini, Francesco ‘Frittata’ Fiumara, Giacomo Guccinelli, Riccardo Leri, Maurizio Melai, Claudia Zichi.

M. B.

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CAPITOLO PRIMO IL VILLANO

[…] e quando si dice villano tanto è dire come se alcun dicesse Barabba fra’ ladri, Euribato fra’ furbi, Procuste fra gli assassini, Arpalo fra’ sacrilegi, perché non regna in lui communemente né conscienza né ragione, essendo un bue nel discorso, un asino nel giudicio, un cavallaccio nell’intelletto, un’alfana nel sentimento, grosso più che il brodo de’ macheroni, eccetto che nel male è peggio d’un mulo, avendo tanta malizia che lo copre tutto da capo a piede. Per questo il villano è battezzato con tanti nomi, di rustico, di tangaro, di serpente, di madarazzo, d’irrazionale, di ragano, di villan scorticato e di villan cucchino, che più dispiace a lor che ogn’altro vocabolo.

(T. GARZONI, La piazza universale di tutte le professioni del

mondo. Discorso LVI: Degli agricoli o contadini)

1.1 Tra storia e letteratura

Il villano è senza alcun dubbio uno dei ‘tipi’ più caratteristici della letteratura italiana. Presente fino dal basso medioevo in numerosissimi testi di provenienza popolare, ha fatto la sua comparsa anche in autori colti – il Folengo è uno degli esempi più rilevanti – divenendo infine una delle maschere più riuscite del teatro del Cinquecento. Si parla comunemente di satira antivillanesca (o satira contro il villano) perché tali componimenti veicolano soprattutto una rappresentazione negativa della figura del contadino – villano in quanto abitante della villa, cioè della campagna – elaborata da una cultura urbana che lo descrive come un essere bestiale, rozzo e avido, immerso nella materialità più cieca e ostile quindi ad ogni valore civile e spirituale.

Le origini di questo stereotipo sono da ricercare nei secoli V-VII, nel periodo cioè che E. K. Rand ha definito «delle fondamenta, delle basi, della incubazione

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intellettuale e spirituale del Medioevo3». Come ha notato Jacques Le Goff, in questi secoli caratterizzati da un’economia essenzialmente agricola e da una cultura integralmente clericale, la figura del villano scompare quasi del tutto dalla letteratura, dalla cultura, dall’arte, dove tuttavia aveva occupato, ai tempi dell’antica Roma, una posizione di rilievo, anche se non di rado in forme idealizzate come quelle della bucolica classica. Tale scomparsa coincide con l’affermazione di una nuova ideologia contraria al lavoro, e precisamente al lavoro umile inteso come strumento di sussistenza; nonostante la necessità per l’uomo di provvedere al proprio nutrimento e l’insegnamento paolino che «si quis non vult operari, nec manducet» (II Tessalonicesi), a pesare sull’etica del lavoro è la stessa eredità giudeocristiana, che considera una mancanza di fiducia in Dio non attendere dalla provvidenza la realizzazione dei bisogni materiali4. Va precisato tuttavia che il contadino scompare prima di tutto quale soggetto realistico, rifiutato da una cultura astratta come quella alto-medievale. La Chiesa, e quindi la cultura che da essa trae origine, sostituiscono il realismo e la materialità pagani con un universo di simboli, imponendo nuovi schemi alla rappresentazione della società: si tratta di schemi religiosi che riorganizzano il mondo non secondo funzioni sociali, ma sulla base di finalità spirituali. La società si trova ridotta a gruppi di peccati, e al contadino tocca l’orgoglio, quella superbia che gli sarà imputata per lungo tempo e che doveva presentarsi come peccato capitale in una società così rigidamente immobile come quella feudale.

Per quasi tutto l’alto medioevo, ad accreditare tra le classi dominanti il sospetto (o la certezza) della bestialità del villano, contribuisce la persistenza nelle campagne di tradizioni religiose pagane o barbariche, perciò non cristiane; presentato come una creatura non umana, o subumana, il contadino è sospettato di dedicarsi a pratiche magiche di derivazione pagana, al punto da falsare la verità storica e linguistica: il termine paganus, sull’etimologia del quale ancora si discute, viene collegato da numerosi scrittori cristiani con pagus, ‘villaggio’, e il pagano identificato con il rusticus, l’abitante del villaggio. Nell’VIII secolo le

3 RAND 1928. 4 LE GOFF 1977:103.

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leggi emanate da Liutprando stabilivano ancora pene severe per chi praticasse riti pagani o barbarici.

Anche quando diventa cristiano, il villano è soltanto un peccatore fortunato, e anzi tutti i rustici diventano peccatori per eccellenza, viziosi per loro stessa natura: alcuni dei sermoni di Cesario di Arles prendono di mira tre categorie ben definite, i chierici, doppiamente colpevoli in virtù della loro condizione, i mercanti e appunto i contadini, predestinati per natura a certi vizi5. Essi sono notoriamente lussuriosi e sfrenati nel bere, ma anche esposti più di altri alla cattiva alimentazione, alla mancanza di igiene, ai difetti fisici, e in un’epoca in cui le malattie sono ritenute la manifestazione del peccato questo rivela la loro natura viziosa.

Oltre ad essere bestiale perché malato, il contadino è anche povero. Le Goff ha messo in evidenza che nei rarissimi testi letterari in cui compare un villano in carne ed ossa (tra cui alcuni scritti di Gregorio di Tours), questo vive sempre in una condizione di assoluta miseria. Il problema è che per gli strati superiori della società la paupertas è un pericolo. Ecco perché il povero è al mondo solo per aiutare il ricco o il santo, per dare loro un’occasione di salvezza: in un tempo in cui la salvezza spirituale è tutto, il contadino, grazie alla propria povertà, permette al ricco che gli fa l’elemosina di salvarsi. Il pericolo nasceva però dal dato di fatto che fra le masse contadine si reclutavano i numerosi sobillatori religiosi e i loro adepti, capaci di minacciare la struttura della Chiesa organizzata: dal mondo della campagna provenivano i falsi profeti che alimentavano le ripetute ondate millenaristiche, favorite dal continuo peggioramento delle condizioni generali di sussistenza.

Infine, il contadino appare quale personificazione – o reificazione – dell’ignoranza, della vittoria della natura di fronte alla cultura delle élites clericali. È insomma un perdente, che non solo non ha alcuna ricchezza fondiaria e materiale, ma non è nemmeno padrone delle tecniche necessarie per svolgere un’arte, un mestiere.

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La cultura feudale e cortese ha reintegrato la figura del villano nelle rappresentazioni letterarie, inserendo i contadini in un contesto comico e ‘basso’ – anzi spesso ‘basso corporeo’, scatologico – tradotto nella cospicua produzione dei menestrelli. Thomas Wright, cercando una spiegazione alle innumerevoli invettive lanciate dai trovatori contro i villani, ha sostenuto che questi componimenti siano stati opera di cantori interessati a guadagnarsi la simpatia dei signori che li mantenevano, facendosi carico del loro disprezzo per i servi6. Altrove la rappresentazione del villano è più spietata: nell’Yvain di Chrétien de Troyes egli è raffigurato con fattezze mostruose, un essere che vive al puro stato di natura, come i saraceni delle chansons des gestes. L’opinione di Wright pare tuttavia confermata almeno dal poemetto del pavese Matazone da Caligano, dettato da palese volontà di adulazione nei confronti del signore («A voy, segnor e cavaler, / sì lo conto volonter», esordisce Matazone), al quale è attribuita un’origine assai diversa da quella toccata in sorte al villano: «Là zoxo, in uno postero, / sì era un somero; / de dré si fé un sono / sì grande come un tono: / da quel malvaxio vento / nascé el vilan puzolento7» (mentre il cavaliere è nato, più nobilmente, dall’unione del giglio e della rosa). Questo dell’origine del villano dal peto o dagli escrementi animali è un topos della satira antivillanesca, sul quale torneremo in seguito a proposito dei testi folenghiani.

Il profondo disprezzo dei ceti colti verso i contadini coinvolgeva certamente anche il clero, al punto che una parte non trascurabile dei componimenti satirici in questione fu prodotta in ambiente clericale e ispirata dai continui tentativi di rivolta dei servi di monasteri e conventi; a dispetto della loro condizione, gli ecclesiastici erano spesso tutt’altro che generosi nel trattare con i lavoratori, e gelosi dei privilegi feudali di cui godevano. Fra i componimenti del vescovo di Le Mans Ildeberto (1056-1133) si trovano per esempio alcuni esametri che hanno per protagonista un rustico che, gridando «Tacete!», irrompe tra i partecipanti ad un’importante assemblea alla quale siede anche il papa: i presenti si attendono che

6 WRIGHT 1844:52.

7 Cito il poemetto, dal titolo Nativitas rusticorum et qualiter debent tractari, da CONTINI 1960: I

789-801; secondo il Contini si tratterebbe del «primo componimento in volgare d’Italia che appartenga alla polemica contro i villani» (789).

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porti gravi notizie, ma il contadino si limita a chiamare la moglie smarrita, questa lo raggiunge e insieme si dileguano in una risata generale8. Apparteneva al clero anche l’anonimo autore delle Ving-trois manières de vilains, operetta nella quale sono elencati i vizi e le caratteristiche dei contadini, distinti appunto in ventitré categorie: il porchins, che è attraente quanto un porco e, se richiesto di un’informazione, rifiuta di darla; il ramages, che vive nei boschi come un selvaggio, il mossus, che «het Dieu et sainte Elise et toute gentillece» (“odia Dio e la santa Chiesa e ogni forma di cortesia”), ecc.; segue, prima della preghiera finale, una litania rovesciata in cui si invocano tutte le maledizioni possibili al fine di punire la malvagità dei villani9. È comprensibile che in opere di questo genere si insista particolarmente sull’empietà dei rustici e sulla loro incorreggibile ostinazione nel peccato, mostrata attraverso il paragone poco nobilitante con i diversi tipi di animali.

Prima di satireggiare il villano, la Chiesa fu comunque abile nel mantenere una capacità centralizzatrice ed egemonica rara tra i rappresentanti del potere secolare, «grazie alla relativa continuità della sua tradizione organizzativa, politica e culturale romana10»; di questa capacità le classi dominanti feudali seppero apprezzare il valore nel momento in cui le classi subalterne cominciarono a opporsi all’inasprimento dello sfruttamento insito nello stesso sistema feudale. Già in epoca longobarda le leggi di alcuni sovrani – come Rotari – prevedevano disposizioni per la repressione delle rivolte contadine (le cosiddette seditiones

rusticanorum), ma i sempre più frequenti episodi di resistenza si legarono ben

presto a precise rivendicazioni di libertà, al punto che l’imperatore Ottone I dovette emanare una costituzione De servis libertatem anhelantibus, ripresa poi da Ottone III con uno specifico riferimento alla situazione italiana.

Con la ripresa economica dei secoli XI-XIII, il contadino tornò ad assumere un suo specifico rilievo nella letteratura e nell’arte dell’Italia feudale e comunale, pur

8 Cfr. FEO 1968:102.

9 Il poemetto si legge in FARAL 1922:243-64; l’appartenenza dell’autore al clero è rivelata dai

vv. 29-34: «A touz cels qui heent clergie / Soit la male honte forgie! / Por ce que li clerc me soutiennent / Et me revestent et retiennent, / Por ce he je touz les vilains / Qui n’aimment clers ne chapelains».

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continuando a pesare su di lui il marchio della barbarie e della bestialità; è proprio in questo periodo che il termine stesso villano entra nell’uso comune con funzione spregiativa, per indicare tutto ciò che si oppone alla cultura cittadina: se urbanitas significa cortesia, civiltà e moralità, essere rustici equivale ad essere incivili e immorali.

Il miglioramento della situazione economica generale indusse trasformazioni profonde nell’insieme dei rapporti sociali e di quelli tra città e campagne, soprattutto in Italia, dove la tradizione cittadina aveva conservato una sua vitalità anche nei momenti di massima depressione. Con numeri diversi, ovunque lo slancio si tradusse in una accelerazione della ripresa demografica e in una moltiplicazione delle superfici a cultura e degli insediamenti rurali: la plebe rustica acquistò certamente maggiore peso, pur non riuscendo a liberarsi da pregiudizi ormai radicati. Anzi, l’enorme crescita che aveva interessato la popolazione contadina si rivelò un elemento estremamente negativo quando i violenti contrasti sorti dalla crisi economica del XIV secolo, e i difficili rapporti tra proprietari cittadini e mondo rustico instauratisi in seguito, inasprirono l’odio verso quel mondo fino a radicarlo in vasti ambienti sociali e letterari. I villani furono colpiti dalle invettive satiriche dei rappresentanti delle altre parti sociali, specialmente dalla plebe cittadina, come conseguenza del feroce antagonismo che ha opposto gli abitanti della città a quelli del contado, e che nel Medioevo era rafforzato appunto da precise ragioni sociali ed economiche. Come scriveva Domenico Merlini, la principale è stata probabilmente la «continua e numerosa immigrazione delle popolazioni del contado verso la città11», cominciata dopo l’abolizione della servitù della gleba, anche se le fughe erano già massicce a causa dei soprusi dei feudatari: liberi dai vincoli feudali, gli abitanti della campagna hanno dato inizio ad un vero e proprio esodo, abbandonando la coltivazione dei campi attratti dalla possibilità di godere delle recenti libertà municipali. Offrendo il proprio lavoro e facendo così concorrenza all’artigianato già presente in città, i villani si guadagnarono l’odio di una larga parte della popolazione cittadina, che reagì chiedendo adeguati provvedimenti. Negli statuti delle varie città italiane si

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trovano approvate misure restrittive alla libertà dei villani, con lo scopo di immobilizzarli sulla loro terra e ostacolare il fenomeno di inurbamento; uno dei metodi più efficaci fu quello di diversificare i diritti, stabilendo per esempio che fosse comminato il doppio della pena al contadino che avesse offeso l’abitante della città, o che quest’ultimo avesse completa libertà di vendicarsi12. Analogamente le nuove forme di contratto agricolo, e in primo luogo la mezzadria, contribuirono a indebitare i coltivatori costringendoli a rimanere legati al proprio terreno o ad arrangiarsi con furti e rapine.

Il rinnovamento della vita cittadina, il mutamento dei già complessi rapporti tra città e campagna, e il riacutizzarsi dei contrasti tra i due ambiti, comportarono insomma l’irruzione del contado, con i suoi proprietari e la sua plebe povera, nell’universo culturale urbano. La satira sarebbe nata da dissidi di natura economica scaturiti dal sorgere di questi nuovi ceti cittadini, i cui interessi passavano attraverso lo sfruttamento del mondo della campagna, e a cui i contadini si opposero cercando a loro volta di migliorare le proprie condizioni, per esempio inurbandosi.

In questo senso il Novellino offre alcuni interessanti suggerimenti. La novella XCV13, ambientata a Firenze, ritrae un contadino che giunge in città per acquistare un farsetto, e non potendo trattare direttamente con il padrone della bottega, parla con un «discepolo» che ne fa le veci; quando il contadino, dopo essersi provato il farsetto, confessa di non possedere nemmeno un quarto del denaro occorrente per l’acquisto, il garzone fissa l’indumento con la camicia del povero malcapitato, che volendosi spogliare, resta nudo e viene battuto dagli altri discepoli con delle coregge di cuoio. L’azione del villano è vista come un tentativo di elevarsi al di sopra della condizione che gli è stata assegnata, e per questo è punita con la beffa; per giunta egli è designato con il termine martore, da collegare sia al nome della ‘martora’, con allusione antifrastica alla proverbiale astuzia dell’animale, sia alla accezione ‘martire’, per il modo in cui gli stessi

12 Negli statuti della città di Ravenna per esempio i contadini erano multati addirittura del

quadruplo della normale pena comminata agli abitanti della città (cfr. TARLAZZI 1886: 159). 13 Cito da FAVATI 1970: 339 sgg. Traggo gli esempi che seguono dall’ampia rassegna offerta da

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contadini spesso insistevano sulla loro miserabile situazione (alla fine

dell’Alfabeto dei Villani si legge precisamente: «Màrtori semo e màrtori

sarom14»). Una sorte molto simile, come vedremo, tocca a Tognazzo nel Baldus. Ciò che conta rilevare ora è che, dopo essere stato oggetto di derisione da parte dei chierici e dei poeti cortesi, il contadino è diventato anche il bersaglio preferito dagli artigiani per motivi di concorrenza sul mercato del lavoro. Ancora nelle

Astutie de’ Villani sententiose, e belle, composte verso la metà del Cinquecento,

gli artigiani fiorentini si lamentavano degli inganni utilizzati dai contadini giunti in città a vendere i loro prodotti15.

Che l’insediamento in città da parte dei rappresentanti della classe contadina non fosse visto di buon occhio da molti, ce lo conferma anche Dante, che si lamenta della antica purezza – persino nei ceti dediti ai lavori manuali – perduta da Firenze con l’arrivo delle genti dalle valli circostanti16. Il rapporto tra città e campagna torna ad essere centrale nel Decameron, dove il tipo del villano entra a far parte di quella folta classe di ignoranti e poveri di spirito – da mastro Manente a Calandrino – che è oggetto delle risa dei ceti aristocratici colti. Protagonista della novella 8 della III giornata è un abate «santissimo fuori che nell’opera delle femine» che raggira il villano Ferondo per giacere con la sua bella moglie; Ferondo è presentato come «uomo materiale e grosso senza modo», della cui stupidità l’abate si approfitta per trarne divertimento: «né per altro la sua dimestichezza piaceva all’abate, se non per alcune ricreazioni le quali talvolta pigliava delle sue semplicità17». L’ingenuità del contadino è evidente quanto la corruzione del mondo ecclesiastico: Ferondo non solo mette su le corna, ma si

14 In LOVARINI 1969:431.

15 Questo l’inizio del contrasto, che riporta in seguito la risposta dei contadini alle accuse degli

artigiani: «Artigiani, hor che faremo, / Poi che ogn’un ci ha posto il freno / E non sono i Cittadini, / Ma son peggio i Contadini, / Se da lor nulla compriamo? / Dio ci scampi dal mal Villano. // Contadini fuora in contado / Che de’ buoni si trovan rado, / Quando vendono lor mercantia, / O per piazza, o per la via, / Han la bocca com’i cani; / Dio ci scampi da i mal Villani» (il testo si legge per intero in MERLINI 1894: 13-18).

16 Pd XVI 49-51: «Ma la cittadinanza, ch’è or mista / di Campi, di Certaldo e di Fegghine, /

pura vedeasi ne l’ultimo artista».

17 BOCCACCIO 1992:I415; va precisato che il villano, nonostante sia «materiale e grosso», è

posto da Boccaccio in una condizione invidiabile in quanto «ricchissimo» e sposato con una donna molto attraente.

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convince d’esser stato salvato dal Purgatorio e cresce un figlio non suo; l’estrema credulità lo rende sottomesso alla volontà altrui e gli impedisce di mantenere il controllo sulla moglie (insoddisfatta del marito e ben disposta dal canto suo a cedere alle seduzioni extra-coniugali). La stupidità della gente del contado è al centro anche della celeberrima novella VI 10, nella quale frate Cipolla gioca con la credulità dei villani certaldesi allestendo un’orazione grottesca quanto inverosimile, con cui convince «la stolta moltitudine» di possedere una serie di rarissime reliquie; il passo è esilarante proprio perché mostra gli effetti dell’astuzia oratoria del frate sull’ignoranza del volgo:

mi fece egli [il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace] partecipe delle sue sante reliquie: e donommi uno de’ denti della santa Croce e in una ampoletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone e la penna dell’agnolo Gabriello, della quale già detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna […] e diedemi de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, e holle tutte.18

Un contemporaneo del Boccaccio, Paolo da Certaldo, autore intorno al 1360 di un Libro di buoni costumi, ci fornisce curiose indicazioni su come un uomo d’affari fiorentino, portavoce degli interessi di un gran numero di concittadini, considerasse l’universo rustico. Rivolgendosi all’abitante della città l’autore gli consiglia di esercitare gli affari o l’artigianato e diffidare della campagna, perché «la villa fa buone bestie e cattivi uomini19»; tuttavia, se proprio non si può fare a meno di visitare la campagna, bisogna avere cura di evitare di incontrare i villani, in modo particolare nei giorni di festa in piazza, perché si ubriacano e perdono il controllo di sé: «Sono caldi di vino, e sono co l’arme loro, e non ànno in loro ragione niuna; anzi pare a catuno essere un re, e vogliono favellare pure egliono, però che stanno tutta la semmana nel campo senza favellare se non co le bestie loro20». Il contadino non è più nel pieno possesso della ragione, è eccitato e quindi minaccioso e può usare i suoi attrezzi da lavoro come fossero armi. In un altro passo del trattato Paolo cerca addirittura di imporre ai lavoratori un

18 BOCCACCIO 1992: II 772. 19 DA CERTALDO 1945: 91. 20 Ivi: 92.

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condizionamento ideologico funzionale agli interessi economici dei cittadini. Il coltivatore deve riconoscere e temere Dio, ringraziandolo dei raccolti ottenuti in cambio delle decime cedute ai preti e ai poveri; al contrario, se è afflitto da malattie e fatiche, dovrà prendersela solo con se stesso perché sarà stato punito per i peccati che ha commesso. Ma, sopra ad ogni cosa, dovrà essere leale verso il proprio signore, versandogli ciò che gli spetta di diritto e lavorando le terre con il necessario impegno21. In realtà già alla fine del XIV secolo il fenomeno dello spopolamento delle campagne cui si alludeva sopra concorrerà a migliorare le condizioni dei contadini, peggiorando di conseguenza quelle dei proprietari. Significativo un passo delle Facezie del Piovano Arlotto:

Io mi ricordo che i nostri contadini solevano istare molto meglio per lo addietro che ora, benché l’oppinione di molti cittadini sia per il contrario, e allegano questa ragione, come per il passato si solevano fare le preste loro di .50. e di .100. lire e molti altri vantaggi; e al presente pare che vadia per il contrario, ché li contadini prestano alli cittadini e mettono i buoi di loro e in molti paesi i semi di grano e di biade.22

Alcune delle novelle del lucchese Giovanni Sercambi23 dànno testimonianza di tale cambiamento. La XV mette in scena un giovane contadino di nome Pincaruolo che lascia la famiglia per compiere una fortunata ascesa sociale. Nella CXLII i figli di un coltivatore, anziché vendere le ciliegie appena raccolte nel giardino lasciato loro dal padre, le offrono ad un pellegrino che ha chiesto l’elemosina (e che si rivelerà essere san Martino); uno di loro, Malgigi, sarà ricompensato del gesto e diverrà addirittura genero del re di Napoli. Se qui gioca una parte importante l’elemento meraviglioso, la novella XVI è ben più realistica e significativa. Si racconta l’ascesa di un abitante del contado senese, Grillo, che, recatosi in città, si accorge della facilità con cui può guadagnare un notaio e, pur non sapendo né leggere né scrivere, decide di abbandonare il proprio lavoro e farsi chiamare ser Martino. Anche se Grillo rinuncerà ad esercitare la nuova attività dopo aver superato varie difficoltà per puro caso, e persino rischiato di morire, la

21 DA CERTALDO 1945: 211-13. 22 FOLENA 1953: 218.

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sua vicenda documenta il desiderio di inurbamento – e di arricchimento – degli abitanti del contado, nei confronti dei quali l’autore prova non avversione, ma piuttosto una divertita simpatia.

Diverso è l’atteggiamento del fiorentino Giovanni di Pagolo Morelli, che nei suoi Ricordi esprime una diffidenza nei riguardi dell’universo rurale molto simile a quella già indicata in Paolo da Certaldo. Secondo Morelli, il primo obbligo del proprietario è fare sorvegliare attentamente i lavoratori e controllare il raccolto ogni anno, per accertarsi che essi non abbiano sottratto nulla; è necessario conoscere la reputazione e i difetti di ciascun contadino, per tenerli a bada, evitare con loro ogni confidenza e pretendere il dovuto rispetto. Vale la pena trascrivere il brano, perché si tratta dell’esposizione di un vero e proprio codice di comportamento da tenere con i villani:

Non compiacere mai di nulla al villano, ché subito il riputa per dovere; e non ti farebbe di meglio un festuca se gli dessi la metà di ciò che tu hai. Non ne volere mai vedere uno se non t’è di nicistà, non gli richiedere mai di niuno servigio se non con pagallo, se non vuoi ti costi l’opera tre cotanti. Non fare mai loro un buono viso, istà poco con loro a parole, ricidile loro subito, non fare loro male se già non ne fanno a te. Se niuno villano ti fa meno che ‘l dovere, gastigalo colla ragione e non gliene perdonare mai niuna. Non andare caendo loro presenti e non gli volere; e se pure te ne danno, non ne fare loro di meglio nulla. Servigli della ragione e aiutagli e consigliagli quando fusse loro fatto torto o villania, e di questo non essere lento né grave; va presto e fa loro questi servigi, d’altro mai non ti travagliare. E sopra tutto non credere loro mai nulla se non quello che tu vedi e non ti fidare mai di niuno a niuno giuoco. E facendo questo dovrai essere poco da loro ingannato e sarai amato più che gli altri e sarannoti riverenti, secondo loro, e arai quello bene di loro ch’è possibile avere.24

Simili indicazioni è possibile trovare nei Libri della Famiglia dell’Alberti, che descrivono gli «aratori cresciuti fra le zolle» come genti malvagie incapaci di stare al proprio posto, tanto sfacciate da pretendere l’impossibile25. Si insinua l’idea della superbia del villano, che cerca di ingannare il proprietario della terra e modificare così in proprio favore il contratto di mezzadria che lo lega a lui: il

24 MORELLI 1956: 235-36.

25 «Ogni loro studio sempre sta per ingannarti; mai a sé in ragione alcuna lasciano venire

inganno; mai errano se non a suo utile; sempre cercano in qualunque via avere e ottenere del tuo. Vorrà il contadino che tu prima gli comperi il bue, le capre, la scrofa, ancora la giumenta, ancora e le pecore; poi chiederà gli presti da satisfare a’ suoi creditori, da rivestire la moglie, da dotare la figliuola; poi ancora dimanderà che tu spenda in rassettarli la capanna e riedificare più luoghi e rinnovare più masserizie, e poi ancora mai resterà di lamentarsi» (ALBERTI 1969: 238-39).

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padrone dovrà visitare di frequente le terre e costruire la propria casa vicino a chi le lavora, perché quando si tratta di fare di conto e ragionare sugli interessi i villani, normalmente privi di razionalità, si trasformano in veri maestri di ratio

oeconomica26.

La caricatura del mondo villanesco è presente anche nella Nencia da Barberino, sebbene nella maniera divertita e attenuata che abbiamo indicato per alcune novelle boccacciane. Il villano della Nencia è indubbiamente una figura goffa che parla e si muove in modo stridente rispetto al ruolo amoroso del quale è investito, ma non ha caratteri di abiezione o bestialità: il suo canto d’amore vale come parodia della lirica erotica petrarchesca, essendo giocato sul ricorso a un linguaggio eccessivo e grottesco che abbassa la dinamica dell’innamoramento ai livelli dell’universo contadino, ma l’intento satirico sembra libero da propositi di umiliazione27.

Con Gentile Sermini, novellista senese di inizio Quattrocento, i toni della satira contro il villano si fanno invece decisamente offensivi e privi dell’ironia che è dato trovare, per esempio, nei testi del Sacchetti o del Sercambi. Nella novella III il fittavolo Scopone vende di nascosto il pesce e la selvaggina che si è procurati per non volerli cedere al suo signore; quando durante la settimana santa va a vendere il pesce a un certo Petriolo, Scopone è descritto come un essere mostruoso ed estraneo al consorzio civile:

era un maragozzo villano, sconoscente e baccalare, ingrato e tutto suo, avaro delle cose sue, e dell’altrui cortesissimo, o volontieri quando poteva ne pigliava: corpente a casa altrui, ove l’acqua gli era malsana e ‘l poco vino: non dico della carne, che quando vi s’abbatteva, ne faceva scorpacciate di lupo; era una gran dura mole per sé, ed aveva un maraviglioso vizio rustichesco, e nell’aspetto pur suo grossolano pareva; ed era grande, compassato e mal vestito, con un naso aquilino di tanta presa ch’aria tenuto un paio di ceste per occhiali: non era mai sì gran vernata che lui portasse calze o giubbarello: sempre involto nella terra: ed avendo

26 «Horum tecta non longe ab herilibus esse oportet, quo in horas quae quisque agat et quae

facto sint opus intelligant», “Le loro case [dei contadini] non devono essere lontane dalla villa del padrone, sicché questi possa controllare a qualsiasi ora cosa stiano facendo e quali lavori debbano essere eseguiti” (ALBERTI 1966: I 404). Sulle caratteristiche del villano divenuto «soggetto

economico e oggetto mercantile», si veda anche CAMPORESI 1990: 123-25. 27 CAPATA 2000: 123-24.

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in odio il lavar delle mani e viso, sempre era soglioso, co’ calzari ricusciti co’ gionchi.28

Alla descrizione spregiativa del contadino si aggiunge inoltre la riflessione del padrone Bartolomeo, che sintetizza le accuse più frequentemente rivolte ai villani nei componimenti satirici dell’epoca:

nel villano, in cui non è legge né pratica discrezione, con lui non è da pigliar troppa famigliarità: ma volendone aver bene, non è da largar la mano, né la borsa, né nessun suo secreto. Diesi dalonge e stretto tenere; e se richiede, ben non potendo perdere con lui, servalo di rado, e fagli bramare. Dimostragli tenerlo da poco: non gli ridere in faccia, e miralo di rado; non gli perdonare il fallo, ch’egli ne piglia baldanza. Salda con lui spesso ragione in presenzia di testimonia. Nol tenere a tavola teco, non scherzare né motteggiare con lui: fa che non sopprappigli del tuo, e non lassar invecchiare la posta, che te la negherà. Venendoti a casa, spaccialo presto, col bere un tratto: tienilo in timore, sicché di te faccia stima e conto.29

A questo punto è introdotto il motivo, che avrà grande successo anche nel Folengo, della punizione della superbia del villano. Petriolo, che è a capo di una sorta di allegra brigata, pensa bene di punire il «rustico e villanaccio» facendolo bastonare (Scopone sarà «miterato e scopato») e confiscandogli tutto il pesce perché ha osato far credere che lo stesse vendendo per conto del suo padrone; dopo essere stato preso a sassate da alcuni fanciulli, Scopone deve anche subire la punizione del fattore, che pretende un rimborso di cento fiorini30. La felice risoluzione del rapporto tra il contadino e il proprietario sembra rivelare che ciò che interessa a Sermini è la difesa di un certo ordine sociale e politico, evidentemente minacciato dai nuovi cittadini appena arrivati dalla campagna. Questo non significa che la rappresentazione del villano sia sempre ‘edulcorata’. Nella novella XIX una donna di Quartaia, turbata dal «grande e grosso mellone» di un giovane zappatore che lavora nelle sue vigne, chiede consiglio al prete, il quale la invita a interessarsi agli uomini di chiesa, e traccia del contadino un ritratto a dir poco ripugnante: «Viene a te fangoso e stanco da zappare, e datti

28 SERMINI 1968: I 138; Scopone non tollera nemmeno l’autorità altrui e si ribella agli ordini del

padrone: «Se Bartolomeo vuole del pesce, vadasene a pigliare come fo io, che vermocane gli nasce» (ibid.).

29 Ibid.

(29)

zaffate d’aglio, o di cipolle, o di porri, o di radici, o cavolacci riscaldati, ché altro non usa di mangiare, riscaldato di sudori di ditella e d’altri suoi stomacosi saporacci31».

Nella novella XII l’autore rievoca un soggiorno nel contado senese, dove si era recato per scampare alla peste del 1424. È un documento straordinario dell’atteggiamento che un cittadino colto poteva avere nei confronti della classe contadina, poiché il Sermini vi descrive abbastanza dettagliatamente le abitudini di quelle «genti le quali, se non che l’occhio pure animali razionali li considera, assai piuttosto animali bruti meritavano essere chiamati». Dei villani si dice prima di tutto che sono sacrileghi e disertano le funzioni religiose («avendo queste rustiche genti la chiesa in odio, come stata li fusse nimica, nessuno dentro v’entrava»), al punto da avvicinarsi alla chiesa al momento dell’elevazione e scomparire prima che il calice venga posato sull’altare; sono però anche superstiziosi, perché non appena il prete minaccia la punizione dell’angelo del Signore se il loro comportamento non cambierà, subito diventano buoni credenti e ricominciano a pagare le decime. L’autore trascrive le preghiere dei contadini e le deformazioni che subiscono in bocca loro, non sentendo parlare che di «bestie o vacche o porci o pecore». Il campagnolo è poi diffidente per natura, e curioso degli affari degli altri: un certo Roncone, di cui l’autore ascolta le conversazioni, tenta invano di sapere a quale prezzo ser Cecco vuole vendere la sua legna, o di convincere un certo Polidori a riservargli due maialini della sua scrofa. Infine, il racconto si concentra sulle caratteristiche fisiche dei villani: sono passati in rassegna gli occhi «copiosi di caccole», i nasi che gocciolano, le barbe piene di pidocchi e le bocche annerite dalle castagne32.

Cosa accadrebbe se questi rozzi montanari occupassero ruoli importanti in città, il Sermini lo immagina nella novella XXXII, dove due personaggi originari del contado diventano consiglieri dei governanti dell’isola di Scio, conquistandone la fiducia e approfittandone per arricchirsi. Poiché i due difendono gli interessi degli abitanti della campagna, invece che delle plebe urbana, i villani cominciano a farsi

31 SERMINI 1968: I 373. 32 Ivi: I 273-84 passim.

(30)

insolenti, contando sull’impunità delle nuove leggi che li proteggono «d’ogni omicidio e d’ogni furto, robarie, e assalimenti, o meschie e d’ogni altro male che facessero». Quando l’isola sta per essere attaccata dai nemici, uno dei decani decide di epurare il consiglio cittadino, i due contadini sono smascherati e messi in prigione. Il processo li condanna immediatamente a lasciare la città, cessando di considerarla come loro patria, alla stregua di veri e propri stranieri.

Poco noti ma ricchi di spunti antivillaneschi sono i componimenti dell’umanista lodigiano Maffeo Vegio. Nella raccolta di epigrammi Rusticalia i contadini sono ritratti come esseri singolari simili piuttosto a bestie che a uomini, responsabili di inconvenienti che dovevano risultare particolarmente fastidiosi per l’autore, padrone ereditario di alcuni poderi (e infatti essi sono accusati più volte di furti, frodi e rapine)33. Più interessanti ancora sono i 696 esametri del poemetto

Pompeiana, simile per ispirazione alla succitata novella XII del Sermini. L’opera

cerca di descrivere tutto lo sgomento del poeta, costretto dalla peste a trasferirsi per un breve periodo nella tenuta di campagna, e quindi a rinunciare alle comodità cittadine: tutto gli dà la nausea, dagli odori alle punture di zanzare, ma a scatenare la sua collera sono naturalmente i villani, «agrestum dura et scelerata agmina», sempre pronti a ingannarlo. In gioco non c’è soltanto l’istintiva repulsione verso la classe contadina, ma anche la difesa stessa della proprietà, dato che i rustici, convinti che la proprietà privata sia un furto, hanno ormai teorizzato il furto come unico rimedio allo sfruttamento dei signori:

Omnia construxit toti communia genti

Rex hominum atque pater magnisque aequavit egenos. Sed per vim rapuere orbem, rapuere potentes

Et partem fecere sibi, miserosque bonorum Immunes potere pati; verbisque pudendis Ultro instant, furesque vocant, et tollere foetus Communis quos terra tulit crudeliter ostant.34

Anche la poesia rusticana fiorita tra la fine del XV e i primi decenni del XVI secolo pone spesso in primo piano la frattura che separa città e campagna. Nella

Beca di Luigi Pulci, per esempio, l’opposizione è trasposta su un piano erotico,

33 Notizie su Vegio e i Rusticalia si trovano in MINOIA 1896. 34 Trascrivo da FEO 1968: 107.

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