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Capitolo 2: Le fonti letterarie

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Academic year: 2021

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Capitolo 2: Le fonti letterarie

2.0.L’Elena letteraria

Con l’Iliade viene alla luce il primo capolavoro letterario della civiltà ellenica, l’opera che si porrà nei secoli a venire come vero e proprio poema nazionale della Grecia, orgoglio e baluardo della propria identità culturale. In assenza di altri poemi giunti integri fino ai giorni nostri, l’Iliade può essere da noi considerato come il primo prodotto dello spirito collettivo di popolazioni che rivendicano nell’insieme una comune origine: una civiltà ai suoi primordi, giunta ad uno sviluppo ormai elaborato di autocoscienza e consapevolezza del proprio ruolo nella storia.

Per questo possiamo dire che il personaggio di Elena, attraverso l’Iliade, ottenga un posto d’onore all’interno della letteratura greca, della quale accompagnerà l’intero sviluppo attraverso i generi e i secoli, arricchendosi di volta in volta di differenti connotazioni, talvolta contraddittorie, piegate alle necessità del particolare momento socio-culturale in cui la sua storia viene rimaneggiata.

Il posto centrale che la sua figura occupa nello sviluppo del racconto omerico, fa sì che, per quanto ella compaia di persona sulla scena narrativa solo in poche occasioni e per il resto ne sia esclusa, l’intera opera risulti comunque al lettore permeata dalla sua presenza, in quanto motore delle vicende che si dipanano intorno a lei.

Pensare un’Iliade senza Elena sarebbe impossibile: ella ne è forse l’unica e incontrastata protagonista femminile; oltre a lei, solo le divinità, Era, Atena e Afrodite, sembrano avere un ruolo attivo e determinante negli eventi, mentre sul fronte umano, né la regina Ecuba, né Andromaca, la fedele sposa di Ettore, ricevono dal poeta altrettanta attenzione.

Il suo ruolo nell’economia del racconto, quello della preda ambita, del trofeo di guerra, del premio irraggiungibile, ma anche della donna ammaliatrice per cui gli uomini sono portati ad affrontare sacrifici e sofferenze, e persino ad accettare la rovina della propria patria, suggeriva al lettore o all’ascoltatore delle storie una serie di problematiche intorno alle quali la Grecia continuerà a interrogarsi per secoli, connesse alla guerra, al destino dell’uomo, e all’ineluttabilità della sorte, che gli uomini non scelgono e ella quale neanche gli dèi, per quanto partecipi delle vicende umane, possono opporsi.

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Ancora, l’episodio della fuga di Elena con Paride, più volte evocata nell’Iliade, ispirava la riflessione sulla colpa umana, da cui scaturisce la punizione e la vendetta divina, sulla tendenza dell’uomo a compiere scelte talvolta autodistruttive per inseguire ambizioni e desideri che poi si rivelano inconsistenti, sui pericoli insiti nelle lusinghe del piacere sessuale, e sulla necessità di contrapporre ad esse il perseguimento della virtù e della gloria.

Tutte queste tematiche legate al personaggio di Elena, saranno poi ampiamente sviluppate e analizzate nelle successive rielaborazioni delle vicende della guerra troiana, quando fiorirà la magnifica stagione letteraria della Grecia classica: i continui rimaneggiamenti della sua storia avrebbero fatto sì che Elena rimanesse una figura estremamente attuale, particolarmente cara all’immaginario di un pubblico che facilmente riusciva a reinterpretare la sua storia alla luce della propria sensibilità contemporanea.

Non è semplice rendere conto della molteplicità di significati che la figura di Elena arriva a ricoprire, dei dibattiti che sorgono intorno al suo personaggio tra i filosofi e i retori della classicità, e dei molti interrogativi sollevati intorno alla sua vicenda, senza tener presente in primo luogo il personaggio omerico: sarà quindi opportuno, per cercar di capire in che modo esso venisse recepito e inteso nel corso della storia, partire proprio dai versi omerici.

2.1. Elena nell’epos: il personaggio dell’Iliade e dell’Odissea

Elena nell’Iliade

La complessità del carattere di Elena viene dipinta con singolare maestria nel terzo canto dell’Iliade, quando ella fa la sua comparsa per la prima volta nella narrazione, mostrandoci uno squarcio della sua condizione durante gli anni trascorsi a Troia.

All’inizio del canto i capi dei due eserciti nemici arrivavano a stabilire che la fine del conflitto sarebbe stata determinata dall’esito di un duello tra Paride e Menelao, i due eroi la cui rivalità in amore era, in fondo, motivo di tanti combattimenti: Elena sarebbe toccata al vincitore. Iris, la messaggera degli dèi, corre a chiamare Elena perché possa assistere allo scontro che deciderà sulla sua sorte. La troviamo nei suoi appartamenti mentre è intenta a tessere: “Lavorava a una grande tela, doppia e colore di porpora, e vi intesseva le molte

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imprese dei Troiani domatori di cavalli e degli Achei, quanto per lei patirono nelle battaglie di Ares”1.

L’occupazione a cui Elena è impegnata nel momento in cui viene presentata al lettore non può non essere significativa ai fini di un’interpretazione del personaggio.

Sulla tela, grande e color porpora (colore preziosissimo e quindi associato necessariamente alla regalità, ma anche alla morte), venivano rappresentate per l'appunto quelle vicende che sono oggetto della narrazione stessa del poema: quelle relative cioè alla guerra allora in atto. Elena agisce qui quasi come un secondo narratore della propria storia, ma, contrariamente ad Omero, il suo raccontare non si limita a una semplice operazione di riferire: è un vero e proprio ordire l’intreccio degli eventi nel momento stesso in cui si compiono.

Il ruolo di Elena tessitrice sembra quasi evocare quello delle Parche, le tre divinità preposte a regolare, attraverso la tessitura, il destino degli uomini: questo accostamento rivela da subito la volontà da parte di Omero di segnalare un aspetto fondamentale del suo personaggio, rivolgendosi ad un ascoltatore che certo doveva avere familiarità con determinate immagini mitologiche e per il quale l’associare al destino umano l’attività del tessere doveva riuscire immediata. Dunque Elena viene da subito inquadrata come una figura legata al destino, e da subito è associata anche al lutto.

Anche nell’Odissea, quando nel IV canto Telemaco è ospite in casa di Menelao, abbiamo l’occasione di vedere Elena alle prese con le sue occupazioni quotidiane, stavolta però nella sua abitazione spartana, dove ha ripreso il suo posto accanto al primo marito.

La regina si presenta accompagnata dalle sue ancelle che le porgono i doni da lei ricevuti da Alcandre, sposa del sovrano di Tebe in Egitto, quando assieme a Menelao vi era stata ospite durante il viaggio di ritorno da Troia: “Una conocchia d’oro e un cesto d’argento munito di ruote, con i bordi dorati. Glie lo portava l’ancella Filò, ed era pieno di fili da tessere; sopra posava la conocchia avvolta da lana violetta”2.

Anche qui dunque Elena ci viene presenta nel momento in cui si accinge a iniziare il lavoro di tessitura, e stavolta al tessere accompagna il raccontare, dal momento che è

1

Iliade, III, vv. 125-128.

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proprio lei a dare inizio alla narrazione delle gesta compiute da Odisseo durante la guerra: “Quando per me, indegna, per causa mia, gli Achei assediarono Troia”3.

La donna per la quale si scatenò una guerra senza precedenti non nasconde né rifiuta di ammettere ora le proprie responsabilità in merito, anzi si accinge per l'appunto alla narrazione di quelle vicende il cui ricordo ancora è capace di suscitare sugli ascoltatori “il desiderio di pianto”. Elena cioè realizza qui in prima persona la profezia da lei stessa formulata nell’Iliade: “ A noi Zeus diede un triste destino, ma per questo saremo cantati in futuro dagli uomini che verranno”4.

SOLITUDINE E NOSTALGIA NELL’ESILIO

Ritorniamo ora al terzo canto dell’Iliade: avvertita da Iris, Elena è colta da “un desiderio soave del primo marito, della patria, dei genitori: rapida essa si avvolse in veli bianchissimi e uscì dalla stanza piangendo sommessamente”5.

La donna che ci viene presentata da Omero, non è una perversa seduttrice, ma semplicemente un’esule infelice, che, dopo quasi dieci anni di guerra e di lontananza dalla terra di origine e dagli affetti familiari, è dilaniata dalla nostalgia e dal rimpianto. Così infatti di lì a poco risponde a Priamo, che l’invita a mostrargli dall’alto dei bastioni gli eroi dell’esercito acheo: “Suocero mio, io ti rispetto e ti temo. Vorrei aver scelto la morte crudele, quando seguii tuo figlio, e lasciai il letto nuziale, i parenti, la figlia bambina, le amate compagne: non è stato così: ed è per questo che mi consumo nel pianto”6.

In questo passo emergono due aspetti importanti della condizione di Elena a Troia: uno di questi è il rapporto con Priamo, improntato su un affetto sincero e reciproco. L’anziano re si rivolge ad Elena senza alcuna parola di biasimo, chiamandola “figlia” ed invitandola a sedergli accanto, perché possa così mostrargli e rivelargli i nomi dei guerrieri del campo avverso: “Vieni qui, figlia, siedimi accanto, perché tu veda il tuo primo marito, i parenti, gli amici. Tu non hai colpe per me, gli dèi sono colpevoli, essi mi hanno scatenato la dolorosa guerra dei Danai”7.

Dall’atteggiamento quasi consolatorio di Priamo, traspare un sentimento di pietà e di commiserazione verso chi si trova a condividere lo stesso destino di dolore nel vedere i 3 Odissea, IV, vv. 145-146. 4 Iliade, VI, vv. 357-358. 5 Iliade, III, vv. 139-142. 6 Iliade, III, vv. 172-176. 7 Iliade, III, v. 162-165.

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propri cari esposti al rischio della battaglia. Ma la benevolenza di Priamo nei suoi riguardi non è condivisa da Elena, che qui per la prima volta pronuncia un’ammissione delle proprie colpe, dolendosi amaramente per le proprie scelte, e rimpiangendo di non essersi data la morte, piuttosto che abbandonare la patria e gli affetti, e causare così tanti lutti a Troiani e Achei.

Anche nel canto VI, rivolgendosi ad Ettore, adirato contro Paride per la sua condotta poco onorevole e per il suo tenersi lontano dalla battaglia, Elena si lascia andare a una lunga serie di accuse contro se stessa, e intensifica le immagini di una morte più auspicabile del disonore in cui ora si trova confinata, avendo seguito e sposato un uomo privo di onore: “Cognato mio, di me che sono una cagna odiosa, tremenda, come vorrei che il giorno in cui mia madre mi diede alla luce una tempesta di vento mi avesse portato lontano, sulla cima di una montagna o fra le onde del mare sonoro e le onde mi avessero trascinato via prima che tutto questo accadesse. Ma poiché gli dèi ordirono tali sciagure, avrei voluto essere sposa di un uomo migliore, che sapesse cosa sono il biasimo e il disprezzo degli uomini. Ma costui non ha l’animo fermo, non lo avrà mai e penso che ne raccoglierà i frutti”8.

La critica severa di Elena nei confronti di Paride è spia di un mutato sentimento nei confronti dell’uomo un tempo amato: ora, dopo anni di prigionia a Troia, l’amore che l’aveva spinta a seguirlo attraverso il mare sembra aver lasciato spazio al rammarico per non aver saputo scegliere come marito un uomo migliore. Alla bellezza e alle capacità seduttive di Paride si contrappone il modello eroico incarnato da Ettore, e dallo stesso Menelao: l’aspetto del bel principe troiano e le lusinghe di Amore avevano indotto Elena all’errore, ma ora, troppo tardi, ella prende le distanze e condanna il comportamento dello sposo; sono piuttosto il biasimo e il disprezzo della comunità a preoccuparla.

Nel canto XXIV durante i funerali per Ettore, è Elena a pronunciare, dopo Andromaca ed Ecuba, il compianto per l’eroe defunto: nel suo discorso emerge la condizione di una donna sola in un contesto ostile, per cui la morte del cognato è vissuta prima di tutto come una tragedia sul piano personale, di chi vede negarsi ora anche il conforto di una delle poche presenze amiche: “Dei miei cognati tu eri il più caro al mio cuore, o Ettore. Mi ha portato a Troia Alessandro, lo sposo simile a un dio: almeno fossi morta prima! Sono già

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passati vent’anni da quando sono partita e ho lasciato la patria; ma da te non ho udito mai una parola cattiva, un’offesa (…) Per questo ti piango affranta e piango insieme la mia sventura, perché non ho nessun altro nella vasta Troia che mi sia amico: tutti di me hanno orrore”9.

È Paride in fondo, e non Elena, ad essere considerato il responsabile della guerra, mentre l’unica colpa a lei imputata, come donna, è quella di non aver saputo scegliere giustamente, e di aver ceduto alle lusinghe di lui, che viene ad essere il bersaglio principale di quel disprezzo e di quel biasimo che Elena teme per sé. Ettore al contrario rappresenta tutte quelle qualità maschili che Paride non possiede, appunto perché gli manca, è questa l’accusa di Elena nei suoi confronti, quell’animo fermo che in un vero uomo è desiderabile, se non indispensabile, e che invece Ettore possiede: “Così, impassibile è il tuo cuore nel petto; non rinfacciarmi i doni della bionda Afrodite; neppure tu li disprezzi, i doni degli dèi gloriosi, quelli che essi ci offrono: sceglierli non possiamo da soli”10. Così cerca di difendersi Paride dalle critiche del fratello, e, per quanto fatuo il personaggio risulti nel poema, sembra che Omero, nel mettergli in bocca tale discorso, condivida qui il punto di vista del suo personaggio: sono gli dèi ad elargire a ciascun uomo i loro doni, determinando quindi la loro indole e in certa misura anche il loro destino.

Dal momento che è quasi impossibile per l’uomo sottrarsi alla loro volontà, la responsabilità umana in merito alle vicende terrene ne risulta fortemente ridimensionata. Così è anche per Elena, vittima incolpevole della propria bellezza.

BELLEZZA FUNESTA

All’arrivo di Elena presso le porte Scee, gli anziani di Troia, qui radunati per assistere ai combattimenti, non possono fare a meno di commentare: “Non c’è da stupirsi che Troiani ed Achei dalle belle armature così a lungo patiscano per una donna simile; alle dee immortali, terribilmente, somiglia; tuttavia, anche se è così bella, se ne vada via sulle navi, non rimanga più qui per la rovina nostra e dei figli”11.

C’è qualcosa di inquietante nella bellezza di Elena che non sfugge al giudizio degli anziani: essa ricorda troppo le dee immortali, e sembra naturale che eserciti sugli uomini una forza di fascinazione tanto forte da spingerli a sopportare immani fatiche pur di

9 Iliade, XXIV, vv. 762-775. 10

Iliade, III, vv. 63-66.

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possederla. La bellezza è una potenza che scaturisce dal divino, e come tutto ciò che si avvicina troppo alla sfera del sacro ha esito funesto per gli uomini, cui non è concesso accostarvisi troppo. Elena incarna nel suo corpo tale potenza, e, suo malgrado, non può sottrarsi al suo destino: costituisce per gli uomini che le stanno attorno una presenza ambigua, tanto ambita, quanto detestata e temuta.

Ma quella stessa forza che spinge gli uomini verso di lei, costringe lei stessa ad una schiavitù di amore cui le è impossibile negarsi. Afrodite l’ha assegnata come premio a Paride, e questo fa sì che ella rimanga relegata nel ruolo di eterna amante. Giunta in soccorso di Paride durante il duello con Menelao, dopo averlo fatto scomparire dietro una fitta nebbia e trasportato al sicuro nelle stanze del suo palazzo a Troia, la dea si presenta poi ad Elena e la esorta a raggiungere lo sposo nel talamo nuziale: “Vieni; Alessandro ti invita a tornare a casa; egli è nel talamo, sul letto ben lavorato, bello e luminoso nelle sue splendide vesti; non diresti che da un duello ritorni, ma che vada a una festa o, da una festa tornato, riposi”12.

Elena, cui deve essere sembrato inopportuno l'invito da parte della dea in un momento di così alto pathos, si dimostra quasi offesa dal tentativo della dea di usarla come premio di consolazione per l’eroe, ferito nell’orgoglio dalla sconfitta subita: “Certo mi porterai ancora più lontano, in qualche bella città della Frigia o della Meonia dolcissima, se anche lì c’è un uomo a te caro. Poiché oggi Menelao ha sconfitto il glorioso Alessandro e vuole riportare a casa questa moglie odiosa, per questo ora mi vieni vicina a tramare inganni? (…) Io non andrò – sarebbe indegno -, non andrò a preparare il suo letto; parlerebbero male di me tutte le donne di Troia, ed io ho un’immensa pena nel cuore”13.

Alcuni studiosi hanno voluto vedere nel dialogo di Elena con Afrodite l’oggettivazione di una sorta di battaglia interiore che si scatena in lei tra un’indole incline ai piaceri e all’amore, che la fa sentire ancora legata a Paride, nonostante la sua fuga vergognosa, e il codice etico, che vuole siano rispettati i patti stretti prima del duello, secondo i quali la sua mano sarebbe spettata al vincitore. Ma anche questa volta è inutile cercare di contrastare il volere degli dèi, ed Elena sarà costretta ad obbedire ad Afrodite, sotto la minaccia di essere abbandonata dalla sua benevolenza: “Tanto ti posso odiare quanto oggi sopra ogni altra ti

12

Iliade, III, vv. 390-394.

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amo; fra i due popoli, fra i Troiani e gli Achei, susciterò un odio funesto, e tu morirai di mala morte”14.

Per questo Elena, che della sua bellezza fa il suo solo punto di forza in una situazione per lei tanto sfavorevole, non osa opporsi più di tanto alla dea, e finisce per accondiscendere alla sua volontà e a seguire Paride nel talamo. Potrà poi sfogarsi con lui, esasperata dalla propria impotenza di fronte alla forza soverchiante di Amore: “Sei dunque tornato dalla battaglia; vorrei che tu fossi morto là, per mano di un forte guerriero, di colui che fu il mio primo sposo”15.

La dichiarazione di Elena di volersi sottrarre alle reti di un rapporto che la squalifica agli occhi della società, viene vanificata dalla reazione di Paride, che, sorvolando sulla propria inadeguatezza all’universo eroico, fa valere le ragioni superiori del desiderio e chiude la conversazione con un’esortazione all’amore: “Ma ora sdraiamoci e facciamo l’amore; mai fino ad ora il desiderio mi prese il cuore in tal modo, neppure il giorno che ti rapii dalla bella Lacedemone, salpai sulle navi che solcano il mare, e nell’isola di Cranae a te mi congiunsi – così oggi sento di amarti e un dolce desiderio mi prende”16.

Afrodite, che più di ogni altra divinità si manifesta sotto forma di fenomeni che investono la sfera psichica degli uomini, si palesa nell’incontenibile attrazione sessuale che su Elena agisce con la forza di un’imposizione. Poiché ella più di ogni altra donna è cara alla dea, finisce per essere completamente soggetta al giogo di Amore, e al di là di qualsiasi possibile remora morale, svolge fino in fondo il suo ruolo di catalizzatrice dei desideri umani intorno alla propria persona17.

Elena nell’Odissea

La comparsa di Elena nell’Odissea avviene, come già detto, nel IV canto, quando la regina esce dalle sue stanze per presenziare alla visita dei giovani ospiti Telemaco e Pisistrato: “Elena uscì dal talamo alto, odoroso, bella come Artemide dalle frecce d’oro”18. Ancora, nonostante siano passati quasi altri dieci anni dalla fine della guerra, la qualità che da subito si fa notare al suo apparire è una bellezza che la rende simile ad una divinità. 14 Iliade, III, vv. 415-417. 15 Iliade, III, vv. 428-429. 16 Iliade, III, vv. 441-446. 17 Paduano 2007, pp. 3-14. 18 Odissea, IV, vv.

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Il paragone con Artemide, considerato il ruolo virginale svolto dalla dea e la sua associazione con forme di culto adolescenziali, potrebbe sembrare piuttosto inadeguato, visto che qui si parla di una donna che doveva avere oramai per lo meno cinquant’anni.

Ma forse bisognerà tenere conto che in questo contesto è un altro l’aspetto di Elena che si vuole enfatizzare: se nell’Iliade ella veniva presentata come una vittima del proprio destino, impotente tanto nei confronti delle vicende esterne (la sua semi-prigionia nella città assediata) quanto nei confronti delle proprie pulsioni interne (la sua completa soggezione alla forza incontenibile di Eros), ora ci appare quasi come una presenza sacerdotale e intangibile.

Il richiamo ad Artemide saettatrice, evoca una divinità inquietante e ambigua, di cui abbiamo già considerato la vicinanza al culto lunare, poiché, in coppia col fratello Apollo, divinità maschile associata al sole, personifica la parte femminile di quelle forze della natura che maggiormente influiscono sulle vicende umane.

La luna non è soltanto l’astro che rischiara la notte, è anche un’entità profondamente mutevole, che appare potenzialmente duplice e ingannevole, oltre ad avere il potere di incidere positivamente o negativamente sul temperamento degli uomini. È una divinità che si pone al limite con il mondo dell’Aldilà e nei suoi tratti ricorda le potenze infere19. Sono tali aspetti inquietanti che forse possiamo ravvisare in questa regina che, dietro l’apparenza rassicurante della padrona di casa impegnata nell’offrire ai suoi ospiti un gradevole intrattenimento, sembra celare la natura di una maga.

I PERICOLI DELLA SEDUZIONE

Sotto esortazione di Elena, che da subito riconosce Telemaco come figlio di Odisseo, l’ospite rivela a tutti la propria identità, riferendo inoltre che il padre, esule e ramingo, ancora non ha fatto ritorno alla patria Itaca: il pensiero di tutti va al ricordo recente della guerra, e fa nascere tra i commensali una grande malinconia e un desiderio di piangere i propri cari. È a questo punto che Elena interviene (lei sola infatti non si è lasciata andare ai ricordi e alla tristezza): “nel vino che essi bevevano gettò rapida un farmaco che placava furore e dolore, che faceva dimenticare ogni pena. (…) Questi farmaci aveva la figlia di Zeus, efficaci, potenti, che a lei donò la sposa di Tone, Polidamna l’Egizia”20.

19

Bettini, 2002, pp. 171-174.

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Il soggiorno egizio di Elena e Menelao durante il loro viaggio di ritorno a Sparta, aveva permesso, a quanto pare, alla donna di acquisire una profonda conoscenza nell’uso di tali farmaci (“molti ne produce la fertile terra d’Egitto, benefici alcuni, altri mortali. E degli Egizi ciascuno ne è medico esperto più di ogni altro al mondo”)21.

Il personaggio che ci troviamo di fronte non ha più niente dell’adultera dell’Iliade, dilaniata dal rimorso e dal rimpianto del passato: non ha perso niente del suo antico fascino, interviene con disinvoltura nei discorsi degli uomini, conosce l’uso di potenti narcotici e li somministra al suo uditorio per dispensare lenimento alle sofferenze dell’anima, infine prende in mano le redini della conversazione e inizia a narrare ai convitati le gesta compiute da Odisseo durante l’assedio di Troia, quando l’eroe, assunte le sembianze di un mendicante, si era introdotto nella città per cercare di carpire informazioni utili. Nonostante il travestimento dell’eroe, Elena racconta di avere subito riconosciuto Odisseo, di averlo nascosto, e aiutato a fare ritorno incolume all’accampamento greco, “dopo aver ucciso molti Teucri”.

A questo punto la regina ci rivela qualcosa circa il suo stato d’animo nei confronti dei Troiani: “Le donne di Troia lanciarono acuti lamenti, allora, io invece godevo nell’animo perché da tempo il mio cuore era volto a tornare indietro, di nuovo a casa, e rimpiangevo l’errore che Afrodite mi fece commettere, quando dalla mia amata patria mi condusse laggiù, e abbandonai mia figlia, la stanza nuziale e un marito che a nessuno era inferiore per bellezza e per animo”22.

Al rimorso che già ci è familiare per essersi lasciata indurre dalla dea a tradire il marito e a seguire Paride in terra straniera, si aggiunge ora una latente avversità nei confronti dei Troiani, che pure l’avevano accolta nella loro città per molti anni e tra i quali ella godeva in fondo di una posizione di grande prestigio. Il suo atteggiamento nei confronti delle donne che piangono i mariti uccisi, si rivela invece tacitamente ostile, anti-solidale e privo di compassione e pentimento per il male provocato, anzi trionfalmente crudele.

Il quadro del personaggio che risulta dal racconto di Elena, viene complicato da una seconda narrazione, intrapresa subito dopo da Menelao che, sull’esempio della moglie, interviene rievocando un altro episodio che ha anche stavolta come protagonisti Odisseo ed Elena. Si tratta del momento cruciale della guerra: i Greci hanno costruito il cavallo di

21

Odissea, IV, vv. 227-228.

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legno cavo al cui interno si sono nascosti i guerrieri più forti. I Troiani si accingono a trascinarlo all’interno delle mura della città. A questo punto entra in scena Elena, come ricorda Menelao nel suo racconto: “ Tu venisti là: ti aveva spinto un demone, forse, che ai Teucri voleva concedere gloria. (…) Per tre volte facesti il giro della trappola cava, toccandola, e i Danai più forti chiamavi per nome, nella voce imitando la voce di tutte le loro spose”23. Il desiderio degli eroi di rispondere a quei richiami è tanto forte che essi a stento riescono a resistere e a non venire allo scoperto, denunciando al nemico la loro presenza.

Anche in questo caso la condotta di Elena ci appare decisamente ambigua e inspiegabile, soprattutto se confrontata con quella del racconto precedente, quando lei stessa si era detta esultante nell’animo per i guerrieri troiani uccisi a tradimento da Odisseo. Adesso, proprio quando lo stratagemma escogitato dai Greci per entrare nella città le permetterebbe di fare ritorno finalmente alla patria e alla famiglia che dice di rimpiangere, la vediamo assumere un atteggiamento opposto, mettere a rischio la riuscita dell’operazione oltre che le vite degli eroi nascosti nel ventre del cavallo, prendendosi gioco inoltre, con un certo femminile compiacimento, della loro umana debolezza. Lo stesso Menelao non si spiega il motivo di un tale agire se non attribuendone la causa ad un non ben precisato demone (δάιµον), che si era impossessato di lei, per far sì che i Troiani avessero la vittoria.

In realtà il ruolo da lei svolto in questo episodio fa di Elena stessa una sorta di potenza demoniaca: non è chiaro come Elena potesse sapere chi fossero i guerrieri nascosti nel cavallo né come potesse conoscere e imitare le voci di tutte le loro spose, ma ciò che più conta è che in questa circostanza la sua voce possiede un forte potere di fascinazione per gli eroi, che ne rimangono ammaliati.

C’è un altro momento in cui nell’Odissea ci troviamo davanti ad una forza femminile altrettanto seducente e pericolosa: si tratta dell’episodio delle Sirene, che costituisce un parallelo abbastanza evidente, data anche l’importanza dell’aspetto sonoro e vocale della seduzione. Lì il fascino è costituito dal canto, qui da un’incredibile capacità di imitazione, o di suggestione, che permette a Elena tramite la voce, di sostituirsi all’oggetto dell’amore di ciascun eroe, la propria sposa. Anche in questo caso, come di fronte alle Sirene, Odisseo

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è l’unico a non cadere vittima del fascino esercitato dal richiamo femminile, l’eroe dalla mente accorta, che, grazie al proprio intelletto, riesce a sottrarsi alle lusinghe dei sensi. Ed Elena qui ricopre chiaramente il ruolo di attrazione allettante ma fatale, di fronte alla quale anche i guerrieri più valorosi perdono la loro fermezza d’animo, dal momento che contro di essa la forza fisica è inefficacie.

È inutile forse chiederci per quale delle due fazioni in lotta realmente propendesse il cuore di Elena; ella appartiene a due contrapposte realtà: resta sposa di Menelao per dieci anni prima di lasciarlo, ma venti ne trascorre a Troia con Paride. Ma poiché sembra tramare ora contro gli uni ora contro gli altri, non è mai chiaro cosa desiderasse veramente: incarna una forza travolgente e inesorabile che agisce indistintamente generando discordia e rovina: sono gli altri a rivendicarne l’appartenenza dall’una e dall’altra parte, anche se, per tutti, rappresenta il pericolo, la seduzione e l’inganno.

2.2. Sviluppi della letteratura greca intorno al personaggio di Elena

La tragedia

La natura inquietante e demoniaca di Elena sarà messa maggiormente in luce quando il personaggio entrerà a far parte dell’universo scenico della tragedia: il genere tragico utilizza la medesima materia narrativa dell’epos, ma ne demolisce la concezione eroica che ne è alla base, invalidando le certezze di un universo dato come predefinito, e insieme l’idea di una giustizia assoluta che scaturisce da un’autorità superiore, mettendo in crisi i valori tradizionali e dando corpo invece a una riflessione che ha per oggetto le conflittualità che dominano l’esistenza umana.

Poiché la storia di Elena è, in primo luogo, la storia di un conflitto (da cui se ne generano molti altri), è evidente come essa si presti particolarmente bene ad un arrangiamento tragico, offrendo la possibilità di mettere in scena tensioni e dissidi attorno ai quali il dramma si viene a costruire. La contraddizione, che si pone come nucleo centrale del dramma, è insita nella sostanza stessa del personaggio, dispensatrice insieme di infinito piacere e di altrettanto dolore, nell’anelito e nell’ansia di possesso mai soddisfatta suscitata dalla sua persona, nel convergere su di lei di volontà e sentimenti contrapposti, nel suo collocarsi ad un punto di intersezione tra universo umano, determinato dall’agire individuale, e sfera divina, regolata dall’insondabile disegno del Fato.

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Il teatro di Eschilo

AGAMENNONE.ERINNI VENDICATIVA INVIATA DA ZEUS

Il tema della colpa in associazione al personaggio di Elena è affrontato per la prima volta nell’Agamennone di Eschilo: qui, sebbene Elena non sia presente sulla scena e sia estranea di fatto alle vicende rappresentate, il peso della sua influenza su di esse si fa sentire in maniera insistente, fino al punto di aggiudicarle un posto d’onore tra i protagonisti degli eventi.

Con la sua fuga fu infatti lei la responsabile della morte di Ifigenia, la giovane figlia di Agamennone e Clitennestra, sacrificata come dono propiziatorio agli dèi in auspicio della buona riuscita della spedizione contro Troia. L’assassinio della fanciulla diverrà a sua volta il pretesto della vendetta ordita da Clitennestra contro il marito di ritorno dalla guerra, che verrà ucciso dalla regina con la complicità del suo amante Egisto.

La violazione delle convenzioni sociali da parte di Elena e Paride nei confronti della casa di Agamennone genera conseguenze ben più gravi: “Né Paride né la città punita con lui, può vantare che la decisione (di rapire Elena) è più grande del danno patito: condannato per ratto e per furto, perdé la preda e totalmente distrusse la casa paterna con tutta la terra”24.

La causa della distruzione di Ilio viene dunque ricondotta alla colpa del principe troiano: il ruolo di Elena assume i connotati di un’esecutrice della punizione divina, inviata da Zeus perché i colpevoli scontino la loro pena. A ben vedere anche nei confronti di Agamennone il male causato da Elena viene a riscuotere il debito contratto con la giustizia divina: sul re di Argo incombe già un destino luttuoso, poiché sull’intera casa di Atreo grava una colpa risalente a due generazioni prima25.

La vendetta celeste verso chi si macchi di crimini nefasti ricade sui discendenti per diverse generazioni, e non può che generare una nuova serie di delitti, rendendo anche

24

Eschilo, Agamennone, vv. 532-536.

25 Nella tragedia di Eschilo, come più tardi in Euripide, Agamennone viene presentato come il sovrano della

città di Argo, mentre da Omero e da altre fonti ci viene detto che egli regnava su Micene.

La colpa che gravava sulla stirpe di Atreo risale al capostipite Tantalo, che imbandì agli dèi le carni del figlio Pelope per mettere alla prova l’onniscienza divina. Pelope si rese colpevole dell’omicidio dell’auriga Mirtilo, con la cui complicità aveva potuto sposare Ippodamia, sconfiggendo e uccidendo durante una corsa di carri il suocero Enomao. I figli Atreo e Tieste si resero colpevoli di infinite scelleratezze, tra cui l’uccisione del fratellastro Crisippo, per la quale vennero cacciati dal padre. In seguito, Tieste sedusse la moglie di Atreo, il quale fingendo di volersi riconciliare col fratello, lo invitò ad un banchetto durante il quale con l’inganno gli fece mangiare le carni dei suoi stessi figli.

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vana, dato il carattere ereditario che è dato alla colpa, l’illusione degli uomini di autodeterminare la propria esistenza, o di ingraziarsi con sacrifici gli dèi:

“ E dall’alto un dio, (…) invia contro i trasgressori Erinni tarda punitrice.

Così il possente Zeus ospitale

Contro Alessandro invia i figli di Atreo, a causa di una donna dai molti uomini”26.

Assieme ad Elena, Paride condusse a Troia il retaggio della propria colpa, determinando così irrevocabilmente un futuro di distruzione per la città, come apprendiamo già dal coro del primo stasimo, dove vengono rievocate le nozze illecite di Elena e Paride. La luce sinistra di quelle nozze, che si sarebbero rivelate funeste per i Troiani, è sottolineata dall’accostamento dell’immagine nuziale con quelle di morte e devastazione:

“Ed ella, lasciando ai cittadini fragore di lance e armamenti navali; e invece che dote

distruzione a Ilio portando,

lieve uscì dalle porte, osato l’inosabile”27.

Nel frattempo Menelao, abbandonato dalla moglie e rimasto solo nella reggia, è ossessionato dall’immagine di lei, che nell’assenza e nella solitudine, si materializza in apparizioni di diversa natura:

“E nel desiderio di colei che è di là dal mare, un fantasma sembrerà regnare sulla reggia.

Ma delle statue belle la grazia ha in odio lo sposo: e dal vuoto degli occhi ogni incanto d’amore è svanito. Tristi visioni che appaiono in sogno

vengono con vano conforto”28.

La forza del desiderio esercitato dall’immagine Elena non svanisce con la sua lontananza, e tormenta, anzi, la mente dello sposo ingannato, riproponendosi in

26 Eschilo, Agamennone, vv. 55-71. 27

Eschilo, Agamennone, vv. 402-408.

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continuazione alla sua coscienza, nella veglia e durante il sonno, sotto forma di allucinazioni e immagini oniriche, proiettandosi addirittura sulle statue che adornano il palazzo, che, nella grazia delle loro forme, gli evocano l’aspetto della sposa assente.

Alla desolazione e alla solitudine del marito abbandonato, si contrappone dall’altro lato l’arrivo di Elena a Troia: la sua venuta viene salutata inizialmente con esultanza, e la sua vista suscita in tutti sentimenti benevoli e pensieri graditi, ma in seguito si rivelerà dannosa al pari di un leone che, allevato fin da piccolo in una casa, una volta adulto dimostra la sua natura sanguinaria verso chi l’aveva nutrito e cresciuto:

“ Dapprima, direi, giunse alla città di Ilio come un senso di bonaccia senza vento,

soave ornamento di ricchezza, molle dardo degli occhi, fior d’amore che il cuore morde.

Poi, deviando portò a termine amaro esito di nozze, trista ospite, trista compagna avventandosi ai Priamidi, inviata da Zeus ospitale, Erinni sposata col pianto”29.

L’accostamento compiuto qui tra Elena e le Erinni ne sottolinea la natura di creatura fatale, il cui compito è quello di condurre gli uomini all’annientamento reciproco, come sembra essere prefigurato nel suo stesso nome:

“Chi mai una volta del tutto veracemente (…) diede nome a Elena, sposata a suscitare guerra e da entrambe le parti contesa? È veramente rovina di navi, rovina di eroi, rovina di città”30.

Il gioco di parole è realizzato dall’assonanza del nome Ελένα (Elena) con la forma ειλον (eilon) del verbo αιρεω, cioè distruggere, un etimo sicuramente errato, basato sulla credenza che il nome, scelto alla nascita, fosse responsabile dell’indole di ogni individuo, quasi una sigla che ne preannunciasse il destino.

Ancora nel coro del secondo stasimo, la parentela che scaturisce da quelle nozze, viene associata etimologicamente al lutto: il termine usato per designare la parentela acquisita, κηδος, significa infatti in Greco anche “lutto”:

“E ad Ilio l’ira efficace addusse luttuosa parentela – nome esatto -,

29

Eschilo, Agamennone, vv. 736-748.

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(…) a Zeus protettore del focolare vendicando

su coloro che il canto nuziale a voce spiegata celebravano (…) ma poi disimparato quell’inno, la città antica di Priamo geme un gran canto di duolo, imprecando a Paride

per le infeste rovinose nozze”31.

L’intero passo è giocato su una serie di contrapposizioni di termini, che richiamano immagini di gioia con altri che indicano dolore e lutto: la dote portata da Elena a Troia è la distruzione, il canto nuziale intonato dai cittadini diventerà presto una lamentazione funebre, l’accrescimento della famiglia prodotto dall’unione matrimoniale, porterà alla decimazione non solamente della casa di Priamo, ma dell’intera cittadinanza.

La figura di Elena, tramutata in un’entità vindice e spietata, non poteva apparire in una luce meno sinistra, eppure nella visione eschilea, il suo agire e il suo stesso esistere sono giustificati dalla volontà divina, che si esprime attraverso le azioni dei mortali, infatti:

“che cosa per i mortali si compie senza Zeus? Quale di questi eventi non è opera di un dio?”32.

Il teatro di Euripide

La condanna espressa da Eschilo nei confronti di Elena sarà condivisa anche dalla successiva produzione teatrale di Euripide, che ritorna in diverse occasioni sul personaggio, analizzandone le responsabilità su un piano prettamente umano, e arrivando a formularne una condanna morale su tutti i fronti: Elena viene presentata come l’emblema della donna spregiudicata, cinica e senza scrupoli, opportunista e dai facili costumi, insomma di tutto ciò che, nella società ateniese del quinto secolo, una donna non doveva essere. Non sono pochi all’interno del macrotesto euripideo le occasioni che egli offre ai suoi personaggi, molto spesso coinvolti in prima persona negli effetti disastrosi della guerra e negli strascichi che essa si portò dietro, per lanciarsi in aspre critiche e invettive contro di lei. Elena infatti è l’unica reduce di quel conflitto ad esserne uscita incolume: non solo non ha dovuto pagare il fio del suo poco assennato comportamento, ma gode, dopo la sua riconciliazione con Menelao, della condizione dei vincitori.

31

Eschilo, Agamennone, vv. 699-712.

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I riferimenti alla regina di Sparta punteggiano l’intera produzione euripidea, ma sono solamente tre le tragedie in cui ella diventa attrice della scena: le Troiane, l’Oreste, e l’Elena. Attraverso queste tre opere l’autore traccia un percorso che conduce dalla deprecazione del personaggio alla totale negazione delle sue colpe, sostituendo alle ragioni dell’odio verso la donna, una condanna a priori della guerra, combattuta sempre per futili motivi.

TROIANE.“PER COLPA D’UNA SOLA DONNA”

La tragedia Le Troiane è forse quella che più di tutte si sofferma sull’analisi delle colpe della regina, mettendo in scena un vero e proprio processo a suo carico, che vede contrapporre le argomentazioni di Ecuba a quelle di Elena stessa, che pronuncerà in questa circostanza un’arringa auto-difensiva articolata sulla confutazione dei principali capi d’accusa a lei imputati da una tradizione ormai universalmente affermata.

Le donne troiane cui è intitolata la tragedia sono le mogli dei vinti, vedove e ridotte in schiavitù dopo aver visto cadere in mano al nemico la propria città e uccisi i propri uomini. La somma della loro sciagura si contrappone al destino fortunato di un’unica donna, che è oltretutto la causa di quella rovina: questa contrapposizione costituisce il motivo conduttore di tutta la tragedia, che innalza Elena a reale protagonista, se pure in negativo, della scena.

“Per inseguire di Menelao l’odiosa sposa, onta per Castore E disonore all’Eurota,

lei che immola il seminatore di cinquanta figli, Priamo, e me, l’infelice Ecuba,

a questa sciagura ha fatto approdare”33.

Questo primo riferimento ad Elena durante la lamentazione di Ecuba che segue immediatamente il prologo, mette in rilievo da subito il nesso tra la colpa, l’infedeltà della donna, e il male da essa provocato, che si ripercuote, in un crescendo ben congegnato di immagini rovinose, su Priamo, sui Troiani e sulle loro spose, sull’intera discendenza di Troia ridotta in schiavitù, e per finire sulla città stessa, incendiata e rasa al suolo.

33 Euripide, Troiane, vv. 131-136.

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Il sacrificio di un’intera città è mostrato pertanto come l’espiazione per la vergognosa condotta “di una sola donna”, constatazione amara, che viene ossessivamente ribadita nel corso della tragedia, quasi a voler sottolineare l’incongruità dei disegni divini, fino a mettere del tutto in discussione l’idea che negli eventi umani, anche nel male, trovi realizzazione il piano di una giustizia voluta dagli dèi:

“Ahi povera me, per le nozze di una sola donna quali cose mi sono toccate e quali ancora mi toccheranno”34.

E ancora: “Infelice Troia, innumerevoli vite hai perduto per colpa di una sola donna e di un odioso letto”35.

Anche Cassandra nel primo episodio, pronuncia un’aspra condanna della follia di una guerra portata avanti nel nome di una donna: “Questi, per colpa di una sola donna e di una sola Cipride, volendo prendere Elena, fecero perire innumerevoli uomini. E il comandante, lui, il più saggio, per ciò che c’è di più odioso, fece perire le cose più care, sacrificando al fratello la prole, gioia della sua casa per una donna per giunta consenziente e non a forza rapita”36.

Il suo consenso al rapimento è solo un’aggravante a carico dei comandanti achei, che non seppero rinunciare alle loro mire neanche di fronte all’evidenza dello scarso beneficio che poteva comportare il possesso di una donna di tal fatta.

Il tema delle nozze luttuose di Elena, viene utilizzato da Cassandra, che sta per essere condotta sulla nave di Agamennone come schiava, per creare un parallelo con la propria situazione attuale: mentre Elena era consenziente alla fuga con Paride, lei è costretta a seguire Menelao; Elena non era ancora consapevole all’epoca che avrebbe causato con la sua infedeltà la rovina della Troade, mentre Cassandra conosce, grazie alle proprie doti profetiche, il destino che l’attende in Grecia, eppure, nel vaticinare la propria morte, gioisce, poiché la propria unione con Agamennone, che ora la conduce in Grecia come sua concubina, farà da corrispettivo alle nozze di Elena e Paride, permettendole in certa misura di regolare i conti tra Greci e Troiani: “Con nozze più amare di quelle di Elena sposerà me

34Euripide, Troiane, vv. 498-499. 35

Euripide, Troiane, vv. 580-581.

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l’illustre sovrano degli Achei, Agamennone. Lo ucciderò infatti, e devasterò a mia volta la sua casa, vendicando i fratelli e il padre mio”37.

Le nozze con Cassandra dunque saranno funeste per la stirpe di Agamennone, quanto quelle di Elena lo furono per Troia, ma, a ben vedere, Elena fu per i Greci un flagello ben più grave che per i Troiani: essi infatti furono costretti a combattere e a morire in terra straniera, lontano dai propri cari, per una donna che non apparteneva loro, furono sepolti fuori della patria lasciando privi di un forte sostegno, e persino di una tomba su cui piangere, le mogli, i figli e gli anziani genitori.

Se Cassandra figura, in antitesi con Elena, come la vergine coraggiosa, lungimirante, lieta di immolarsi per vendicare la propria patria, Andromaca rappresenta un differente esempio di virtù femminile, quello della moglie devota, fedele allo sposo anche nella morte: “Aborro colei che, abbandonando il precedente marito per un nuovo letto, ama un altro”38.

La facilità nel passare da un letto a un altro non può non ricordarci Elena, che si offre come termine di paragone all’immagine di una vedova ancora innamorata del proprio sposo e che è costretta invece a concedere il proprio corpo al nemico cui ora appartiene come schiava.

L’allusione all’infedeltà di Elena, serve a sottolineare la personalità di Andromaca, che le si oppone come massimo esempio di fedeltà coniugale, e che tornerà a inveire contro di lei con maggior violenza invettiva dopo che l’araldo avrà comunicato la decisione dei capi achei di condannare a morte il piccolo Astianatte, precipitandolo dall’alto della torre di Ilio: “O germoglio di Tindaro, tu non sei figlia di Zeus, ma da molti padri io dico che tu sei nata: primo il Dèmone vendicatore, poi l’Astio, quindi l’Assassinio e il Lutto e quanti altri orrori nutre la terra. Infatti mai potrò credere che Zeus abbia generato te, rovina di tanti, Barbari e Greci. Maledetta. Dai tuoi bellissimi occhi turpemente hai distrutto le insigni frigie pianure”39.

Ora la donna dai molti mariti, diviene anche la donna dai molti padri: il dubbio insinuato sulla paternità divina di Elena, corrisponde alle remore poste al credere ad un dio complice del sacrificio di un innocente.

37 Euripide, Troiane, vv. 357-364. 38

Euripide, Troiane, vv. 667-668.

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Ancora una volta le responsabilità dei mali presenti vengono addossate completamente alla Spartana, che dovrà risponderne presto, giacché è ormai imminente il momento dello scontro dialettico con Ecuba.

L’anziana regina dapprima si rivolge Menelao, esortandolo a fare giustizia sulla sua sposa, senza farsi impietosire dalla vista di lei: “Che ella non ti prenda col desiderio. Cattura infatti gli sguardi degli uomini, distrugge le città, incendia le case. Tali incantesimi ella possiede”40.

Alla capacità di Elena di irretire con lo sguardo, Ecuba contrappone la propria convinzione di essere in grado di persuadere con validi argomenti Menelao a portare a termine la giusta punizione nei confronti della moglie.

Nella sua arringa difensiva, Elena rifiuta per sé qualsiasi responsabilità nella guerra e nella distruzione di Troia. Unici imputabili per lei sono Ecuba e Paride, l’una perché, consapevole del presagio funesto associato fin dalla nascita al figlio, si era rifiutata di ucciderlo; l’altro perché, con la sua scelta in favore di Afrodite, risparmiò da un lato la Grecia dalla distruzione (giacché la vittoria e la regalità sull’Europa gli erano state promesse da Atena ed Era), dall’altro condannò la propria patria alla rovina ed Elena al biasimo degli uomini: “La fortuna che ha ottenuto la Grecia fu per me la rovina, giacché fui venduta per la mia bellezza, e ora sono biasimata per quelle cose per le quali dovrei ricevere una corona sul capo”41.

Ella ha così buon gioco nel ribaltare i termini dell’accusa, presentandosi non più come colpevole, bensì come vittima di un’ingiustizia storica; la responsabile del suo errore fu Afrodite, complice di Paride nel rapimento, che le annebbiò la mente impedendole di opporsi: “Punisci la dea e diventa più forte di Zeus, che ha il potere su tutte le altre divinità, ma di quella è schiavo”42.

Elena non è da condannare, bensì da compiangere perché in cambio di bellezza ha ottenuto schiavitù: “Come dunque potrei secondo giustizia essere uccisa, o sposo mio, (…) se quello mi ha presa come sposa con la violenza e le mie doti personali invece della palma di vittoria hanno ottenuto servitù?”43.

40 Euripide, Troiane, vv. 891-893. 41 Euripide, Troiane, vv. 935-937. 42 Euripide, Troiane, vv.948-950. 43 Euripide, Troiane, vv. 962-965.

(21)

L’intervento di Ecuba è mirato soprattutto a sottolineare le responsabilità individuali della sua avversaria, smontando le tesi di un intervento divino che avrebbe condizionato e giustificato l’erroneità delle sue scelte: “Tutte le follie infatti, sono per i mortali Afrodite e il nome della dea comincia correttamente come Afrosyne, stoltezza. E tu, vedendolo nelle vesti barbare e raggiante d’oro, perdesti la testa”44.

Le viene poi rimproverato l’opportunismo dimostrato nel parteggiare di volta in volta per chi sembrava avere la meglio in battaglia: “Se venivano annunciati i successi di Menelao tu lodavi costui, perché mio figlio si dolesse di avere un grande rivale in amore. Se invece avevano buona sorte i troiani, niente era per te costui. Tenendo d’occhio il successo, così ti comportavi in modo da accompagnarti ad esso”45.

Non è stato tanto l’amore ad aver diretto le scelte di Elena, quanto il desiderio di perseguire ricchezze e successo, l’amore smodato per il lusso e la vanità. Questi aspetti del personaggio, vengono ribaditi dal coro nel conclusivo scambio di battute con Ecuba, che accompagnano la partenza della sposa di Menelao con le navi greche, cariche di ricchezze e prigioniere troiane:

“Oh se, mentre la nave di Menelao Nel mezzo del mare procede (…) Si abbattesse tra i remi

Il fuoco di folgore divina nell’Egeo., (…) E intanto gli aurei specchi,

gioia per le vergini, tiene la figlia di Zeus”46.

La sconfitta finale delle ragioni dei vinti, viene sancita dal fatto che Elena non riceverà castigo per la sua colpa. Nella totale desolazione con cui si chiude la tragedia, ella impersona la vanità della guerra, concetto che Euripide non si stanca di ribadire, arrivando a negarle anche l’ultimo motivo di celebrazione, secondo l’enunciato omerico che ne fa il mezzo necessario al raggiungimento della fama e della gloria future: Troia non esiste più, e il suo nome è destinato a scomparire con essa.

44 Euripide, Troiane, vv. 989-992. 45

Euripide, Troiane, vv. 1004-1009.

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ORESTE.VENDETTA UMANA E PIANI DIVINI

Anche nell’Oreste, Elena figura quale oggetto di biasimo e di odio generale: giudicata negativamente dai nipoti che, al suo arrivo ad Argo, progettano addirittura di ucciderla per vendicare i lutti subiti della casa di Agamennone, e dalla Grecia tutta, a causa sua.

Il destino fortunato di Elena, che ora, rientrata in patria, può godere della presenza confortante della figlia Ermione, non sfugge all’attenzione di Elettra che, in apertura della tragedia, confronta l’immeritata felicità della donna con la propria infelice condizione e con quella del fratello Oreste, macchiatosi dell’assassinio della madre e ridotto alla follia dalle Erinni.

Sebbene la condanna e il disprezzo nei suoi confronti siano ancora vivi, in questa tragedia il personaggio di Elena manca di quei connotati sgradevoli che la distinguevano nelle Troiane: il dialogo che la oppone da subito alla protagonista positiva della scena, Elettra, ne mette in evidenza, è vero, la personalità vanesia e superficiale, eppure troviamo qui un personaggio umanamente più coinvolto nel dolore altrui, i cui tratti odiosi appaiono mitigati rispetto all’arroganza della tragedia precedente.

La sua comparsa in apertura ci mostra una donna poco incline allo scontro dialettico, che accetta con moderazione i rimproveri della nipote, e che si dichiara piena di vergogna nei confronti degli Argivi, davanti ai quali esita a mostrarsi, intimorita dall’eventualità di una loro ritorsione. Il suo arrivo ad Argo di notte, per evitare di imbattersi nell’ira della popolazione, le sue remore ad abbondare la casa per recarsi alla tomba della sorella, e l’attenzione alla propria bellezza anche in frangenti così drammatici, non possono che suscitare lo sdegno di Elettra, di fronte alla quale il comportamento di Elena risalta per la sua scarsa capacità di azione, la sua irresolutezza e la sua frivolezza:

“È tardi per esser assennata: allora abbandonasti la tua casa in modo vergognoso”47. “Avete visto come ha tagliato i capelli vicino alla punta per non sciupare la sua bellezza? È sempre la donna di un tempo”48.

La condanna nei confronti di Elena è dunque inesorabile, e coinvolge gli stessi membri della sua famiglia, non solo i figli di Agamennone, ma anche il padre di lei Tindaro.

47

Euripide, Oreste, v. 99.

(23)

Oreste (riferendosi a Menelao): “Se si fosse salvato solo lui, sarebbe più invidiabile: se ha con sé la moglie, è tornato portandosi un gran malanno”.

Elettra: “Davvero famosa per l’ignominia è la stirpe di figlie che Tindaro ha generato, ed ha cattiva reputazione in tutta l’Ellade”49.

Tindaro (rivolto a Menelao): “Odio le donne empie, e per prima mia figlia, che ha ammazzato il marito. E anche Elena, tua moglie, non l’approverò di certo né le rivolgerei la parola: e neppure invidio te, che sei andato alla piana di Troia per una svergognata”50.

Il disprezzo verso Elena finisce ancora una volta per includere anche Menelao, che viene presentato come un codardo, dal momento che non ha il coraggio di assumere le difese del nipote di fronte all’assemblea cittadina, lui che pretese l’aiuto dell’intera Grecia per riprendersi la moglie:

Oreste: “Tu, uomo da nulla, salvo che per muovere guerra a causa di una donna”51. Pilade: “C’è da aspettarsi che il marito di una donna da poco sia un uomo da poco”52. La mancanza del sostegno di Menelao alla loro causa, porta Oreste ed Elettra, condannati a morte per matricidio dall’assemblea cittadina, a ordire una vendetta contro di lui, che si compirà attraverso l’uccisione di Elena, intesa come opera di giustizia collettiva.

Il comportamento tenuto dalla donna nella casa del cognato si è alla fine rivelato opportunista e invadente; ella ha già preso possesso della reggia, ancora prima della morte dei nipoti, e appone i propri sigilli sugli oggetti preziosi e sulle ricchezze un tempo appartenuti ad Agamennone, comportandosi ormai da padrona, attorniata da servitori frigi che sovrintendono alla cura della sua persona, e ostentando il suo amore smodato per un lusso che mal si accorda con l’austera tradizione morale greca:

Pilade: “Insomma, è venuta qui portando con sé il lusso Troiano?” Oreste: “Tanto che per lei l’Ellade è una dimora troppo piccola”53.

L’uccisione di una tale donna non può essere vista come un male, e non può recare disonore: in mancanza di una giustizia divina, che si dimostra assente, i cospiratori portano avanti una propria giustizia umana, per la cui attuazione si aspettano la gratitudine della Grecia intera: 49 Euripide, Oreste, vv. 247-250. 50 Euripide, Oreste, vv. 518-522. 51 Euripide, Oreste, vv. 718-719. 52 Euripide, Oreste, v. 737. 53 Euripide, Oreste, vv. 1113-1114.

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“Dopo averla ammazzata non sarai più chiamato il matricida, lascerai questo nome per cambiare in meglio, perché sarai conosciuto come l’uccisore di Elena, l’assassina di molti”54.

Il piano tuttavia è destinato a fallire: il cadavere di Elena infatti scompare , sottratto per intervento di Apollo che porterà a giusto compimento la vicenda.

Euripide accoglie la versione del mito data dai Canti Cipri, secondo cui Zeus causò la guerra di Troia per porre fine alla stirpe degli eroi ed alleviare la terra dal loro peso; i disegni divini appaiono imperscrutabili per gli uomini, così come insondabile appare la scelta del dio di azzerare ogni responsabilità di Elena, e di assegnarle addirittura un posto in cielo, rivelando il divario tra la reale natura di lei, e la percezione che ne avevano avuto i personaggi: “Poiché è figlia di Zeus ella deve vivere immortale, e nelle profondità dell’etere siederà accanto a Castore e Polluce, come protettrice dei marinai. (…) perché la sua bellezza fu il mezzo col quale gli dèi fecero scontrare i Frigi e gli Elleni (…). Così stanno le cose riguardo a Elena”55.

ELENA.IL MOTIVO DEL DOPPIO

Arrivando a rovesciare completamente le premesse da cui era partito con le Troiane, Euripide intitola ad Elena un dramma impostato sulla totale negazione della colpevolezza dell’eroina, presentata qui come una sposa fedele e infelice, lacerata dal dissidio interiore tra un comportamento impeccabile, e una fama ignominiosa.

All’origine della trama c’è una lunga tradizione (che sembra possa risalire addirittura ad Esiodo), secondo cui, stravolgendo il mito che fa di lei il paradigma della seduzione e dell’adulterio, il problema annoso della colpa di Elena viene risolto negando alla radice ogni sua implicazione nella guerra: la vera Elena non è mai arrivata a Troia; al suo posto vi è arrivato un fantasma, un’immagine (έιδολον) animata, del tutto indistinguibile dall’originale, creata da Era per vanificare i piani di Afrodite e vendicarsi della preferenza espressa da Paride per la sua rivale. Il fantasma inganna tutti, compresi Paride e Menelao, che per anni si battono per il possesso di un’immagine incorporea.

La tragedia di Euripide è ambientata in Egitto, dove Menelao approda dopo essere sopravvissuto con pochi compagni ad un naufragio durante il viaggio di ritorno dalla

54

Euripide, Oreste, vv. 1140-1143.

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spedizione contro Troia, da cui egli è convinto di condurre indietro la sposa riconquistata. La vera Elena, invece, è stata trasportata da Ermes in Egitto, alla corte del re Proteo, dove ha trascorso i dieci anni della guerra, ed è ora insidiata dalle insistenti proposte matrimoniali del figlio del defunto re, Teoclimeno, cui ella disperatamente si oppone, aspettando in cuor suo il momento in cui il marito giungerà a portarla via, quasi una seconda Penelope in attesa dello sposo.

La tragedia di Euripide si nutre di un ricco materiale preesistente, ma lo rielabora in maniera da poter caratterizzare la psicologia del proprio personaggio attorno al motivo della scissione dell’io. Il fantasma incorporeo creato dagli dèi è un’entità distinta dalla vera Elena, eppure è percepito dalla protagonista come parte di sé, ed ella vive interiormente la vergogna legata alla propria fama, e il senso di colpa per la guerra scatenata in suo nome, con la lunga serie di morti da essa causate: “L’oggetto della difesa dei Troiani, il trofeo per cui combattevano i Greci, non ero io, era solo il mio nome”56.

Con la variante del mito adottata da Euripide, la riflessione filosofica finisce per sfociare nella condanna ideologica di una guerra combattuta per un oggetto che poi si rivela inesistente, così come vacuo e inconsistente appare il desiderio amoroso suscitato in Paride da un’immagine destinata a svanire nel nulla. La cifra della tragicità è da leggersi dunque nella fugacità e nell’inconsistenza degli ideali e degli obbiettivi perseguiti dagli uomini, nell’inattendibilità delle percezioni e del giudizio umano e, alla fine di tutto, nella vanità totale del vivere e del morire: “Infelice città di Troia, sei crollata per un’azione che non era un’azione, hai tanto sofferto senza un motivo. Il dono della mia persona fatta da Cipride generò molto sangue e molto pianto”57.

Il senso di dissociazione che interessa il personaggio è dovuto al fatto che la sua immagine, e la fama che ad essa è legata, si è resa indipendente dalla sua proprietaria, macchiandosi di errori che ella non ha commesso, e di cui ora ingiustamente paga il fio in termini di reputazione e disprezzo: “Io che ho sofferto tutto ciò sono oggetto di maledizioni: tutti credono che abbia tradito mio marito e che abbia causato ai Greci una guerra infinita”58. 56 Euripide, Elena, vv. 42-43. 57 Euripide, Elena, vv. 363-365. 58 Euripide, Elena, vv. 53-55.

(26)

“Mia madre è morta: sono stata io a ucciderla; una morte di cui non ho colpa, eppure la colpa ricade su di me”59.

“Non c’è nessuno al mondo che non odia Elena: in tutta la Grecia sono famosa come la donna che ha abbandonato il marito per andare a vivere nei palazzi sfarzosi dei Frigi”60.

Solo quando il fantasma di Elena si dileguerà, rivelando ai compagni di Menelao la propria natura inconsistente, essi riconosceranno finalmente l’inganno di cui erano stati oggetto i loro sensi e le loro menti: “Poveri Troiani, poveri Greci tutti: per colpa mia siete morti sulle rive dello Scamandro grazie agli intrighi di Era, credendo che Paride avesse tra le sue mani un’Elena che non aveva. (…) La sfortunata figlia di Tindaro a torto è coperta di infamia senza aver commesso alcuna colpa”61.

Nell’Elena, insomma, vengono rivedute e fatte cadere tutte le accuse che nelle tragedie precedenti le venivano imputate, fino ad arrivare al punto di presentarla come una vittima innocente della calunnia e dell’odio, capro espiatorio designato dagli dèi a prendere su di sé le responsabilità del dissennato comportamento degli uomini, che agiscono in balìa delle loro passioni e delle loro brame; vittima incolpevole infine della propria bellezza e del desiderio suscitato negli altri dal suo corpo: “Un prodigio sono certo la mia vita e la mia storia, in parte voluto da Era, in parte frutto della mia bellezza. Oh se potessi cancellare il mio splendido aspetto, come si toglie il colore da una statua, e assumerne uno brutto!”62.

“Per altre donne la bellezza è una fortuna, per me è stata la rovina”63.

Negando la responsabilità di Elena nel determinare la guerra, Euripide vuole porre l’accento sull’irragionevolezza umana e sulla tendenza dell’uomo a lasciarsi sedurre da chimere, a cercare attenuanti nel sostenere le proprie scelte sbagliate, anche quando esse comportino conseguenze estremamente gravi, colpevolizzando di conseguenza chi quella guerra, inadeguata alle ragioni che la provocarono, volle portarla avanti.

La tradizione dell’eidolon

Il motivo dell’eidolon, ossia di un’immagine fittizia, che permette ad Elena di essere esonerata dalle colpe a lei tradizionalmente attribuite, non è, come si è accennato,

59 Euripide, Elena, vv. 280-281. Secondo quanto le ha riferito Teucro, sia Leda che i Dioscuri si sarebbero

suicidati in seguito alla vergogna provocata dalla condotta di Elena.

60 Euripide, Elena, vv. 926-928. 61 Euripide, Elena, vv. 608-615. 62

Euripide, Elena, vv. 260-264.

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invenzione di Euripide, ma appartiene ad una variante alternativa del mito di cui ci sono rimaste diverse testimonianze.

Pare sia stato Stesicoro il primo a riportare questa versione, anche se sembra poco probabile che egli l’abbia introdotta senza basarsi su una tradizione preesistente, anche non scritta. Si diceva che il poeta avesse scritto un primo componimento ispirato ad Elena basandosi sulla versione omerica dei fatti, opera che doveva essere risultata poco lusinghiera nei confronti della figlia di Zeus, tanto da suscitarne l’ira. Sentendosi offesa dal poeta, la divina Elena lo rese cieco, ed egli, per riacquistare la vista, fu costretto a rivedere l’intera trattazione, scrivendo un secondo poema che prese il nome di Palinodia.

La leggenda relativa alle vicende biografiche di Stesicoro ci viene riferita da Isocrate nel suo Encomio: “Elena dimostrò la sua potenza anche al poeta Stesicoro. Quando al principio del suo poema, questi pronunciò parole irriverenti nei suoi riguardi, si levò privo della vista; ma dopo che, capita la causa della sua disgrazia, ebbe composta la così detta Palinodia, ella lo restituì allo stato originario”64.

Anche Platone, nel Fedro, riporta la notizia, citando inoltre alcuni versi dell’opera stesicorea: “Per coloro che commettono delle colpe ai danni del mito, vi è un antico rito purificatorio, di cui Omero non fu a conoscenza, ma Stesicoro sì. Questi infatti, privato della vista per aver calunniato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante delle Muse qual era, capì subito e compose questi versi:

Questo discorso non è veritiero Non partisti sulle navi dai bei ponti Non arrivasti alla troiana Pergamo.

E dopo aver composto l’intero carme chiamato Palinodia, gli tornò istantaneamente la vista”65.

Quindi, secondo Platone, neanche Omero sarebbe stato all’oscuro della tradizione alternativa riguardante Elena, ma solamente del metodo attraverso il quale poter scongiurare la punizione meritata. Anche Erodoto sostiene che Omero sapesse la verità sul conto di Elena, che durante la guerra non si trovava a Troia ma in Egitto, ma che l’avesse deliberatamente taciuta, poiché questa versione non si adattava bene al genere della poesia epica.

64

Isocrate, Encomio di Elena, .

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Diversamente dalla versione proposta da Erodoto, però, Platone, nel riportare i versi del presunto poema di Stesicoro, non nega solo l’arrivo di Elena a Troia, ma respinge del tutto l’ipotesi di una sua partenza da Sparta, e così sembra convalidare la variante del mito ripresa da Euripide: abbiamo quindi un’Elena adultera, che parte con Paride, ma che non arriva a Troia, perché trattenuta in Egitto da Proteo, e un’Elena innocente, che per intervento divino e all’insaputa di tutti, viene prelevata dalla propria casa prima che il principe troiano possa rapirla, col risultato che questi porterà via con sé un fantasma.

Quale fosse la versione seguita da Stesicoro è difficile dire, ma a questo proposito possiamo valerci di una testimonianza riportata da un papiro dell’aristotelico Cameleonte, vissuto tra il IV e il III secolo a. C. e autore di un’opera sulla vita di Stesicoro, in cui si parla di due successive ristesure del poema su Elena. Secondo questo papiro, il poeta avrebbe riscritto la propria opera una prima volta per confutare la versione di Omero riguardo all’infedeltà della regina di Sparta, e una seconda volta per confutare quella di Esiodo. Se così fosse, è possibile che nella prima opera Stesicoro avesse presentato un’Elena adultera, come quella dell’Iliade, e avesse poi corretto il tiro seguendo una a noi sconosciuta versione esiodea dei fatti, riservandosi poi per l’ ultima redazione dell’opera la completa riabilitazione dell’eroina. A conferma di tale tesi, il papiro riporta la citazione dei versi iniziali delle due successive redazioni del poema: “Critica Omero perché fece giungere Elena a Troia e non la sua immagine, nell’altra critica Esiodo; due sono infatti le palinodie tra loro differenti e di una è questo l’inizio: Qui nuovamente o dea della danza e del canto; dell’altra: Ragazza dalle ali d’oro”.

Il riferimento ad Esiodo lascerebbe intendere che la trattazione scritta dell’esistenza di un doppio di Elena fosse precedente già al poema di Stesicoro, e d’altra parte un’altra testimonianza proveniente da un ignoto grammatico bizantino ci dice che il primo a parlarne sia stato proprio Esiodo, al quale è probabile che Stesicoro si fosse ispirato.

Anche se nel Catalogo delle donne Esiodo cita Elena, assieme alle altre figlie di Tindaro, come traditrice del proprio marito, aderendo apparentemente alla versione omerica del mito, non ci rimangono elementi sufficienti a stabilire che egli non possa realmente aver introdotto per primo nella sua narrazione il tema del doppio, negando così l’effettiva presenza di lei a Troia: in tal caso, l’intervento di questa seconda Elena, non comporterebbe affatto l’innocenza di quella vera, colpevole comunque di adulterio e di abbandono del tetto coniugale, a prescindere poi dal suo effettivo arrivo nella città.

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