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I CUORI DEGLI UOMINI
Sogni americani e fuga dagli impegni
Traduzione integrale del testo di Barbara
Ehrenreich:
The Hearts of Men. American Dreams and the
Flight from Commitment
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INDICE TRADUZIONE
1. Introduzione. Perché le donne sposavano gli uomini? 3 2. Breadwinner e perdenti. Le sanzioni contro la devianza maschile 19 3. Ribelli precoci. I dissidenti in flanella grigia 38 4. Playboy si aggiunge alla battaglia dei sessi 54 5. La ribellione della beat generation. Oltre il lavoro e il matrimonio 66 6. Ragioni del cuore. La cardiologia riscrive il copione maschile 85 7. Dalla conformità alla crescita. La nuova psicologia 109 8. La deriva androgina. Controcultura versus cultura maschile 121 9. La rivolta maschile redenta. Salto di classe e riforma della sanità negli
anni Settanta 142
10. Contraccolpo. L’assalto antifemminista agli uomini 173 11. Conclusione. Per le donne: sopravvivere alle conseguenze 202
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1. INTRODUZIONE. Perché le donne sposavano gli uomini?
La necessità, così come l'istinto, conduce le donne precipitosamente all'altare; soltanto fattori secondari – pressione sociale o coscienza – vi conducono gli uomini.
Emily Hahn, 1956
Il fatto che a sposarsi sia esattamente lo stesso numero di uomini che di donne cela una diseguaglianza di base in quanto a motivazioni: ovvero, nel tipo di matrimonio che piuttosto avventatamente siamo giunti a identificare come “tradizionale”, sono le donne ad aver bisogno degli uomini molto più di quanto gli uomini abbiano bisogno delle donne. Quando ero piccola, negli anni Cinquanta, tutti ammettevano la “battaglia dei sessi”, in cui le donne “tenevano duro” il più a lungo possibile finché, grazie a persuasione, frustrazione sessuale o una gravidanza improvvisa, “si assicuravano un uomo”. Dal loro lato della barricata, gli uomini guardavano al procedimento con un certo sarcastico distacco. Ad esempio, un articolo comparso nel 1958 sull’Esquire descriveva il corteggiamento con ironici riferimenti alle teorie militaresche del feldmaresciallo Rommel e, come resoconto del tentativo tipico di una ragazza di guadagnarsi il titolo di “SIGNORA”, offriva il seguente:
Il college dura quattro anni, okay? [...] Una matricola esce con tutti. Non le importa. Una del secondo anno ne frequenta a bizzeffe [...] Ora, una matricola è alla ricerca del vero amore. Uscirà tre volte con un ragazzo che è il suo “Possibile”. Potrebbe inquietarla che non ci siano abbastanza “Possibili” nella sua immediata cerchia di amici. Così si interesserà ad attività extra-curriculari come il club francese o cose del genere [...] Infine ci sono le senior. Se entro il primo di novembre non frequentano stabilmente qualcuno o non sono fidanzate, sentiranno le pareti stringersi attorno. Escono solo con Probabili […] parlano di carriera ma non fanno sul serio. Lascia che arrivino al sesto appuntamento con un ragazzo e le sentirai coinvolgerlo in discorsi sulla compatibilità e i nomi dei loro cinque bambini.1
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4 A una giovane donna di spirito la battaglia dei sessi appariva come un esercizio degradante che difficilmente valeva il premio finale. Per quel che posso dedurre dalla vita di mia madre, “vittoria” significava una condanna a vita ai lavori manuali, alleviata solo dalla sfida intellettuale delle liti in famiglia. Eppure gli uomini adulti che mi attorniavano erano, senz’altro, ancora più inclini all’amarezza e accaniti nell’apostrofare il tema del matrimonio come una “trappola” per uomini e una sinecura a vita per le donne. Durante la mia infanzia mi ero sempre chiesta quali forze spingessero le persone, soprattutto le donne, al centro della “battaglia” del corteggiamento e, oltre a questo, verso le prolungate ostilità della vita coniugale.
La risposta, quando la vita più tardi me la rivelò finalmente, aveva tanto a che fare con l'economia quanto con la biologia. Le donne erano, e in gran parte lo sono ancora, economicamente dipendenti dagli uomini. Dopotutto, un uomo può vivere del suo. Magari è solo, trasandato e sente nostalgia del cibo fatto in casa, ma con tutta probabilità riuscirà a tirare avanti. Una donna, al contrario, ha davvero grosse difficoltà a mantenersi da sola. Se ha trascorso gli anni universitari passando da uno specializzando all’altro alla ricerca di “Probabili”, o la sua vita coniugale a cambiare pannolini, tanto peggio; poteva aspettarsi di entrare nel mercato del lavoro come commessa o cameriera, guadagnando una cifra vicina al salario minimo. Così, nella battaglia dei sessi, la posta in gioco per le donne era, detto schiettamente, la rivendicazione di un qualche salario maschile. Entrambi i sessi, naturalmente, pativano l’intensa pressione sociale a entrare nella contesa e risolverla col “metter su famiglia”, ma le penalità in caso di fallimento erano molto diverse. L'uomo che non riusciva a sposarsi, o a rimanere sposato, poteva essere giudicato un po' “ambiguo”; la donna rischiava di essere davvero povera. Agli occhi del mondo borghese di metà secolo, lui aveva schivato una responsabilità, mentre lei aveva perso il treno.
5 Il fatto che, in senso puramente economico, le donne abbiano bisogno degli uomini più di quanto non valga il contrario, dota il matrimonio di un’intrinseca instabilità che precede la rivoluzione sessuale, la rinascita del femminismo, la me generation o altre trite spiegazioni di quello che passerà poi alla cronaca come il “collasso della famiglia”. È spaventoso, in retrospettiva, pensare a quanto del nostro senso di ordine sociale e di continuità dipenda dalla volontà degli uomini di soccombere nella battaglia dei sessi: sposarsi, diventare percettori di salari e condividere in modo affidabile lo stipendio con i propri dipendenti. In realtà, la maggior parte di noi ha bisogno di descrizioni alternative e più confortanti del legame tra uomini e donne. Lo romanticizziamo, come accade nei testi delle canzoni famose degli anni Cinquanta, in cui l'amore era un'avventura che si concludeva col matrimonio o con la morte prematura. Oppure ci convinciamo che sia davvero in atto uno scambio equo e giusto, per cui i salari che gli uomini offrono alle donne sono più che compensati dai servizi che le donne offrono agli uomini. Ogni altra conclusione rappresenterebbe un grave imbarazzo per entrambi i sessi. Le donne non amano ammettere una dipendenza sproporzionata, proprio come agli uomini non piace ammettere di essere stati truffati nell’aver intrapreso quello che un cinico maschio chiamava “il sostentamento a vita della donna disoccupata.”
I sociologi hanno in genere condiviso queste avversioni e, in generale, i loro resoconti sull’economia del matrimonio tendono a essere confusi o inesistenti. All’inizio e sino a metà degli anni Settanta, i sociologi produssero non meno di una mezza dozzina di antologie sulla famiglia – il suo futuro, le sue prospettive, le sue mutevoli forme – ma pochi dettero più di un superficiale riconoscimento alla sua principale fonte di sostentamento – il salario maschile – e alle conseguenze di una tale dipendenza sia per le
6 relazioni interne alla famiglia che per quelle dei gruppi sociali più ampi2. A giudicare da gran parte di questa letteratura, il matrimonio esiste in un qualche regno al di fuori degli ordinari legami economici, e le famiglie operano più o meno come associazioni di volontariato o club sociali, a cui i soci hanno scelto di aderire.
Le basi concettuali per una tale innocente visione del matrimonio erano state gettate dagli scienziati sociali di inizio Novecento, primo fra tutti lo storico Arthur W. Calhoun. Calhoun era entusiasta della famiglia moderna che vide emergere dalla selvatichezza del passato. La famiglia contadina di vecchio stampo era stata un’unità di produzione, i cui membri erano tenuti assieme, un po' brutalmente, da necessità economiche. Poi vennero l'industrializzazione e la rimozione della produzione (stoffa e manifattura di abbigliamento, preparazione dei cibi, ecc) dal contesto casalingo. La famiglia moderna, liberata dall’imperativo del lavoro collettivo, era pensata per essere non più vincolata da necessità economiche, ma da esigenze e preoccupazioni più “spirituali”. A distanza di sicurezza dal mondo commerciale esterno, la famiglia “smette di essere un raggruppamento forzato e si sviluppa in direzione di unità etica e democrazia spontanea”. Per Calhoun e gli studiosi che ne seguirono il pensiero, la “famiglia
solidale”, isolata dalla competitività e dallo spirito commerciale
dell’“economia” esterna, non era solo un ideale liberal, bensì una descrizione della realtà.
Ciò che mancava in questa descrizione era l'economia della famiglia stessa. Su questo punto, anche Calhoun a volte vacillava. Con l’avvento della rivoluzione industriale aveva scaraventato la “necessità economica” al
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In una delle rare eccezioni per questo genere di libri “familiari”, Louise Kapp Howe osservava acutamente che “[…] l'ipotesi di un società basata sul breadwinner maschio – e relative politiche sociali, struttura occupazionale e atteggiamenti sessisti che ne derivano – finisce col determinare le vite di tutti all'interno della famiglia: se è presente o meno un
breadwinner maschio, se si vive secondo le regole nei sobborghi tentando di romperle in
una comune”; Louise Kapp Howe (ed.), The Future of the Family, New York, Simon & Schuster Inc., 1972, p. 21.
7 di fuori della famiglia, ed era troppo cavaliere per ammettere che potesse essere un nuovo tipo di necessità economica quello che legava la moderna donna al marito. Eppure, quando guardava alle famiglie di classe media del suo tempo, trovava segni inquietanti. Troppe donne erano diventate “mogli parassitarie”. Troppi uomini erano stati ridotti a meri “meccanismi di guadagno”. Gli accadde che, con l'industrializzazione e la rimozione da casa del lavoro di produzione tradizionalmente femminile, “il padre arriva a vedere la famiglia più come una responsabilità che come una risorsa”. Cupamente, Calhoun suggerì che questo potesse “in parte spiegare il fenomeno della diserzione familiare [maschile]”3
.
Mentre Calhoun cadeva in equivoco, due dei suoi contemporanei stavano assumendo uno sguardo più insensibile riguardo l'economia del matrimonio e della famiglia. Erano entrambi intellettuali anticonformisti: una era femminista e socialista, l'altro conservatore e auto-professato misogino. Se non altro per la persistenza di vedute più sentimentalistiche, oggi le loro idee sono ancora fresche e persino radicali.
Charlotte Perkins Gilman, scrittrice e docente femminista, formò le sue opinioni sul matrimonio a partire dalla sua infelice esperienza personale. Suo padre era uno dei disertori da cui Calhoun metteva in guardia e se ne andò di casa quando Charlotte era molto piccola, lasciando la famiglia in povertà. Il suo matrimonio con un giovane pittore sembrava più promettente, poiché, come scrisse in seguito, “amante più tenero e marito più devoto una donna non poteva chiedere”. Ma poco dopo la nascita del loro figlio, Charlotte (all’epoca Stetson) sviluppò una forma prolungata di quella che allora si chiamava prostrazione nervosa e che noi oggi diagnostichiamo come depressione. Nei successivi mesi di prostrazione e “assoluta miseria” ebbe il tempo di contemplare il lato oscuro persino del miglior matrimonio. Divorziata e complessivamente guarita, intraprese uno
3
Arthur Calhoun, Social History of the American Family, Vol. III, Since the Civil War, Cleveland, The Arthur H. Clark Co., 1919, p. 160.
8 strenuo assalto a vita nei confronti di tutte quelle cose a cui la maggior parte delle suffragette sue contemporanee teneva ancor più che al voto: il matrimonio e la famiglia della tradizione borghese.
Gilman descrisse l'economia del matrimonio usando il linguaggio della biologia, e l'effetto fu brutale: “La femmina del Genus Homo è dunque economicamente dipendente dal maschio”, scrisse,“è questi che provvede al nutrimento di lei.”4
Il matrimonio era una “relazione economico-sessuale” in cui gli uomini pagano in denaro i servizi femminili; e pagano, ironia della sorte, in relazione inversa al lavoro svolto. Le mogli dei poveri, prive di agi e servitù, dovevano lavorare al massimo ed erano pagate il minimo: “Le donne che fanno il maggiore lavoro, guadagnano meno danaro, e le donne che hanno maggior danaro sono quelle che fanno il minimo del lavoro”. Nelle classi medio-alte, la posizione delle donne era parassitaria. La maggior parte delle attività femminili potevano esser svolte dagli stessi uomini e bambini, abolite senza grande disagio, oppure (nella sua visione utopica) collettivizzate attraverso la creazione di mense, lavanderie, centri di assistenza diurna o altro, a poco prezzo. Così, con il lavoro domestico disperso o messo da parte, le donne sarebbero state libere di entrare nella forza lavoro come percettrici di reddito indipendenti e di fare il proprio ingresso nel matrimonio in condizione di parità con gli uomini.
All'interno del sistema “economico-sessuale” prevalente, gli uomini facevano il miglior affare, pensava Gilman – anche se solo in termini morali. È vero, gli uomini dovevano pagare un prezzo elevato per servizi domestici discutibili e spesso inetti, ma questo a loro stava bene. Anticipando Betty Friedan, credeva che dipendenza e concentrazione esclusiva sul dettaglio domestico infantilizzassero le donne, rendendole potenzialmente inadatte persino per la vocazione centrale della maternità. E,
4
Charlotte Perkins Gilman, Women and Economics, Boston, Small Maynard & Co., 1898, trad. it. La donna e l'economia sociale: studio delle relazioni economiche fra
uomini e donne e della loro azione nell'evoluzione sociale, Firenze, Barbera Editore,
9 anticipando George Gilder, credeva che il ruolo di sostentamento elevasse e “maternizzasse” gli uomini, addomesticando “l'azione distruttrice dell’energia maschile” e insegnando loro ad amare, curare, lavorare, servire ed essere umani. La questione che Gilman lasciò aperta fu: perché gli uomini dovrebbero volontariamente intraprendere un percorso di auto-miglioramento così costoso e impegnativo?
L'iconoclastico giornalista H. L. Mencken aveva una risposta, anche se probabilmente a Gilman non sarebbe piaciuta. Se gli uomini si sposavano, scriveva, era per via della loro stupidità. In un libro del 1918, astutamente intitolato In Defense of Women, descriveva l'uomo medio come “un damerino quasi da non credere”, adescato con facilità dall’intrigante femmina della specie. Pateticamente, il maschio medio “vede ciò come una grande testimonianza della sua prodezza amorosa nel cedere la propria libertà, proprietà e anima alla prima donna che, nella disperazione di non trovare gioco migliore, pone i suoi occhi valutatori su di lui”. Una volta sposati, lo status legale di un uomo era poco meglio di quello di un servo a contratto, poiché “ai sensi dell’accordo di matrimonio, tutti i doveri ricadono sull’uomo e tutti i privilegi appartengono alla donna”. La legge richiedeva che fosse l’uomo a mantenere la moglie, ma non richiedeva che lei fosse in grado di preparare un pasto decente, così
Se il marito medio americano vuole una bella cena, deve andare in un ristorante per averla; così come, se intende rigenerarsi in compagnia di bambini splendidi e ben educati, deve andare in un collegio di orfani.5
Anche se il marito medio andasse in cerca di un pasto alla tavola calda, di compagnia femminile alla sala da ballo e di soddisfazioni paterne tra i ragazzini di strada, dovrebbe comunque mantenere moglie e figli. E se questa sembra una descrizione un po' sopra le righe della condizione maschile, il lettore dovrebbe sapere che le credenziali intellettuali di Mencken erano in perfetto ordine: anche lui era scapolo. Il celibato
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10 dimostrava “la relativa libertà di un uomo rispetto all’ordinario sentimentalismo del suo sesso – in altre parole, il suo maggiore avvicinamento alla lucidità del sesso nemico”.
Ognuno a suo modo, il misogino Mencken e la femminista Gilman, scorsero la realtà economica oltre il velo romantico del matrimonio: nella moderna società industriale, che si supponeva avesse liberato i rapporti personali dai vincoli della necessità economica, le donne erano le dipendenti degli uomini. Quel che anche la Gilman non colse a pieno fu che questa dipendenza era diventata parte integrante dei meccanismi economici più ampi, e che sarebbe durata – nonostante gli sforzi delle donne e le proteste di qualche dissidente maschile occasionale come Mencken – ben oltre la metà del secolo.
L'economia americana, ai primi del Novecento, era basata sul principio del salario familiare: un lavoratore di sesso maschile doveva essere pagato abbastanza da poter sostenere la famiglia. Dico “principio” per distinguerlo dalla realtà. La realtà della quasi totalità di questo secolo era che solo i più privilegiati tra i lavoratori maschi – quelli membri di sindacati forti, o di mestieri e professioni esperte – in realtà guadagnavano abbastanza per mantenere una famiglia. Eppure il principio, come osserva Louise Kapp Howe, si applicava a tutti: come obiettivo di innalzamento personale (un uomo traeva orgoglio dal fatto che la moglie non “dovesse” lavorare) e in qualità di ideale sociale. I socialisti sostenevano il salario familiare, i sindacalisti combattevano per esso, e la maggior parte delle femministe, a fine secolo, o lo approvavano o non vi si opponevano. Ma, come la storica Heidi Hartmann ha spiegato, la lotta per il salario familiare ha contribuito a stabilire la nostra attuale gerarchia occupazionale basata sul genere6. Le donne erano tagliate fuori da paghe di ordine superiore, lavori artigianali e
6
Heidi Hartmann, The Unhappy Marriage of Marxism and Feminism: Towards a More
Progressive Union, in Lydia Sargent (ed.), Women and Revolution, Boston, South End
11 professioni, e spinte verso il gradino più basso del mercato del lavoro. Come si è scoperto, l'altro lato del principio per cui un uomo dovrebbe guadagnare abbastanza per sostenere la famiglia è che una donna non ha bisogno di guadagnare abbastanza per mantenere nemmeno se stessa.
La perpetuazione del sistema del salario familiare è dipesa da due cose: una è un fatto, l'altra è un’ipotesi. Il fatto è che gli uomini, in media, guadagnano più delle donne. L’ipotesi è che gli uomini usino i loro salari più alti per mantenere le donne, e perciò che la maggior parte delle donne sia, almeno in parte, mantenuta dagli uomini. È facile dimostrare come l’ipotesi abbia rafforzato il fatto, e viceversa. Se si suppone che la maggior parte delle donne siano già mantenute da uomini, allora esse possono, in buona coscienza, essere pagate meno degli uomini. E se le donne non possono aspettarsi di guadagnare un salario decente per conto proprio, esse cercheranno davvero il sostegno finanziario di singoli uomini. Ciò rafforza l'ipotesi per cui gli uomini, in qualità di sovvenzionatori del femminile, meritano salari più alti, e così via.
Ecco dunque l'asimmetria di base assunta dal bisogno, il quale diede forma a ciò che eravamo soliti chiamare “battaglia dei sessi”. Il sistema del salario familiare garantisce che, almeno per ragioni economiche, le donne avranno maggior interesse a sposarsi e a contrarre un “buon” matrimonio, e un maggiore interesse finanziario nei loro matrimoni rispetto agli uomini. In questa situazione di disparità, l'unica cosa che salva la dignità delle donne è il fatto che anche loro “lavorano”, anche quando non impiegate al di fuori della casa. Ma il lavoro domestico, Charlotte Perkins Gilman ha sottolineato, ha uno status goffo e incerto. Tra noi, quelle che lo fanno, e scrivo per esperienza personale, sanno che educare i figli e occuparsi della casa è un lavoro mentalmente impegnativo, fisicamente debilitante e quasi totalmente inapprezzato dai colleghi adulti. Ma sappiamo anche che, al di sopra di qualche irriducibile livello biologico minimo per cui i bambini patiranno la fame e gli ospiti contrarranno malattie infettive dalle nostre
12 stoviglie, noi donne lavoriamo al nostro ritmo e secondo i nostri standard. Questi standard sono personali e variabili. Sono anche, come io e Deirdre English sostenevamo in For Her Own Good, determinati dagli “esperti” arbitri di ciò che costituisce una buona gestione della casa e un’adeguata maternità7. Dunque noi stesse ci troviamo spesso in difficoltà nel riuscire a dire quanto del nostro lavoro sia fatto per conformità – o, in certi casi, compulsività – e quanto per necessità. E qualsiasi cosa facciamo, sappiamo che perlomeno gli uomini possono sopravvivere senza di esso. Come il sociologo Carol Brown ha scritto:
Ora, il lavoro personale di una moglie può essere sostituito da prodotti commerciali come forni auto-pulenti. Il lavoro femminile è disponibile al di fuori della casa. Le cameriere servono cibo e puliscono i tavoli; le infermiere si prendono cura dei corpi malati; le terapeute forniscono spalle su cui piangere. In terzo luogo, le donne sono pubblicamente disponibili, e svolgono col sorriso la propria prestazione lavorativa e, dopo l’orario di chiusura, quella sessuale. Perciò, gli uomini non hanno quell’incentivo a trovare una sola donna e unirsi a lei finché morte non li separi8
Dalle loro capacità ufficiali gli uomini hanno teso a eliminare i lavori casalinghi e la crescita dei figli, ma raramente si offrono di pagare per essi con soldi pubblici. Il presidente Theodore Roosevelt, per esempio, una volta dichiarò il lavoro casalingo una “carriera ... più degna di onore e ... più utile alla comunità che la carriera di un uomo qualsiasi, non importa quanto di successo”9. Tuttavia, né lui né uno qualunque dei suoi successori offrì alle
donne un qualche riconoscimento finanziario per i loro sforzi, e il sollievo pubblico offerto dal New Deal restò miseramente inadeguato rispetto al reddito per il quale un uomo era giudicato “di successo”. Se il lavoro casalingo fosse una carriera essenziale, come Roosevelt sosteneva, o
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Barbara Ehrenreich e Deirdre English, For Her Own Good: 150 Years of the Experts’
Advice to Women, Garden City N.Y., Anchor Press/Doubleday, 1978.
8
Carol Brown, Mothers, Fathers, and Children: From Private to Public Patriarchy, in L. Sargent, cit., p. 245.
9
Theodore Roosevelt, Address to the First International Congress on the Welfare of the Child, Washington D.C., March 1908.
13 semplicemente una “pseudo occupazione”, come concluse in seguito il sociologo Talcott Parsons, fu lasciato al patrocinio di singoli uomini.
Quindi, già ben prima del recente allarme sulla “disgregazione della famiglia”, il sistema salariale della famiglia del ventesimo secolo mostrava premesse di grave instabilità. I problemi, direbbe un moderno scienziato sociale, erano “strutturali”, cioè da sempre là, incastonati nell’articolazione stessa del sistema. Se accettiamo la formulazione dell’antropologo Claude Lévi-Strauss, il legame eterosessuale dipende da una netta divisione del lavoro; una donna fa X (che potrebbe essere la tessitura di stoffe, il custodire un negozio o il crescere i propri figli) e un uomo fa Y (che sia pesca, pastorizia o contabilità). Le uniche regole sono: (1) che X sia rigidamente tipizzata come un’attività femminile e Y come un’attività maschile, di modo che nessuno sia in grado di fare sia X che Y per sé, e (2) che X sia considerato uno scambio abbastanza equo per Y. Ma nelle società a capitalismo industriale, il femminile X divenne un insieme di attività che gli uomini potevano fare e spesso facevano per sé (con la sola palese eccezione del dare alla luce i figli) e il maschile Y ridotto all’occupazione di guadagnarsi da vivere. Inoltre, la X a cui le donne erano di solito state confinate era un'occupazione di dubbio status e a limitata commerciabilità. Ogni uomo che avesse raggiunto ciò che Mencken descriveva come “la lucidità del sesso nemico” poteva ragionevolmente concludere che lo scambio di Y per X era un affare da poco.
Il lettore potrebbe obiettare che questa sia un'analisi condotta con eccessiva freddezza. Esiste, dopo tutto, l'amore; esiste il desiderio sessuale; e vi è una sorta di dipendenza emotiva che può sopravvivere per decenni all’entusiasmo sessuale. Nel suo libro, The Future of Marriage, Jessie Bernard sostiene che, quando le immateriali soddisfazioni del matrimonio vengono prese in considerazione, sono gli uomini, e non le donne, a dipendere in modo sproporzionato. Gli uomini sposati vivono più a lungo delle loro controparti single e, secondo le indagini, sono più felici e hanno
14 più probabilità di essere giudicati mentalmente sani. Tra le donne, vi è la prova che accada il contrario; le casalinghe a tempo pieno, in ogni caso, sono “più malate” delle altre donne da diversi punti di vista. Bernard riconosce che “il matrimonio ha goduto di cattiva stampa tra gli uomini”, ma insiste: “che lo sappiano o no, gli uomini necessitano del matrimonio più delle donne”. Addirittura ipotizza che il risentimento maschile nei confronti del matrimonio rappresenti “una sorta di reazione compensatoria della loro dipendenza da esso”10.
Bernard può avere ragione circa la dipendenza maschile dalle amorevoli cure femminili. Ma quando andiamo a reintrodurre i soldi nello scambio, la vecchia asimmetria riappare. In un matrimonio tradizionale – cioè l'unione di un breadwinner11 maschio con una casalinga – il marito potrebbe avere bisogno, così come la moglie, di una serie di soddisfazioni emotive. Ma la moglie ha bisogno, in aggiunta, dei mezzi con cui acquistare i generi alimentari, e non vi è alcuna garanzia che la dipendenza emotiva di un uomo da sua moglie durerà quanto la dipendenza femminile finanziaria da lui. Il sistema del salario familiare non tiene conto di quella grande verità ribadita senza sosta sulle stazioni radio AM: che l'amore è incostante.
La legge riconosce la dipendenza economica delle donne e, almeno in linea di principio, intima agli uomini sposati di condividere i loro salari. Nel suo libro esauriente, The Marriage Contract, Lenore Weitzman riferisce che quasi ogni stato pone la responsabilità legale sul marito affinché mantenga la moglie e i figli. Per esempio, nel 1973 una corte in
10
Jessie Bernard, The Future of Marriage, New York, World Publishing, 1972, p. 18.
11
Letteralmente, il termine identifica “colui che porta a casa il pane”, ovvero chi sostiene economicamente il nucleo familiare. Indica cioè un percettore di reddito, tradizionalmente maschio, l’unico a detenere la facoltà di guadagnare qualcosa all’interno del nucleo familiare, e che ha dunque la responsabilità, ma anche il prestigio, di mantenere economicamente l’intera famiglia. Non trovando traducenti del tutto soddisfacenti e altrettanto esplicativi, ho preferito mantenere il termine breadwinner in tutti i casi in cui comparirà. La mia scelta è rafforzata dall’evidenza che altri saggi di lingua italiana utilizzano il termine breadwinner, senza ricorrere a traducenti. Si veda per esempio: E. Ruspini, Uomini e corpi. Una riflessione sui rivestimenti della mascolinità, [NdT]
15 Pennsylvania dichiarò che “il marito ha un obbligo morale e legale assoluto di mantenere la moglie [...]”. Ma, come spiega Weitzman, né la portata di questo “obbligo”, né il livello di sostentamento in relazione al reddito di un uomo è stato mai definito, cosicché, in termini pratici, il “diritto al mantenimento” sta a indicare poco più che “il privilegio di vivere con il marito”12. Dopo il divorzio, la legge prende solo leggermente più a cuore la
situazione finanziaria della donna: soltanto il venticinque per cento delle donne cui la corte garantisce il diritto al mantenimento dei figli lo percepisce effettivamente, e il sessanta per cento di queste riceve meno di 1500 dollari l’anno13
. In breve, nonostante un uomo possa guadagnare un “salario familiare”, non c'è niente a livello legale che lo costringa a condividerlo.
Ecco forse la più grande debolezza dei sistemi sociali basati sul principio del salario familiare: che essi dipendono così tanto dalla volontà dei singoli uomini. Gli uomini sono favoriti all’interno del mercato del lavoro, sia dai tipi di occupazioni a loro disposizione che da una discriminazione informale all'interno delle occupazioni, per cui essi guadagnano, in media, il quaranta per cento in più rispetto alle donne. Eppure, nulla li costringe a diffondere la ricchezza a coloro – donne e bambini – che sono esclusi dal lavoro o meno generosamente ricompensati per esso. Gli uomini non possono essere costretti a sposarsi; una volta sposati, non possono essere costretti a portare a casa i loro stipendi, essere lavoratori affidabili oppure, com’è ovvio, a rimanere sposati. In realtà, considerando l'assenza di coercizione legale, la cosa sorprendente è che gli uomini abbiano per tanto tempo, e, nel complesso, in maniera così affidabile, aderito a quella che potremmo chiamare “l’etica del breadwinner”.
12
Lenore J. Weitzman, The Marriage Contract: Spouses, Lovers, and the Law, New York, The Free Press, 1981, pp. 40–41.
13
National Advisory Council on Economic Opportunity, Final Report: The American
Promise, Equal Justice and Economic Opportunity, Washington D.C., U.S. Government
16 * * *
Questo libro tratta dell'ideologia che diede forma all'etica del
breadwinner e di come quell’ideologia collassò, assieme a tutta una
convincente serie di aspettative, solo negli ultimi trent’anni. Per descrivere il cambiamento in modo breve ed elementare: negli anni Cinquanta del Novecento, da cui cominciamo, una ferma aspettativa (o, come diremmo oggi, “ruolo”) richiedeva che gli uomini crescessero, si sposassero e mantenessero le loro mogli. Fare qualcosa di diverso dimostrava meno maturità, e l'uomo che deviava volontariamente era giudicato in qualche modo “un po’ meno uomo”. Questa aspettativa era sostenuta da un’enorme quantità di pareri esperti, sentimento morale e faziosità pubblica, sia all'interno della cultura popolare che nei centri d'elite della sapienza accademica. Ma tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, la maturità maschile non fu più legata all'aspettativa automatica di matrimonio e breadwinning. L'uomo che posticipa il matrimonio anche fino alla mezza età, che evita le donne che rischiano di diventare finanziariamente sue dipendenti e che si dedica ai propri piaceri ha tutte le probabilità di non essere sospettosamente considerato deviante, bensì “sano”. E questo giudizio, come il precedente, è supportato da pareri esperti, sentimenti morali e pregiudizi di un notevole settore della classe media americana.
Questo drastico cambiamento nelle aspettative culturali che abbiamo dagli uomini è stato ignorato, minimizzato oppure sepolto sotto l’inflazionata voce del “cambiamento dei ruoli sessuali”. Ovviamente, le nostre aspettative di donne adulte sono cambiate altrettanto drammaticamente negli ultimi trent’anni. Il vecchio ideale femminile – la casalinga a tempo pieno con la station wagon piena di bambini – è stato in gran parte sostituito dalla donna in carriera con valigetta e tailleur. In parte perché i cambiamenti del ruolo femminile hanno ricevuto un’articolazione cosciente grazie al movimento femminista, si crede di solito che i
17 cambiamenti maschili (o nel comportamento che ci si attende dagli uomini) derivino da, o siano semplicemente in reazione a, i cambiamenti femminili. Eppure sosterrò che il crollo dell’etica del breadwinner era cominciato molto prima della rinascita del femminismo e che derivava da insoddisfazioni altrettanto profonde, se non altrettanto idealisticamente espresse, quanto quelle che avevano motivato le nostre fondatrici della “seconda ondata” del femminismo.
Inoltre, voglio imprimere in voi la profondità del cambiamento rappresentato dal crollo dell’etica del breadwinner. Nel giro di pochi decenni, la nostra cultura ha invertito le aspettative che rendevano il sistema di salario familiare giustificabile in ogni senso come mezzo di distribuzione della ricchezza da coloro che sono relativamente avvantaggiati in qualità di salariati, a molti di quelli (donne e bambini) che non lo sono. Gli uomini sono ancora incentivati a lavorare e anche a riuscire in lavori tediosi e manifestamente inutili, ma non necessariamente a lavorare per gli altri.
Questo è un libro di idee, immagini, percezioni e opinioni provenienti da fonti diverse – e lascio ai sociologi il compito di tracciare i cambiamenti comportamentali e attitudinali che hanno accompagnato i cambiamenti delle idee. Ma le idee vengono da qualcuno, e nella nostra società le idee secondo cui viviamo e secondo le quali formiamo i nostri giudizi hanno avuto la tendenza a provenire dagli uomini (e, più raramente, dalle donne) di quella che è variamente chiamata “classe nuova”, “classe professionale-manageriale” o con molta meno precisione, classe media. Questo non per svalutare il ruolo generativo della classe capitalistica, la quale impiega gran parte della classe media professionale-manageriale o della classe operaia, che è, a sua volta, educata, gestita e spesso anche oggetto di discussione della classe media. Ma ragionando in termini di “anno dopo anno”, sono gli uomini nel mezzo a essere “produttori di conoscenza”, sia che si tratti di generare verità “scientifiche” sulla natura umana e sulle possibilità, di distillare queste verità per il consumo pubblico, o piuttosto di riflettere su di
18 esse nei libri e nei film. Questi uomini modellarono e resero popolare l'ideologia che aveva sostenuto l'etica del breadwinner, e quando l’ideologia cambiò, fu perché essi la cambiarono. Per questo motivo mi sento giustificata a utilizzare una costruzione più attiva del “collasso dell'etica del breadwinner” e a parlare di rivolta maschile – anche se difficilmente organizzata e raramente consapevole dei suoi scopi – contro l'etica del breadwinner.
In qualità di femminista, negli ultimi dodici anni sono stata impegnata in un'altra rivolta, e mi sono avvicinata a questa con iniziale antagonismo, un graduale aumento di comprensione e, infine, una certa impazienza. La grande ironia, come dimostrerò in seguito, è che la reazione conservatrice antifemminista che emerse negli anni Settanta del Novecento è una reazione non tanto contro il femminismo quanto contro la rivolta maschile. Viviamo in un’epoca pericolosa per i dissidenti di ogni tendenza, e non meno per quelli troppo impotenti e impoveriti per dissentire. La questione è se noi ribelli di entrambi i sessi abbiamo abbastanza in comune per lavorare insieme verso una società più generosa, dignitosa e premurosa.
19
2. BREADWINNER E PERDENTI Le sanzioni contro la devianza maschile
Non c’è da stupirsi se un giovane maschio borghese laureato della mia generazione che si faceva beffe dell'idea di sposarsi, che avrebbe preferito piuttosto mangiare cibo in scatola o andare alla mensa, spazzarsi da sé il pavimento, farsi il letto e andare e venire senza alcun vincolo legale [...] si esponesse all’accusa di “immaturità”, se non di “latente” o conclamata “omosessualità”. O che semplicemente lo si ritenesse “egoista”. O “spaventato dalle responsabilità”. Uno che non “si impegnava” (simpatica espressione istituzionale) in una “relazione duratura”.
–Philip Roth, La mia vita di uomo14
Pochi uomini ammetterebbero di essersi sposati per ragioni diverse da quelle dell’amore o dell’incompetenza domestica. Eppure, non più tardi del 1966, un importante psicanalista e scrittore americano, il dott. Hendrik Ruitenbeek, osservava che:
L'America contemporanea sembra non avere spazio per lo scapolo maturo. Come osservò una volta un mio collega, un uomo solo sulla trentina è oggi considerato un pervertito, un individuo con gravi problemi emotivi o una povera creatura incatenata a sua madre.15
Verso la fine degli anni Cinquanta, l'età media maschile da matrimonio era di ventitré anni e, secondo la saggezza popolare, se un uomo se ne teneva fuori più a lungo, diciamo anche sino ai ventisette anni, “dava da pensare”. Comunque, gli psichiatri come il dottor Ruitenbeek e i suoi colleghi non erano proprio lontani dal pregiudizio popolare avverso a uomini scapoli “attempati”. Dagli anni cinquanta e sessanta del Novecento, la psichiatria aveva sviluppato una quantità enorme di teorie che stabilivano che il matrimonio – e, in esso, il ruolo del breadwinner – fosse l'unica
14 Philip Roth, My Life as a Man, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1974,trad. it.
La mia vita di uomo, trad. di Norman Gobetti, Giulio Einaudi editore, Torino 2011,
pp.192-193.
15
Hendrik M. Ruitenbeek, Psychoanalysis and Male Sexuality, New Haven, College and University Press, 1966, p. 12.
20 condizione di normalità per il maschio adulto. Al di fuori, si riversavano solo una serie di diagnosi, tutte poco lusinghiere.
Di primo acchito, costruire una giustificazione scientifica per il ruolo di
breadwinner maschile era un’impresa un po' più impegnativa che spiegare
perché le bambine crescessero per diventare di necessità mogli e madri. Per le donne, la biologia era più chiaramente destino, e i freudiani non avevano problemi a navigare attraverso il passaggio evolutivo dalle prime mestruazioni sino al bagnetto del bambino e all’adesione alla PTA.16 Era
più difficile tracciare il percorso secondo il quale chi aveva il pene sarebbe stato condotto verso una carriera di middle management e fine settimana passati alla Scuola Calcio.17 Questo fu il compito che la psicanalista Therese Benedek assegnò a se stessa nel suo studio su “paternità e sostentamento”; uno sforzo che illustra, se non altro, la fede profonda che la sua professione aveva nella “naturalezza” del ruolo del breadwinner maschile.
Benedek ipotizzava che il ruolo maschile tradizionale, come quello femminile, avesse “radici istintuali”. Con le donne le cose erano semplici, dal momento che “il comportamento materno è regolato da un ormone pituitario”. Nel caso degli uomini, nessun ormone di paternità/sostentamento era ancora “riconoscibile”, così Benedek citava il comportamento esemplare degli uccelli maschi e di alcune specie di pesci che, a differenza della maggior parte dei mammiferi maschi, mostrano un impulso ad allevare i propri piccoli. Imperturbata dal divario filogenetico tra pettirossi ed esseri umani, dichiarava:
Queste osservazioni dimostrano che fornire nutrimento e protezione non è un fardello culturalmente imposto al maschio della specie, ma piuttosto “l’ordine naturale”.
16
Parent-Teacher Association, cioè l’associazione genitori insegnanti, realtà sconosciuta in Italia [NdT]
17
Ho cercato un’equivalente che rendesse l’idea di un impegno sportivo continuativo legato ai figli [NdT]
21 Inoltre, il procacciare cibo veniva collegato alla maschile “pulsione istintiva alla sopravvivenza” e la prova di questo era che gli uomini preferiscono figli maschi, cioè bambini che appaiono come estensioni di sé. Benedek non approfondì invece se i pettirossi padri preferissero anch’essi piccoli di sesso maschile o se i maschi umani sentissero un bisogno un po’ minore di provvedere alle loro bambine. Come percependo il pantano socio-biologico che aveva scoperchiato, Benedek faceva un appello finale alla storia: “tutte le culture significative”, scriveva, “si sono sviluppate dall’assunto di base per cui il padre-marito è il protettore e breadwinner principale della famiglia”. Nel corso del tempo, questo atteggiamento era stato così accuratamente impresso che, dopo tutto, gli istinti non erano davvero necessari:
Ripetuto attraverso innumerevoli generazioni, trasferito dai padri ai figli, il ruolo dell'uomo quale addetto al sostentamento è diventato indipendente dalle sue radici biologiche.
Ma né queste abitudini radicate, né gli istinti aviari erano al cento per cento affidabili, e nel descrivere i “fallimenti” maschili Benedek inconsapevolmente apriva la porta a una spiegazione più volontaristica del comportamento maschile. Scriveva: “Sappiamo che gli uomini spesso evitano il matrimonio e la paternità”, “ci sono padri che abbandonano moglie e figlio; spesso questi uomini diventano ‘barboni’ (vagabondi) [...]” uscendo di scena per “evitare la civilizzazione”. Ma non ascriveva il loro fallimento – come la sua teoria avrebbe richiesto – a un insufficiente istinto di nidificazione, all’eredità di una cultura “insignificante” o simili incidenti del destino. Gli uomini che avevano rifiutato il ruolo di sostentamento erano, era il suo giudizio finale, semplicemente “impauriti dalle responsabilità intrinseche.”18
18
Therese Benedek, Fatherhood and Providing in E. James Anthony - Therese Benedek (eds.), Parenthood: Its Psychology and Psychopathology, Boston, Little Brown & Co., 1970, p. 167.
22 La maggior parte degli psicologi e psicoanalisti respingeva la biologia in favore di una spiegazione meno deterministica e più strenua dell’ascesa dell'uomo al ruolo di breadwinner. Negli anni Cinquanta del Novecento Erik Erikson introdusse l’idea del “ciclo della vita”, puntellato di crisi e culminante, se tutto andava bene, in uno stato di maturità. Rappresentava una divergenza rispetto a Freud, che aveva concentrato tutti i drammi psicologici critici negli anni della scuola materna (una scelta che, incidentalmente, fu importante nel rafforzare ulteriormente il bisogno della maternità a tempo pieno fino a quando il figlio più piccolo della donna avesse almeno sei anni). Dopodiché non rimaneva altro che elaborare o ripetere quei modelli radicatisi nei primissimi anni dell’infanzia. Erikson non solo estendeva il periodo di vita d’interesse psicanalitico, ma introduceva nuovi elementi di responsabilità e di scelta. Una persona poteva svolgere i “compiti” evolutivi per passare da una fase all’altra del ciclo di vita, oppure (uomo o donna che fosse) poteva rimanere bloccato e non riuscire più ad avanzare verso la maturità. Erikson non specificava da nessuna parte il preciso contenuto delle varie fasi dei periodi occupazionali (sebbene il suo schema mostri una certa somiglianza con la traiettoria della carriera di un professore universitario di successo). Ma la “maturità” e i “compiti” che vi conducevano entrarono rapidamente nel vocabolario degli psicologi come parole del codice professionale per indicare la conformità.
È difficile, sulla scia della ribellione giovanile degli anni Sessanta, apprezzare il peso e l'autorità che una volta si associavano alla parola “maturità”. Guardando indietro al suo primo matrimonio nel 1950, A. Alvarez scriveva nel 1981: “Ebbi questa terribile sete di precoce maturità, questo irresponsabile desiderio di responsabilità, prima di farmi un’idea di cosa comportasse la maturità o di aver mai gustato i piaceri dell’irresponsabilità giovanile.”19 La maturità non era noiosa, bensì
19
23 “eroica”; un’accettazione misurata dei limiti degli sforzi privati di qualcuno in un’epoca in cui l'azione su più ampia scala politica poteva sembrare solo sciocca – o sospetta. Romanzi come L’uomo dal vestito grigio20 e Marjorie
Morningstar avallavano la maturità, e nel 1950 il best seller La Mente Matura la eresse a conquista evolutiva.
Nelle pagine d’apertura de La mente matura l’autore, H. A. Overstreet, descrive ogni sforzo scientifico – fisica, chimica, biologia e psicologia – come brancolamenti preliminari verso “il concetto di maturità”. Infine, “il suo pieno significato comincia ora a rivelarsi a noi [...] a questo ci hanno condotto le nostre conoscenze precedenti”. E non troppo presto, poiché secondo Overstreet ogni possibile follia umana può essere attribuita all’“immaturità” – la guerra, il razzismo, le agitazioni sindacali, l’ingiustizia sociale, la promiscuità e persino la fastidiosa tendenza di alcune persone a giocare scherzi. “A Gesù Cristo”, scriveva Overstreet con approvazione, “si attribuisce l’affermazione di una delle cose più mature mai dette da un essere umano sofferente”, poiché nel chiedere perdono per i suoi crocifissori riconobbe che essi “non erano malvagi”, ma solo immaturi. La maturità stessa richiedeva prevedibili e sobri ingredienti come saggezza, responsabilità, empatia, (matura) eterosessualità e “un senso della funzione” o, come avrebbe detto un sociologo, l'accettazione di ruoli sessuali adulti. Perciò una donna sarebbe immatura se reclamasse “tutti i vantaggi del matrimonio” non sopportando però i lavori di casa, e l’uomo non sarebbe proprio maturo se si sottraesse al ruolo di breadwinner:
[...] un uomo è immaturo se considera il mantenimento di una famiglia come una specie di trappola in cui egli, maschio senza sospetto, è stato in qualche modo preso. Così l’individuo che non riesce a sistemarsi e resta un dilettante di professione, e l’individuo che ambisce al
20
Il termine “gray flannel suit” si riferisce agli uomini d’affari della classe media negli anni Cinquanta. L’espressione del titolo originale del romanzo di Sloan Wilson, The Man
in the Gray Flannel Suit¸ è stata tradotta in italiano come L’uomo dal vestito grigio. Nel
corse del libro tradurrò questa espressione come vestito grigio o più semplicemente come flanella grigia [NdT].
24
prestigio di un certo tipo di lavoro, ma è insofferente della routine cui esso porta, sono immaturi nel loro senso di funzione.21
Come giungeva un uomo alla maturità? Nel 1953 lo psicologo R. J. Havighurst scoprì otto “compiti evolutivi della prima età adulta”, la cui esecuzione era un prerequisito della età matura adulta. La lista, che sarebbe stata ripetuta nei libri di testo di psicologia dello sviluppo per quasi tre decenni, includeva: (1) selezionare un compagno, (2) imparare a vivere con un coniuge, (3) formare una famiglia, (4) allevare bambini, (5) gestire la casa, (6) iniziare una professione, (7) assumersi responsabilità civiche e (8) trovare un gruppo sociale congeniale. Nella letteratura della psicologia dello sviluppo degli anni Cinquanta del Novecento, non sarebbe servita troppa lettura supplementare per capire che i compiti 4 e 5 sono di speciale responsabilità del partner femminile, e che il sesto è la speciale regione del maschio.
Il fatto che i compiti di sviluppo “scoperti” dagli psicologi si avvicinassero così strettamente alle aspettative che si potevano trovare nel
Reader’s Digest pareva solo migliorarne lo status scientifico. Un libro di
testo di psicologia dello sviluppo rassicura lo studente che i compiti di cui si sta per parlare non comporteranno alcuna sorpresa per lui, dal momento che “le aspettative sociali per il giovane adulto nella nostra cultura sono chiaramente definite e a lui familiari anche prima che egli raggiunga la maturità legale”22. Un altro introduceva la lista di controllo associata
all'inconfutabile osservazione che “la maturità si verifica secondo il numero di compiti di sviluppo adulto completati con successo”23
. Altri – e questi sono testi ancora molto letti da chi studia per diventare assistente sociale o qualcos’altro nella cerchia delle professioni assistenziali – offrivano
21
H. A. Overstreet, The Mature Mind, New York, W. W. Norton & Co. Inc., 1950, trad. it. La Mente matura, Milano, Piccola Collana Scientifica Garzanti, 1951, p. 39.
22
Elizabeth B. Hurlock, Developmental Psychology, New York, McGraw-Hill Int. Bk. Co., 1975, p. 209.
23
Stella R. Goldberg e Francine Deutsch, Life-Span, Individual and Family Development, Monterey Calif., Brooks/Cole Publishing Co., 1977, p. 250.
25 approfondimenti psicologici più dettagliati riguardo le sfide della vita adulta, come ad esempio: “il pagamento puntuale delle bollette richiede un certo grado di prospettiva e maturità”24.
Il matrimonio non era solo una prova di maturità, era l'occasione per esercitare la propria maturità mediante innumerevoli nuovi “compiti”. Gli uomini e le donne stavano per costruire una “collaborazione funzionante”, superare il romanticismo in favore di “una concezione realistica del matrimonio” e cercare uno stato reciproco di “maturità emotiva”. Anche l'amore richiedeva maturità e disciplina. “L'amore coniugale è qualcosa su cui lavorare”, consigliava un manuale sul matrimonio del 1962. “Si deve lavorare sia sulla parte che dà, che su quella che riceve. Quest'ultima cosa può suonare strana poiché di norma ci viene da pensare che la parte ricevente si prenderà cura di se stessa. Ma non lo fa, non più della parte che dà”25.
Nel romanzo Quando lei era buona, in un passaggio che potrebbe quasi essere stato preso da un testo sullo sviluppo della personalità, Philip Roth satirizzava quel tanto approvato atteggiamento maschile che considera il matrimonio come un lavoro. Il giovane Roy Bassart ha rinunciato alla sua educazione e ha accettato un lavoro che odia per mantenere Lucy e il bambino. Non vorrebbe nient’altro che tornare di corsa alle comodità della casa dei suoi genitori. Ma sono i primi anni Cinquanta e Roy aspira a “essere un uomo”:
Più ci pensava, più si rendeva conto che probabilmente il matrimonio era la cosa più seria dell’intera vita [...] allora, invece di correre a Reno, Nevada, due persone che hanno la maturità di non comportarsi da bambini si mettono di buzzo buono e decidono di lavorare al matrimonio. Perché è questa la parola chiave, lavoro, cosa che ovviamente non sai quando stringi alla leggera il sacro vincolo del matrimonio pensando che si tratterà né più né meno del prosieguo dei
24
Justin Pikunus, Human Development: A Science of Growth, McGraw-Hill Int. Bk. Co., New York 1969, p. 333.
25
Dorothy Walter Baruch, Ph.D., and Hyman Miller, M.D., Sex in Marriage, Hart Publishing Co., New York 1962), p.12.
26
bei tempi spensierati del fidanzamento. No, matrimonio significa lavoro, lavoro duro, e [...]26
Al di fuori delle loro attitudini coniugali, gli uomini avevano continuamente l'opportunità di dimostrare la propria maturità facendo effettivamente un lavoro retribuito. Questo è ciò che gli uomini adulti facevano e ciò che studiosi di scienze sociali e psicologi, a loro volta, li osservavano fare. “Forse non si esagera nel dire che” affermava Talcott Parsons con tutta la cautela di uno scienziato che stava per rivelare una sorprendente nuova osservazione sul mondo naturale “solo in casi molto eccezionali un uomo adulto può avere un rispetto genuino di sé e godere di rispetto agli occhi degli altri se non 'si guadagna da vivere' grazie a un ruolo professionale che goda di approvazione”27. Se la combinazione obbligatoria
di matrimonio e lavoro dava come risultato una definizione non proprio eroica di maschilità28, vi erano delle compensazioni. Un testo del 1959 intitolato Psychology of Personal and Social Adjustment offre un’immagine a pagina intera di un uomo inginocchiato sul bordo di un laghetto con una barchetta giocattolo. La didascalia dice: “Costruire modellini di navi è uno dei molti modi di trovare sbocchi alle proprie esigenze creative”29. Evidentemente, il quieto stagno che stava alla fine del percorso di sviluppo adulto maschile non era Walden.
Se la mascolinità adulta era indistinguibile dal ruolo del breadwinner, allora l'uomo che falliva nel raggiungere tale ruolo era non pienamente adulto oppure non completamente maschio. Nello schema delle patologie maschili sviluppato dagli psicologi a metà del secolo, l’immaturità sfumava
26
Philip Roth, Quando lei era buona, Giulio Einaudi Editore, Torino 2012, pp. 217-8.
27
Talcott Parsons, “Age and Sex in the Social Structure of the United States,” in Clyde Kluckhohn and Henry A. Murray (eds.), Personality in Nature, Society and Culture, Alfred A. Knopf Inc., New York 1949, p. 273.
28
Per ragioni di attestazione dell’uso negli studi sul maschile ed equivalenza di significato, i termini maschilità e mascolinità sono da considerarsi sinonimi. Verranno pertanto utilizzati come tali nella traduzione [NdT].
29
Henry C. Lindgren, Psychology of Personal and Social Adjustment, American Book Co., New York 1959), p. 479.
27 nell’infantilismo, che era, a sua volta, una manifestazione della innaturale fissazione sulla madre, e l'intero complesso della sintomatologia raggiungeva il suo culmine clinico nella diagnosi dell’omosessualità. Risultati empirici erano offerti a supporto di tali giudizi. Nel 1955 il sociologo Manfred Kuhn riportò undici ragioni del fallimento del matrimonio. Alcune erano semplicemente disgrazie, come ad esempio “cattive condizioni di salute o caratteristiche fisiche devianti”, “mancanza di attrattiva" ed estremo isolamento geografico. Ma in cima alla lista per gli uomini vi erano l’omosessualità, la fissazione emotiva verso il genitore/i e la “svogliatezza nell’assumersi la propria responsabilità”30
. Il Dott. Paul Popenoe, i cui casi di studio ricchi di suspense intitolati “Può questo matrimonio essere salvato?” comparivano regolarmente nel Ladies' Home
Journal, accusava il celibato di “immaturità emotiva e fissazioni infantili”.
Riferiva che gli studi condotti presso il suo American Institute for Family Relations “confermavano l'opinione popolare per cui la fissazione sulla madre era responsabile del celibato di molti anziani scapoli che avrebbero altrimenti potuto diventare mariti superlativi”. Non è stato così sfortunato come può sembrare, poiché il parere del dottor Popenoe su una delle più comuni varietà di donne “anziane” non sposate, le divorziate, era ancora meno buono del suo parere sugli uomini liberi: queste donne, scrisse, “sono in qualche misura inferiori biologici e scarti che non offrono buone prospettive matrimoniali”31.
In pratica, gli psichiatri potevano essere tanto punitivi verso il maschio “immaturo” quanto lo erano nei riguardi della femmina recalcitrante. Anche piccole infrazioni potevano essere la prova di gravi disturbi. In un capitolo sulla “età adulta” in un manuale del 1975 rivolto agli assistenti sociali, lo
30
Manfred Kuhn, “How Mates Are Sorted,” in Howard Becker and Reuben Hill (eds.),
Family, Marriage and Parenthood, Health Books, Boston 1955.
31
Paul Popenoe, “Mate Selection,” in Judson T. and Mary Glandis (eds.), Building a
28 psicoanalista Richard Burnett asserisce che nella lunga ascesa verso la maturità:
A volte c’è una situazione di stallo prolungata tra forze progressive e regressive, e [...] gli effetti patologici sono frequenti [...] esempi comuni sono coloro che non sono in grado di scegliersi un compagno/a o una vocazione, né di terminare il college o una tesi di dottorato32
Nel caso in cui il genere non sia chiaro, scopriamo procedendo con la lettura che le donne dovrebbero evitare il “narcisistico perseguimento di ambizioni carrieristiche”, che le porta solo “più lontane dalla realizzazione femminile lungo il percorso della mascolinizzazione”. La donna troppo combattiva era “scarsamente integrata e di persistente disposizione bisessuale”, mentre un giovane uomo poteva presumibilmente sollevare su di sé sospetti psicoanalitici anche solo non riuscendo a completare una tesina.
Le reazioni dei medici a uomini che effettivamente cedevano a causa delle sollecitazioni del breadwinning erano, come prevedibile, non simpatetiche. Il periodo immediatamente seguente la nascita di un bambino presentava altissime probabilità di scatenare comportamenti infantili e/o omosessuali in uomini che avevano solo superficialmente accettato le loro responsabilità di breadwinner. Un documento del 1966 comparso sull'American Journal of Psychiatry presenta dieci storie cliniche di uomini che richiesero l'ospedalizzazione a causa di depressioni post-partum.33 Il caso di un analista finanziario ventinovenne viene presentato come esempio di quanto le responsabilità finanziarie possano essere “il primissimo iniziatore di una malattia psiconevrotica, in cui i tratti latenti dell’omosessualità giocano un importante ruolo dinamico”. Durante la
32
Richard Burnett, M.D., Adulthood, in George H. Wiederman e Sumner Matison (eds.),
Personality Development and Deviation: A Textbook for Social Work, New York:
International Universities Press, 1975, p. 24.
33
William H. Wainwright, M.D., “Fatherhood as a Precipient of Mental Illness,”
29 gravidanza della moglie egli aveva “espresso alcuni dubbi riguardo all'onere finanziario aggiuntivo” e:
Quando era insieme ai dirigenti d’azienda iniziava a subire periodici attacchi di ansia caratterizzati da tachicardia, apprensione, sudorazione marcata, parestesia anale. Stette bene, comunque, fino a quando sua moglie diede alla luce un figlio. Dopodiché iniziò a preoccuparsi delle quotazioni in caduta rapida di un recente acquisto d’azioni e a considerare l’ipotesi di uccidere se stesso e la moglie.
La possibilità che odiasse il suo lavoro e che nutrisse sentimenti inammissibili verso i dirigenti aziendali, piuttosto che verso il suo bambino, non fu esplorata.
In un altro caso, un matematico ventinovenne che era stato a lungo in ansia per il suo lavoro ebbe un crollo dopo la nascita del suo quarto figlio e fu freddamente etichettato come “schizofrenico paranoide”. Altri sfortunati padri analizzati venivano descritti come “attori” che spendevano denaro in modo folle, avevano tresche, bevevano troppo e sostenevano di aver sviluppato una malattia incurabile o altre forme di comportamento infantile e dipendente.
Il paziente occasionale che trovava modi più articolati e meno distruttivi di esprimere la propria ribellione non era etichettato come “infantile” con tanta facilità. Perlomeno, non proprio così facilmente. In un caso clinico di cui sopra, che è anche descritto in un importante testo sullo sviluppo e sulla deviazione della personalità, troviamo un giovane scienziato che, ogni volta che il tema della genitorialità saltava fuori,
[...] faceva emergere il suo ardente desiderio di possedere una macchina da corsa, di cui non aveva bisogno e che non poteva permettersi. Lo tirava fuori ogni volta che sua moglie implorava per una gravidanza. Poco a poco ammise che gli sarebbe piaciuto avere un figlio, ma che avrebbe dovuto poi scontrarsi coi suoi genitori greco-ortodossi per non battezzare il figlio e dargli nome Darwin.34
34
Lucie Jessner, Edith Weigert and James L. Foy, “The Development of Parental Attitudes During Pregnancy,” in Wiederman and Matison, op. cit., p. 214.
30 Poteva questa chiara rottura coi propri genitori essere presa come un segno di matura “individuazione”? No, stava in realtà rivelando una “dipendenza infantile” piuttosto che la “matura dipendenza” che si sarebbe evinta, tra le altre cose, dal promettere un battesimo appropriato. Nella saggezza psicologica di metà secolo, “il ribelle è anche una persona immatura”, certamente tanto quanto lo era il single effeminato che non era in grado di staccarsi dalla madre.
La difficoltà nel trattare con uno spirito ribelle maschile, su scala individuale, o come alcuni psichiatri temevano su scala epidemica, era che esso possedeva un certo fascino seducente. Anche le donne dovevano rinunciare a molti piaceri sulla strada della femminilità matura – come ad esempio la sessualità clitoridea e le insignificanti ambizioni di carriera. Nessuno psichiatra dubitava tuttavia che le soddisfazioni della maternità e della sessualità vaginale matura avrebbero compensato questi sacrifici evolutivi. Eventuali divergenze persistenti potevano essere prese in carico dalla teoria del masochismo femminile, che trasmutava comodamente le sofferenze associate al ruolo sessuale femminile in piacere. Ma gli uomini non avevano notorie capacità per il masochismo, così come non avevano un impulso affidabile a sposarsi, mantenere un lavoro e acquisire polizze di assicurazione sulla vita. Mentre una donna sarebbe stata spinta dai suoi ormoni a supplicare per avere un figlio, un uomo, come lo scienziato di cui sopra, poteva immaginare l'alternativa di una macchina da corsa. Era difficile anche per uno psicoanalista maturo non mostrare un briciolo di empatia verso il suo sesso. “Il maschio nella nostra società è essenzialmente un essere solitario”, osservava il Dott. Hendrik Ruitenbeek nel 1963, “privo di ogni reale obiettivo tranne quello di acquisire le competenze necessarie a
31 fare abbastanza soldi da ‘sistemarsi’ in un’esistenza che egli accetta piuttosto che scegliere.”35
In un saggio che deve presentarsi come un monumento alla ambivalenza psicoanalitica, Kenneth Lynn iniziava col mettere sotto accusa tutti i classici della letteratura americana come pamphlet di immaturità maschile. Rip Van Winkle non era un innocuo anziano confuso; il suo sonno ventennale fu una deliberata fuga dalle “odiose responsabilità del lavoro e del matrimonio”. Henry Thoreau era un altro “fuggitivo” incapace di adattarsi “al mondo quietamente disperato del lavoro e del matrimonio”. “Quasi ogni episodio di Walden”, secondo la lettura di Lynn, “rivela un’immaturità sorprendente”. Questo è il difetto americano di base:
[...] immaturità psichica. Dico immaturità psichica perché uno dei segni di una personalità sottosviluppata è l'incapacità di riconoscere che problemi personali e sociali gravi non si possono risolvere fuggendoli.
Solo le scrittrici erano esenti da questa immaturità psichica, semplicemente perché era tanto più complicato per loro “abbandonare le proprie responsabilità e andarsene, sbattendo la porta dietro di sé”. Ma quando venne il momento di spiegare la puerilità degli scrittori maschi americani, Lynn improvvisamente si ammorbidì. “L'infinito processo della competizione diventò un incubo ad occhi aperti […]”, disse, “perché [gli uomini] dovevano continuare a portare pesi insopportabili, quando potevano tanto uscire dalla porta facilmente e ricominciare la vita da capo altrove?”36
La ragione ultima per cui un uomo non poteva semplicemente “uscire dalla porta” era l’odore di omosessualità che probabilmente l’avrebbe
35
Hendrik M. Ruitenbeek, “Men Alone: The Male Homosexual and the Disintegrated Family,” The Problem of Homosexuality in Modern Society (New York: E. P. Dutton, Inc., 1963), p. 80.
36
Kenneth S. Lynn, “L’età adulta nella letteratura americana”, in E. Erikson, L'adulto:
una prospettiva interculturale, Collezione Problemi di Sociologia, Armando, Roma 1981,
32 seguito. L'omosessualità, per come la vedevano gli psichiatri, era l'evasione definitiva. Alla domanda riguardo quale fosse il problema principale che affliggeva i maschi gay, l'illustre psicanalista Abram Kardiner rispondeva:
Non possono competere. Si arrendono sempre di fronte al combattimento impellente. Ciò non ha nulla a che fare con la loro capacità effettiva, poiché molti di loro hanno un talento straordinario [...] Si tratta di uomini che sono sopraffatti dalle crescenti richieste di adempiere alle specifiche della mascolinità [...]37
Queste “specifiche” erano diventate così dettagliate e così rigide che, secondo il dottor Ruitenbeek, “non è sorprendente trovare un numero crescente di uomini che accettano l'omosessualità come una via d'uscita”. Le donne non erano tentate da una perversione parallela perché avevano già avuto una vita relativamente facile: le “aspettative del loro ruolo sociale” erano chiaramente “meno impegnative” (e, nel caso in cui tutto questo suonasse sospettosamente come un’approvazione dell’omosessualità maschile, lo psichiatra si affrettava ad aggiungere che la vita omosessuale non era certo un rifugio rilassante, in quanto essa comportava “una recitazione sessuale compulsiva”).
Nella teoria psichiatrica e nella cultura popolare, l'immagine del maschio irresponsabile si confondeva con la tenebrosa figura dell’omosessuale. Gli uomini che fallivano come breadwinner e mariti erano “immaturi”, mentre gli omosessuali erano, a giudizio psichiatrico, degli “aspiranti alla adolescenza perpetua”. Tanta era la potenziale sovrapposizione tra l'uomo sessualmente “normale”, ma non del tutto riuscito, e il palese omosessuale che lo psicoanalista Lionel Ovesey dovette creare una nuova categoria, la “pseudo-omosessualità", per assorbire i casi intermedi. Non c'era una “componente sessuale” della devianza pseudo-omosessuale, almeno non se presa in fase iniziale. Piuttosto, egli soffriva di un qualche “fallimento
37
Abram Kardiner, “The Flight from Masculinity” in Hendrik M. Ruitenbeek (ed.), The
Problem of Homosexuality in Modern America (New York: E. P. Dutton, Inc., 1963), p.
33 adattativo” a soddisfare gli standard di conformità maschile, e aveva iniziato uno slittamento subconscio verso un’identità omosessuale:
[...] un qualsiasi fallimento adattativo – sessuale, sociale o professionale – può essere percepito come un fallimento del ruolo maschile e, che è peggio, può essere simbolicamente esteso attraverso un'equazione che è calcolata solo per intensificare l'incidenza dell'ansia sul fallimento. L’equazione è la seguente: Sono un fallimento = sono castrato – non sono un uomo – sono una donna = sono un omosessuale.38
Da qui a diventare un “omosessuale conclamato” la strada era breve: un uomo martoriato da così tanti fallimenti adattivi che “abbandona ogni pretesa di soddisfare i requisiti del ruolo maschile”.
Se si potevano curare gli pseudo-omosessuali aiutandoli a superare i loro fallimenti adattivi, così poteva essere per gli omosessuali evidenti, dal momento che i due tipi avevano semplicemente una collocazione in punti diversi lungo l’asse dell’adattamento maschile. Ovesey cita il caso di un tipo “palese”, la cui omosessualità era solo parte di uno schema più ampio di devianza sociale. Le indicazioni fisiche erano promettenti: il paziente aveva “ventitré anni, alto più di un metro e ottanta, di bell'aspetto e del tutto maschile all’apparenza”. Tuttavia,
viveva solo e la sua esistenza sociale era caotica, caratterizzata da impulsive nuotate di mezzanotte e autostop. Riteneva che questo lo rendesse piuttosto unico ed era orgoglioso di essere additato come un bohemién.39
Inoltre non dimostrava alcun interesse per la carriera e si manteneva come impiegato di magazzino. La cura (non fu detto come l’aveva finanziata) era sia lunga che severa. “Il paziente era trattato due volte a settimana: all’inizio seduto per 49 sessioni, poi sul divano, per un totale di 268 sessioni lungo un arco di oltre tre anni e mezzo [...] Quando, all'inizio della terapia, egli suggerì con fiducia che la sua omosessualità poteva essere
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Lionel Ovesey, M.D., Homosexuality and Pseudohomosexuality, Science House, New York 1969, pp. 24–25.
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