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La vittoria ha molti padri, la sconfitta è orfana. La battaglia del Piave e la sua lettura da parte austriaca e ungherese.

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L

A VITTORIA HA MOLTI PADRI

,

LA SCONFITTA È ORFANA

.

La battaglia del Piave e la sua lettura da parte austriaca e

ungherese (1919-1989).

Una scommessa fatale

La battaglia del Piave o del Solstizio 1918 fu l’ultima offensiva dell’Austria-Ungheria, e anche la prova del suo inarrestabile declino politico e militare. Nella primavera del 1918 l’esercito che aveva così tenacemente tenuto testa agli italiani dal giugno 1915 ed era riuscito sia pure con l’aiuto dell’alleato tedesco a liberarsi dal micidiale fronte dell’Isonzo, aveva consumato tutte le possibilità di risolvere vittoriosamente il conflitto contro l’Italia. Nella lunga serie di guerre e nell’ancor più lunga teoria di battaglie che hanno costellato la Storia, poche si possono considerare realmente decisive: tra queste ultime, quella del Piave lo fu contro ogni logica. Nessuno dei due contendenti, il regno d’Italia e l’impero austro-ungarico, aveva necessità di scatenare un’offensiva nel giugno 1918: il primo perché il tempo lavorava inesorabilmente a favore degli alleati dell’Intesa, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, il secondo perché non aveva più i mezzi per imporsi militarmente sull’Italia, malgrado la sua posizione strategica si potesse considerare apparentemente ed illusoriamente favorevole.

Lo sfondamento di Plezzo-Tolmino1 e la conseguente ritirata italiana

dal fronte dell’Isonzo (ottobre – novembre 1917) avevano permesso all’esercito austro-ungarico di rioccupare il territorio perduto dal giugno 1915 al settembre 1917, avanzando in profondità nel Friuli e nel Veneto orientale. L’obiettivo più ambizioso e importante, far uscire l’Italia dal conflitto, non era stato ipotizzato né incluso nel disegno originario dell’offensiva, e non poté essere conseguito malgrado gli innegabili successi che portarono le forze austro-tedesche a superare la barriera fluviale del Tagliamento lasciandosi alle spalle i settori alpini delle Carniche e delle Dolomiti.

La pace di Brest-Litovsk, firmata dagli Imperi Centrali con la Russia bolscevica il 3 marzo 1918, aveva chiuso il fronte nord-orientale, consentendo alla Duplice Monarchia di trasferire la maggior parte dell’esercito sul fronte italiano. Chiunque fosse all’oscuro delle reali condizioni delle forze armate e del paese, poteva pensare che per l’Austria-Ungheria fosse venuto il momento di assestare il colpo decisivo all’Italia, soprattutto dopo la conclusione della pace di Bucarest il 7 maggio 1918, che metteva fuori gioco anche la Romania.

I responsabili politici e militari austro-ungarici erano informati sulla reale situazione al fronte e all’interno della Monarchia, ovvero del fatto che

1 La dodicesima battaglia dell’Isonzo, secondo la denominazione riportata dalle fonti

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il processo di logoramento dell’esercito e la crisi dei rifornimenti soprattutto alimentari non permettevano di giocare la carta militare con buone prospettive di successo. I fautori dell’offensiva sostenevano l’idea che l’esercito non potesse rimanere sulla difensiva ad oltranza, e che in ogni caso il logoramento delle truppe in campo aperto, nella fattispecie in trincea, procedesse inesorabilmente anche rimanendo sulla difensiva.

Nella primavera 1918 i sostenitori della strategia attendista, naturalmente da posizioni di forza, avrebbero potuto argomentare che fosse meglio costringere il nemico ad uscire allo scoperto, forti dell’esperienza accumulata negli anni del conflitto: dal 1914 al 1918 la superiorità della difesa sull’attacco aveva quasi sempre arginato le operazioni offensive di vasta portata. C’erano state, è vero, le eccezioni, ma queste si erano limitate a confermare la regola: nessuno degli eserciti in campo era stato in grado di infliggere la sconfitta decisiva a quello dell’avversario con una grande battaglia di annientamento. Tuttavia a sostegno degli offensivisti, che in questo caso sarebbero apparsi profetici, giocava un fattore del tutto nuovo, ovvero il logoramento del difensore in presenza di nemici in grado di potenziare i propri mezzi, aumentando anche il numero delle unità a disposizione. Malgrado le enormi perdite subite dal 1914, l’Intesa aveva costantemente migliorato il proprio parco di armamenti aumentando la disponibilità di munizioni ed era stata in grado di colmare i vuoti nelle file dei suoi eserciti. Molto si potrebbe dire sulla qualità e sul morale delle nuove leve, fra le quali non regnavano certo le illusioni dei primi anni di guerra, ma si rivelò deprimente per tedeschi e austro-ungarici constatare la dovizia di mezzi dei loro avversari. Questi ultimi infatti, pur sottoposti alle inaudite sofferenze causate dalla guerra, non dovevano fare i conti con la penuria di generi alimentari e non soffrivano la fame2.

Nel corso dell’estate-autunno 1917 le Potenze Centrali avevano sperimentato e applicato le nuove tattiche d’attacco che avevano consentito di bilanciare offensivamente la superiorità della coalizione avversaria, ma queste non potevano funzionare sempre e dovunque, come era stato dimostrato dopo lo sfondamento di Plezzo-Tolmino e l’inseguimento degli italiani in ritirata. Il tentativo di conquista del massiccio del Grappa e di penetrazione oltre il Piave era stato frustrato da un nemico che per una volta si era dimostrato pronto ad apprendere dai propri errori ed era comunque sostenuto da un poderoso complesso militar-industriale.

La battaglia sul Piave di metà giugno 1918 prese origine da una serie di circostanze politiche e militari, la più importante delle quali fu l’incapacità dei generali tedeschi e austro-ungarici di considerare un’opzione per uscire dalla guerra che non inseguisse il miraggio della battaglia decisiva. Lo dimostra il confronto fra falchi e colombe in Germania. L’11 febbraio 1918 un gruppo di deputati di orientamento

2 Questo fatto meglio di ogni altro testimonia il fallimento della campagna indiscriminata

di affondamenti da parte dei sommergibili della Marina imperiale tedesca, caldeggiata e imposta dai militari contro il parere dei politici nell’illusoria speranza di affamare e piegare in breve tempo le due potenze occidentali dell’Intesa, Francia e Gran Bretagna. Holger H. Herwig, Total Rhetoric, Limited War. Germany’s U-Boot Campaign 1917-1918, in Chickering Roger, Förster Stip (edited/a cura di), Great War, Total War. Combat and

Mobilization on the Western Front 1914-1918, Cambridge University Press/ German

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liberale del Reichstag espresse un memorandum nel quale si consigliava un’azione politica che dimostrasse la volontà di pace della Germania, in considerazione del peggioramento del clima sul fronte interno e degli scioperi che dal 28 gennaio al 4 febbraio avevano visto scendere in piazza mezzo milione di operai nella sola Berlino, interessando almeno una quarantina di centri industriali3.

Perché l’offensiva di pace avesse effetto, suggeriva il memorandum, si doveva rinunciare al Belgio e proclamarlo con un comunicato inequivocabile: in ogni caso sarebbe stato un vantaggio procedere in questo modo, sia che le conseguenze fossero state la prosecuzione della guerra o l’inizio delle trattative di pace. Sottolineare la buona volontà e dar prova di esser pronti alla pace avrebbe in ogni caso spuntato le armi dell’Intesa e consolidato tanto la capacità di resistenza della Germania quanto la situazione sul fronte interno.4

A questi propositi certamente non ispirati dalla mera volontà di pace il generale Erich Ludendorff, detentore della seconda carica più alta del comando supremo dell’esercito, rispose che nella situazione del momento, se l’obiettivo era che la patria si rafforzasse economicamente e vivesse in sicurezza, la scelta non era fra pace e guerra. La questione era piuttosto se difendersi o attaccare, e la decisione non era difficile: soltanto l’azione poteva portare il successo. La conduzione offensiva della guerra godeva da sempre del favore dei massimi responsabili militari tedeschi; inoltre un attacco decisivo contro l’Intesa sarebbe stato sostenuto senza deflettere dall’intera nazione, e per questo – a Dio piacendo – avrebbe avuto successo.5

L’Italia sconfitta e umiliata a Caporetto era stata costretta alla difensiva sulla linea degli Altipiani e del Piave, nondimeno doveva tenere un fronte di dimensioni molto più ridotte di quello dell’ottobre 1917. L’industria bellica sfornava mezzi che andavano sostituendo le ingenti quantità di materiale perdute durante la ritirata dal Friuli e dal Cadore, e il potenziale umano del regno sabaudo, per quanto intaccato dalle dodici sanguinose battaglie sull’Isonzo, consentiva ancora al Comando Supremo

3 Müller, Richard, Vom Kaiserreich zur Republik. Ein Beitrag zur Geschichte der

Revolutionären Arbeiterbewegung während des Weltkrieges [Dall’impero alla repubblica.

Un contributo per la storia del movimento operaio rivoluzionario durante la Guerra Mondiale], Wien 1924, pag. 105. Citato da András Siklós, A Habsburg birodalom

felbomlása 1918. A magyarországi forradalom [1918. La caduta dell’impero degli

Asburgo. La rivoluzione ungherese], Kossuth Könyvkiadó, Budapest 1987, pag. 12.

4 Siklós, András, A Habsburg birodalom…, pag. 14; il testo del memorandum si trova in

Die Ursachen des Deutschen Zusammenbruchs im Jahre 1918 [le cause del crollo tedesco

nel 1918], abbr. UDZ, a cura del dr. Albrecht Phillipp, I-XII Band/Voll., Berlin 1925, II Band/Vol., pp.136-139; ne parla anche il principe Max von Baden, in Erinnerungen und

Dokumente, [Memorie e Documenti], a cura di Golo Mann e Andreas Burckhardt,

Stuttgart, 1968, pp. 239-242. I personaggi che avevano redatto il memorandum erano Alfred Weber, professore universitario, l’industriale Robert Bosch, il deputato liberale Friedrich Naumann, il deputato socialdemocratico di destra Karl Legien, il capogruppo cristiano-sociale Adam Stegerwald.

5 Siklós, András, A Habsburg birodalom…, pag. 14; l’opinione di Ludendorff, in UDZ, II

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dell’esercito di pianificare un’efficace condotta difensivo-offensiva delle ostilità.

Che il vento fosse cambiato rispetto allo sfondamento sull’Isonzo, comandi e truppe austro-tedeschi lo avevano sperimentato di persona scendendo la valle del Piave e sferrando i primi attacchi al complesso montano del Grappa. Proprio l’Oberleutnant Erwin Rommel, protagonista della conquista del Monte Matajur e del forzamento del Piave a Longarone6, riportò nel proprio diario le difficili condizioni in cui si venne a

trovare nei giorni 17 e 18 novembre 1917 il battaglione da montagna del Württemberg. Nelle angustie della stretta di Quero, nella Valle di Schievenin e nella conca di Alano gli alpini tedeschi erano stati messi a dura prova dall’efficace sfruttamento del terreno da parte dei difensori e dal micidiale fuoco dell’artiglieria avversaria, diretta dalle eccellenti posizioni d’osservazione sulla dorsale Monte Palon – Monte Tomba7.

La direzione militare italiana, affidata al triumvirato composto dai generali Diaz, Giardino e Badoglio con il primo nel ruolo di nuovo capo di Stato maggiore, aveva introdotto criteri di governo del personale che si discostavano da quelli precedentemente adottati e mantenuti dal generale conte Luigi Cadorna: tra le innovazioni, il maggiore spazio dato alla propaganda fra le truppe, che venivano rese edotte del fatto che si combatteva nell’ambito di una vasta e potente coalizione, per obbiettivi nazionali (la difesa del Veneto e la liberazione del Friuli occupato, la definitiva sconfitta del ‘secolare’ nemico absburgico) e internazionali (la fine del militarismo tedesco-prussiano e un nuova organizzazione mondiale); accanto a questo, giocava un ruolo importante nel tenere alto il morale anche la promessa politica di concedere ai soldati contadini, nerbo della fanteria, l’agognata ridistribuzione della terra dopo l’immancabile vittoria.

Poiché il morale del soldato non si sosteneva soltanto con le promesse, a rinsaldare quello degli italiani contribuivano il vitto regolare, più abbondante e certo migliore di quello dell’affamato nemico, le scorte di uniformi ed equipaggiamento, la rinnovata potenza dello schieramento d’artiglieria, la vista degli alleati.

La presenza delle truppe francesi e britanniche8 sul fronte del Piave

e degli Altipiani ha offerto a storici e memorialisti austriaci e ungheresi dal primo dopoguerra fino alla caduta del muro di Berlino il pretesto per sminuire il ruolo dell’esercito italiano nella loro sconfitta. Se una ragione

6 Ralf Georg Reuth, Rommel. Fine di una leggenda, Lindau s.r.l., Torino 2006, pag. 16. 7Il Monte Palon, che dai suoi 1.306 metri sovrasta il più basso Monte Tomba, venne

erroneamente denominato Monte Pallone. Rommel, Erwin, Infanterie greift an. Erlebnis

und Erfahrung, [La fanteria attacca. Concetto e applicazione] Ludwig Voggenreiter Verlag, Potsdam 1937, in versione ungherese Gyalogság előre! Elmény és tapasztalat, a cura del conte Pál Bethlen, introduzione del generale Henryk Werth, Danubia könyvkiadó, Budapest 1942, pp. 334-335.

8 Il contributo dell’Intesa si concretizzò rapidamente a seguito del cedimento del fronte

sull’alto Isonzo. Il 27 ottobre 1917 il comandante delle forze britanniche in Francia, feldmaresciallo Douglas Haig, dovette scegliere due divisioni di primo livello in vista del trasferimento sul fronte italiano. Successivamente alla Conferenza interalleata di Rapallo (6-7 novembre 1917) Haig ricevette l’ordine di preparare alla partenza altre due divisioni britanniche e relativi servizi. Alla fine il contingente alleato in Italia fu fissato in un Corpo d’armata britannico e uno francese, su tre divisioni ciascuno. George H. Cassar, The

Forgotten Front. The British Campaign in Italy 1917-1918, The Hambledon Press, London

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andava cercata sul campo, questa non poteva che essere attribuita al supporto dell’Intesa. La tesi può essere facilmente controbattuta: anche tenendo conto di una supposta maggiore efficienza bellica o di uno spirito combattivo più alto delle truppe francesi e britanniche rispetto a quelle italiane, resta difficile sostenere che due Corpi d’armata9, uno francese e

uno britannico con cinque divisioni, tre britanniche e due francesi, facessero la differenza in mezzo all’esercito italiano. Il 15 giugno 1918 il regio esercito schierava sette armate (sei in linea e una di riserva) con 59 divisioni a pieno organico (37 in linea e 22 in riserva), dotate di equipaggiamento e parco di artiglieria al completo, appoggiate da un’aviazione che dominava il cielo ed era in grado di condurre azioni di bombardamento a vasto raggio10.

In una guerra di coalizione il concorso e la cooperazione fra alleati non può essere considerata un elemento di debolezza: il fatto che corpi militari di Stati e nazioni alleate combattano insieme sullo stesso teatro bellico, più che deporre a sfavore, dimostra l’efficienza dell’alleanza. L’organizzazione, la forza ed il valore delle truppe francesi e britanniche non sarebbero bastati da soli a far vincere la battaglia del Piave, ma la presenza avvertibile delle truppe alleate contribuiva al sostegno morale dell’esercito italiano11, i cui soldati e comandi potevano rendersi conto di

non essere soli contro un nemico che a sua volta aveva dato il meglio di sé in operazioni combinate con l’alleato tedesco.

Senza dubbio il Piave si colloca accanto ad altre denominazioni geografiche relative alla Prima Guerra Mondiale, che divennero il simbolo del sacrificio del soldato austro-ungarico sui vari fronti: i Carpazi, Przemyśl, l’Isonzo e Lutsk in Volinia.

Il nome della famosa fortezza austro-ungarica sul fiume San, nella Galizia absburgica di allora, rimase scolpito nella memoria di guerra austro-ungarica soprattutto per l’assedio e la resa, che coinvolsero parte rilevante di forze ungheresi, incluso il comandante della guarnigione, generale Kusmanek.12 A paragone degli enormi sacrifici in uomini e 9 I Corpi alleati il 15 giugno 1918 erano il XIV britannico, al comando del tenente generale

Earl of Cavan (7ª, 23ª e 48ª divisione fanteria) e il XII francese del generale Jean-César Graziani (23ª e 24ª divisione fanteria). Ivi, cap. VII, pag.139.

10 La costante presenza, superiorità numerica ed efficienza combattiva delle forze aeree

italiane è puntualmente testimoniata dai reduci austro-ungarici della battaglia del Piave. Ad esempio Ajtaj Endre (a cura di), A volt cs. és kir. 46. Gyalogezred világháborús

története 1914-1918, [Storia del 46º imperiale e regio reggimento fanteria nella guerra

mondiale 1914-1918], Szeged 1933, XXVII fejezet/cap., Montello csata [La battaglia del Montello], pag. 287.

11 In questi termini si espresse alla Camera dei Comuni il primo ministro britannico David

Lloyd George. Il suo discorso venne riportato nel diario del maggiore E. H. Hody, responsabile della colonna logistica della 23ª divisione di fanteria britannica. Tradotto in italiano dall’originale With the Mad 17th to Italy, George Allen & Unwin Ldt., London 1920, e inserito nella raccolta Le strade bianche. Veneto-Retrovie del fronte-Prime Linee. Diari

di ufficiali inglesi in Italia nella Grande Guerra, a cura di Giovanni Ceschin, Collezione

Princeton, Cittadella (PD) 1996, pag. 38. Si veda nella stessa raccolta anche il breve ed esauriente excursus sulla battaglia del Piave nel diario del capitano di cavalleria Cyril H. Goldsmid, aggregato al comando delle truppe britanniche in Italia in funzione di ufficiale di collegamento, pp. 182-186.

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materiali sofferti nella campagna orientale dall’esercito austro-ungarico – si pensi soltanto alle gigantesche battaglie dell’estate-autunno 1914 e alla disperata difesa dei Carpazi in pieno inverno 1914-15 – la resa di Przemyśl alle armate zariste rappresentò un disastro di minori proporzioni ma di superiore impatto psicologico, che la propaganda di guerra si affrettò a dipingere di colori mitici come aveva già fatto per la difesa dei passi dei Carpazi. Anche peggiore fu la breccia di Lutsk nel giugno 1916, che interrompendo una lunga serie di successi contro russi, serbi e italiani determinò la crisi estiva sul fronte nord-orientale portando per la seconda volta dal 1914-15 le forze austro-ungariche sull’orlo dell’annientamento.

Allorché la spinta offensiva austro-ungarica si esaurì sulla linea del Piave, pochi soldati e ufficiali dell’imperiale e regio esercito furono inclini a pensare che la battuta d’arresto potesse rivelarsi definitiva, malgrado gli italiani avessero dato prova di inaspettate capacità di ripresa.

Tra i motivi che trasformarono il fronte del Piave in un’esperienza dalle dimensioni fino a quel momento sconosciute ai soldati e all’opinione pubblica nei diversi contesti della Monarchia asburgica dobbiamo contare in primo luogo l’afflusso in un arco di tempo che va dal dicembre 1917 all’ottobre 1918 di un numero crescente di unità militari dal fronte nord-orientale, soprattutto dopo la conclusione della pace di Brest-Litovsk tra le Potenze Centrali e il nuovo governo russo-bolscevico.

Ne consegue che la maggioranza dei soldati e degli ufficiali presenti nelle divisioni austro-ungariche di prima linea nel 1917-18 prese parte ad almeno una delle tre grandi battaglie del Piave, sul fronte degli Altipiani o lungo il corso del fiume dal Montello al mare: l’offensiva austro-tedesca del novembre-dicembre 1917, l’ultima offensiva dell’esercito austro-ungarico nel giugno 1918 (battaglia del Solstizio), infine l’offensiva finale italiana dell’ottobre 1918 (battaglia di Vittorio Veneto). Ulteriore conseguenza fu che moltissimi dei sopravvissuti alla guerra potevano testimoniare di

Wiener Neustadt e dalla Scuola di Guerra a Wien (1882-1884). Il 30 gennaio 1914 fu posto al comando della fortezza di Przemyśl, che mantenne con l’inizio delle operazioni di guerra sul fronte orientale. Circondato dalle forze russe e fallito ogni tentativo di soccorso, esaurite le scorte di viveri, il 22 marzo 1915 il colonnello generale Kusmanek capitolò con 9 generali, 93 ufficiali comandanti, 2500 ufficiali di truppa di grado inferiore e 117.000 tra sottufficiali e soldati. Rimase prigioniero dei russi a Nižnij-Novgorod fino al 15 febbraio 1918, e non ebbe più un comando attivo fino alla fine della guerra, entrando in congedo definitivo il 1º dicembre 1918. Österreichisches Biographisches Lexikon (ÖBL) 1815-1950, IV. Band (Knolz-Lan), Verlag der Österreichischen Akademie der Wis-senschaften [Edizioni dell’Accademia austriaca delle Scienze] (ÖAW), Wien 1993, pag. 372; Balla, Tibor, A Nagy Háború osztrák-magyar tábornokai. Tábornagyok,

vezérezredesek, gyalogsági és lovassági tábornokok, táborszernagyok [I generali

austro-ungarici della Grande Guerra. Feldmarescialli, colonnelli generali, generali di fanteria, cavalleria e artiglieria], Argumentum Kiadó, Budapest 2010, pp. 208-209.

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essere stati sul fronte del Piave, dal quale in molti erano usciti con ferite e mutilazioni invalidanti.

La violenza dei combattimenti, le dimensioni del sacrificio e la tragedia finale oscurarono ampiamente i sanguinosi episodi della guerra nei Balcani, sul fronte nord-orientale russo, sull’Isonzo e sul Carso. La sconfitta nella battaglia del Solstizio nel giugno 1918 logorò ulteriormente il potenziale offensivo dell’esercito austro-ungarico, lasciando l’iniziativa agli italiani e agli alleati dell’Intesa.

Il declino dell’esercito al fronte e gli avvenimenti politici all’interno della Monarchia nell’estate, poi il convulso precipitare degli eventi nell’ottobre 1918 posero in secondo piano la riflessione sulle cause della sconfitta sul Piave.

Austria infelix?13

Considerando che l’opinione austriaca sul valore militare degli italiani corrispondeva a quella negativa che i tedeschi avevano degli austro-ungarici14, nella piccola Austria ridimensionata e prostrata del primo

dopoguerra fu difficile accettare l’idea che l’imperiale e regio esercito fosse stato definitivamente e irrimediabilmente prostrato dal regio esercito italiano. La realtà della sconfitta, con la dissoluzione della Monarchia asburgica, era sotto gli occhi di tutti, tanto più frustrante se posta in relazione agli immani sacrifici sostenuti per quattro lunghi anni di guerra e ai costi umani pagati dai tedeschi dell’Austria su tutti i fronti: una guerra che ben pochi avevano previsto lunga e logorante, tra i quali si era trovato nel ruolo di moderna Cassandra anche il capo di Stato maggiore tedesco dal 1906 al 1914, Hellmuth von Moltke il ‘giovane’, nipote del vincitore di Königgrätz (1866) e Sedan (1870)15.

Il generale Alfred Krauss16 fu il primo noto protagonista del tempo di

guerra a prendere in mano la penna per tentare di offrire una personale e

13 Il titolo del paragrafo fa espressamente e ironicamente riferimento a quello dell’edizione

italiana del noto volume di Robert J. W. Evans, Felix Austria. L’ascesa della Monarchia

asburgica 1550-1700, Il Mulino, Bologna 1981.

14 Il capo di Stato maggiore imperiale tedesco dal 1891 al 1906, colonnello generale Alfred

conte von Schlieffen, definiva l’Austria-Ungheria un ‘cadavere’. Influenzati dalla personalità e dalle idee del loro superiore, i suoi collaboratori erano più che disposti a considerare l’esercito austro-ungarico inferiore a quello tedesco in versatilità tattica e pianificazione strategica. Wilhelm Groener, Lebenserinnerungen [Memorie], Göttingen 1957, pag. 138.

15 Beck, Ludwig, Studien, Stuttgart 1955, pp. 125-126.

16 Krauss, Alfred, (Zara, 1862 – Bad Goisern, 1938), generale di fanteria. Dal maggio 1915

al febbraio 1917 prestò servizio a Marburg/Maribor, in qualità di capo di Stato maggiore del generale di cavalleria arciduca Eugenio al comando del fronte sud-occidentale. Il 2 marzo 1917 ritornò al servizio attivo alla testa del I Corpo d’Armata sul fronte orientale, divenuto il 28 maggio dello stesso anno il Gruppo Krauss. Dal 13 settembre 1917 sul fronte isontino fu impegnato nella preparazione dell’offensiva che portò allo sfondamento di Plezzo-Tolmino: in questa operazione il Gruppo Krauss, coadiuvato dal battaglione chimico tedesco, aprì la breccia nel fondovalle di Flitsch/Plezzo, cooperando sul lato settentrionale del fronte d’attacco alla manovra di accerchiamento e superamento delle forze italiane sull’alto Isonzo. Balla, Tibor, A Nagy Háború osztrák-magyar tábornokai… pp. 195-197. Tra le svariate pubblicazioni di argomento politico e militare di A. Krauss, un interessante saggio sulla guerra in montagna, Gebirgskrieg, in «Allgemeine Schweizer Militärzeitung», 1935/12; Das Wunder von Karfreit im besonderen der Durchbruch bei

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nel contempo oggettiva interpretazione della sconfitta. Il suo saggio17 sulla

Guerra Mondiale puntò il dito contro l’alto comando austro-ungarico del tempo di guerra, nel momento in cui alla sconfitta e dissoluzione dell’antica Monarchia asburgica si era aggiunta la profonda frustrazione dei tedesco-nazionali in Austria, vedendo ancora una volta sfumare il sogno di confluire in uno Stato grande-germanico18, il solo modo per dare

un senso ai quattro anni e mezzo di una guerra che Krauss sentiva essere stata del popolo tedesco contro il mondo intero.19

Senza indulgere nella disistima del valore militare del nemico ‘storico’, da buon esperto quale si era dimostrato nella pianificazione strategica e nella conduzione tattica Krauss aveva compreso che gli eserciti della Grande Guerra si erano trovati sullo stesso piano materiale ed avevano dovuto affrontare difficoltà comuni, imposte dal livello e dalle caratteristiche degli armamenti del tempo. Volle dimostrare che quello che era mancato nell’esercito austro-ungarico e pure in quello imperiale tedesco con la sola eccezione del feldmaresciallo Paul von Hindenburg, era stata una guida politica e militare forte, in cui la volontà di vittoria creasse quel legame fra i capi e il popolo che pensava fosse stato il fattore decisivo per la Gran Bretagna del Primo Ministro David Lloyd George e la Francia del ‘tigre’ Georges Clemenceau20. Seguendo questa linea di pensiero tributò il suo

elogio alla ferrea determinazione del capo di Stato maggiore del regio esercito dal maggio 1915 al dicembre 1917, generale Luigi Cadorna, cui solo la brillante offensiva austro-tedesca dell’autunno 1917 avrebbe impedito di condurre al tracollo le forze austro-ungariche sull’Isonzo con una dodicesima grande spallata21.

Correttamente Krauss argomentò che un esercito non esiste senza una politica ed una società civile22, riecheggiando in questa riflessione il

pensiero del celebre teorico prussiano della guerra, Karl von Clausewitz. Più che soffermarsi sulla battaglia del Solstizio 1918, per la quale egli aveva escluso l’opportunità di attaccare dal Piave e dall’altopiano dei Sette Comuni suggerendo invece di effettuare il tentativo di sfondamento sulle due sponde occidentale ed orientale del Lago di Garda23, individuò 17 Krauss, Alfred, Die Ursachen unserer Niederlage. Erinnerungen und Urteile aus dem

Weltkrieg [Le cause della nostra disfatta. Ricordi e considerazioni critiche dalla Guerra

Mondiale], Lehmanns Verlag, München 1921.

18 La soluzione Groß-Deutsch ipotizzata dai patrioti del primo Ottocento, includente i

tedeschi dell’Austria e della Boemia-Moravia. Sul trauma austriaco dell’immediato primo dopoguerra con particolar riferimento al destino dei tedeschi dell’Alto Adige si vedano Marion Dotter, Stefan Wedrak, Der Hohe Preis des Friedens. Die Geschichte del Teilung

Tyrols 1918-1922 [L’alto prezzo della pace. Storia della partizione del Tirolo], Tyrolia

Verlag, Innsbruck 2018.

19 Krauss, Alfred, Die Ursachen… pag. 300. 20 Ivi, pag. 303.

21 L’opinione di Krauss sul generale Cadorna viene chiamata in causa da Filippo

Cappellano, nel saggio Cadorna visto da generali, politici, giornalisti e storici del suo

tempo, in Pietro Neglie, Andrea Ungari, La guerra di Cadorna 1915-1917, Atti del

Convegno Trieste-Gorizia 2-4 novembre 1916, Ufficio Storico SME, Roma 2018, pp. 460-481; pag. 477.

22 Krauss, A., Die Ursachen…, pag. 7.

23 Ivi, pag. 246. Del disegno d’operazioni alternativo di Krauss fa cenno nelle sue memorie

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nello sfondamento di Plezzo-Tolmino la prova cruciale delle sue riflessioni sulla sconfitta e la grande occasione mancata dal comando supremo dell’esercito austro-ungarico (AOK). Già nel piano iniziale Krauss intravvide la mancanza di forza di volontà e la debolezza morale che avevano contrassegnato l’intera gestione della guerra: l’offensiva non era stata ispirata dall’intento di annientare il nemico e por fine alla guerra, ma dal desiderio di prevenire un nuovo sforzo offensivo italiano, raggiungendo Cividale e al massimo la linea del Tagliamento. Un’offensiva di alleggerimento, lanciata senza prevedere un doppio attacco dall’Isonzo e dal Tirolo, non era stata dotata di unità di cavalleria e ciclisti da affiancare alle forze destinate allo sfondamento nella conca di Plezzo e Tolmino per imprimere rapidità all’inseguimento in caso di successo24. In corso d’opera

poi, quando si profilava la possibilità di accerchiare la 3ª armata italiana al comando del duca d’Aosta, costringendola alla resa ad est del Tagliamento e catturando lo stesso re d’Italia in ritirata con il suo esercito, la fiacca reazione delle armate dell’Isonzo agli ordini del generale Svetozar Boroevič von Bojna25 e il mancato afflusso di riserve avevano condannato

all’insuccesso la manovra, così come era avvenuto poi con la cauta discesa delle formazioni del Gruppo Conrad dal settore dolomitico e il lento inseguimento degli italiani, che avevano potuto ritirarsi indisturbati attraversando la stretta di Primolano e raggiungendo il massiccio del Grappa26. La passione pangermanica che animava la sferzante critica di

Krauss gli fece certo dimenticare o quanto meno passare in secondo piano le condizioni materiali in cui versavano la duplice monarchia e il suo esercito nell’autunno 1917. Le forze di Boroevič, logorate dalle battaglie isontine e carenti di mezzi di trasporto sia a traino animale che meccanico, erano bensì in grado di sviluppare rapidi contrattacchi, ma soltanto a breve raggio, nel labirinto di quote e doline carsiche. Ritenuto ‘teutomane’ dagli stessi colleghi dello Stato maggiore austro-ungarico per il suo conformarsi al metodo di lavoro degli ufficiali tedeschi, di cui amavano anche definirlo l’alfiere27, Krauss si concesse in qualche occasione la critica

negativa nei confronti delle nazionalità slave dell’esercito austro-ungarico, allorché riferì del passaggio agli italiani di alcuni ufficiali pochi giorni prima dell’effettivo inizio dell’Operazione Waffentreu, l’attacco sull’alto Isonzo28,

ma senza individuare nel fenomeno una delle cause della sconfitta dell’esercito austro-ungarico e della dissoluzione della Monarchia asburgica.

Dopo la comparsa e riedizione del libro di Krauss, profeta involontario dell’avvento di un capo popolare in grado di unire tutti i tedeschi

fejezet/cap., pag. 405.

24 Krauss, A., Die Ursachen…, cap X, Der Durchbruch con Flitsch [Lo sfondamento di

Plezzo], pag. 221.

25 La rivalità e la scarsa reciproca simpatia tra Krauss e Boroevič è testimoniata

dall’arciduca Giuseppe, che invece apprezzava nel ‘leone dell’Isonzo’ l’aver salito la scala gerarchica attraverso l’ininterrotto esercizio del comando attivo. Non è dato di appurare quanto di questi sentimenti dipendesse dalla diversa formazione e carriera, quanto invece da un’animosità nazionale del tedesco Krauss nei confronti di un generale e feldmaresciallo slavo del sud, croato di origine serba della dismessa Frontiera Militare. József Főherceg, A Világháború… II kötet/vol., Az olasz háború. Doberdo, Magyar Tudományos Akadémia kiadása, Budapest 1928, II fejezet/cap., pag. 140.

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all’insegna di un progetto e di una comune identità nazionale, si dovette attendere il nuovo millennio perché gli storici austriaci si dedicassero seriamente e soprattutto criticamente alla Grande Guerra e alla battaglia del Piave in particolare.

Lo spazio tra le riflessioni di Alfred Krauss e i nostri giorni venne parzialmente colmato negli anni Trenta dalla monumentale relazione ufficiale austriaca in sette volumi, Österreich-Ungarns LetzterKrieg, curata

dal generale Edmund Glaise von Horstenau29, che rimane ancora il lavoro

di maggior respiro e pregevolezza letteraria edito in Austria sulla Grande Guerra. Fondata su un ricchissimo corredo di fonti documentarie, dotata di allegati e mappe illustrative, l’opera rappresenta il tentativo psicologicamente riuscito da parte del corpo ufficiali della disciolta monarchia e della nuova Austria di separarsi dalle responsabilità della sconfitta, mettendo in ombra il verdetto della storia e celebrando le gesta della generazione che aveva vissuto la guerra attraverso la narrazione di atti eroici. Invano si cercherebbe traccia nei volumi dell’opera di una seria critica sulle scelte dei comandi e sugli enormi costi umani di una guerra fallimentare. Al contrario di quanto aveva fatto il generale Krauss, che aveva salvato i combattenti additando gli errori dei comandanti di più alto livello, nessuna obiezione venne rivolta alla direzione politica e militare della Monarchia asburgica. La sconfitta dunque emerge dall’ultima guerra dell’Austria-Ungheria come un disegno del destino, superiore alla volontà e all’abnegazione umana, nel modo in cui il grande scrittore francese Victor Hugo aveva descritto la giornata di Waterloo. L’impostazione ‘ideale’ della relazione ufficiale ebbe una forte influenza sul pubblico austriaco anche nel secondo dopoguerra. La nuova pesante sconfitta del 1945 portò infatti con se il pesante fardello morale dei crimini nazisti, perpetrati anche sul territorio dell’ex repubblica austriaca annessa al Terzo Reich e trasformata nell’Ostmark, la Marca orientale (1938-1945). La battaglia di Vienna e la sua occupazione da parte sovietica avevano quasi consegnato gli austriaci al dominio di un altro regime totalitario, prima che gli accordi fra le potenze vincitrici dettassero il loro nuovo destino. In Austria tuttavia il confronto con l’Anschluss del 1938 e la coscienza critica della corresponsabilità su vastissima scala, protratta fino alla fine, con il nazismo e i suoi obiettivi più deliranti furono molto più difficili che in Germania30. Mentre le coscienze democratiche e antifasciste del paese

lavoravano per far accettare al mondo l’idea che l’Austria fosse stata la prima vittima della politica revisionista nazista, conservatori e nazionalisti

29 Edmund Glaise-Horstenau (Braunau am Inn 1882 – Wien 1946); nel corso della lunga

carriera di ufficiale e storico militare servì nell’esercito austro-ungarico, in quello della Repubblica austriaca nel primo dopoguerra e dal 1938 al 1945 nella Wehrmacht tedesca. Oltre a curare l’edizione della Relazione Ufficiale austriaca, fu egli stesso autore di una monografia sul crollo dell’impero asburgico, Die Katastrophe. Die Zertrümmerung

Österreich-Ungarns und das Werden der Nachfolgestaaten, [La catastrofe. La

frantumazione dell’Austria-Ungheria e l’avvento degli Stati successori], Amalthea Verlag, Zürich-Leipzig-Wien, 1929; in merito al personaggio vedi Rudolf Kiszling, Glaise von

Horstenau, Edmund, in, Neue Deutsche Biographie (NDB) Duncker & Humblot, Berlin

1964 pp. 423–424.

30 Un sintesi critica in lingua italiana sulle grandi questioni nell’Austria del Novecento è la

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si dedicarono a ricostruire un’immagine onorata degli austriaci in armi: se l’operazione si presentava particolarmente difficile per riabilitare tutti coloro che avevano combattuto nelle uniformi e sotto il vessillo del Terzo Reich, molto più agevole era tornare alla Grande Guerra e presentare i soldati austriaci degli Asburgo nell’ultima guerra dell’Austria-Ungheria sotto il segno del patriottismo, del valore e soprattutto dell’ineccepibile condotta al fronte. Nel solco tracciato dai redattori della Relazione ufficiale del 1936 si mossero gli storici, spesso ufficiali dell’esercito federale, nel tardo secondo dopoguerra. Quasi tutti posero nuovamente al centro della narrazione ‘i fulgidi atti eroici’ di soldati e ufficiali nella guerra italo-austriaca sul fronte delle montagne e dell’Isonzo.31 Le sole voci fuori dal

coro degli apologeti dell’immeritata, gloriosa sconfitta furono lo storico accademico Ludwig Jedlicka e il dr. Peter Fiala, del Museo di Storia militare di Vienna.32 In un saggio per un volume miscellaneo a metà degli anni

Sessanta, il dr. Jedlicka aveva suggerito che fosse ormai giunto il momento di orientare la ricerca accademica sugli errori e le responsabilità della battaglia del Solstizio33, in primis il ruolo dell’imperatore e re Carlo I/IV e

dell’ex capo di Stato maggiore austro-ungarico, all’epoca dei fatti comandante dell’omonimo Gruppo di Armate sul fronte sud-occidentale italiano, il feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf34. Il maggiore della

riserva Fiala, incaricato dal Ministero austriaco della Difesa di curare l’educazione civica e il culto delle tradizioni militari, scrisse un importante contributo ‘tecnico’ sulla battaglia del Piave35 indicando nel Comando

supremo germanico (OHL), nella guida politica della Monarchia e nel Comando supremo austro-ungarico (AOK) i veri responsabili della sconfitta. Avvicinandosi idealmente alle critiche di Alfred Krauss, finì per assolvere i comandanti dei gruppi di armate al fronte e i loro piani di battaglia, salvaguardando una volta di più l’immagine dell’esercito sul campo36. Il

banco di prova del tentativo di offrire una visione critica della sconfitta e di quello di edulcorarla fu senza dubbio il computo delle perdite: minimizzarle apre la strada alla trasformazione della disfatta in una sconfitta meno

31 Le opere divulgative di Walter Schaumann, Ingomar Pust, Heinz von Lichem, Peter

Schubert, sono state tutte tradotte e pubblicate in lingua italiana.

32 Heeresgeschichtliches Museum, Wien.

33 Jedlicka, Ludwig, Das Ende der Monarchie in Österreich-Ungarn [la fine della Monarchia

in Austria-Ungheria], in Rössler, Hellmuth (hrgs/a cura di), Weltwende 1917. Monarchie,

Weltrevolution, Demokratie, [La svolta mondiale 1917. Monarchia, rivoluzione mondiale,

democrazia], Musterschmidt Verlag, Göttingen 1965, pp. 65-89; pp. 66-67.

34 Molto opportunamente la ricerca storica del principio del nuovo millennio ha dedicato la

dovuta attenzione alla figura di Conrad, la cui personalità e le cui idee furono determinanti nella formazione di molti degli ufficiali protagonisti della Guerra Mondiale. In Austria il prodotto più significativo è stato la monografia di Wolfram Dornik, Des Kaisers

Falke. Wirken und Nach-Wirken von Franz Conrad von Hötzendorf, [Il falco

dell’imperatore. Atti e conseguenze di Conrad von Hötzendorf], Studien Verlag, Innsbruck-Wien-Bozen 2013.

35 Fiala, Peter, Die letzte Offensive Altösterreichs. Führungsprobleme und

Führerverantwortlichkeit bei der österreichisch-ungarischen Offensive in Venetien, Juni 1918 [L’ultima offensiva della vecchia Austria. Problemi e responsabilità di comando

nell’offensiva austro-ungarica nel Veneto, giugno 1918], Boldt Verlag, Boppard am Rhein 1967; lo studio è apparso in Italia soltanto all’inizio degli anni Ottanta, per essere riproposto un decennio dopo: 1918: Il Piave. L’ultima offensiva della Duplice Monarchia, a cura di Giulio Primicerj, Ugo Mursia editore, Milano 1982; 1991.

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grave e della sconfitta in una mezza vittoria. Il VII volume della Relazione ufficiale austriaca, edito nel 1938, indica in 11.643 morti e 80.852 feriti le perdite della battaglia del Solstizio, definite ‘eccezionalmente alte’ e valutate nel complesso in 140.000 fra morti, feriti, prigionieri e dispersi in azione37. I calcoli fatti a caldo dal capo di Stato maggiore del Gruppo

d’Armate Boroevič, maggiore generale Anton Pitreich, limitatamente al settore del Piave, parlano invece di 27.700 morti e 68.700 feriti, con perdite particolarmente elevate fra gli ufficiali. Valutando congiuntamente l’operazione ‘Lawine’ sul Passo del Tonale e quelle dei Gruppi d’Armate Conrad e Boroevič, denominate rispettivamente ‘Radetzky’ e ‘Albrecht’, Pitreich fu in grado di concludere che la sola fanteria austro-ungarica aveva perso 198.000 uomini38. Il maggiore generale Ludwig Sündermann,

capo di Stato maggiore dell’11ª Armata del Gruppo Conrad, stabilì che le forze austro-ungariche nei tre settori d’attacco dell’offensiva di mezzo giugno 1918 avevano sofferto complessivamente perdite superiori al 25%, il rateo ritenuto esiziale per qualsiasi esercito in campo: ovvero sulle 35 divisioni di fanteria e 8 di cavalleria impiegate nell’offensiva, 20 cessarono quasi di esistere come unità combattenti.39

Sulle ali del mito

Nell’Ungheria umiliata e smembrata, riconsegnata dalle Potenze dell’Intesa ai superstiti della classe dirigente sconfitta, fra i quali si muovevano i reduci del disciolto esercito austro-ungarico, si cercò di leggere l’esperienza della guerra e della sconfitta senza meditare profondamente sugli errori politici e militari che avevano trascinato la nazione nel disastro. Per dare un senso al sacrificio dei 635.000 caduti su tutti i fronti, le cause della sconfitta vennero cercate in fattori esterni alla comunità nazionale magiara.

Il nuovo regime, alla cui testa era ormai saldamente insediato l’eroe della battaglia del canale d’Otranto e ultimo comandante in capo della marina da guerra austro-ungarica, ammiraglio Miklós Horthy, aveva bisogno di nobilitare l’esperienza bellica.

La mitopoiesi sulla Grande Guerra si estese a tutte le classi sociali, inserendosi in un più vasto processo di rimozione delle coscienze, denunciato da una delle menti più lucide dell’intellettualità ungherese del Novecento, István Bibó: si doveva sollevare dalle spalle della nazione il pesante fardello della corresponsabilità nello scoppio del conflitto e il sostegno incondizionato all’alleanza con l’impero tedesco40, mettendo in

risalto la lealtà, l’impegno e le ‘virtù’ militari che la nazione aveva dimostrato su tutti i fronti fino al crollo finale, del quale i magiari non avevano avuto colpa alcuna.

37 Österreich-Ungarns letzter Krieg 1914-1918, Hrgs vom österreichischen Ministerium für

Landesverteidigung und vom Kriegsarchiv [edito dal Ministero della Difesa nazionale e dall’Archivio bellico], Wien 1938, Band/Vol VII, pag. 359.

38 Bencze, László, A Piave-Front, Paktum Nyomdaipari Társaság, Budapest 2003, pag, 145,

nota 35. L’arciduca Giuseppe cita 60.000 perdite non ripianabili per il settore dell’Armata dell’Isonzo. József fhg., A Világháború…, VI kötet/Vol., pag. 661.

39 Bencze, László, A Piave-Front…, pag. 145, nota 36.

40 Bibó, István, A békeszerződés és a magyar demokrácia [Il Trattato di pace e la

democrazia ungherese], in Dénes Zoltán Iván (szerk./a cura di), Bibó István összegyűjtott

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I reduci che provenivano dalla massa dei contadini, oppure dalle file più esigue degli artigiani e degli operai, avevano vissuto l’esperienza della guerra nel suo aspetto peggiore, quello delle truppe in trincea sui vari fronti. Nei loro ricordi, affidati non di rado alla penna e al foglio di carta, non nascosero né l’orrore della guerra in tutti i suoi risvolti, né le terribili perdite, ma ebbero cura di accompagnare la narrazione con gli aneddoti della vita militare. Anche per loro, come per i loro nemici degli anni di guerra, funzionò l’abbaglio della comunità di trincea, che unitamente al graduale offuscarsi dei ricordi più atroci contribuiva ad offrire una memoria meno cruda e a collocare l’esperienza vissuta all’insegna del patriottismo e del dovere compiuto per la patria. Leggendo attentamente i loro scritti non si può fare a meno di notare anche nell’esperienza ungherese la distanza considerevole fra le memorie dei generali, la più parte dei quali aveva visto il fronte soltanto da lontano e in rare occasioni, e quelle dei soldati e degli ufficiali di truppa, che avevano condiviso l’esperienza della trincea pur con idealità e prospettive diverse41.

Nell’insieme il complesso delle memorie di guerra disegnò un quadro di tragico valore, sfortunato e indomito, dal quale uscì una serie di luoghi comuni autoassolutori.

Vale la pena di ricordare il contributo della storiografia militare ungherese nella formazione del mito della Grande Guerra. Gli storici militari infatti furono parte attiva nella mitopoiesi, anche se lo fecero con professionalità, evitando grossolane deformazioni della realtà, alterazione di cifre, costante svalutazione dell’avversario. Manca anche quella caratteristica vena di razzismo pangermanico nei confronti dei soldati italiani o l’esaltazione idealistica e alquanto ingenua della fratellanza d’armi austro-germanica.

L’orgoglio nazionale ungherese e la nozione del valore del soldato magiaro si accompagnano, soprattutto nella memorialistica prodotta dai reduci di minore cultura e preparazione letteraria, all’uso di denominazioni del nemico che vorrebbero essere sberleffo e finiscono invece per dare l’idea del ‘povero diavolo’ nell’uniforme del nemico, il digó tanto simile da sembrare l’immagine allo specchio dello stesso dileggiatore42.

Nel complesso dalla memoria e dalle pagine delle storie ungheresi della Guerra esce più di un ritratto assolutamente sincero delle capacità combattive del nemico. Indissolubilmente legata al desiderio e all’avvertita necessità di costruire una Storia nazionale della Guerra Mondiale, fu la fondazione nella capitale ungherese dell’Istituto di Storia militare (Hadtörténelmi Intézet), posto nell’antico quartiere della fortezza di Buda.

La fine dell’esperienza absburgica portava con se anche l’esigenza di organizzare in proprio le fonti della storia militare ungherese: il capitolo della Guerra Mondiale cominciò ad essere scritto con le testimonianze

41 Sull’esperienza dei soldati ungheresi nella guerra contro l’Italia G. Volpi, Alleato

fedifrago, povero Cristo. I soldati italiani nella memoria ungherese della Grande Guerra, in

Pietro Neglie, Andrea Ungari, La guerra di Cadorna… pp. 279-291.

42 ‘Digó’ è il nomignolo che identifica l’italiano, utilizzato soprattutto dalle truppe al fronte

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oculari dei reduci dai diversi fronti di guerra, depositate in forma di relazioni a loro volta corredate da cartine o schizzi vergati dai testimoni stessi43. Alle testimonianze oculari seguirono gli studi. Dedicati a singoli

episodi, a battaglie e cicli operativi vennero redatti prevalentemente da ufficiali che erano stati in guerra e dai loro colleghi che ricoprivano il ruolo di insegnanti al Ludoviceum,44 il principale istituto di formazione degli

ufficiali ungheresi.

Accanto a questa produzione di massa fecero la loro comparsa le opere monografiche degli storici militari, quasi tutti ufficiali in servizio o a riposo. Analogamente a quanto avvenne nell’Austria postbellica, la storia delle istituzioni militari e della Guerra Mondiale venne affidata agli ‘esperti’ del mestiere, gli ufficiali, spesso membri della prestigiosa Accademia delle Scienze, accanto ai quali lavorarono alle loro memorie di guerra i generali che avevano occupato i posti più elevati della catena di comando.

Una vera e propria Relazione Ufficiale ungherese non vide mai la luce: nei primi anni Trenta fu invece pubblicato il volume di Ferenc Julier,

1914 -1918 La guerra mondiale vista dagli ungheresi45. L’autore fu un

personaggio dalla vicenda emblematica: ufficiale al fronte negli anni di guerra, capo di Stato maggiore del comandante l’Armata Rossa del 1919, Aurel Stromfeldt46, a sua volta ex capo di Stato maggiore nell’imperiale e

regio XXVI Corpo d’Armata austro-ungarico sul fronte degli altipiani. Julier non venne punito per questo suo impegno nella fase di terrore bianco, la resa dei conti immediatamente successiva alla ‘restaurazione’ horthysta47.

La spiegazione può essere ricercata nel fatto che perfino l’ammiraglio Miklós Horthy e il fronte nazionale anticomunista di Szeged riconoscevano che l’Armata Rossa ungherese aveva combattuto una guerra in difesa dell’integrità dell’Ungheria storica contro le forze cecoslovacche e romene. Julier fu congedato dal servizio attivo e gli fu

43 Ad esempio la testimonianza del maggiore Elemér Makovits, 5ª sezione di artiglieria da

campagna honvéd, relativa all’impiego dell’artiglieria sul Montello durante la battaglia del Solstizio, HL, fondo Tanulmányi Gyűjtemény [Raccolta Studi], Harctéri esemény leirás [Resoconto dei fatti sul campo di battaglia], n. 112; e ancora la testimonianza del maggiore Béla Csejtey, 4ª sezione artiglieria contraerea honvéd, relativa al sostegno offerto il 17 giugno 1918 alla 128ª brigata fanteria honvéd sulla sponda italiana del Piave, HL, Ta. Gyűjt., Resoconto n. 242, rilasciato e sottoscritto a Miskolc il 24 gennaio 1938 e successivamente depositato nell’Archivio militare di Budapest.

44 Ludoviceum o Ludovika Akadémia. Prevista da una legge del 1808 e fondata

effettivamente nel 1831, l’Accademia dedicata alla terza consorte dell’imperatore e re Francesco I d’Asburgo, Maria Ludovika, fu inaugurata nel 1872 come scuola di formazione per ufficiali della milizia territoriale, la Honvédség. Nel 1897 fu elevata al rango della famosa accademia militare teresiana di Wiener Neustadt. Nel primo dopoguerra divenne a tutti gli effetti l’accademia militare nazionale ungherese con la denominazione di Magyar Királyi Honvéd Ludovika Akadémia. Sulla sua storia vedi Tibor Rada: A Magyar

Királyi Honvéd Ludovika Akadémia és a testvérintézetek összefoglalt története (1830-1945), [Compendio di storia della regia ungarica Accademia di difesa nazionale ‘Ludovika’

e delle istituzioni sorelle], Gálos-Nyomdász Kft., Budapest 1998.

451914-1918. A Világháború magyar szemmel, Magyar Szemle Társaság, Budapest 1933. 46 Horsetzky, Ernst, i.e.r. generale di fanteria, Le ultime quattro settimane di guerra (24

ottobre-21 novembre 1918). Un contributo alla storia della dissoluzione dell’esercito austro-ungarico, a cura di Paolo Pozzato, Itinera Progetti, Bassano del Grappa (Vi) 2000,

pag. 18.

47Il termine ‘restaurazione’ viene qui preferito a ‘controrivoluzione’, in voga negli anni

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affidato l’incarico di storico militare. La sua Guerra Mondiale è un’opera decisamente ben scritta, asciutta ed efficace, che ha il pregio di essere priva di luoghi comuni, autocommiserazione e retorica imbevuta di miti nazionali. I passi discutibili, che non potevano non esserci nel clima culturale in cui si mosse, non minano la fondamentale onestà intellettuale del testo: le perplessità più forti sono state sollevate dagli storici del periodo della Guerra Fredda, anche a proposito dell’episodio del Piave.

Come è ovvio dalle premesse fatte fino a questo punto, la battaglia del Piave non poteva sfuggire ad una lettura alterata, o quantomeno temperata degli eventi. Diversamente da quanto era avvenuto per le due precedenti operazioni su vasta scala contro gli italiani, l’offensiva di primavera 1916 e l’operazione Waffentreu dell’ottobre 1917, nell’elaborazione dei piani per l’offensiva di giugno del 1918 si trovò coinvolto il generale di cavalleria e arciduca Giuseppe, all’epoca dei fatti comandante della 6ª armata austro-ungarica sul fronte del Piave.

La brillante carriera militare del personaggio non può essere attribuita esclusivamente e unilateralmente alla sua appartenenza al ramo ungherese della casa regnante. Comandante del VII Corpo d’armata dalla Carinzia al Carso di Doberdò (luglio 1915 – novembre 1916), era poi stato trasferito al nuovo fronte transilvano-romeno, dove rimase fino al dicembre del 1917. Avrebbe raggiunto il culmine della carriera sul fronte italiano, alla testa dell’omonimo Gruppo d’Armate, dopo la definitiva messa a riposo del feldmaresciallo Conrad von Hötzendorff.48

L’interesse che riveste la figura dell’arciduca Giuseppe supera i confini della sua attività di comandante nell’imperiale e regio esercito. La fedeltà all’ideale nazionale magiaro ne fece un elemento di spicco fra gli alti ufficiali dell’esercito che condividevano l’origine ungherese49, e non

aveva mancato di creare difficoltà di rapporto con i colleghi ‘austriaci’, specialmente negli anni in cui il capo di Stato maggiore era stato il generale poi feldmaresciallo Conrad.

Nel periodo tra le due guerre l’arciduca Giuseppe fu uno dei patroni più accreditati dell’opera di ricostruzione storica e memorialistica della Grande Guerra. La redazione del suo monumentale contributo, La Guerra

come io la vidi, gli valse l’ammissione all’Accademia ungherese delle

Scienze, mentre l’opera rimane una fonte essenziale per lo studio dell’esperienza ungherese nella Grande Guerra50.

La dichiarata e costantemente ribadita fedeltà alla nazione ungherese costituisce anche il movente dell’appassionata difesa degli ungheresi in guerra, che portò l’arciduca a supportare la celebrazione della memoria e il culto dei caduti. Il suo prestigio fra gli ufficiali e soldati ungheresi dell’imperiale e regio esercito comune e della Honvédség rimase eminente fino alla fine, superiore a quello di alti ufficiali consacrati

48 József főherceg, A Világháború… VI. Kötet/Vol., pp. 668-679.

49 I generali Artur Arz, Franz Rohr, Nándor Tersztyánszky e Hermann Kövess von

Kövessháza, quest’ultimo assurto al rango di feldmaresciallo al pari dell’arciduca Giuseppe.

50 Si veda in proposito Volpi, G., L’epopea della sconfitta. Le memorie dell’arciduca

Giuseppe sul fronte dell’Isonzo, in Roberto Ruspanti, Zoltán Turgonyi (a cura di), All’ombra della Grande Guerra. Incroci fra Italia e Ungheria: storia, letteratura, cultura, idee, Centro

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dalla propaganda di guerra nel ruolo di eroici combattenti, come i generali Szurmay51 Lukachich52 e Hadfy53.

Nei mesi del 1918 che videro nascere il piano per quella che sarebbe diventata la battaglia del Solstizio, l’armata dell’arciduca Giuseppe si era trovata ad essere l’ala destra e il raccordo del Gruppo d’armate Boroević con il Gruppo di Armate Conrad, ognuno impegnato a considerare il proprio fronte quello destinato a sostenere il peso principale dell’offensiva e a prepararsi di conseguenza. Poiché il Comando supremo, nella fattispecie il capo di Stato maggiore, generale di fanteria Arthur Arz e il suo vice alla testa della Sezione operazioni, maggiore generale von Waldstätten, non seppero risolversi nel dare la priorità ad uno dei due settori di attacco prescelti, anche il ruolo che doveva assumere la 6ª armata non fu individuato per tempo e con sicurezza54.

51 Szurmay, Sándor, (Boksánbánya, contea di Krassó, 1860 – Budapest, 1945), generale di

fanteria, proveniva dai corsi di formazione ufficiali dell’Accademia Ludovika di Pest, ma venne ammesso anche alla Scuola di Guerra a Wien. Dal 1890 al 1914 ricoprì per lo più incarichi al Ministero della Difesa nazionale (Magyar Honvédelmi Ministerium). Il 22 novembre 1914 fu assegnato al comando della 38ª divisione di fanteria honvéd sul fronte orientale, dove divenne famoso per la difesa del passo di Uzsok nei Carpazi. Assunse successivamente il comando del cosiddetto Gruppo Szurmay il 14 gennaio 1915, e poi dal 1º aprile del 1916 del Corpo Szurmay. Il 9 febbraio 1917 venne sollevato dal comando al fronte e assegnato ad incarico logistico-amministrativo a Budapest, per breve tempo, prima di assumere il portafogli della Difesa nazionale, che tenne fino al 31 ottobre 1918. Il 17 agosto 1917 fu insignito del rango di barone, il 23 maggio 1918 del prenome nobile ‘uzsoki’. Balla, Tibor, A Nagy Háború osztrák-magyar tábornokai… pp. 301-303.

52 Lukachich, Géza, barone Somorjai (Kassa/Košice 1865 – Budapest 1943), assurse al

rango di eroe di Doberdò, difendendo l’omonimo altopiano carsico e il suo punto dominante, il Monte San Michele, alla testa della 20ª divisione di fanteria honvéd dal luglio 1915 all’agosto 1916, quando il VII Corpo d’armata ricevette l’ordine di cedere l’altopiano alle preponderanti forze italiane e si ritirò più ad oriente, sul Carso di Komen. Ha lasciato due opere sulla guerra e le sue conseguenze, Doberdó védelme az első

isonzói csatában [la difesa del Doberdò nella prima battaglia dell’Isonzo], Athenaeum

nyomda, Budapest 1918; Magyarország megcsonkitásának okai [Le cause dello smembramento dell’Ungheria], NYUKOSZ. Budapest 1934. Szijj Jolán, Ravasz István (szerk./a cura di), Magyarország az első Világháborúban. Lexikon A-Zs [L’Ungheria nella Prima Guerra Mondiale. Dizionario storico A-Zs], PETIT REAL könyvkiadó, Budapest 2000, pag 439.

53 Hadfy, Imre (Nagykároly, contea di Szatmár, 1853 – Kiszombor, Jugoslavia, 1936),

generale di fanteria; figlio di un tenente colonnello della Honvédség, frequentò la scuola cadetti di fanteria a Wien. Durante l’occupazione della Bosnia, nell’estate del 1878, sottotenente nel 46º imperiale e regio reggimento fanteria di Szeged prese parte ai combattimenti di Han Belalovac, Sarajevo e Livno. Dal 1887 allo scoppio della Guerra Mondiale prestò servizio soltanto in unità honvéd. Nell’agosto del 1914 comandò la 39ª divisione fanteria honvéd sul fronte russo, dal settembre 1915 al luglio 1917 fu alla testa dell’imperiale e regio Corpo Hadfy. Dal 1º gennaio 1918 gli fu affidato l’imperiale e regio XXIII Corpo sul fronte italiano, ma nel marzo dello stesso anno fece ritorno sul teatro russo-ucraino al comando dell’VIII Corpo. Dal 14 luglio di nuovo alla testa del XXIII e dal 30 agosto del XXIV Corpo sul fronte italiano. Venne congedato definitivamente dal servizio il 1º dicembre del 1918. Szijj J., Ravasz I., (szerk./a cura di), Magyarország …, pp. 224-225.

54 Hanks, Ronald W., Il tramonto di un’istituzione. L’armata austro-ungarica in Italia (1918),

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La conseguenza fu che l’arciduca Giuseppe si vide infine assegnare l’importante e decisivo compito di prendere il Montello, operazione indispensabile per assicurare il successo della grande unità schierata sulla sua sinistra, l’Isonzoarmee al comando del colonnello generale Wenzel Wurm. Dato che la 6ª armata conseguì il successo più promettente, incuneandosi profondamente nelle linee italiane sul Montello, nella rielaborazione storica dei fatti tra le due guerre fu alquanto facile dimostrare che la sconfitta non poteva essere attribuita alle truppe e ai comandanti ungheresi. L’arciduca Giuseppe si colloca idealmente al fianco del generale Krauss, con una critica dell’operato del Comando supremo austro-ungarico speculare a quella del collega austriaco e volta a difendere l’immagine degli ungheresi nell’ultima offensiva dell’esercito imperiale e regio.

Le responsabilità andavano cercate più in alto e perfino più in basso. In alto, nella suprema direzione militare, quindi negli ‘austriaci’, dimenticando che il capo di Stato maggiore imperiale e regio, generale Arz, era in fondo un sassone di Transilvania, nato, cresciuto ed educato nel regno di Santo Stefano; in basso, accogliendo l’abusato luogo comune che voleva la causa del fallimento dell’operazione nel tradimento di soldati e ufficiali cechi e romeni, capitolo della più vasta e articolata questione delle nazionalità.55

Tale luogo comune si riscontra puntualmente nelle memorie dell’arciduca Giuseppe e dei commentatori meno sospetti di sciovinismo nazionalista: frutto del veleno intellettuale che continuava a venire costantemente istillato a dosi generose nell’immaginario collettivo nazionale fin dalla sconfitta nella Guerra d’indipendenza del 1849. Ecco dunque all’opera la rimozione della coscienza critica che permetteva ai magiari di individuare nella dissoluzione della Grande Ungheria la conferma delle proprie idiosincrasie: la disaffezione delle nazionalità slave e romena verso gli ungheresi non proveniva dalla situazione politico-militare senza uscita, ormai evidente dopo la battaglia del Solstizio 1918, ma dalla loro aprioristica, fondamentale slealtà. A smentire parte della leggenda valsero le testimonianze degli ufficiali che riportarono quello che effettivamente avevano veduto in servizio, affermando che nelle unità ungheresi dell’esercito e specialmente al fronte durante la guerra non si era manifestato alcun problema riconducibile ad una questione delle nazionalità.

Slovacchi, romeni, ucraini dei Carpazi e slavi del sud non solo avevano considerato l’Ungheria la loro patria, ma si erano anzi battuti valorosamente e lealmente fino alla fine. Ma se tutto questo era vero, come si poteva imputare la sconfitta al tradimento delle nazionalità? Ecco allora spuntare un’ulteriore sofisticata spiegazione: le élites politico-intellettuali delle nazionalità avevano fatto del loro meglio per diffondere nelle anime semplici delle masse il veleno della sedizione. Questa tesi si

55 Il luogo comune sul tradimento, ad esempio dei cechi, si ritrova puntualmente nello

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ritrova puntualmente sottintesa nelle storie reggimentali e nei resoconti di comandanti di alto grado, propensi a vedere negli ufficiali della riserva, soprattutto cechi e romeni, gli appartenenti alle élites nazionali protagonisti di episodi di sedizione e diserzione, con la conseguente trasmissione di importanti informazioni al nemico.56

In fondo non è necessario che un luogo comune, un pregiudizio, un mito storico, vengano esposti senza contraddizioni e con argomenti in grado di disarmare le menti più acute. L’importante è il contenuto del messaggio, che deve essere forte, suadente e facilmente memorizzabile: capace di relegare in secondo piano ogni altra considerazione. Ripetere che gli ungheresi erano stati sconfitti non dagli italiani ma a causa dell’incompetenza austriaca o del tradimento ceco e romeno costituiva un potentissimo elemento di deformazione della realtà, che indirizzava all’esterno, specialmente contro l’Austria57 e gli Stati successori degli

Asburgo il rancore per le perdite e i sacrifici sostenuti invano in quattro anni di durissimi combattimenti sui vari fronti.

Immediatamente dopo la guerra e ancor più a seguito della grande crisi economica originata dal crollo della Borsa di Wall Street del 1929 gli ebrei ungheresi vennero messi nel nutrito elenco di nemici che avevano tramato e lavorato per provocare la sconfitta e distruggere la Grande Ungheria58.

A prescindere dalla tentazione di cadere nella retorica delle celebrazioni offrendo un quadro eccessivamente edulcorato degli avvenimenti furono pochi scrittori di talento, che avevano vissuto la realtà del fronte da ufficiali di truppa, per lo più alfieri e sottotenenti, e appartenevano ideologicamente all’universo culturale liberal-democratico, socialista e pacifista.

Tra questi il più emblematico fu Péter Veres, le cui memorie di guerra vennero recuperate dalla storiografia di ispirazione marxista degli anni Settanta-Ottanta del XX Secolo59. Il quadro nazionale era ovviamente

mutato, essendo l’Ungheria parte del blocco sovietico, ma il processo di rimozione si era protratto a lungo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in forma diversa dagli anni Venti e Trenta. Semplicemente, negli

56 Ad esempio nel diario dell’imperiale e regio 39º reggimento fanteria di Debrecen si

parla espressamente del passaggio al nemico di due ufficiali e tre alfieri cechi nei giorni immediatamente precedenti l’operazione ‘Albrecht’, lasciandone intendere le conseguenze. L. Szabó, Piave 1918… cap. V, pag. 170.

57 L’accusa ungherese ai ‘lupi’ della diplomazia austriaca venne rigettata dallo stesso

feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf, fra i primi a smentire la tesi ungherese del coinvolgimento forzato in una guerra in cui si sarebbe combattuto soltanto per obiettivi e interessi ‘austriaci’. Conrad v. Hötzendorf, Private Aufzeichnungen. Erste

Veröffentlichungen aus den Papieren des k.u.k. Generalstabes-Chef, a cura di Kurt Peball,

Amalthea Verlag, Wien-München 1977, pp. 143-145.

58 Si veda il discorso del 7 agosto 1920 di László Budaváry, maestro cattolico originario

della contea di Ugocsa, membro della destra radicale alla Camera dei deputati, emblematico di posizioni antisemite consolidate e accresciute dal recente Trattato del Trianon (4 giugno 1920) ma presenti nel profondo della società ungherese tra Ottocento e Novecento. L. Budaváry, A keresztény Magyarország legnagyobb veszedelme a zsidóság, in Komoróczy, Géza (Szerk./a cura di), Zsidók a magyar társadalomban. Írások az

együttelésről, a feszültségről és az értékekről [Ebrei nella società ungherese. Scritti sulla

convivenza, sulla tensione e sui valori], Kalligram, Pozsony/Bratislava 2015, pp. 779-793.

59 Veres, Péter, Számadás. Önéletrajz [Resoconto. Autobiografia], Magvető Könyvkiadó,

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