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Introduzione Il presente lavoro di tesi trae spunto dalla recente crisi che, nel settembre 2007, ha investito, a livello mondiale, i mercati economico-finanziari, a partire dall’epicentro statunitense del segmento dei mutui

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Introduzione

Il presente lavoro di tesi trae spunto dalla recente crisi che, nel settembre 2007, ha investito, a livello mondiale, i mercati economico-finanziari, a partire dall’epicentro statunitense del segmento dei mutui subprime. Lo scopo ultimo che mi ha guidato nel suo sviluppo è stato comprendere come il sistema bancario nazionale ha agito per sostenere l’economia italiana e consentirne, in seguito, il rilancio. Per farlo, ho iniziato col presentare la situazione economica italiana nel 2007, prima che la crisi raggiungesse l’Europa, in modo da porne in maggior risalto gli effetti. Nel primo capitolo, dunque, ho cercato di illustrare le ragioni storiche e culturali che hanno delineato i caratteri e determinato i numeri della nostra economia. L’Italia appariva già come un paese in difficoltà, in forte rallentamento economico; la recessione globale, dunque, non ha fatto altro che esasperare un processo in atto nel nostro Paese ormai da tempo. Dal lato dell’offerta, il Pil cresceva a un tasso inferiore alla media europea, proseguendo un trend negativo intrapreso negli anni ‘70. Sul fronte della domanda, la lenta crescita dell’intensità di capitale era causa dello scarso aumento della produttività e del reddito nazionali, mentre la crescita delle importazioni, più che proporzionale rispetto a quella delle esportazioni, rifletteva un orientamento tipicamente più marcato alla manifattura, piuttosto che ai servizi (com’era, al contrario, nella gran parte delle maggiori e più forti economie internazionali). L’indebitamento pubblico era il più elevato tra i paesi europei, con una spesa per interessi pari al 5 % del Pil (circa 75 miliardi di euro). Il sistema finanziario, con un valore complessivo delle attività pari a circa 8 volte il Pil, non godeva ancora dello stesso grado di sviluppo vantato dagli altri paesi avanzati.

La seconda parte della tesi è stata incentrata sull’analisi del rapporto banca – impresa, in special modo quello vigente in Italia, a partire dai difficili anni ‘70, quelli dello shock petrolifero (1973 – 1974), di una domanda in contrazione, di una crescente inflazione e dei conflitti sindacali. Il secondo capitolo è stato suddiviso, essenzialmente, in due macroaree tematiche: l’una esamina il rapporto banca – impresa dalla “bancarizzazione” del sistema finanziario italiano, nei primi anni ‘70, all’approvazione del TUB con D.Lgs. 385/93 (che ha posto fine alla legge bancaria del 1936), attraversando il processo di disintermediazione bancaria degli anni ‘80 e la concentrazione dei finanziamenti bancari nei primi anni ‘90; l’altra scopre le tendenze e le innovazioni che più di recente hanno caratterizzato il quadro nazionale del rapporto banca – impresa, fino all’emanazione del Nuovo Accordo di Basilea (Basilea II), in vigore dal 1° gennaio 2008: lo sviluppo dei servizi di cash management, del

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merchant banking e del venture capital; la diffusione del forfaiting; la comparsa della relationship lending e del partnership banking. Spazio, infine, è riservato anche allo studio

dei principali modelli internazionali del rapporto banca – impresa (quelli “anglosassone” ed “europeo-continentale”), riservando particolare attenzione alla “Hausbank” tedesca. Il terzo capitolo, dopo una breve analisi della congiuntura economica, dei sistemi finanziario e bancario nonché della vigilanza internazionali, funzionanti nei mesi immediatamente antecedenti al settembre 2007, tratta la storia della crisi economico-finanziaria: le sue origini, gli sviluppi e, soprattutto, gli effetti sull’economia e sulle imprese italiane: la diminuzione del valore aggiunto e della produttività del lavoro nei principali comparti manifatturieri, in controtendenza alla significativa espansione nel biennio 2006-2007; l’aggravarsi delle difficoltà di sopravvivenza delle imprese, con l’incremento del numero delle procedure fallimentari; l’aumento del disavanzo di conto corrente della bilancia dei pagamenti; il rallentamento degli investimenti diretti dall’estero e il calo delle azioni estere nel portafoglio degli italiani, nel più ampio contesto di una “fuga verso la qualità” degli investitori; la crescita del debito pubblico, favorita anche da una manovra di bilancio espansiva; il peggioramento della capacità di autofinanziamento e della propensione all’investimento delle imprese; l’acuirsi delle difficoltà di incasso dei pagamenti dai clienti e la speculare complicazione del rimborso dei prestiti bancari da parte delle imprese; la diminuzione delle esportazioni, in particolar modo quelle dei beni della manifattura e della meccanica, derivanti dalla vendita ai paesi dell’UE (che rappresentano circa il 60 % del totale); la contrazione del Pil, specialmente a causa della diminuzione della domanda estera rivolta ai prodotti dell’industria in senso stretto; l’aumento delle emissioni nette dei titoli pubblici e delle obbligazioni (queste ultime riconducibili, perlopiù, alle banche e alle altre società finanziarie); il calo generalizzato delle quotazioni azionarie.

Il quarto nonché ultimo capitolo si apre con lo studio dei modelli teorici del rapporto banca – impresa nella particolare congiuntura della crisi. Dopo aver analizzato le ripercussioni della recessione mondiale sullo stesso sistema bancario nazionale, questi mi serviranno, per trarre le conclusioni, come termine di confronto rispetto all’effettivo comportamento che le banche italiane hanno assunto nel reale contesto della attuale crisi economico-finanziaria internazionale. L’ultimo paragrafo del capitolo (“Il sostegno delle banche

italiane all’economia d’impresa nella crisi finanziaria mondiale”), infatti, svela le misure

anticrisi poste in essere dalle autorità governative e monetarie e, soprattutto, le politiche creditizie che le banche italiane hanno attuato a sostegno delle nostre imprese.

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Capitolo 1

Analisi dell’economia italiana

tra presente e futuro

Indice del capitolo

1.1 La struttura dell’economia italiana: il lato dell’offerta

1.2 La struttura dell’economia italiana: il lato della domanda

1.3 Il settore pubblico

1.4 Il sistema finanziario

1.5 Produttività e progresso tecnologico

1.6 La competitività internazionale

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In ogni economia, i prestiti netti nei confronti dell’estero (pari al saldo degli scambi di beni e servizi) devono essere uguali ai saldi finanziari del governo e del settore privato (famiglie e imprese). Se il risparmio è minore dell’investimento, il paese prende a prestito dall’estero un ammontare uguale al deficit complessivo del settore pubblico e di quello privato. In questo decennio, l’esistenza di un elevato risparmio netto nei paesi fortemente eccedentari ha consentito a quelli deficitari di ottenere una gran massa di prestiti a tassi di interesse bassi. Questo risparmio, man mano accumulato in forma di riserve denominate in “dollari”1, insieme alla politica di cambio volta a favorire una crescita trainata dalle esportazioni, ha imposto un aumento rapido delle stesse riserve e un basso tasso di interesse sui titoli pubblici statunitensi. Negli USA, gli afflussi di capitale dall’estero hanno finanziato il deficit di conto corrente della bilancia dei pagamenti2.

A comportare un aumento del disavanzo di conto corrente della bilancia dei pagamenti statunitense è stato un eccesso di domanda interna sulla produzione nazionale (un eccesso di investimento sul risparmio), sostenuto dall’indebitamento e da una propensione al risparmio delle famiglie prossima allo zero. Gli afflussi di capitali esteri negli USA sono avvenuti con bassi tassi di interesse sui titoli di Stato (tassi free risk) e bassi premi per il rischio. Sullo sfondo, la “finanza derivata” prometteva l’allocazione ottima del rischio e alimentava la domanda delle famiglie statunitensi con nuovi strumenti di debito (“derivati”), capaci di sviluppare il settore delle costruzioni3.

La politica monetaria statunitense ha sostenuto la crescita in condizioni di stabilità dei prezzi e ha favorito, con bassi tassi di interesse nominali e i nuovi strumenti derivati, uno sviluppo della proprietà immobiliare in linea con l’obiettivo, condiviso dai molti politici locali, di “una casa per tutti”4. Quando, però, la politica monetaria ha invertito la sua

1 “Gran parte di quelle riserve è stata, infatti, accumulata dai paesi che ancorano il proprio cambio al dollaro

statunitense”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini, L’economia italiana del nuovo millennio, Carocci, Roma, prima edizione, 2009.

2 La “bilancia dei pagamenti” è uno schema contabile che registra le transazioni economiche intervenute, in

un dato periodo, tra i residenti e i non residenti di un’economia. Per residente di un’economia si intende ogni persona fisica e giuridica il cui centro di interessi economici risieda, su base non temporanea, in quell’economia. Istat, Contabilità nazionale. Conti economici nazionali. Anni 1970-2005, Annuario n. 10/2007, Roma.

3 “Il disastro economico-finanziario è stato amplificato dalla proliferazione a livello globale di nuovi

strumenti finanziari, non regolamentati e poco trasparenti, in stretto collegamento con la crescita della massa dei mutui per l’acquisto della casa”. Marco Fortis, I venti mesi che hanno cambiato il mondo, Economy n. 9/2009.

4 “La FED non ha cercato di influenzare i prezzi delle attività reali e finanziarie, sia perché le bolle

speculative sono difficili da riconoscere prima che esplodano, sia perché si ritiene che le loro conseguenze macroeconomiche siano limitate se le autorità tengono l’inflazione sotto controllo. Ciò spiega perché la politica monetaria non ha posto freno all’eccessivo indebitamento delle unità economiche, apparentemente funzionale al conseguimento dell’elevato tasso di crescita desiderato”.Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini,

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condotta e ha tolto, eccessivamente in fretta, troppa liquidità all’economia statunitense, il conflitto tra un basso tasso di interesse reale a livello internazionale (quello prodotto dall’eccesso di risparmio globale) e un crescente tasso di interesse monetario interno (quello pilotato dalla FED) ha messo in luce la fragilità del modello di sviluppo complessivo. Per contrastare le pressioni inflazionistiche, infatti, la FED (Federal Reserve, la banca centrale degli USA) ha rapidamente alzato i tassi di interesse, causando un’improvvisa contrazione della domanda di immobili e lo scoppio della “bolla immobiliare”. La conseguente repentina caduta dei prezzi ha determinato una riduzione del valore delle garanzie fondate sugli immobili, provocando insolvenze a catena di famiglie e intermediari finanziari, e il crollo delle borse mondiali5.

Il primo meccanismo di propagazione della crisi a livello globale è stato il cosiddetto “panico bancario”, ovvero una generalizzata “corsa” dei risparmiatori agli sportelli delle banche per ritirare i propri depositi, nel timore di un loro prossimo fallimento. Per contrastare il fenomeno, i governi nazionali (dei paesi colpiti dalla crisi) hanno aumentato le “garanzie statali” sui depositi e assicurato sostegno al capitale delle banche, senza rinunciare a forme più o meno ampie di nazionalizzazione.

Il tentativo da parte degli investitori di rientrare in possesso dei propri capitali, sebbene contrastato efficacemente dalle politiche suddette, ha richiesto alle banche di vendere altre attività. La conseguente caduta del valore degli asset ha costituito l’ulteriore meccanismo di amplificazione, impedendo alle banche di rispettare i coefficienti di capitale imposti dalla regolamentazione prudenziale6. Lo sforzo di rientrare negli standard e di ridurre la “leva finanziaria” le ha costrette a vendere ancora altre attività, diffondendo la crisi all’intero sistema finanziario.

facilità a tutti, anche disoccupati o persone incapaci di fornire minime garanzie. Un caso emblematico è quello di Cleveland, dove la maggior parte dei ‘titoli sub prime’, quelli a più alto rischio, è stata concessa alle famiglie afro-americane più disagiate, con la creazione di situazioni sociali esplosive, sfocianti in un numero enorme di insolvenze e pignoramenti”. Marco Fortis, I venti mesi che hanno cambiato il mondo, op. cit. pag. 5

5 “Fino a quando i prezzi delle case sono rimasti elevati e i tassi di interesse bassi, il castello di carte è restato

in piedi, per poi franare disastrosamente, coinvolgendo le Borse e bruciando miliardi di dollari di capitalizzazione. Anche le obbligazioni e i titoli strutturati con i rating più elevati hanno perso qualunque valore di mercato e sono diventati illiquidi”.Marco Fortis, I venti mesi che hanno cambiato il mondo, op. cit. pag. 5

6 “Il Nuovo Accordo di Basilea (in vigore in Italia dal 1° gennaio 2008) fissa un criterio essenziale cui il

sistema bancario deve tendere: la determinazione del capitale di vigilanza della banca dipende direttamente dalla rischiosità effettiva delle singole operazioni creditizie effettuate. La partita di Basilea 2 diventa non solo un problema delle banche, ma anche delle imprese che devono confrontarsi con un giudizio sul merito creditizio che non viene più a dipendere solo dall’intimità della singola relazione di mercato, ma dal rigore di un processo valutativo alla base del calcolo del capitale di vigilanza”. Stefano Caselli, Il destino delle

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La volontà di rafforzare la propria posizione patrimoniale e il timore di non disporre, oggi e in futuro, di fondi sufficienti per le operazioni di tesoreria hanno, infine, indotto le banche a contrarre l’offerta di credito, innescando il fenomeno della cosiddetta “stretta creditizia” (credit crunch). Il rischio è stato (ed è) quello di danneggiare i mercati internazionali delle materie prime, con conseguente caduta delle borse finanziarie dei paesi emergenti e diffusione della crisi economico-finanziaria in tutto il mondo. In Italia, la forte propensione al risparmio delle famiglie7 e la modesta esposizione delle banche agli strumenti e ai mercati finanziari più turbolenti hanno fatto sì che più moderata fosse la restrizione dei criteri di erogazione dei prestiti alle imprese (e, più in generale, al settore privato), da parte degli istituti di credito bancari8. Le banche italiane hanno mantenuto i finanziamenti all’economia su livelli adeguati nel corso dell’intero 2008 (sebbene la crescita dei prestiti erogati dal sistema bancario italiano abbia rallentato bruscamente negli ultimi mesi dell’anno: il tasso di crescita sui dodici mesi dei prestiti bancari alle imprese, infatti, calcolato tenendo conto delle “cartolarizzazioni”, si è portato in dicembre al 7,0 %, circa 5 punti in meno rispetto allo stesso mese del 20079). Eppure, nel 2008, il prodotto, che è cresciuto dello 0,8 % nell’“area dell’euro10”, è diminuito di quasi un punto nel nostro Paese11, causa il peggioramento delle esportazioni e degli investimenti. Al calo della

7 “In Italia lo stock di debiti delle famiglie per l’acquisto della casa rappresenta una frazione marginale del

Pil, pari nel 2007, secondo la BCE, ad appena il 17%. Ciò a causa dell’elevata percentuale di case di proprietà o in usufrutto e della tradizionale prudenza delle nostre famiglie nell’indebitarsi e delle nostre banche nell’erogare prestiti. Negli Usa, invece, la percentuale dei debiti delle famiglie per l’acquisto della casa è arrivato a toccare il 76% del Pil, in GB l’85%, in Olanda il 68%, in Irlanda il 66% e in Spagna il 57%”. Marco Fortis, I venti mesi che hanno cambiato il mondo, op. cit. pag. 5

8 Il rallentamento del credito bancario ha interessato perlopiù le piccole imprese manifatturiere e, più

marcatamente, quelle del settore edilizio. Più in generale, in tutti i comparti di attività economica, i prestiti crescono per le piccole aziende meno rispetto alle imprese di medio-grande dimensione. La crescita del credito bancario è rimasta quindi sostenuta per le imprese di medio-grandi dimensioni, pur in presenza di un aumento del suo costo. “Fortunatamente il crac si è originato quasi completamente al di fuori dei nostri confini, sicché la maggior parte dell’opinione pubblica del nostro Paese non conosce bene né i meccanismi né la reale portata della crisi stessa”. Marco Fortis, I venti mesi che hanno cambiato il mondo, op. cit. pag. 5

9 “La decelerazione è stata in linea con quella dell’area dell’euro: rispetto al 2007, tra le maggiori economie

dell’area, il tasso di crescita dei prestiti è rimasto stabile solo in Germania, dove negli anni precedenti, però, il credito era aumentato a ritmi molto più contenuti nel confronto con gli altri paesi”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini, L’economia italiana del nuovo millennio, op. cit. pag. 5

10 Nel 2008 il ritmo di espansione della produzione nei paesi dell’Unione Europea si è ridotto nettamente:

nell’area dell’euro, dove il prodotto ha iniziato a diminuire dal secondo trimestre, l’aumento sull’anno precedente è stato appena dello 0,8 %: vi ha contribuito soprattutto la diminuzione del valore aggiunto dell’industria (-0,7 % in media d’anno), cui si sono affiancati i cali più contenuti nei settori delle costruzioni e dei servizi; l’aumento del prodotto nel Regno Unito è stato solo dello 0,7 %. Banca d’Italia, Relazione

Annuale, Presentata all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, anno 2008, Roma, 29 maggio 2009. 11

Già nel corso del 2007, il tasso di crescita della produzione italiana era diminuito (-0,3 % rispetto al 2006), a fronte della contrazione dell’attività industriale, in controtendenza rispetto ai principali paesi europei. Il ritmo di crescita del valore aggiunto nella manifattura italiana (1,1 %) si scontrava con quello in Germania (5,6 %) e in Francia (2,6 %). Nulla è stata invece la crescita in Spagna. Complessivamente, nell’area dell’euro, la produzione industriale ha registrato, nel corso del 2007, un incremento cumulato del 3,1 %.

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produzione ha contribuito soprattutto l’industria in senso stretto12: nella media del 2008, il valore aggiunto13 industriale è diminuito del 3,2 %. Si sono aggiunti la flessione più contenuta delle costruzioni14 (-1,2 %) e il sostanziale ristagno del terziario (-0,3 %); solo l’agricoltura ha segnato un incremento (2,4 %). Il tasso di crescita della produzione industriale italiana è stato trainato unicamente dai servizi, cresciuti in valore aggiunto dell’1,9 %15. La contrazione dell’attività industriale ne ha ridotto la crescita del valore aggiunto di un terzo, allo 0,8 %. All’incremento ancora cospicuo nella metallurgia, nei mezzi di trasporto e nella fabbricazione di macchine e apparecchi meccanici, s’è affiancata la contrazione nei settori delle apparecchiature elettriche ed elettroniche, dei prodotti in carta ed alimentari.

La flessione della produzione industriale italiana si è tradotta nel rallentamento del tasso di crescita degli investimenti in capitale produttivo. Gli investimenti fissi lordi hanno subito, nel 2008, una flessione del 4,2 %, che ha coinvolto tutte le principali componenti, in misura più marcata i beni strumentali. La forte riduzione dell’attività industriale, il rapido ampliamento dei margini inutilizzati della capacità produttiva, il pronunciato pessimismo nelle aspettative sull’andamento della domanda interna e di quella estera hanno frenato, infatti, la spesa in macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto e beni immateriali. Nel settore delle costruzioni, invece, la dinamica degli investimenti, pur attenuandosi, si è mantenuta positiva (0,3 %), traendo alimento sia dalla componente delle abitazioni (seppur in rallentamento), sia da quella delle costruzioni non residenziali. La riduzione del tasso di

Banca d’Italia, Relazione Annuale, Presentata all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, anno 2007, Roma, 31 maggio 2008.

12 I comparti industriali della metallurgia, fabbricazione di macchinari e apparecchiature, macchine elettriche

ed elettroniche, mezzi di trasporto hanno registrato una netta contrazione, aggiungendosi a quelli in arretramento già dal 2007: chimica e fibre sintetiche, carta ed editoria, legno. Banca d’Italia, Relazione

Annuale, Presentata all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, anno 2008, Roma, 29 maggio 2009.

13 Il “Valore Aggiunto” è l’aggregato che consente di apprezzare la crescita del sistema economico in termini

di nuovi beni e servizi messi a disposizione della comunità per impieghi finali. È la risultante della differenza tra il valore della produzione di beni e servizi, conseguita dalle singole branche produttive, ed il valore dei beni e servizi intermedi dalle stesse consumati. Istat, Contabilità nazionale. Conti economici nazionali. Anni

1970-2005, Annuario n. 10/2007, Roma.

14 Il clima di fiducia delle imprese edili è peggiorato nel corso dell’anno, in misura più accentuata durante

l’estate, quando l’attività, nel complesso del settore delle costruzioni, si è indebolita, scendendo dello 0,6 % rispetto ai tre mesi precedenti. Anche i dati di produzione e fatturato delle aziende che forniscono gli input produttivi al settore (calcestruzzo, gesso, piastrelle e mattoni) sono in linea con un ulteriore calo dei volumi di produzione nei mesi più recenti. Banca d’Italia, Relazione Annuale, Presentata all’Assemblea Ordinaria

dei Partecipanti, anno 2008, Roma, 29 maggio 2009.

15 Nel 2008, le riduzioni del valore aggiunto nei servizi alle imprese, nei trasporti, nelle assicurazioni e,

soprattutto, nel commercio, sono state compensate dalla crescita, pur in rallentamento, nell’intermediazione monetaria e finanziaria, nelle attività immobiliari e nelle comunicazioni. Banca d’Italia, Relazione Annuale,

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crescita degli investimenti in costruzioni (-1,8 %) si è concentrata nella componente non residenziale16.

La contrazione dell’attività industriale è, infine, all’origine del rallentamento delle esportazioni (-3,7 % in media d’anno)17. Secondo i dati del commercio estero, la diminuzione nel 2008 delle esportazioni di beni (-4,0 % in volume) è derivata quasi interamente dalla contrazione delle vendite nei paesi dell’UE. Con la sola eccezione del comparto alimentare, la riduzione delle esportazioni ha riguardato tutti i settori della manifattura, in particolare quelli del “made in Italy” (tessile e abbigliamento, cuoio e calzature, mobili e prodotti in legno) e della meccanica, che ha risentito del calo della domanda per beni di investimento. Quanto alle importazioni18, nel 2008 sono diminuite del 5,4 % quelle dei beni, dello 0,8 % quelle dei servizi. Fra le principali categorie merceologiche, la contrazione più marcata ha interessato il comparto dei mezzi di trasporto. Hanno fortemente rallentato le importazioni dalla Cina, scese al 2,0 % in volume (dal 18 % in media, all’inizio del decennio).

Alla luce delle considerazioni su esposte, è quanto mai evidente che le attuali difficoltà del sistema economico italiano non derivano primariamente dalle ripercussioni della recente crisi economico-finanziaria mondiale, le quali ne hanno, piuttosto, semplicemente aggravato i preesistenti limiti. Di certo, la scarsa competitività delle nostre imprese (eccezion fatta per i tradizionali comparti del made in Italy) non è imputabile al fenomeno del credit crunch che, come precedentemente osservato, ha interessato l’economia italiana in minor misura nel confronto con le altre principali realtà europee ed internazionali. Cosa cela, dunque, il forte rallentamento della produzione italiana? Come spiegare il netto ritardo tecnico-economico del nostro Paese dalle maggiori economie mondiali? È quanto cercherò di capire nel corso di questo primo capitolo, studiando dell’economia italiana la struttura, la produttività, lo sviluppo tecnologico e il sistema finanziario.

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Nella media dell’area dell’euro, invece, la flessione degli investimenti nel comparto delle costruzioni, prossima al punto percentuale, s’è concentrata proprio nella componente abitativa (-3,4 %). La crisi del mercato immobiliare ha indotto un forte calo degli investimenti residenziali anche nel Regno Unito, sottraendo circa 0,4 punti percentuali alla crescita del prodotto. Banca d’Italia, Relazione Annuale,

Presentata all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, anno 2008, Roma, 29 maggio 2009. 17

Nel complesso del 2008, il tasso di crescita delle esportazioni dell’area dell’euro ha rallentato, scendendo in media all’1,3% (dal 6,0 % del 2007). Il calo più significativo s’è registrato in Italia, Germania, Francia e Spagna. Banca d’Italia, Relazione Annuale, Presentata all’Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, anno 2008, Roma, 29 maggio 2009.

18 Frenato dall’avvio della recessione, il ritmo di crescita delle importazioni di beni e servizi dell’area

dell’euro è sceso all’1,3%. Banca d’Italia, Relazione Annuale, Presentata all’Assemblea Ordinaria dei

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Secondo i dati dell’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo

Economico, che monitora periodicamente l’economia dei trenta paesi più industrializzati al

mondo), negli anni compresi tra il 2001 e il 2006, l’Italia ha segnato la crescita più bassa della produttività del lavoro: il PIL per ora lavorata, infatti, ha registrato un aumento medio annuo insignificante dello 0,2 %, contro l’1,3 % nella media dei trenta paesi dell’OCSE e l’1,8 % medio dell’“Europa a 1519”. Se guardiamo, invece, al grado di innovazione tecnologica ed organizzativa (la cosiddetta “produttività totale dei fattori”), scopriamo che l’Italia è addirittura l’ultimo dei trenta. Tuttavia (potrebbe obiettarsi), ciò che conta ai fini del benessere individuale non è tanto il livello complessivo del PIL, quanto quello pro

capite, che risente, però, proprio della produttività del lavoro. Non è un caso, dunque, che

anche in questa graduatoria il nostro Paese sia tra gli ultimi dell’OCSE (il ventesimo), appena al di sopra della Grecia. L’Italia, quindi, è quel che si direbbe, in definitiva, “un paese in forte rallentamento”.

1.1

La struttura dell’economia italiana: il lato

dell’offerta

Il PIL20, misurato ai prezzi correnti (cioè ai prezzi in essere nell’anno della misurazione, nella fattispecie il 2007), ha superato, in Italia, i 1.500 miliardi di euro. La cifra in sé non ha un particolare significato. Ciò che conta è piuttosto il tasso di crescita del PIL: in termini reali (ovvero tenendo conto della sola crescita quantitativa dei beni e servizi prodotti, eliminando l’aumento dei prezzi, cioè l’inflazione), il PIL dell’Italia è aumentato, nel 2007, dell’1,4 %. Il dato non è confortante, sia perché il tasso di crescita medio dei paesi dell’“area dell’euro21” è stato (nello stesso anno) il doppio (2,8 %), sia perché, se guardiamo all’andamento temporale, ci accorgiamo che la crescita media dell’Italia è scesa

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Sono i 15 paesi aderenti nel 2005 all’UE: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia. Andres Rodriguez-Pose, L’Unione Europea, Economia, politica e società, Franco Angeli, Milano, 2003.

20 Il “Prodotto Interno Lordo” è il risultato finale dell’attività di produzione delle unità produttrici residenti.

Corrisponde alla produzione totale di beni e servizi dell’economia, diminuita dei consumi intermedi ed aumentata dell’Iva gravante e delle imposte indirette sulle importazioni. È, altresì, pari alla somma dei valori aggiunti ai prezzi di mercato delle varie branche di attività economica, aumentata dell’Iva e delle imposte indirette sulle importazioni, al netto dei servizi di intermediazione finanziaria indirettamente misurati (Sifim). Istat, Contabilità nazionale. Conti economici nazionali. Anni 1970-2005, Annuario n. 10/2007, Roma.

21 Sono i 16 paesi che hanno adottato l’euro al 2009: Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, Francia, Germania,

Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna.Andres Rodriguez-Pose, L’Unione Europea, Economia, politica e società, op. cit.

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progressivamente e sensibilmente dal 3,8 % degli anni ‘70, dal 2,4 % del decennio successivo, dall’1,6 % degli anni ‘90 e dall’1,1 % dei primi anni del duemila(figura 1.1).

FIGURA 1.1

Il tasso di crescita del Pil reale in Italia, 1971-2005

-4 -2 0 2 4 6 8 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005

Il problema della produttività italiana deriva, almeno in parte, dalla caratterizzazione del sistema nazionale delle imprese, contraddistinto, rispetto alle altre economie europee, da due criticità: la frammentazione dimensionale e la specializzazione produttiva. Quanto al primo aspetto, il settore dell’industria e quello dei servizi (ad esclusione dell’intermediazione finanziaria e della pubblica amministrazione) coprono, in Italia, i due terzi dell’occupazione totale: nel 2005 vi operavano circa 4,3 milioni di imprese, occupanti più di 16,3 milioni di addetti. La quasi totalità di queste imprese ha dimensioni piccolissime22. Rispetto alla seconda questione, anche in Italia risulta dominante il settore dei servizi, tratto caratteristico delle economie moderne: vi operano tre imprese su quattro e il 60 % dell’occupazione complessiva. D’altra parte, però, il settore dell’industria continua a mantenere, nel nostro Paese, un peso rilevante, occupando il 50 % dei lavoratori dipendenti e il 40 % degli addetti23. Il modello di specializzazione della struttura produttiva italiana, invariato da oltre un trentennio, si fonda in gran parte sul Made in Italy, comprendente i settori tradizionali: alimentare, tessile, abbigliamento, arredamento e meccanica. Diversamente, gli altri paesi industrialmente avanzati hanno progressivamente

22 “Ai dati del 2005, nella classe delle microimprese (che occupano cioè meno di 10 addetti) si concentrano

poco meno di 4,1 milioni di unità (ovvero il 95 % del totale), con un’occupazione pari al 48 % di quella complessiva (quasi 8 milioni di addetti)”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini, L’economia italiana del nuovo

millennio, op. cit. pag. 5

23 Al loro interno, gli “addetti” si dividono tra “lavoratori dipendenti” e “lavoratori indipendenti”. In buona

sostanza, i lavoratori dipendenti sono tutte le persone iscritte nei “libri paga” dell’azienda: dirigenti, quadri, impiegati, operai; lavoratori a tempo pieno o part time; lavoratori con contratti a tempo indeterminato o con contratto a termine. La differenza tra gli addetti e i dipendenti è rappresentata dai lavoratori indipendenti. Lavoratori indipendenti sono i titolari, i soci e gli amministratori di un’impresa, i loro parenti o affini che prestino lavoro nell’azienda, senza essere iscritti nei relativi “libri paga”.

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sostituito i settori tradizionali con altri a più alta innovazione, quali quelli legati alla tecnologia della comunicazione e dell’informazione.

Più rilevante sembra la numerosità delle microimprese. Risulta difficile, infatti, definire il

Made in Italy come una debolezza strutturale, se guardiamo alle performance in termini di

esportazioni24. In generale, è del tutto naturale che vi siano più microimprese, che non quelle medio-grandi. La debolezza della struttura produttiva italiana, piuttosto, sta nel fatto che ve ne sono troppe: basti pensare che in Italia esse costituiscono il 95 % del totale, contro il 64 % nella media dell’“Europa a 2725”. La questione delle piccole dimensioni è centrale per l’economia italiana, perché si ripercuote sulla produttività dell’intero sistema: nel passaggio dalla piccola alla grande impresa, infatti, la produttività del lavoro26 aumenta di un fattore (compreso tra 2 e 3).

Si noti che la frammentazione dimensionale non è nemmeno immediatamente riconducibile alla specializzazione produttiva, perché la sottodimensionalità è presente in tutti i settori produttivi. Essa, piuttosto, è da imputarsi a particolari fattori di natura istituzionale (quali la tassazione, la struttura proprietaria e il sistema finanziario), che non favoriscono la crescita delle dimensioni d’impresa.

1.2

La struttura dell’economia italiana: il lato della

domanda

1.2.1 Gli investimenti

Gli investimenti delle imprese italiane hanno rappresentato, nel 2007, una quota della domanda aggregata27 di poco superiore al 20 %. L’ammortamento ha costituito circa i tre

24

“È vero che il settore tradizionale espone oggi le imprese italiane alla concorrenza delle economie emergenti (Cina e India), con perdita di quote del commercio mondiale in termini di volumi scambiati. D’altra parte, però, le stesse quote, misurate in valore, si mantengono invariate, a testimonianza della capacità di riposizionamento dell’industria italiana attraverso un processo di ristrutturazione che ha migliorato la qualità delle esportazioni”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini, L’economia italiana del nuovo millennio, op. cit. pag. 5

25 Sono 27 i paesi attualmente aderenti all’UE: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia,

Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria. Andres Rodriguez-Pose, L’Unione Europea, Economia, politica e società, op. cit. pag. 16

26 La “produttività del lavoro” è il rapporto tra il valore dell’intera produzione realizzata e la quantità del

lavoro impiegato nella produzione. Istat, Contabilità nazionale. Conti economici nazionali. Anni 1970-2005, Annuario n. 10/2007, Roma.

27 La “domanda aggregata” rappresenta la domanda di beni e servizi formulata dal sistema economico nel suo

complesso, in un certo periodo temporale; come tale essa rappresenta la potenzialità di sfruttamento della capacità produttiva globale di un certo sistema economico. La domanda aggregata è funzione diretta dell'offerta reale di moneta, funzione diretta della spesa pubblica, funzione inversa del livello di imposizione

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13

quarti del totale dell’investimento lordo28: ciò significa che gran parte dell’investimento ha reintegrato la capacità produttiva che, per motivi fisici o tecnologici (obsolescenza), non era più utilizzabile nel processo produttivo.

I beni che nel 2007 hanno costituito oggetto di investimento da parte delle imprese italiane possono ricondursi a quattro categorie fondamentali:

1) costruzioni (capannoni ed edilizia residenziale), il 50 % dell’investimento lordo complessivo;

2) macchine e attrezzature, circa un terzo del totale; 3) mezzi di trasporto, il 19 %;

4) beni immateriali (quali i brevetti), costituenti il residuo 5 %.

Si noti che gli investimenti sono una variabile cruciale per l’attività economica di un paese, sia perché costituiscono una quota rilevante della domanda aggregata, sia perché influenzano in modo determinante l’offerta aggregata: gli investimenti, infatti, alimentano la capacità produttiva e rappresentano il veicolo principale attraverso cui le innovazioni tecnologiche si trasmettono al processo produttivo, incidendo sulla produttività del lavoro. Proprio la lenta crescita dell’intensità di capitale29 (che gli investimenti misurano) è tra le cause dello scarso aumento della produttività e del reddito italiani. Dalla metà degli anni ’90 ad oggi, infatti, il tasso di crescita medio annuo del capitale si è ridotto di 1 punto percentuale, dal 2,6 % all’1,6 % (figura 1.2), e la ragione essenzialmente è una: nel nostro Paese, da quindici anni a questa parte, si fanno assai meno investimenti. Un primo fattore riguarda il volume delle vendite, che influenza gli investimenti ed è direttamente collegato al PIL (e quindi alla domanda complessiva di beni e servizi). A tal proposito, si

fiscale; andrebbero anche considerati altri fattori quali il consumo autonomo (indipendente dal reddito), la propensione marginale al consumo, la sensibilità dell'investimento rispetto alle variazioni del livello produttivo dell'economia (in tutti questi casi si ha un effetto diretto sulla domanda aggregata). Graficamente la domanda aggregata è rappresentata in un sistema di assi cartesiani (dove sull'asse delle ascisse c'è il reddito o prodotto e sull'asse delle ordinate c'è il livello generale dei prezzi) attraverso una curva decrescente, detta “curva di Marshall”, (che evidenzia come, all'aumentare del livello dei prezzi, la domanda di beni e servizi si riduce). La domanda aggregata e l'“offerta aggregata” del sistema economico determinano l'equilibrio economico del sistema stesso.

L'offerta aggregata rappresenta la capacità produttiva di un sistema economico nel suo complesso. Essa può essere rappresentata come una funzione diretta del livello generale dei prezzi, evidenziando come livelli crescenti di output reale siano legati ad un aumento del livello dei prezzi.

28

L“investimento lordo” è il valore dei beni materiali acquisiti dalle unità produttive, i quali procureranno reddito in un periodo successivo. Comprende gli investimenti fissi lordi, la variazione delle scorte, le acquisizioni meno le cessioni di oggetti di valore. L’investimento lordo include gli ammortamenti, mentre l’investimento netto li esclude. Istat, Contabilità nazionale. Conti economici nazionali. Anni 1970-2005, Annuario n. 10/2007, Roma.

29 “L’intensità di capitale rappresenta la dotazione di capitale di cui dispone ciascun lavoratore. Essa è

misurata dal rapporto tra il capitale dell’impresa e il numero di lavoratori impiegati”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini, L’economia italiana del nuovo millennio, op. cit. pag. 5

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14

distinguono due settori: quello delle imprese la cui produzione è rivolta alle esportazioni e quello delle imprese che producono per l’interno. Le prime hanno goduto di una domanda estera in forte espansione (soprattutto in virtù della crescita delle economie emergenti, quali Brasile, Russia, India e Cina, il cosiddetto BRIC), potendo compiere una profonda ristrutturazione e investire molto. Queste imprese, prevalentemente concentrate nel settore manifatturiero, costituiscono, d’altra parte, una minoranza; la maggior parte delle imprese, infatti, produce per soddisfare la domanda interna. Negli ultimi quindici anni, però, i consumi pressoché stagnanti delle famiglie non le hanno incentivate ad investire. Il maggior peso di questo settore nell’economia italiana, dunque, ha determinato il rallentamento degli investimenti.

FIGURA 1.2

La dinamica del capitale netto: tassi di variazione annuali, 1981-2005

1 1,5 2 2,5 3 3,5 1980 1985 1990 1995 2000 2005

Altro fattore (di diminuzione degli investimenti) è stata la più elevata flessibilità di impiego del lavoro30, che, riducendone il costo, ha favorito la crescita occupazionale. Con essa, però, ha mutato in profondità anche le caratteristiche dei processi produttivi, in modo da riflettersi negativamente sulla produttività del lavoro: più nel dettaglio, la maggiore

30

La “flessibilità” è il concetto in base al quale un lavoratore non rimane costantemente ancorato al proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, ma muta più volte, nell'arco della propria vita, l'attività occupazionale e/o il datore di lavoro. In un'ottica evolutiva e di accrescimento, la flessibilità dovrebbe prevedere un costante miglioramento delle conoscenze del lavoratore e di conseguenza del livello occupazionale raggiunto, sia per quanto riguarda il versante economico, sia quello delle competenze professionali.

La flessibilità, in senso più lato, si riferisce anche ai lavoratori a tempo pieno, con contratto a tempo indeterminato. La flessibilità è intesa in termini di orario, sede di lavoro e mansione: come disponibilità, rispetto alle esigenze e alle richieste del datore di lavoro, a lavorare più di 8 ore, il sabato e nei giorni festivi, a cambiare mansione, a trasferte anche di lunga durata, ad un trasferimento della sede di lavoro, pur avendo casa ed una vita relazionale affermata in un altro luogo da diversi anni.

L'art. 18 dello “Statuto dei lavoratori”, oltre a contenere l'“illegittimità del licenziamento senza giusta causa”, afferma il diritto del lavoratore ad una “stabilità reale”. La giurisprudenza ha inteso la stabilità in senso lato, come diritto ad avere un orario di lavoro, una mansione ed una sede di lavoro il più possibile stabili, necessari per disporre di un tempo libero e organizzare una vita affettiva e famigliare. Le maggiorazioni per lavoro straordinario, le indennità di trasferta, le indennità di disponibilità (per i casi in cui la persona deve essere reperibile fuori orario di lavoro) possono intendersi come risarcimento pecuniario delle condizioni di lavoro che non rispettino questi criteri di stabilità.

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15

elasticità sul mercato del lavoro ha incentivato le produzioni a minor valore aggiunto e scoraggiato gli investimenti nelle nuove tecnologie.

1.2.2 Gli scambi con l’estero

Secondo i dati della contabilità nazionale31, nel 2007 le esportazioni italiane di beni e servizi, come pure le importazioni, hanno rappresentato (in termini reali) una quota del PIL pari al 29 % circa. Una leggera prevalenza delle importazioni, però, ha fatto registrare un disavanzo di parte corrente (della bilancia dei pagamenti). In particolare, il deficit è stato il risultato di due andamenti contrapposti: mentre il saldo mercantile (quello relativo allo scambio di beni) è tornato in attivo dopo il deficit del 2006, il saldo negativo dei servizi s’è appesantito. Ciò riflette una caratteristica tipica (e al contempo singolare) dell’economia italiana, la quale risulta, al contrario di altri paesi avanzati, decisamente più orientata alla manifattura, piuttosto che ai servizi32.

Quanto al saldo mercantile, il biennio 2006-2007 sembra aver segnato un punto di svolta nel suo andamento, tornando in attivo dopo sei anni di progressivo peggioramento. A ciò ha contribuito, però, il rallentamento delle importazioni di beni, in gran parte dovuto all’indebolimento della domanda interna per consumi e investimenti.

Sul versante delle esportazioni, la riduzione del tasso di crescita nel 2007 (-1,2 %) ha interessato particolarmente il Made in Italy, a conferma di una tendenza in corso ormai da molti anni: dall’inizio di questo decennio, infatti, si sono fortemente attenuati i vantaggi comparati dei settori tradizionali italiani (beni di consumo per la casa e la persona), mentre si è andata intensificando la specializzazione nei settori dei beni di investimento (come le macchine e gli apparecchi meccanici), dove maggiormente è cresciuta la domanda mondiale. Al miglioramento del saldo mercantile, dunque, hanno contribuito soprattutto questi settori, meno quelli tradizionali.

Un’ultima considerazione è relativa al mutamento geografico delle nostre esportazioni: negli ultimi anni, infatti, sono cresciute, a tassi superiori al 20 %, quelle verso i paesi emergenti e produttori di materie prime e prodotti energetici (Russia, Asia e America Latina), mentre sono diminuite quelle agli USA e all’UE. Queste tendenze accentuano la

31 La “contabilità nazionale” è l’insieme di tutti i conti economici che descrivono l’attività economica di un

Paese o di una circoscrizione territoriale. Essa ha per oggetto l’osservazione quantitativa e lo studio statistico del sistema economico o dei sub-sistemi che lo compongono ai diversi livelli territoriali. Istat, Contabilità

nazionale. Conti economici nazionali. Anni 1970-2005, Annuario n. 10/2007, Roma.

32 “L’anomalia sta nel fatto che, di norma, al crescere del reddito nelle economie avanzate, la produzione

tende a spostarsi dai beni ai servizi, e non il contrario (come in Italia)”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini,

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16

diversità italiana dalla media europea, ma al contempo evidenziano una maggiore capacità di adattamento all’andamento della domanda mondiale.

1.3 Il settore pubblico

Le principali funzioni svolte dalle amministrazioni pubbliche33 consistono nel produrre per la collettività servizi non destinabili alla vendita e nell’operare una redistribuzione del reddito e della ricchezza del paese attraverso i “trasferimenti34”.

Le risorse principali sono costituite dai versamenti obbligatori di famiglie e imprese, nella forma di imposte e contributi.

Il rendiconto delle entrate e delle uscite della PA è il bilancio pubblico. Il “disavanzo pubblico totale” è la differenza negativa tra il totale delle uscite e quello delle entrate, ed è denominato indebitamento netto35. Si ha “avanzo di bilancio” o accreditamento, invece, quando le entrate superano le uscite. L’indebitamento del settore pubblico è stato nel 2007 pari al 2 % del PIL, per differenza tra il “saldo primario36” (3 %) e la spesa per interessi (5 %).

1.3.1 Il debito pubblico in Italia

Nel periodo che va dal 1980 al 1992, il rapporto debito/PIL è raddoppiato (dal 60 % al 124 %), causa disavanzi crescenti, alti tassi di interesse e debole crescita del prodotto nazionale (figura 1.3).

33 La “Pubblica Amministrazione” è il settore che raggruppa le unità istituzionali le cui funzioni principali

consistono nel produrre per la collettività servizi non destinabili alla vendita e nell’operare una redistribuzione del reddito e della ricchezza del Paese. È suddiviso in tre sottosettori: amministrazioni centrali, amministrazioni locali ed enti di previdenza. Istat, Contabilità nazionale. Conti economici nazionali.

Anni 1970-2005, Annuario n. 10/2007, Roma.

34 Per “trasferimenti” si intendono le operazioni unilaterali con le quali un soggetto devolve a favore di un

altro una somma di denaro o un insieme di beni e servizi, senza riceverne in cambio una contropartita. Possono essere correnti o in conto capitale. Istat, Contabilità nazionale. Conti economici nazionali. Anni

1970-2005, Annuario n. 10/2007, Roma.

35 “La somma degli indebitamenti netti accumulati nel tempo dalle amministrazioni pubbliche determina il debito pubblico. La sua controparte finanziaria si compone in massima parte dei titoli pubblici, quali BOT e

BTP”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini, L’economia italiana del nuovo millennio, op. cit. pag. 5

36 “Il saldo primario è la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi. Se le entrate superano le uscite,

v’è un avanzo primario, ovvero risparmio pubblico. Se il debito pubblico è nullo, il saldo primario coincide con il saldo del bilancio pubblico, perché la spesa per interessi è zero. Quando, invece, v’è debito pubblico, lo Stato emette titoli per finanziare il deficit e paga gli interessi a chi li sottoscrive (le famiglie e le imprese ne sono i naturali acquirenti, ma anche altre istituzioni pubbliche e private possono decidere di finanziare lo Stato). La differenza tra saldo primario e interessi passivi determina l’indebitamento netto”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini, L’economia italiana del nuovo millennio, op. cit. pag. 5

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17

FIGURA 1.3

La dinamica del debito pubblico italiano (in % del Pil) 1980-2006

0 20 40 60 80 100 120 140 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006

A partire dal ‘92, una politica di rientro del debito pubblico ne ha ridotto il peso, fino al 104 % del PIL nel 2007. Basti considerare che, dopo la punta massima del 1993, in cui la spesa pubblica toccò il record del 57,34 % del PIL, essa cominciò a scendere, toccando il 52,89 % nel 1996 e il punto di minima nel 2000, il 46,46 %37.

Tra i paesi europei, l’Italia ha il più elevato indebitamento pubblico38. Sui nostri conti pubblici pesa soprattutto la spesa per interessi, pari al 5 % del PIL (circa 75 miliardi di euro).

L’evento che ha favorito l’avvio, nel 1992, del processo di stabilizzazione dei conti della finanza pubblica italiana è stato l’ingresso del nostro Paese nell’UEM (Unione Economica

e Monetaria), con la sottoscrizione, il 7 febbraio, del Trattato di Maastricht. Con questo

accordo, i paesi sottoscrittori si impegnavano ad effettuare manovre di bilancio per mettere in ordine e armonizzare la struttura dei propri conti pubblici. Il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati avrebbe precluso l’adesione all’“euro”, in data 1 gennaio 1999. Tra i criteri previsti dall’accordo, l’uno riguardava il rapporto indebitamento netto/PIL, l’altro il rapporto debito/PIL; il primo non doveva superare il 3 %, il secondo doveva restare al di sotto del 60 %39. All’atto della sottoscrizione del Trattato, l’Italia registrava un

37 “In sintesi l’Italia, tra l’autunno del 1992 e il 2003, ha senz’altro imboccato una strada di riequilibrio dei

conti pubblici, facendo sì che i disavanzi di bilancio dal 1997 fossero sempre al di sotto del 3 %. Questo riequilibrio, però, non era dovuto ad un riadeguamento verso un livello di vita più coerente con la ricchezza prodotta, ma alla drastica riduzione del costo del pubblico finanziamento del debito ed alla riduzione degli investimenti”. Mariano Marchetti, Il futuro dimenticato. L’economia italiana dalla metà degli anni ‘60 ad

oggi, Franco Angeli, Milano, prima edizione, 2006.

38 “La Francia e la Germania registrano rispettivamente il 65 % e il 63 %. La Spagna è al 35,3 %. Nel mondo,

il debito pubblico italiano è secondo solo a quello di Giappone e Usa”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini,

L’economia italiana del nuovo millennio, op. cit. pag. 5

39 “Indubbiamente, la normativa era molto rigorosa e per questo fu subito sottoposta a molte critiche. Quella

più importante evidenziava i rischi di una moneta unica alla quale non corrispondeva anche un governo unitario dell’economia. Questa mancanza, unita all’impossibilità di cambiare le parità monetarie, rendeva

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disavanzo complessivo superiore al 10 % del PIL e un debito superiore al 100 % del PIL. Successivi interventi di finanza pubblica e una serie di misure straordinarie, però, hanno permesso all’Italia di rispettare i criteri di convergenza40 fissati dal Trattato e di aderire alla “moneta unica”.

Un ulteriore accordo, il Patto di Stabilità e Crescita, era stato sottoscritto, nel giugno 1997, dagli stessi paesi che avrebbero aderito all’“euro” (o almeno, ambivano a farlo). In tal modo, questi si impegnavano a implementare una politica fiscale rigorosa anche dopo l’introduzione dell’“euro”, pena l’incorrere in procedure obbligatorie di correzione dei conti pubblici, qualora il rapporto indebitamento netto/PIL avesse superato la soglia del 3 %. Negli anni successivi alla sottoscrizione del Patto, la riduzione della tassazione e l’aumento della spesa pubblica (in particolar modo, quella sanitaria) determinarono, a partire dal 2004, una progressiva diminuzione del saldo primario e la conseguente crescita del rapporto debito/PIL. Le manovre di bilancio del biennio 2006-2007 hanno, però, consentito il rientro del disavanzo, con l’interruzione della procedura d’infrazione.

1.4 Il sistema finanziario

Il sistema finanziario comprende sia i mercati (come le borse), sia gli intermediari finanziari (come le banche). La funzione più importante consiste nell’incanalare i fondi dai soggetti risparmiatori (le unità in surplus, tipicamente le famiglie) alle unità in deficit, in generale le imprese. Essa viene svolta attraverso due canali:

- il finanziamento diretto: i prenditori ricevono i fondi direttamente dai prestatori che operano sui mercati finanziari, cedendo loro strumenti (quali azioni e obbligazioni) che incorporano diritti sul reddito futuro e/o sul patrimonio dell’emittente;

- il finanziamento indiretto, o bancario: il flusso ha luogo mediante intermediari finanziari, tipicamente le banche di credito, ma anche le assicurazioni e le banche d’affari.

A seconda che prevalga l’uno o l’altro tipo di finanziamento, si parla di “sistema finanziario orientato al mercato” o di “sistema finanziario orientato agli intermediari”.

difficile fronteggiare eventuali squilibri macroeconomici (quali una crisi di competitività o una caduta della domanda), soprattutto in un paese con un debito pubblico inespandibile come il nostro”. Mariano Marchetti,

Il futuro dimenticato. L’economia italiana dalla metà degli anni ‘60 ad oggi, op. cit. 40

“La convergenza tra i paesi partecipanti riguardava anche il tasso di inflazione e i tassi di interesse praticati, così come la proibizione di indebitarsi con la propria Banca Centrale. Si stabiliva, inoltre, la nascita della BCE, il cui primo embrione fu l’Istituto Monetario Europeo”. Mariano Marchetti, Il futuro dimenticato.

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Le principali attività che compongono la ricchezza finanziaria in Italia sono (in ordine di importanza):

1) circolante e depositi;

2) titoli diversi dalle azioni, in gran parte obbligazioni emesse dallo Stato, dalle imprese e dalle banche;

3) i prestiti del sistema bancario;

4) le azioni e le quote dei fondi comuni41;

5) altre attività, principalmente le polizze assicurative e i crediti commerciali delle imprese.

Nel 2007 la ricchezza finanziaria in Italia è stata pari a 12.500 miliardi di euro, più di 8 volte il PIL.

Il sistema finanziario si compone di cinque categorie di operatori economici: - famiglie;

- imprese;

- società finanziarie: vi ritroviamo gli intermediari bancari, le imprese di assicurazione, i fondi pensione, gli intermediari finanziari (come le SGR, società

di gestione del risparmio) e le autorità di controllo dei mercati finanziari (come la

CONSOB);

- amministrazioni pubbliche;

- il “resto del mondo”, ovvero tutti gli operatori non residenti (che hanno, cioè, il proprio centro di interessi al di fuori dell’economia nazionale).

Il computo dei saldi finanziari avviene da due prospettive: le “consistenze”, ovvero le attività al netto delle passività (ricchezza netta), accumulate negli anni dai diversi operatori; i “flussi”, manifestazione di ciò che è avvenuto nel corso dell’anno. Quanto alle prime, in Italia nel 2007 la ricchezza netta era detenuta dalle famiglie (2.960 miliardi di

41 I “fondi comuni di investimento” sono strumenti finanziari (Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio, OICR) che raccolgono il denaro di risparmiatori che affidano la gestione dei propri risparmi ad

una “società di gestione del risparmio” (SGR) con personalità giuridica e capitale distinti da quelli del fondo. I fondi comuni investono il denaro raccolto in valori mobiliari che costituiscono il patrimonio indiviso del fondo, di cui ogni risparmiatore detiene un certo numero di quote (la quota è la frazione unitaria del patrimonio del fondo di investimento ed ha un valore che cambia nel tempo in relazione all'andamento dei titoli nei quali il fondo investe). Indipendentemente dalla tipologia di fondo, tutti i partecipanti hanno gli stessi diritti: i guadagni o le perdite (dal momento che il fondo non garantisce un rendimento certo, a meno di alcune tipologie particolari di prodotti) sono in proporzione a quanto investito, o meglio, in proporzione al numero di quote in possesso. I fondi comuni, essendo gestiti da professionisti del settore, permettono ai piccoli investitori, se ben consigliati, di sottoscrivere investimenti aderenti al proprio profilo finanziario, in termini di rischio/rendimento. In relazione agli obiettivi finanziari, al rischio e al rendimento atteso, il risparmiatore può scegliere tra diversi tipi di fondi: bilanciati, obbligazionari, azionari, di liquidità e flessibili.

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euro), il corrispettivo in debito dalle imprese (1.540 miliardi di euro) e dalle amministrazioni pubbliche (1.350 miliardi di euro): ciò significa che in passato le famiglie ne hanno finanziato l’eccesso di spesa. In modo del tutto analogo, i flussi del 2007 indicano che nel corso dell’anno le famiglie hanno effettuato un risparmio (52 miliardi di euro) che è servito a finanziare parte delle spese di imprese (53 miliardi di euro) e governo (31 miliardi di euro).

1.4.1 La struttura finanziaria delle imprese

Ciò che conta nell’analisi della struttura finanziaria delle imprese è il lato delle passività. In generale, vi sono tre fonti di finanziamento per le imprese:

- autofinanziamento; - capitale azionario;

- indebitamento (prestiti bancari e obbligazionari).

L’autofinanziamento in Italia, pur mostrando, da oltre un decennio, un trend decrescente e tra i più bassi dei paesi industrializzati, rimane la fonte di finanziamento più rilevante degli investimenti delle imprese, coperti nel 2007 nella misura del 45 %. Questo valore, invece, supera il 90 % nel Regno Unito e negli USA.

In termini di flussi, il finanziamento del fabbisogno finanziario (la parte dell’investimento non coperta dall’autofinanziamento) risente del tipo di sistema finanziario vigente nel paese, in Italia incentrato sulle banche: nel 2007, infatti, la copertura è avvenuta, nella misura del 67 %, per mezzo dei prestiti bancari.

Vista dal lato delle consistenze, invece, la struttura finanziaria delle imprese è indipendente dalle caratteristiche del sistema finanziario: in Italia, così come in Europa e negli USA, le passività accumulate dalle imprese sono soprattutto capitale azionario, seguito, in ordine di importanza, dai prestiti bancari, quelli commerciali e dalle obbligazioni. In Italia il capitale azionario è costituito per il 70 % da azioni non quotate, effetto della prevalenza delle imprese di piccole dimensioni.

1.4.2 La finanziarizzazione dell’economia italiana

Una misurazione significativa della dimensione del sistema finanziario di un paese può fare riferimento a diversi parametri. Un primo possibile indicatore è il rapporto attività finanziarie/PIL, espressione del “grado di finanziarizzazione” del sistema economico. Nel 2006, in Italia, il valore complessivo delle attività finanziarie era 8 volte il PIL. Il

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21

confronto con gli altri paesi avanzati (che registrano livelli ancora più elevati) indica che il nostro sistema finanziario non ha ancora lo stesso grado di sviluppo.

Negli ultimi cinquant’anni, la finanziarizzazione in Italia ha attraversato tre fasi (figura 1.4):

1) dagli anni ‘60 alla metà degli anni ‘80, il rapporto attività finanziarie/PIL è rimasto pressoché stabile, variando da 2,4 a 3,7;

2) il grado di finanziarizzazione ha subito una prima impennata dalla metà degli anni ‘80 alla metà degli anni ‘90, per effetto della crescita abnorme del rapporto debito pubblico/PIL, raddoppiato dal 60 % al 120 %;

3) un’ulteriore accelerazione del grado di finanziarizzazione, frutto della vertiginosa crescita del mercato azionario, s’è registrata dalla metà degli anni ‘90 ad oggi, quando il rapporto attività finanziarie/PIL è quasi raddoppiato, da 5 a un valore superiore a 8.

FIGURA 1.4

Grado di finanziarizzazione in Italia: rapporto tra attività finanziarie e Pil (%), 1960-2005 2 3 4 5 6 7 8 9 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005

1.4.3 Il mercato azionario

Un indice in grado di esprimere la rilevanza di un mercato azionario è il rapporto tra il valore di capitalizzazione delle azioni quotate in borsa (cioè il valore dei titoli quotati nel mercato azionario) e il PIL.

Alla fine degli anni ‘90, il mercato azionario italiano ha conosciuto una crescita esplosiva: basti pensare che il numero delle società quotate è aumentato dalle 220, all’inizio del decennio scorso, alle 307 del 200742.

42 “In Italia è comunque esiguo il numero delle imprese quotate in borsa: nel 2007, contro le 307 del mercato

italiano se ne annoveravano 3.307 della Borsa di Londra e 2.297 della Borsa di Wall Street a NY. Alla Fonte: Banca d’Italia, Relazione Annuale 2006

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Quanto alla composizione del listino azionario italiano, negli ultimi anni è cresciuto il peso del settore bancario (per effetto della dismissione delle principali banche, da parte della proprietà pubblica, a partire dal 199343), dei servizi finanziari (in controtendenza rispetto ai “servizi reali”) e del settore industriale.

1.4.4 Gli intermediari finanziari

Il rapporto prestiti bancari/PIL evidenzia la centralità del finanziamento indiretto in Europa, diversamente dagli USA: nel 2007, infatti, nell’“area dell’euro” il rapporto ha raggiunto il 120 %, in Italia il 110 %, mentre negli USA solo il 70 %. D’altro canto, negli USA è centrale il finanziamento diretto, mediante il mercato di borsa. Non è un caso, dunque, che rispetto agli USA si parli di sistema finanziario basato sul mercato, mentre per le economie europee di sistemi fondati sull’intermediazione bancaria.

Nell’ultimo decennio, due mutamenti hanno interessato il settore dell’intermediazione. Uno è stato il passaggio al modello della “banca universale”, sulla scia della liberalizzazione del settore bancario, sancita dal Testo Unico Bancario del 1993. Nella stessa prospettiva, un processo di concentrazione bancaria ha favorito la creazione di conglomerati bancari di dimensioni paragonabili a quelli internazionali (ne sono esempio i due principali gruppi bancari italiani oggi esistenti, Uni-Credit e Intesa-Sanpaolo).

La natura della banca tradizionale, inoltre, è radicalmente mutata anche sul piano dell’oggetto dell’intermediazione: l’enorme crescita degli scambi sui mercati finanziari ha riguardato non solo le attività finanziarie tradizionali, quali azioni e obbligazioni, bensì anche i “derivati44”, ossia quegli strumenti finanziari che traggono il loro valore da un’attività sottostante, reale o finanziaria. La caratteristica che li differenzia dagli strumenti

carenza di partecipazione si aggiunge anche il ridottissimo grado di internazionalizzazione del listino italiano della Borsa: delle 307 imprese quotate, solo 6 sono estere”. Enrico Saltari, Giuseppe Travaglini, L’economia

italiana del nuovo millennio, op. cit. pag. 5

43 La privatizzazione del patrimonio pubblico ha riguardato il settore bancario, quello assicurativo e gli ex

monopoli dei servizi di pubblica utilità (energia, trasporti, telefonia). Essa fu dettata dalla necessità di ridurre il fabbisogno finanziario del settore pubblico e, secondo quanto stabilito in sede europea, dalla speranza di promuovere lo sviluppo e la stabilità dei mercati finanziari attraverso la formazione di un azionariato diffuso tra i risparmiatori.

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I “derivati” sono contratti finanziari il cui rendimento è legato a quello di un altro strumento finanziario, emesso in precedenza e separatamente negoziato. La denominazione di derivato si basa sul fatto che l’esistenza di tali strumenti e il loro valore derivano dall’esistenza e dal valore di altri strumenti (“attività sottostanti”): nella misura in cui varia il valore dell’attività sottostante, varia anche il valore dello strumento derivato. I derivati sono sempre “contratti a termine”, la cui funzione principale è quella di gestire le esposizioni ai rischi associati alla detenzione delle attività sottostanti. In alternativa, i derivati possono essere utilizzati quali strumenti di investimento; il contratto viene sottoscritto a fini speculativi: il sottoscrittore scommette sul futuro andamento del prezzo dell’attività sottostante.

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finanziari tradizionali è che nessun capitale viene versato; piuttosto il loro scopo è quello di trasferire i rischi sui mercati finanziari.

L’innovazione finanziaria, dunque, ha cambiato il ruolo delle banche, consentendo loro di trasferire i rischi dal sistema bancario ai mercati finanziari, di liberare, in tal modo, il capitale impiegato nei mutui e di ampliare la loro capacità di prestito. L’innovazione finanziaria, inoltre, insieme al progresso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ha abbassato i costi di transazione e drasticamente ridotto gli oneri sull’intermediazione bancaria. Questi processi hanno determinato un aumento senza precedenti dell’indebitamento delle imprese e, soprattutto, delle famiglie.

1.5 Produttività e progresso tecnologico

Un modo di farsi un’idea delle difficoltà attuali dell’economia italiana è guardare al reddito

pro capite, ovvero il rapporto tra PIL e popolazione totale. Se lo misuriamo in termini reali

(cioè ai prezzi del 2000, per eliminare l’inflazione), la crescita del reddito pro capite, tra il 1995 e il 2007, è stata mediamente dell’1,2 % annuo. Il PIL complessivo italiano e quello

pro capite sono cresciuti a tassi superiori all’1 %, quindi non ha senso parlare di “declino

assoluto”, piuttosto di “declino relativo”: il reddito, cioè, ha continuato ad aumentare, ma ad un tasso sempre minore. Ce ne rendiamo conto se guardiamo alla dinamica temporale e, soprattutto, confrontando la crescita della nostra economia con quella di altri paesi. Quanto al primo punto, il ritmo annuo di crescita, pari al 6 % negli anni ‘50, è sceso al 4 % negli anni ‘70 e al 2,5 % nel decennio successivo. Se confrontiamo il reddito pro capite italiano con quello statunitense, ci accorgiamo, inoltre, che il processo di convergenza iniziato negli anni ‘70 si è interrotto all’inizio dei ‘90, quando il divario è tornato quasi ai livelli originari: nel 1970, infatti, il reddito pro capite di un italiano era il 66 % di quello di uno statunitense, contro il modesto 80 % del 1992. Perdiamo anche nel confronto con i paesi dell’“area dell’euro”: se all’inizio degli anni ‘90 il reddito pro capite italiano era, seppur di poco, superiore alla media europea, nel 2007 è risultato (rispetto alla media) più basso del 10 %. Il declino, certo, ha riguardato tutti i paesi dell’area, ma sembra che l’economia italiana abbia rallentato più delle altre, accrescendo nel tempo il divario.

Il reddito pro capite è il risultato della combinazione di tre elementi: - la quota della popolazione attiva, ovvero in età da lavoro;

- il tasso di occupazione, cioè la frazione occupata della popolazione attiva; - la produttività del lavoro, ossia il valore prodotto da ogni occupato.

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