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III La guida delle immagini nel “cuore di ben rotonda verità”

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Academic year: 2021

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III

La guida delle immagini nel “cuore di ben rotonda verità”

Il racconto dell’eccezionale viaggio del protagonista del poema al di là delle soglie del mondo normalmente conosciuto dall’uomo e del suo successivo incontro con una dea che gli annuncia solennemente la necessità di apprendere da lei una lezione di cui presenta subito i punti essenziali deve avere creato nel pubblico una grande aspettativa. Il carattere arcano e complesso del discorso che segue non sembra peraltro rompere il carattere ieratico e solenne del racconto proemiale, ma piuttosto annunciare una sorta di sfida alla capacità di comprensione umana. È peraltro vero che il pubblico deve essere stato aiutato a capire questo nuovo e complesso discorso dal ricorrere di alcune espressioni e immagini guida, che possono avere evocato rappresentazioni tradizionali legate a sfere simboliche ad esso più familiari.

E, proprio seguendo il percorso di queste immagini, cercheremo anche noi, nel corso di questo capitolo, di orientarci nel complesso contenuto del poema parmenideo e, specialmente, nella sua parte più arcana: il cuore intrepido di ben rotonda verità.

1 L’intricata mappa di Parmenide

L’immagine guida di tutta la prima parte del poema, quella delle strade e dei percorsi, meglio di qualunque altra si adatta a rappresentare il processo di una ricerca così complessa come quella dell’Eleate. L’importanza della rappresentazione delle vie all’interno del poema di Parmenide è evidente ed è stata già al centro di diversi studi1. Quel che qui ci si propone, peraltro, è qualcosa di un po’ diverso. Si tratta del tentativo di seguire, in maniera dinamica, il percorso che il testo parmenideo presenta,

1 A parte i numerosi contributi che si concentrano sulla questione del numero delle vie per cui cfr. infra cap. 3 pp. 143-44 n. 100, vi sono alcuni studi che hanno messo in giusta luce l’importanza dell’immagine mitica dei percorsi come Havelock (1958) pp. 137 e seg. e Mourelatos (1970) il cui titolo The route of Parmenides parla chiaro, di cui si vedano in particolare pp. 14-25 della seconda edizione (Las Vegas-Zurich-Athens 20082). Si noti, peraltro, che entrambi questi studi tendono a limitare l’analisi di tale immagine ad un confronto con l’Odissea. Si vedano anche Wyatt (1992) e Couloubaritsis (1986) alle pp. 9-75 della seconda edizione (Bruxelles19902).

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a partire dalla “strada ricca di canti della demone” (oJdo;n ... poluvfhmon ... daivmono~2 B1. 2-3) fino alla descrizione della via “come è” (wJ~ e[stin) che occupa buona parte del fr. 8, attraverso le sue diverse diramazioni. Nell’orientarci in questo difficile percorso si tenterà di individuare le associazioni con altre immagini tradizionali precedenti o coeve che potevano essere state evocate nel pubblico dall’uso di particolari formule o espressioni.

1.1 Una via lontana dalla pista degli uomini

Del primo percorso che compare nel poema – quello che porta il kouros al cospetto della dea – si è già detto molto nei capitoli precedenti. Tuttavia, dal momento che sarà la dea stessa a presentare le diverse strade che appaiono davanti al giovane, sembra utile, in primo luogo, capire come la dea definisca il cammino che ha portato fin là il suo privilegiato interlocutore.

Nel momento in cui rassicura il giovane del fatto che non è stata una moi§ra kakhv a fargli percorrere la via che lo ha condotto fino a lei, infatti, la dea definisce questo percorso come “lontano dalla strada battuta dagli uomini” (ajp jajnqrwvpwn ejkto;~ pavtou B 1.273). Questa definizione può avere evocato nel pubblico le parole con cui, in un noto passo iliadico (Il. VI 200-3), viene rappresentato Sarpedone che, una volta preso in odio dagli dèi, vaga solitario (oi\o~ ajla§to), rodendosi l’animo (o}n qumo;n katevdwn), deliberatamente evitando la pista degli uomini (pavton ajnqrwvpwn ajleeivnwn). In tale rappresentazione, peraltro, l’isolamento dell’eroe dalle vie frequentate serve a definire una condizione marcatamente negativa, caratterizzata da un vagabondaggio senza meta e da un logoramento dell’animo. Deve essere quindi risultato evidente il contrasto con l’immagine del giovane protagonista del proemio parmenideo che, invece, prende la distanza dal cammino degli altri esseri umani, per seguire un percorso ben preciso fin dove il suo animo riesce a giungere (o{son t j ejpi; qumo;~ iJkavnoi B 1.1).

Nei primi versi del proemio, oltretutto, questo cammino viene definito come la “strada dai molti canti della daimon, che porta colui che sa per tutte le città” (… oJdo;n

2 Sulla natura del percorso “della demone” cfr. supra cap. 1 pp. 5-9.

3 Come osserva Coxon (1986) nel suo commento ad loc. è possibile leggere tutta l’espressione come un unico costrutto in cui sia ajp j che ejkto;~ reggono ajnqrwvpwn pavtou – in cui il primo termine è in diretta dipendenza da quello che segue - oppure come due espressioni separate – ajp j ajnqrwvpwn e ejkto;~ pavtou – comunque tese a enfatizzare la lontananza dagli uomini e dal loro tracciato.

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... poluvfhmon ... / daivmono~, h} kata; pant j ja[ãsÃth fevrei eijdovta fw§§ta vv. 2-3). Certo – come si è visto – parte di questo verso è frutto di una ricostruzione congetturale4, ma si può dire con certezza che tali parole – insieme a quelle pronunciate dalla dea – concorrono a presentare il percorso che il kouros attraversa come una via divina, lontana dalle strade praticate dagli uomini, che conduce solo l’uomo che sa. È chiaro che questa definizione della via che porta il giovane dalla dea appare soprattutto funzionale a dare delle informazioni sul protagonista del racconto e, quindi, sull’autore del poema, rivelandosi utile anche per chi voglia tentare di ricostruire l’ambiente culturale in cui l’opera parmenidea è stata, per la prima volta, recepita.

1.1.1 Una via misterica

È degno di nota, infatti, che la lontananza dagli esseri umani non ha, in questo testo, quella valenza negativa di selvatichezza e estraneità dal vivere civile ravvisabile in alcuni passi omerici5, ma si presenta, piuttosto, come la condizione privilegiata di una persona che ha delle qualità conoscitive eccezionali. Questo atteggiamento ha dei punti di contatto con quello di alcune comunità di tradizione orfica o pitagorica la cui presenza in Magna Grecia appare attestata per l’epoca in cui l’Eleate era attivo. Queste si pongono deliberatamente ai margini della cultura dominante, distinguendosi per il possesso di un patrimonio di conoscenze teoriche e rituali da cui gli altri sono esclusi.

In questo senso, appare interessante il confronto con un precetto pitagorico – riportato nella Vita di Pitagora di Porfirio – che invita a non “camminare sulle vie maestre” (ta;~ lewfovrou~ mh; badivzein Vita Pyth. 426). Anche se si tratta di una testimonianza piuttosto tarda, le corrispondenze con il testo parmenideo appaiono alquanto significative: si pensi, infatti, che l’espressione oJdo;~ laofovro~ “strada frequentata dalla gente” – letteralmente “che porta la folla” – è già attestata in Omero (Il. XV 682) e può, quindi, essere stata associata, per contrasto, alla definizione della

4 Cfr. supra cap.1 pp. 5-7.

5 Oltre all’immagine di Sarpedone cui si è poco sopra fatto riferimento, si vedano Od. IX 119 in cui si dice che nell’isola boscosa vicino a quella dei Ciclopi – già essi estranei al vivere civile – ci sono innumerevoli capre perché nessun “procedere di uomini” (pavto~ ajnqrwvpwn) le tiene lontano, né ci sono cacciatori, e Od. XXI 362 e seg. in cui i proci minacciano Eumeo che sta portando l’arco a Odisseo dicendogli che presto, solo, tra i porci, lontano dagli uomini (oi\on ajp j ajnqrwvpwn 364), sarà divorato dai suoi cani. Cfr. Floyd (1992) pp. 258-60.

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via che compare nel proemio come “quella che porta … l’uomo che sa” (h} ... fevrei eijdovta fw§ta)7.

L’ipotesi che Parmenide fosse stato influenzato da una tradizione ampiamente diffusa in quella stessa area magnogreca in cui si trova Elea, non appare, del resto, affatto inverosimile. Non mancano, inoltre, testimonianze antiche che inseriscano l’attività dell’Eleate all’interno del Pitagorismo8. Tra queste, la più interessante appare quella del peripatetico Sozione, riportata da Diogene Laerzio (IX 21 = 28A1), secondo cui, ruolo determinante nella formazione di Parmenide – piuttosto che a Senofane – sarebbe da attribuirsi ad un certo Aminia pitagorico, uomo povero ma di valore, che volse l’Eleate verso un tipo di vita definito come hJsucivan “pace” “calma”, ma anche, “posto di ritiro”9. Sempre secondo questa testimonianza, Parmenide avrebbe fatto erigere, dopo la morte di Aminia – sul quale peraltro non abbiamo altre notizie – un hJrw/§on, istituendo, a quanto sembra, un culto eroico del maestro10.

Si tratta di notizie che vanno accolte con la massima cautela, anche perché vòlte a inserire l’attività di Parmenide in un quadro sistematico in cui i confini e le relazioni tra le cosiddette Scuole e i singoli pensatori appaiono molto più chiari e definiti di quanto non fossero in realtà. L’ostentata presentazione del proprio percorso come lontano dalla pista degli altri uomini sembra peraltro ben adattarsi alla notizia di una vita rivolta all’hJsuciva sotto l’influsso del pitagorico Aminia11, pur non essendo sufficiente a iscrivere Parmenide all’interno di una successione di maestri legati alla tradizione pitagorica, dediti a pratiche incubatorie e sciamaniche, come invece ipotizza, con una certa sicurezza, Peter Kingsley12.

7 Cfr. Cerri (1999) e Coxon (1986) ad loc.

8 Le testimonianze che inseriscono Parmenide – e spesso anche Zenone – all’interno della cosiddetta Scuola Pitagorica sono raccolte in 28 A 4. Oltre a quelle si veda Cebes Tab. 2, Iam. VP 267 e cfr. Burkert (1962) p. 280 n. 13 della tr. ingl. (Cambridge1972). Insiste molto sull’influenza pitagorica nell’opera parmenidea Coxon (1986) nell’Introduzione alla sua edizione e nelle pp. 12-20 e poi 40-41 della seconda edizione (LasVegas-Zurich-Athens 20092). Per alcune considerazioni sui contatti tra Parmenide e la tradizione pitagorica magnogreca, anche su basi storiche, cfr. Mele (2005) pp. 268-72. 9 Cfr. H. Merc. 356, Xen. Mem. 2.1.21 e infra cap. 3 pp. 132-34.

10 Per la proposta di Cerri di attribuire a Parmenide la citazione nella Consolatio Philosophiae di Boezio (Cons. Phil.4, prosa 6) del verso ajndro;~ dh; iJerou§ devma~ aijqevre~ oijkodovmhsan da riferirsi proprio ad Aminia cfr. Cerri (1999) pp. 291-92 e l’articolo cui lì si rimanda.

11 Si confronti un passo del neopitagorico Giuliano (Epist. 98, 400 c-d), citato e commentato più ampiamente in D’Alessio (1995) p. 164, in cui vengono indicate come giuste vie per accostarsi agli dèi, lo stare lontano dal tracciato degli uomini e l’agire in pace (ejkto;~ pavtou ga;r ei\nai crh; dra§sqai kaq j hJsucivan).

12 Cfr. Kingsley (1999) 55-60, 76-115, 139-49, 163-203. La sua analisi prende le mosse dal ritrovamento di alcune iscrizioni risalenti a un’epoca a cavallo tra il I sec. a.c. e il I sec. d.c., che attestano la presenza a Elea di una Scuola di medici e scienziati che si rifanno esplicitamente alla figura di Parmenide, accomunati dal titolo di fwvlarco~ probabilmente legato a pratiche incubatorie.

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Anche il fatto che questa strada sia riservata a un individuo che risponde alla definizione assolutizzante “uomo che sa” – in contrapposizione implicita a quelli che non sanno13 – contribuisce a creare quella distinzione tra i pochi che hanno accesso ad un sapere privilegiato e il resto della gente, che può spingere a vedere Parmenide e il suo pubblico come parte di una comunità influenzata da tradizioni orfiche, pitagoriche, o, in ogni caso, misteriche14.

1.1.2 Il percorso incontaminato della poesia di Pindaro

G. B. D’Alessio, in un bell’articolo cui abbiamo avuto già più volte modo di fare riferimento (D’Alessio 1992), pur non negando l’influenza di tradizioni pitagoriche e misteriche nell’elaborazione dell’immagine del “cammino lontano dalla pista degli uomini”15, concentra la sua analisi sul rapporto tra questa rappresentazione della via seguita dal kouros parmenideo e la natura del percorso su cui Pindaro, utilizzando l’immagine del carro della poesia, dichiara di procedere in due passi delle sue Odi. Nel primo di questi, corrispondente ai vv. 22-27 di Olimpica VI – già da noi più volte presi in esame dati gli evidenti punti di contatto con il proemio di Parmenide

L’importanza di questi ritrovamenti epigrafici per inquadrare la natura dell’attività parmenidea è stata di recente evidenziata in Ferrari (2010) pp.141-47. Burkert (1962) p. 280 n. 13 della tr. ingl. (Cambridge1972), sembra vedere nell’esistenza di questa Scuola la testimonianza di un contatto tra Parmenide e le tradizioni pitagoriche. Per un’analisi delle connessioni tra la figura di Pitagora e lo sciamanesimo cfr. Burkert (1962) pp. 120-65 della tr. ingl. (Cambridge1972).

13 Cfr. 28 B 6.4. L’osservazione di Burkert (1969) p. 5 secondo cui l’espressione eijdw;~ fwv~ fa parte della terminologia misterica e serve ad indicare l’iniziato è stata accolta da molti (cfr. e.g. Kingsley (2002) pp. 377-81). È stato, infatti, messo in evidenza come espressioni del genere si trovino spesso in un contesto religioso di questo tipo, per cui cfr. Aristoph. Nub. 1241, Eur. Rhes. 973. Cfr. Coxon (1986) ad loc. Giusto, peraltro, appare l’appunto di D’Alessio (D’Alessio (1995) pp. 144-45 n. 3) secondo cui, nonostante il contesto in cui tale espressione compare in Parmenide sembri confermare un riferimento alle pratiche misteriche, questo non implica che Parmenide si voglia presentare come tecnicamente “iniziato”.

14 Cfr. D’Alessio (1992) pp. 164-65. Si confronti, a questo proposito, la definizione che Detienne (1975) dà di Pitagorismo, Orfismo e Dionisismo come “Chemins de la déviance” ”ripresa poi da Edmonds nella definizione delle lamine orfiche come Roadmaps of Déviance. Cfr. Edmonds (2004) pp. 29-110. Un atteggiamento simile sembra presupposto in Empedocle, come appare chiaro nei versi conclusivi del frammento 2, in cui l’Agrigentino dichiara di impartire il suo insegnamento iniziatico a Pausania, giacché questi si è messo in disparte dagli altri uomini (… su; d jou\n, ejpei; w\d j ejliavsqh~, / peuvseai ouj plevon hje; broteivh mh§ti~ o[rwren 31 B 2.8-9). Cfr. anche 31B111. Non credo invece - come Cerri sembra intendere nel suo commento (1999) p. 168 - che la definizione della via del proemio di Parmenide come “via della demone” sia anch’essa dipendente dall’influenza della tradizione pitagorica. Anche se il concetto di daimon pare essere stato oggetto di riflessione già all’interno del Pitagorismo antico, seppur forse non nella misura e con i risvolti innovativi che gli attribuisce Detienne (1963) - per cui cfr. Burkert (1962) pp. 73-74 della tr. ingl. (Cambridge1972) -, in Parmenide l’espressione ojdo;n ... daivmono~ sembra semplicemente connettere questo cammino alla dea che il

kouros incontrerà alla fine del percorso.

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– il poeta rappresenta l’avvio del suo canto come un viaggio sul carro attraverso un “percorso puro” (keleuvqw§/ t jejn kaqara§/ v. 23) con ciò intendendo un cammino intatto, incontaminato, non occupato da altre cose o persone16.

Ancora più interessante appare il confronto con l’altro passo pindarico preso in esame da D’Alessio, corrispondente ai molto lacunosi vv. 10-20 del Peana VIIb, in cui, secondo la persuasiva ricostruzione di questo studioso, Pindaro prometterebbe un canto fuori dalla via calpestata, su di un carro non condotto da cavalli altrui (tri]õpton17 kat j ajmaxitovn/ ijõovnteÕ~ […. ajl]lotrivai~ ajn j i{ppoi~)18. Secondo D’Alessio, infatti, Pindaro avrebbe deliberatamente ripreso la rappresentazione parmenidea della via lontana dal tracciato degli uomini per costruire la sua immagine di poeta che si pone criticamente rispetto alla tradizione - in particolare quella omerica - avviandosi per un cammino nuovo e ancora inesplorato grazie al suo rapporto privilegiato con il divino.

In effetti, se si segue la via di ricerca aperta da D’Alessio, si possono osservare altri interessanti punti di contatto tra il modo in cui Pindaro usa l’immagine della via per rappresentare la sua attività poetica e la maniera in cui Parmenide definisce il percorso che dà avvio al suo poema. Il brano del Peana VIIb riportato da D’Alessio prosegue, infatti, con la richiesta del poeta a Menomosyne e alle Muse di dargli la capacità di percorrere quella via (eujmõacaÕnivan didovmõen v. 16), dal momento che - aggiunge Pindaro - la mente di colui che cerca di esplorare la strada della saggezza (ejreuna§/ sofiva~ oJdovn19) senza l’ausilio divino, è cieca (tºuflaªi; ga;ºr ajndrw§n õfrevne~ o{ºsti~ a[neuq j JElikwniavdwn). In Pindaro, quindi, la via non calpestata da altri si presenta come una via di conoscenza, percorribile grazie all’intervento divino, proprio come, nel proemio di Parmenide, la strada che porta “l’uomo che sa”

16 Cfr. D’Alessio (1992) pp. 160-63 in cui si rimanda anche a due passi iliadici (Il. X 199, XXIII 61) in cui l’espressione ejn kaqarw§/ indicherebbe uno spazio aperto, privo di ingombri.

17 Per questa integrazione di Lobel cfr. D’Alessio (1995) p. 173 n. 59.

18 Cfr. D’Alessio (1995) pp. 167-81. Sulla fortuna dell’immagine della via pura nelle dichiarazioni di poetica di età successive, in particolare nella poesia di Callimaco e di Orazio, cfr. D’Alessio (1992) pp. 165-67 cui si aggiunga Lucr. De rerum Natura I 921-30.

19 D’Alessio (1995) p. 171 + n. 57 intende questa come una via di ricerca intellettuale. Bona (1988) p. 167, nel suo commento a questo passo, traduce sofiva come “saggezza”, sottolineando come essa in Pindaro corrisponda alla poesia portatrice di verità in quanto ispirata dalle Muse. Un altro riferimento alla sofiva~ ojdovn si trova nell’incipit del Peana IX vv. 1-5, in cui la mancanza di luce solare dovuta all’eclissi rende l’uomo incapace di percorrere questa via. Sulla sofiva in Pindaro si veda anche Bowra (1964) pp. 4-10, che suggerisce un pertinente confronto con l’uso del termine in Senofane 21 B 2.12, 14.

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attraverso un eccezionale percorso conoscitivo viene rappresentata come la via della demone.

A questo punto può essere utile richiamare l’attenzione su di un altro passo pindarico (Ol. IX vv. 104-8) in cui il poeta tebano rappresenta le capacità che portano a raggiungere dei risultati straordinari – siano esse espresse nella composizione di un’ode poetica o nel successo in una gara atletica – come delle vie impervie (sofivai mevn aijpeinaiv) che portano al di là delle altre strade (ejnti ga;r a[llai oJdw§n oJdoi; peraivterai), ma che, proprio per questo, non sono accessibili a tutti. Dal momento che questa immagine è preceduta dall’affermazione che “Ciò che è per natura prevale comunque” (to; de; fua§/ kravtiston a{pan), cui vengono contrapposti i molti che invece cercano di ottenere la gloria con qualità apprese senza l’intervento divino (didaktai§~ ajnqrwvpwn ajretai§~ ... a[neu de; qeou§ vv. 100-3), se ne può dedurre che le vie della sapienza, secondo Pindaro, siano percorribili solo da colui che, secondo quanto scrive in Olimpica II 86, è sapiente in quanto “sa molte cose per natura” (sofov~ oJ polla; eijdw;~ fua§/). É chiaro, peraltro, che, in Pindaro, le capacità ottenute attraverso un soccorso divino tendono a identificarsi con quelle possedute physei, contrapponendosi entrambe a quelle apprese da altri20.

Anche se in Parmenide non c’è nulla che testimoni una teorizzazione di questa contrapposizione, il confronto con Pindaro può essere utile, non tanto per cercare di capire se e chi tra i due abbia influenzato l’altro, quanto per intendere l’immagine del percorso che Parmenide descrive nel proemio come la rappresentazione di un rapporto privilegiato con il divino che si traduce in un’aperta dichiarazione di superiorità intellettuale21. Sia in Parmenide che in Pindaro, infatti, questo atteggiamento aristocratico di fronte al sapere prende la forma di un percorso lontano dalle strade maestre, che permette di raggiungere delle mete altrimenti inarrivabili e che, proprio per questo, non è accessibile a tutti, ma solo a chi gode di uno speciale favore divino, forse anche in ragione di proprie particolari capacità e competenze22.

20 Cfr. O. IX 28-9: ... ajgaqoi; de; kai; sofoi; kata; daivmon j a[ndre~ ejgevnont j...

21 Per una breve rassegna delle diverse posizioni relative al rapporto tra Parmenide e Pindaro, soprattutto in base alle chiarissime corrispondenze tra il proemio dell’Eleate e i vv. 22-7 dell’Olimpica VI cfr. D’Alessio (1995) pp. 146-51. Per la proposta – opposta a quella di D’Alessio – di una dipendenza di Parmenide da Pindaro cfr. Martinelli (1987).

22 Cfr. Martinelli (1987) p. 181, che mette in evidenza, tra i punti di contatto tra Parmenide e Pindaro, la loro comune origine aristocratica. In Pindaro, peraltro, è forte la tendenza ad accomunare il poeta e la persona oggetto del canto di lode sulla base di una comune origine aristocratica che si traduce nel successo atletico del secondo e nella perfezione della composizione poetica del primo. Cfr. Kirkwood

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Interessante, a questo riguardo, può essere osservare che, in Olimpica II 86-89, la contrapposizione tra il sapiente per natura e gli indottrinati (maqovnte~), attraverso l’immagine dei corvi che gracchiano a vuoto in confronto al divino uccello di Zeus, è preceduta da un’ostentata dichiarazione di difficoltà della propria poesia. Pindaro, infatti, paragona le parole che ha a disposizione per comporre, a dardi veloci che parlano solo a chi intende (... wjkeva bevlh ... fwnaventa sunetoi§sin), mentre, in generale, hanno bisogno di interpreti (ej~ de; to; pa;n eJrmanevwn cativzei)23.

Anche se questi versi sono aperti a diverse interpretazioni, sembra abbastanza chiaro che, per Pindaro, la complessità della sua poesia, comprensibile solo a pochi, sia una manifestazione di un sapere superiore di sofov~ assistito dal dio. In età arcaica, infatti, esprimersi in maniera arcana diventa un mezzo per distinguere gli uomini in due categorie: quelli che sanno – in cui sono ovviamente inclusi gli autori di questi testi – e la massa degli ignoranti24.

1.1.3 Il valore dell’enigma nel discorso sapienziale

L’enigmaticità di tali composizioni diventa, inoltre, segno evidente della partecipazione del divino alla loro formulazione. Non a caso, Eraclito sembra modellare il suo discorso su quello del signore il cui oracolo è a Delfi che “non dice, né nasconde, ma dà dei segnali” (ou[te levgei, ou[te kruvptei, ajlla; shmaivnei 22 B 93)25, allo stesso modo in cui Parmenide, per bocca della dea, offre dei segni grazie a cui orientarsi nella sua complessa verità26, o al modo in cui Empedocle utilizza il

(1982) p. 75, Lehnus (1981) pp. 49-52 della terza edizione (Milano 20043). Sul modo in cui Pindaro presenta, concepisce e rappresenta la sua attività poetica cfr. Bowra (1964) pp. 1-41.

23 Nella lettura di questi versi è apparsa piuttosto problematica l’interpretazione di ej~ de; to; pa;n. Il contesto suggerirebbe un’equivalenza to; pavn = oiJ polloiv non altrimenti attestata. In favore di tale lettura si schiera comunque, con buone argomentazioni, Ferrari (1998) p. 98 n. 44, suggerendo anche interessanti confronti con Pl. Ion 530c, Tht. 180a. Contra Lehnus (1981) pp. 50-51 della terza edizione (Milano 20043) che intende l’espressione in senso avverbiale “in tutto”. In questa direzione si veda la lettura che del passo fa Most (1986) pp. 306-8 e cfr. Arcari (2011) p. 17 n. 71.

24 Su questo tipo di rapporto tra Pindaro e il suo pubblico si confronti Arrighetti (1976) pp. 286-90. 25 Non a caso la tradizione etichetta Eraclito come l’”oscuro” (Skoteinov~ cfr. 22 A1 a, 3a, B 10). Per un’analisi in questa direzione del fr. 22 B 93 cfr. Kahn (1979) pp. 123-24 che, giustamente, sottolinea come il discorso enigmatico e paradossale serva a riflettere la complessità del reale, quella – potremmo aggiungere – di una “natura che ama nascondersi” (fuvsi~ kruvptesqai filei§ 22 B 123). Contra Conche (1986) pp. 150-53. In generale, sulla qualità del discorso di Eraclito e sulle sue analogie con quello di Eschilo e Pindaro cfr. Kahn (1979) pp. 3-9, 87-95. Sulla poca fiducia che l’Efesino aveva nella possibilità di essere compreso dal suo pubblico si veda, ad esempio, 22 B 1.

26 Cfr. 28 B 8.2, ma si noti che anche gli uomini, nel loro ordinamento ingannevole del mondo, attribuiscono dei shvmata alle due forme contrapposte che hanno stabilito.

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linguaggio delle teogonie per manifestare al suo pubblico, in forma enigmatica, il suo nuovo sapere27.

La scelta di alcuni sapienti di età arcaica di fare uso di un discorso arcano come segnale dell’intervento divino nella loro opera, con l’effetto di selezionare un gruppo di persone che si distinguono dagli altri per la capacità di comprendere tali parole, rende evidenti i punti di contatto e di reciproca influenza tra questo tipo di composizioni e alcune tradizioni misteriche. Non a caso, sia per Pindaro che per Eraclito, Parmenide ed Empedocle – seppur in diversa forma e misura – sono stati ipotizzati rapporti con questo genere di tradizioni.

A partire da tali presupposti sembrano potersi spiegare alcuni degli aspetti fondamentali di un documento misterioso e complesso come il papiro di Derveni28. Un intervento esegetico come quello del commentatore della teogonia contenuta nel papiro è infatti facilmente giustificabile nell’ottica di chi pensa che Orfeo, esprimendosi attraverso il linguaggio enigmatico del discorso divinamente ispirato – in maniera simile a quella di Empedocle o di Parmenide – possa essere compreso solo da un gruppo eletto di persone che, in questo caso, condividono non solo un patrimonio comune di conoscenze, ma anche certe credenze e pratiche rituali29.

A questo proposito, può essere interessante riportare il testo della Col. VII rr. 1-11 del papiro – così come ricostruito nella editio princeps (KPT) – in cui il commentatore spiega i presupposti sulla base dei quali si giustifica l’attività esegetica che dispiega nelle colonne successive:

[…(.)] ose≥[

ª..u{ºmnon≥ ªuJgºi≥h§ kai; qemªiºt≥a; levgoªnta: iJerourgei§ºt≥o ga;r

27 Cfr. Mansfeld (1995) che concentra la sua analisi su frammenti appartenenti alle sezioni proemiali delle opere di questi autori (22 B1, 28 B 1.28b-32, 31 B6). Sulla natura e gli effetti del linguaggio enigmatico di Empedocle cfr. Kingsley (1995) pp. 359-70, in particolare pp. 362-63 e Kingsley (2003) pp. 60 e seg., in particolare fino a p. 63, 564.

28 Il papiro di Derveni è stato trovato, in gran parte carbonizzato, tra le macerie di una pira funeraria poste sul lastrone di una tomba situata all’interno di un gruppo di tombe appartenenti probabilmente a membri dell’aristocrazia guerriera macedone. Il manufatto papiraceo si data all’incirca alla seconda metà del IV secolo a.c., ma il testo – di cui è leggibile solo una parte limitata – viene datato intorno alla fine del V/inizio del IV secolo. Da ciò che si riesce a leggere appare chiaro che siamo di fronte ad una teogonia di tradizione orfica – probabilmente composta in una data a cavallo tra il VI e il V secolo – seguita da un puntuale commento testuale che tende a trasporre il discorso su di un piano fisico-cosmologico.

29 Si veda a questo proposito Betegh (2004) pp. 360-372 che, in queste interessanti pagine, stabilisce anche un confronto tra la figura di Orfeo, quale è presupposta dal commentatore del papiro, e quella di Empedocle.

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ªth§ºi≥ pohvsei. ªkºai; eijpei§n oujc oi|ovn tªe th;n tw§n ojºnomavtwn ªluvºsin kaivtªoiº rhqevnta. e[sti de; x≥ªevnh ti~ hJº povhsi~ ªkºa≥i; ajnqrwvªpoi~º aijni≥ªgmºatwvdh~, ªkeºij ª jOrfeu;º~ aujtªo;º~ ªejºrivst j aijnªivgmaºta ou≥jk h[qele levgein, ªejn aijnºivgmas≥ªiºn de; ªmegºavla≥ iJerªologºe≥i§≥tai me;n ou\n kai; a≥jªpo; toºu§ prwvtou ªaei;º mevcri ou|≥ ªteleºut≥a≥iv≥ou rJhvmato~. w≥Jª~ dhloi§º kai; ejn tw§i ªeujkºrinhvtw≥ªi e[pei: “qºuv≥r≥a~” ga;r “ejpiqevªsqai” kelºeuvsa~ toi≥§ª~º ª“wJsi;ºn” aujtªou;~ ou]ti nomoºqetei§n fhªsin toi§~º polloi§~≥

th;ºn ajkoh;n ªajgneuvºonta~ kat≥ªa;º

“Un inno che dice cose sensate e lecite: celebrava riti sacri, infatti, con la poesia. E non è possibile sciogliere il senso dei nomi anche se sono stati pronunciati. È infatti una poesia strana ed enigmatica per gli uomini. Anche se lo stesso Orfeo

non voleva pronunciare enigmi controversi, ma, piuttoso, grandi cose in enigmi. Fa, dunque, un discorso sacro, sempre,

dalla prima all’ultima parola. Come è chiaro anche nel

ben scelto verso: infatti, avendo ordinato che quelli “mettessero porte alle orecchie”30 dice che non stabilisce precetti per i molti

quelli che sono puri di orecchio”

In questa definizione della poesia di Orfeo sono resi espliciti i diversi elementi che caratterizzano la qualità del discorso dei sapienti di età arcaica, che abbiamo qui preso in considerazione. Il commentatore dichiara, infatti, di trovarsi di fronte ad un discorso sacro in poesia, di difficile interpretazione perché la sua lingua straniante risulta enigmatica per gli uomini31. Secondo il commentatore, Orfeo sceglie questa forma oscura del discorso proprio per creare un filtro tra i molti che non possono essere messi a conoscenza di questioni così importanti e i pochi – “i puri di

30 È qui ravvisabile il riferimento al verso di tradizione orfica “mettete le porte profani” (quvra~ d j ejpivqesqe bevbhloi) cui allude in forma ironica e dissacrante anche Alcibiade nel Simposio di Platone (218b5-7). Cfr. F 1 e Bernabé (2004) pp. 69-70.

31 Il carattere enigmatico del discorso di Orfeo viene esplicitato anche in altri passi del P. Derveni tra cui cfr. Col. IX rr.10, 12, XIII rr. 5-6. In altri, invece, si dice che il poema, proprio come l’oracolo di Delfi secondo Eraclito, shmaivnei, cfr. col. XVI r. 7, XVII r. 11, col. XXIII r. 7, XXVI r. 3.

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udito” – che, invece, riuscendo ad interpretare il testo, dimostrano di avere le qualità per essere messi a parte di questo speciale sapere32.

Pindaro, Eraclito, Parmenide ed Empedocle, quindi, attraverso la scelta di un linguaggio oscuro e ambiguo sembrano volere dare l’impressione che, dietro ai loro discorsi, si celino profonde verità, non comprensibili a tutti nel loro più completo significato. E che questo fosse l’effetto che le loro parole suscitavano nel pubblico sembra essere confermato da due testimonianze in cui viene descritta la reazione suscitata in Socrate, rispettivamente, dall’opera di Eraclito e dalla presenza di Parmenide. Anche se non si può essere affatto certi della realtà storica di tali episodi, possiamo comunque considerarli come delle valide indicazioni su come il sapere di questi autori veniva accolto e inteso in età antica.

La prima testimonianza è riportata in un passo di Diogene Laerzio (II 22 = 22 A 4) in cui si racconta di come Socrate abbia risposto a Euripide che, dopo avergli offerto il libro di Eraclito, gli aveva chiesto un parere in proposito. Il filosofo ateniese avrebbe, infatti, replicato: “le cose che ho capito sono di grande valore; credo, peraltro, che lo siano anche quelle che non ho capito; a parte il fatto che, per capirle, c’è bisogno di un palombaro di Delo ” (a} me;n sunh§ka, gennai§a: oi\mai de; kai; a} mh; sunh§ka: plh;n Dhlivou gev tino~ dei§tai kolumbhtou§). In un passo del Teeteto platonico, invece (183e = 28 A5 ), Socrate racconta l’impressione che aveva fatto, su di lui molto giovane, l’assai anziano Parmenide in occasione del loro incontro. Utilizzando apertamente un’espressione omerica, Socrate racconta che l’Eleate gli parve “venerabile e terribile” (aijdoi§ov~ tev moi ei\nai a{ma deinov~ te) e “di una profondità in ogni modo nobile” (kai; moi ejfavnh bavqo~ ti e[cein pantavpasi gennai§on). Il sapere di questi sophoi appare, dunque, al giovane filosofo di Atene – e presumibilmente non solo a lui – come di straordinario valore e profondità, anche se – e forse proprio perché – non del tutto comprensibile33.

Con lo stesso atteggiamento del commentatore di Derveni, quindi, chi ascolta i testi di questi sapienti deve accogliere le loro parole come il responso di un oracolo.

32 La distinzione tra chi non capisce il vero significato della poesia di Orfeo e gli altri - tra cui lo stesso commentatore - che invece riescono a intenderlo, è resa esplicita anche in altri luoghi del Papiro. Cfr. Col. IX rr. 3-5, col. XVIII rr. 3-6, 14, XXIII rr. 1-3, 5. Si veda anche col. XX. Cfr. Piano (2010) pp. 22-23.

33 Si veda, a questo proposito, l’articolo di Adomenas (2006) in cui, a partire da un attento studio dei dialoghi platonici, vengono identificati i tratti che Platone riconosce come tipici del discorso dei “Presocratici”, tra cui compare la presenza del mito che conferisce autorità al messaggio e l’oscurità o “deficienza ermeneutica” del discorso che implica l’esigenza di uno sforzo esegetico maggiore da parte del lettore.

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Tale la loro forma, tale la loro importanza e la loro vicinanza al sacro. Come l’attenta analisi del testo del papiro di Derveni ad opera di Gábor Betegh mette in luce, infatti, chi ascoltava questa poesia, proprio come chi consultava un oracolo, doveva cercare di intepretarla trovando un nesso con ciò che già conosceva del reale in modo da comprendere il senso delle sue arcane parole. La comprensione di questo sapere gli forniva, poi, a sua volta, la chiave per raggiungere una comprensione più profonda della realtà34.

Si può così concludere che, anche attraverso l’immagine della via lontana dalla pista degli uomini che porta “l’uomo che sa”, Parmenide rappresenti se stesso come colui che si distingue dai molti che devono mettere le porte alle proprie orecchie – gli stessi che, attraverso un’altra immagine, procedono per la via maestra –, in quanto dotato delle capacità intellettuali e dell’esperienza necessaria per ascoltare e decodificare gli enigmi che la dea gli sottopone.

Come si è avuto modo di osservare nel capitolo precedente, nella situazione reale dell’esecuzione, sarà poi lo stesso Eleate a sottoporre un discorso oscuro che affronta temi della massima profondità e importanza a chi è in grado di metterli in rapporto con ciò che già conosce, per comprenderli. Ed è in questo modo che anche noi vogliamo cercare di intendere le parole del poema. Certo, la nostra comprensione sarà sempre e comunque approssimativa, visto che non possiamo disporre – data la povertà della documentazione giunta fino a noi – di tutte le conoscenze che aveva il pubblico di allora, ma possiamo tentare di seguire il suo modo di ragionare. E giacché la lingua di questi sapienti, così come quella degli oracoli, si definisce in immagini e agisce sulle loro associazioni reciproche, sarà questa la linea guida che cercheremo di seguire per orientarci nel discorso della dea.

1.2 La sequenza delle vie nel discorso della dea

Un elemento che rende ancora più difficile per noi, oggi, orientarsi nell’enigmatico discorso della dea è lo stato frammentario in cui il testo ci è giunto. Proprio per questo motivo, peraltro, pur sapendo che la dea mette il kouros di fronte a

34 Si veda il paragrafo dal titolo “Learning from an oracle” in Betegh (2004) pp. 364-70. Vedi anche Obbink (2010), in particolare le pp. 15-21. Sul carattere selettivo del discorso come punto di contatto tra le tradizioni orfiche e le opere di alcuni “Presocratici” cfr. Bernabé (2004) pp. 69-70.

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diverse vie di ricerca, non possiamo stabilire con certezza la sequenza in cui gliele presenta.

Prima di analizzare in maniera approfondita la natura di ciascuna di queste vie, sembra utile, pertanto, appurare se la contrapposizione tra la via “come è” (o{pw~ ejstivn B 2.3-4) con quella “come non è” (wJ~ oujk e[stin B 2.5-8) preceda qualsiasi riferimento alla via su cui vagano i mortali – caratterizzata dalla indebita commistione tra essere e non essere35 – o se, invece, la presentazione di questi due percorsi – le sole vie di ricerca per pensare (oJdoi; mou§nai dizhvsiov~ eijsi noh§sai B 2.2) – segua un primo invito della dea ad abbandonare il comune percorso di ricerca seguito dagli uomini. Può apparire un problema da poco, ma assume una certa importanza se si pensa che le indicazioni della dea sulle vie da seguire sono una delle piste fondamentali per orientarci nel suo discorso.

1.2.1 Le divergenze dei testimoni

Il dilemma sulla sequenza delle vie ruota principalmente attorno alla collocazione di parte o della totalità dei sette versi che costituiscono il fr. B 7 . Sembra pertanto utile, in via preliminare, fornirne il testo, rimandando a un altro momento la discussione puntuale del suo contenuto.

ouj ga;r mhv pote tou§to damh§/, ei\nai mh; ejovnta ajlla; su; th§~d∆ ajf∆ oJdou§ dizhvsio~ ei\rge novhma: mhdev s j e[qo~ poluvpeiron oJdo;n kata; thvnde biavsqw, nwma§n a[skopon o[mma kai; hjchvessan ajkouh;n kai; glw§ssan, kri§nai de; lovgw/ poluvdhrin e[legcon ejx ejmevqen rJhqevnta: movno~ d∆ e[ti mu§qo~ oJdoi§o leivpetai:

“Mai, infatti, questo sia docile alla prova: che esistano le cose che non sono, ma tu da questa via di ricerca tieni lontano il pensiero:

né l’abitudine di molta esperienza ti costringa per questa strada, a dirigere un occhio incapace di vedere e un orecchio e una lingua

35 Cfr. B 6.7-8 oi|~ to; pevlein te kai; oujk ei\nai twujto;n nenovmistai kouj twujtovn, B 7.1 ouj ga;r mhv pote tou§to damh§/, ei\nai mh; ejovnta.

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che rimbombano, prendi, piuttosto, una decisione, in base al ragionamento, rispetto alla prova dalle molte contese da me proferita: solo un discorso sulla strada

ancora rimane:”

Il problema relativo alla posizione di questi versi all’interno del poema si basa fondamentalmente su una discrepanza nel modo in cui vengono citati nelle fonti. Nella versione di Sesto Empirico, infatti, il fr. 7, a eccezione del primo verso, viene integrato alla fine della lunga citazione del proemio che il filosofo scettico fa in

Adversus Mathematicos VII 111. D’altro canto, Sesto, pur essendo il nostro testimone

principale per il testo del proemio dell’Eleate, tralascia di citarne i due versi conclusivi, B 1.31-2 (ajll je[mph~ kai; tau§ta maqhvseai wJ~ ta; dokeu§nta / crh§n dokivmw~ ei\nai dia; panto;~ per o[nta), a noi noti solo grazie alla citazione che ne fa Simplicio nel suo Commento al De caelo di Aristotele (557.25-58.2). Secondo la testimonianza di Sesto, dunque, la dea, dopo aver presentato in forma enigmatica i temi su cui verterà il suo discorso – il cuore intrepido di ben rotonda verità e le opinioni dei mortali in cui non vi è vera garanzia – esorta il suo interlocutore a non prestare fede a questa seconda forma di conoscenza utilizzando l’immagine di una via di ricerca da cui il giovane deve tenersi a distanza. Che la descrizione del percorso che compare nel fr. 7 ben si adatti a definire le opinioni fallaci dei mortali, attraverso un riferimento all’uso errato che essi fanno dei loro sensi e al cattivo modo di ragionare ormai radicato in loro per abitudine, appare piuttosto evidente. L’attendibilità di questa successione è messa in discussione, tuttavia, se consideriamo le indicazioni contraddittorie fornite dai testimoni antichi che citano questi versi.

1. In primo luogo, l’assenza dei versi 31-32 nella citazione di Sesto, che noi sappiamo appartenere alla conclusione del proemio grazie alla citazione simpliciana dei vv. 28-32.

2. La mancanza di B 7.1, citato insieme a B 7.2 sia nel Sofista di Platone (Soph. 237a, 258d) che in un passo del commento di Simplicio alla Fisica di Aristotele (Phys.143-44), peraltro forse dipendente dal testo platonico.

3. Le parole con cui si conclude il fr. 7 (movno~ d je[ti mu§qo~ oJdoi§o), citate da Sesto insieme ai vv. 2-6a, corrispondono – seppur con alcune varianti testuali

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che Ferrari ha proposto di recuperare a sostegno della sua interpretazione36 – a quelle con cui inizia il fr. 8 nella lunga citazione che ne dà Simplicio in Phys. 145.1-146.25 e – in una citazione più ridotta del medesimo frammento – in un altro passo della stessa opera (Phys. 78.8-23), spingendo dunque a collocare questi versi immediatamente prima del frammento 8 che conclude il discorso veritiero della dea.

A partire da questa situazione testuale, Kranz, con l’approvazione di Diels, ha modificato la disposizione dei frammenti della prima edizione dielsiana – che seguiva l’ordine di Sesto con la sola integrazione dei vv. 31-2 del proemio – stabilendo che, quelli che, secondo la citazione in Adversus Mathematicos, erano i versi finali del proemio, costituissero invece – di seguito a un primo verso con cui il secondo viene citato in Platone e Simplicio (cfr. il punto 2) – il fr. 737. Secondo questa successione, divenuta ormai istituzionale, quindi, il discorso della dea partirebbe dalla presentazione delle due arcane vie di pensiero, distinte rispettivamente dalla marca “come è e come non è possibile che non sia” e “come non è e come è necessario che non sia” (B 2), cui seguirebbe la presentazione della via dei mortali (B 6). Avendo sostenuto, attraverso diversi argomenti, la necessità di tenersi lontano dagli ultimi due percorsi (B 2, B 6, B 7), la dea dedicherebbe il seguito del suo discorso alla descrizione della prima via, l’unica rimasta di fronte al kouros per raggiungere il cuore di ben rotonda verità (B 8)38.

È ben possibile che Sesto citasse una sequenza di versi non necessariamente corrispondente all’ordine in cui questi comparivano nel poema dell’Eleate, al fine di inquadrare la posizione di Parmenide all’interno del breve quadro storico relativo alla scelta del giusto “criterio” di conoscenza, che occupa la prima parte di Adversus

Mathematicos VII. Secondo Sesto, infatti, l’Eleate avrebbe condannato la conoscenza

opinabile basata sui sensi proponendo come solo canone conoscitivo fermo e attendibile il lovgo~. In questa prospettiva si inquadra anche l’interpretazione allegorica che segue la citazione del proemio (Adv. Math. VII 112-114), cui il filosofo scettico aggiunge quelli che per noi sono i versi centrali del fr. B 7 (3-6), già citati

36 Cfr. infra cap. 3 pp. 124-25 punto 3.

37 A contestare la ricostruzione dei frammenti proposta nella I edizione di Diels era già stato Reinhardt (1916) pp. 34-6. Per una recente messa in discussione delle argomentazioni di Reinhardt cfr. Ferrari (2010) pp. 53-54.

38 Come ha osservato O’ Brien (1987a) p. 241, la successione dei frammenti B 6, B 7, B 8 sembra confermata dal modo in cui Simplicio (Phys. 78.2, 5, 7) mette in relazione alcuni versi appartenenti rispettivamente ai frr. 6, 7, 8.

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poco prima a conlcusione del proemio. Secondo Sesto, infatti, l’Eleate avrebbe aggiunto tali versi alla fine (ejpi; tevlei)39, come ulteriore chiarimento del fatto che non bisogna affidarsi alle sensazioni ma al ragionamento. Il fatto, dunque, che Sesto citi questi versi a sostegno di una propria interpretazione dell’opera dell’Eleate, fortemente mirata, rende plausibile l’ipotesi di un assemblaggio di versi ad hoc da parte di Sesto o della fonte cui attinge40. Che esistesse una tradizione orientata in questo senso appare confermato dal fatto che Diogene Laerzio (IX 22) presenta il pensiero dell’Eleate in termini molto simili a quelli di Sesto, citando anch’egli i versi chiave del proemio B 1.28-30 seguiti quasi immediatamente dai versi centrali di B7 (3-5)41. La citazione del gruppo B 7.1-2, del resto, all’interno del Sofista e di altre opere comunque influenzate dal pensiero di Platone, ha senso se si pensa all’importanza che in questa tradizione ha assunto la riflessione ontologica di Parmenide nella sua rielaborazione platonica.

In sintesi, si può pertanto dire che vi è una parte della tradizione più interessata agli aspetti epistemologici del pensiero parmenideo che si concentra, quindi, sui versi centrali di quello che per noi è il fr. 7 – citandoli insieme a quelli del proemio in cui la dea presenta le due forme di sapere su cui verterà il suo discorso distinguendone nettamente il valore – e un'altra cui interessa porre in evidenza le riflessioni ontologiche dell’Eleate, citando, quindi, come controparte del lungo

39 Secondo O’Brien (1987a) pp. 248-49, con l’espressione ejpi; tevlei Sesto intenderebbe non la fine del proemio, ma la fine della parte “epistemologica” del poema che, secondo la ricostruzione dell’edizione Diels-Kranz, coinciderebbe proprio con i versi del fr. 7.

40 L’ipotesi che Sesto avesse già trovato questo assemblaggio in una fonte intermedia, probabilmente confezionata in ambiente vicino a Posidonio, da cui anche il commento allegorico deriverebbe, è già del Reinhardt (1916). La possibilità che Sesto si basasse su un testo già così confezionato dalla sua fonte è stata poi ripresa da Sider (1985) pp. 365-66. Cfr. Kingsley (2003) pp. 568-69. Che l’unione tra i versi del proemio e quelli di B 7.2-7 fosse opera dello stesso Sesto è invece ipotizzato da Tarán (1960) pp. 17-21 e seg., da O’Brien (1987a) pp. 248-49 e da Passa (2009) pp. 29-31, il quale sostiene che Sesto abbia attinto per il testo da una fonte diversa rispetto a quella della parafrasi. Che l’assemblaggio di questi versi sia opera di Sesto sembra in effetti più probabile. Cfr. infra cap. 3 p. 124 n. 47.

41 Si confrontino, infatti, le parole con cui Sesto introduce (Parmenivdh~ tou§ me;n doxastou§ lovgou katevgnw, fhmi; de; tou§ ajsqenei§~ e[conto~ uJpolhvyei~ to;n d jejpisthmonikovn ... uJpevqeto krithvrion, ajposta;~ kai; th§~ tw§n aijsqhsew§n pivstew~) e quelle, poi, con cui poi chiude la sezione dedicata alla citazione e al commento del Proemio di Parmenide (ajll jou\to~ me;n aujto;~ ... to;n ejpisthmoniko;n lovgon kanovna th§~ ejn toi§~ ou\sin ajlhqeiva~ ajnagoreuvsa~ ajpevsth th§~ tw§n aijsqhvsewn ejpistavsew~), con quelle con cui Diogene Laerzio presenta i versi 3.5 del fr. B 7 di Parmenide (krithvrion de; to;n lovgon ei\pe, tav~ te aijsqhvsei~ mh; ajkribei§~ uJpavrcein). Come ha osservato Passa (Passa 2009 pp. 31-2), inoltre, Diogene e Sesto sono gli unici a conservare porzioni significative di B7. Cfr. O’Brien (1987a) pp. 248-9, n. 40. Sulla dipendenza di Diogene dalla stessa tradizione di Sesto si veda anche Mansfeld (1999) pp. 327-28 e n. 4 che fa riferimento a Rocca-Serra in Aubenque II (1987) pp. 254 e seg. di cui vedi in particolare p. 262 e seg.

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discorso su “Ciò che è” che costituisce il fr. 8, i soli primi due versi del frammento 7 in cui si nega la possibilità che “le cose che non sono” siano.

Esiste quindi realmente un gruppo di versi corrispondente al fr. B 7 che comprende sia i versi citati dalla tradizione platonica (B 7.1-2), che quelli riferiti da Sesto a conclusione della sua citazione del proemio (B 7.2-7)? Dove sono collocati o come sono distribuiti questi versi? Alla fine del proemio, secondo la citazione di Sesto? O a conclusione del discorso metodologico sulle vie di ricerca, prima della trattazione dell’unica via conoscibile veramente, quella “come è”, secondo la sequenza accolta nell’edizione DK sulla base della coincidenza del verso finale di B 7 con quello iniziale di B 8?

1.2.2 La proposta di Ferrari

Un interessante tentativo di risolvere la questione è stato proposto da Franco Ferrari in un recente contributo in cui prende in considerazione l’ipotesi che Parmenide, secondo la diffusa pratica formulare tipica della tradizione epica – ripresa poi in deliberata funzione didascalica da Empedocle – abbia ripetuto gli stessi versi in luoghi diversi del suo poema42. Questa supposizione sarebbe avvalorata, peraltro, proprio dalle parole con cui lo Straniero di Elea introduce nel Sofista, la prima citazione dei vv. 1-2 del frammento B 7. Dice infatti lo Straniero: “Ma il grande Parmenide, o ragazzo, a noi che eravamo ragazzi all’inizio e tutto il tempo, questo affermava, ripetendo così ogni volta in discorso piano o in versi43” (Parmenivdh~ de; oJ mevga~, w\ pai§, paisi;n hJmi§n ou\sin ajrcovmeno~ te kai; dia; tevlou~ tou§to ajpemartuvrato, pezh§/ te w|de eJkavstote levgwn kai; meta; mevtrwn Soph. 237a).

Certo, è molto probabile che Platone non conoscesse realmente il modo in cui Parmenide comunicava i suoi pensieri al pubblico degli astanti e che, perciò, modellasse la situazione comunicativa di Elea su quella a lui più familiare di Socrate

42 Cfr. Ferrari (2010) pp. 51-52. Il fatto che Empedocle in 31 B 35, dopo aver annunciato l’intenzione di tornare al passo degli inni già esposto (aujta;r ejgw; palivnorso~ ejleuvsomai ej~ povron u{mnwn, / to;n provteron katevlexa, lovgou lovgon ejxoceteuvwn B 35.1-2), ripeta effettivamente dei versi da lui già pronunciati prima, appare probabile, date le evidenti corrispondenze testuali tra B 35. 3-4 e quel che si legge nei versi 18-19 dell’ensemble a (ii) del Papiro di Strasburgo. Cfr. Martin-Primavesi (1998) pp. 216-23. Cfr. anche 31 B 25.

43 Un po’ forzato appare il tentativo di O’Brien di far convergere la testimonianza platonica con quella di Sesto, per cui cfr. O’Brien (1987a) pp. 242-45, 248-9.

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ad Atene44. È possibile, tuttavia, che l’idea della ripetizione di cellule chiave nell’insegnamento dell’Eleate in diversi momenti della sua esposizione fosse nata in lui dal ricorrere degli stessi versi in luoghi differenti del poema.

A partire da simili considerazioni, Ferrari, quindi, propone una nuova disposizione dei versi della prima parte del poema, in cui sia previsto il ricorrere di alcuni versi del fr. 7 sia alla fine del proemio sia nella conclusione del discorso metodologico, subito prima del fr. 845. Allo stesso modo di Diels in Parmenides

Lehrgedicht, quindi, Ferrari segue Sesto nell’inserire i versi di B 7.2-7 alla fine del

Proemio – con il solo inserimento dei vv. 31-32 – e nel sostenere che, poco prima del fr. 8, vi sia una ripresa di B 7.2, preceduto da B 7.1. L’ipotesi di una ripetizione di questi versi può essere avvalorata anche dal modo in cui lo Straniero di Elea, nel

Sofista – forse volendo imitare il maestro Eleate – cita B 7.1-2 proprio nel momento

in cui apre e poi, di nuovo, in quello in cui chiude il discorso che ne mette in discussione il messaggio veritativo attraverso l’affermazione dell’esistenza di ciò che non è46.

La proposta di Ferrari è degna, quindi, di essere presa in seria considerazione. Restano, tuttavia, alcune controindicazioni rispetto all’ipotesi che i versi corrispondenti a B 7.2-7 seguano immediatamente la conclusione del proemio.

1. Al di là del fatto che Sesto cita i versi parmenidei all’interno di una trattazione che non ha alcun interesse nel riferire il pensiero dell’Eleate in forma esatta e completa, non vi è una plausibile spiegazione per cui Sesto, nel caso in cui citi un testo continuo, ometta i versi B 1.31-2. Come ha osservato Reinhardt, non si può pensare a una svista attribuibile a omeoarcto tra il verso B 1.20 e B 7.2, perché anche l’interpretazione allegorica del proemio non sembra tenere conto di questi versi. Che – come propone Ferrari (p. 54) – Sesto disponesse di un testo del proemio già così confezionato, apre alla possibilità che i versi

44 Che Platone modelli il metodo di insegnamento di Parmenide su quello di Socrate, fondato sul dialogo brachilogico tra il filosofo e un interlocutore privilegiato, è evidente dal modo in cui rappresenta la situazione comunicativa nel Parmenide, cui si fa riferimento, attraverso un esplicito riferimento a questo aspetto della comunicazione, in Soph. 217c. Cfr. Sassi (2009a) pp. 218-19. Cerri (1999) pp. 93-95, sulla base di Soph. 237a, immagina che Parmenide alternasse a estese spiegazioni in prosa, la ripetizione di versi tratti dal suo poema, per aiutare il pubblico a memorizzare meglio i suoi insegnamenti.

45 Cfr. Ferrari (2010) pp. 49-51.

46 Lo Straniero di Elea, infatti, cita i versi per noi corrispondenti a B 7. 1-2 nel momento in cui avvia la sua dimostrazione che anche “ciò che non è” è (Soph. 237a), per poi ripeterli nuovamente nel momento

conclusivo di questa argomentazione (Soph. 258d), prima di affrontare il problema della possibilità di unire “ciò che non è” all’opinione e al discorso (eij dovxh/ te kai; lovgw/ meivgnutai).

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mancanti nella fonte utilizzata da Sesto non siano solo B 1.31-32, ma anche altri. È probabile, peraltro, che Sesto conoscesse un testo del proemio in cui fosse compresa la coppia di versi B 1.31-32 e forse anche B 7.1. A conclusione della sezione della sua opera dedicata a Parmenide (Adv. Math. VII 114), infatti, il filosofo scettico fa un riferimento agli enti in stretto collegamento con la verità (th§~ ejn toi§~ ou\sin ajlhqeiva~), che non può essere dedotto esclusivamente dal testo citato e commentato subito prima47.

2. Mentre Ferrari prende in considerazione la testimonianza del Sofista per avvalorare l’ipotesi che Parmenide abbia ripetuto in due momenti del poema il verso corrispondente a B 7.2 e – con alcune varianti testuali – le parole che si trovano in B 7.6-7a = B 8.1-2a, lo Straniero di Elea, nel dialogo platonico, cita come cellula centrale dell’insegnamento dell’eleate, ripetuta all’inizio e alla fine del suo discorso, i versi B 7.1-2. Ferrari, pertanto, nella sua ricostruzione, ipotizza la sola ripetizione di B 7.2 e non di entrambi i versi, perché, altrimenti, si dovrebbe sostenere che i versi tralasciati da Sesto passino da due a tre (B 1.31-32, B 7.1) e perché, forse, l’ingiunzione di non stabilire che esistano “le cose che non sono”, in questo momento incipitario del discorso, si presenterebbe ex abrupto.

3. A rendere poco plausibile un posizionamento dei versi di B 7. 2-7a alla fine del proemio sono proprio le parole con cui si conclude la citazione del passo parmenideo in Sesto. Appare poco probabile, infatti, che la dea, subito dopo avere dichiarato che resta un solo discorso sulla via (movno~ d je[ti mu§qo~ oJdoi§o leivpetai: B 7.6-7a), all’inizio della sua trattazione, vada poi ad esporre quali sono le sole due vie di ricerca da pensare (ai{per oJdoi; mou§nai dizhvsiov~ eijsi noh§sai B 2.2). Sembra, invece, del tutto appropriato che si parli “del solo discorso di una via” per introdurre la lunga descrizione della via “come è” – che occupa buona parte del frammento 8 – dopo che la dea ha distolto definitivamente il giovane dal seguire le altre vie48. La proposta di Ferrari di accogliere, in quella che – secondo lui – è la prima comparsa di questa

47 In relazione alla possibilità che Sesto confezioni assemblaggi di versi ad hoc, si consideri che, di recente, Wright (1995) p. 161 ha sostenuto – riprendendo una vecchia tesi del Wilamowitz – che la sequenza di versi che costituisce il fr. 3 di Empedocle non sia altro che un assemblaggio ad opera di Sesto di due gruppi di versi originariamente distinti. Si dovrebbe altrimenti ipotizzare un brusco cambio di interlocutore dalla Musa a Pausania nella successione tra il quinto e il sesto verso di 31 B3. 48 Si veda anche Tarán (1965) pp. 21-22.

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affermazione, alla fine del Proemio, la variante testuale qumov~ che si legge in Sesto, non sembra restituire un senso molto migliore49. Secondo questo testo, la dea, dopo aver distolto il giovane dal seguire la via che corrisponde alle opinioni dei mortali direbbe: “Così resta solo il desiderio di una via” (movno~ d∆ e[ti qumo;~ oJdoi§o leivpetai:). Non mi risulta, peraltro, che l’espressione qumov~ + Gen. + leivpetai, o anche solo qumo;~ + leivpetai venga mai impiegata per indicare il desiderio o l’aspettativa di qualcosa. Anche l’uso di qumov~ + ejsti per indicare un desiderio sembra, peraltro, piuttosto raro50. Che qui la dea voglia rendere manifesta un’esigenza – quella di un discorso sulla realtà vera – che essa soddisferà solo dopo un’altra serie di argomentazioni metodologiche, nel momento in cui si preparerà effettivamente a fare il solo discorso sulla via “come è”, lasciando così, in un primo momento, in sospeso il suo discorso, mi sembra, peraltro, difficile da ammettere.

Tali controindicazioni ci spingono, pertanto, in ultima istanza, a non accogliere la proposta di Ferrari e, piuttosto, a supporre che la successione in cui la dea presenta le vie rispetti la sequenza dei frammenti dell’edizione Diels-Kranz: B 1, B 2, B 6, B 7, B 8.

La discussione di questa interessante proposta, tuttavia, ci ha suggerito la effettiva possibilità che Parmenide ripeta gruppi di versi in differenti punti del suo poema. Allo stesso tempo, ci ha messo di fronte alla difficoltà di stabilire la corretta successione tra la presentazione della via dei mortali e quella delle due sole vie di ricerca per pensare – quella “come è” e quella “come non è” – iniziando così a fare luce sul complesso rapporto che questi percorsi intrattengono tra loro. La proposta di Ferrari di accogliere la sequenza di versi che compare in Sesto avrebbe in effetti il grande vantaggio di presentare un discorso coerente, in cui la dea, prima cerca di distogliere il suo interlocutore dal seguire la via su cui egli tende a procedere per abitudine a partire dalle sue esperienze pregresse, e, solo in un secondo momento, lo mette di fronte alla scelta radicale tra due vie dai tratti estremamente stranianti rispetto a quelli che l’uomo immagina di solito. Dalla discussione fin qui condotta sembra peraltro che – anche in questo

49 La scelta testuale di Ferrari era già in Diels (1897). movno~ d je[ti mu§qo~ ojdoi§o leivpetai è, invece, la forma in cui questa frase si presenta nelle citazioni che Simplicio fa della totalità o di una parte del fr. 8, rispettivamente, in Comm. Phys. 145 e 78.

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sorprendendo le nostre aspettative – la dea prima presenti le sole due vie concepibili nella prospettiva divina che essa vuole insegnare al kouros, e solo in un secondo momento metta in guardia il giovane dal seguire la via dei mortali su cui, ovviamente, ragionando da uomo, egli tende a procedere. La struttura del discorso della dea nella sua interezza sembra confermare questo modo di procedere. Infatti, invece di passare – secondo un percorso progressivo – dalla descrizione del quadro più coerente della realtà raggiungibile da mente mortale – la doxa – alla rappresentazione veritiera del reale in una prospettiva divina – la

aletheia – la dea, prima conduce il giovane al “cuore di ben rotonda verità”, per

poi esporgli, da questa prospettiva privilegiata, una descrizione dettagliata del migliore ordinamento del reale raggiungibile da chi continui a seguire la via dei mortali51.

1.3 Il bivio: alcune associazioni

All’inizio del suo discorso, dunque, la dea riduce le possibilità di conoscere esclusivamente a due, mettendo il suo interlocutore di fronte a un bivio.

eij d ja[g j egw§n ejrevw, kovmisai de; su; mu§qon ajkouvsa~, ai{per oJdoi; mou§nai dizhvsiov~ eijsi noh§sai:

hJ mevn, o{pw~ ejstivn te kai; wJ~ oujk e[sti mh; ei\nai, peiqou§~ ejsti kevleuqo~, ajlhqeivh/ ga;r ojphdei§, hJ d j, wJ~ oujk e[stin te kai; wJ~ crewvn ejsti mh; ei\nai, th;n dhv toi fravzw panapeuqeva e[mmen ajtarpovn: ou[te ga;r a]n gnoivh~ tov ge mh; ejovn, ouj ga;r ajnustovn, ou[te fravsai~ (B 2).

Suvvia, io dirò - e tu, avendo prestato ascolto al discorso, riportalo con te52 - quali sono le sole vie di ricerca per pensare53,

51 Si veda a questo proposito quanto osserva Ferrari (2010) p. 75: “Lungo un tale itinerario l’insegnamento dedicato alle doxai può prospettarsi, prima che sia stata rimossa la dicotomia luce / notte e in ordine inverso rispetto al decorso del poema, come una forma di “iniziazione” di grado inferiore rispetto alla suprema contemplazione del vero”.

52 Per questo valore di kovmisai come “take away” cfr. Kinglsey (2003) pp. 563-64, Ferrari (2010) p. 135.

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l’una “come è”, e “come non è possibile “non sia”, di Persuasione è il cammino, giacché segue verità,

l’altra, invece, “come non è” e “come è necessario non sia”, questa ti segnalo che è un sentiero del tutto inconoscibile:

né infatti potresti conoscere “ciò che non è”, dal momento che non è fattibile, né potresti darne indicazioni…

Sebbene le parole con cui la dea definisce le due vie debbano essere sembrate strane e difficili da interpretare dal pubblico parmenideo, l’immagine di un giovane che, sotto la guida di una persona più esperta, raggiunge un bivio davanti a cui deve scegliere la via da seguire sarà apparsa piuttosto familiare all’uditorio dell’epoca.

1.3.1 Scegliere tra due rotte: le indicazioni di Circe a Odisseo

Come si è avuto modo di apprezzare nel primo capitolo, infatti, la narrazione mitica del proemio sembra avere evocato nella mente del pubblico parmenideo alcune tappe dei viaggi narrati nell’Odissea. È stato peraltro osservato già da tempo da Havelock e, poi, da Mourelatos54, che il racconto delle peregrinazioni di Odisseo alla disperata ricerca della rotta per Itaca può avere costituito un modello per la struttura del discorso del poema dell’Eleate. Se questo è vero, l’associazione con la narrazione mitica dei vagabondaggi del figlio di Laerte ha forse aiutato l’uditorio a orientarsi nel complesso discorso di Parmenide anche nel momento in cui la dea mette il suo

53 Sul valore finale dell’infinito aoristo noh§sai “per pensare”, leggermente preferibile all’altra possibile traduzione del verbo in questo contesto come “da pensare” “pensabili” cfr. Cordero (1984) pp. 48-51, Kingsley (2003) pp. 71-72, Palmer (2009) pp. 70-73, che, per un caso analogo di noh§sai con questo significato in clausola di esametro, suggeriscono il confronto con l’espressione empedoclea oJpovsh/ povro~ ejsti; noh§sai in 31 B 3.12 per cui cfr. infra cap. 3 pp. 150-52. In ogni caso, si può ammettere anche l’altro senso qualora si consideri comunque, pur in forma implicita, che la meta finale che questi percorsi sembrano proporre sia quella della conoscenza veritiera. Interessante appare, del resto, il fatto – messo in evidenza nei commenti – che il termine divzhsi~ sia attestato solo nel testo parmenideo e solo nell’espressione oJdo;~ dizhvsio~. Si confronti, peraltro, il frammento eracliteo ejdizhsavmhn ejmewutovn (22 B 101). Come osserva Cerri (1999) p. 188, forse Parmenide ha qui voluto proporre un nuovo termine tecnico per indicare un’attività di ricerca che si contrapponesse alla ricerca sulla natura praticata in ambiente ionico, definita dal termine iJstorivh. La proposta parmenidea non sembra avere goduto di grande fortuna nella letteratura filosofica successiva, giacché, dalla seconda metà del V secolo, ha iniziato a imporsi come termine alternativo per definire quest’attività zhvthsi~.

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interlocutore di fronte alla scelta tra due vie senza indicare, fin da subito, quale egli debba percorrere.

All’inizio del XII canto dell’ Odissea, infatti, la divina Circe, dopo aver annunciato a Odisseo e compagni – appena tornati dal loro viaggio nell’Ade – che indicherà loro la rotta e segnalerà ogni cosa (… aujta;r ejgw; deivxw oJdo;n hjde; e[kasta / shmanevw ... vv. 25-6) affinché non soffrano pene nel loro viaggio di ritorno a casa, prende per mano il Laerziade e lo porta in luogo appartato (hJ d jejme; ceiro;~ eJlou§sa fivlwn ajponovsfin eJtaivrwn v. 33)55 dove gli dà indicazioni su ciò che lo aspetta56. Dopo avere spiegato a Odisseo in che modo sfuggire alle Sirene, gli preannuncia che, superata questa prova, si troverà a dover scegliere tra due rotte di cui la dea stessa fornirà le necessarie indicazioni, senza peraltro indicare quale egli debba percorrere (vv. 55-58)57. Entrambe le vie sono pericolose e, solitamente, letali per gli uomini: da un lato, infatti, vi sono le rupi vaganti che travolgono le navi e le persone (vv. 59-72), dall’altro, i due scogli abitati dai mostri Scilla e Cariddi (vv. 73-126). Il fatto che la dea dia, poi, delle indicazioni per superare i terribili ostacoli della seconda rotta (vv. 101-26) rende peraltro chiaro che questa è la corretta via da seguire58.

L’associazione con l’immagine di Odisseo che – dopo avere ricevuto da solo le indicazioni di Circe sul percorso da seguire per tornare in patria – dà direttive ai compagni su come procedere per la via del ritorno, può avere aiutato il pubblico di Parmenide a riconoscere nell’autore la figura di un giovane che, dopo aver partecipato di un contatto privilegiato con il divino, si pone come guida degli altri uomini lungo la giusta via che conduce alla conoscenza della verità. E, proprio come Odisseo deve capire in che direzione lo spingono le parole di Circe e scegliere di conseguenza la via da percorrere, così il kouros deve seguire attivamente il discorso della dea e capire in che direzione lo guidi il suo discorso.

55 Cfr. 28 B 1.22-23, 27.

56 Si confrontino le parole con cui Circe introduce le sue indicazioni sulle prossime tappe del viaggio di Odisseo (... su; d ja[kouson, w{~ toi ejgw;n ejrevw XII 37-38) con quelle che precedono la presentazione delle due vie in 28 B 2.1, con la lieve correzione suggerita dal Karsten a[g j ejgw;n in luogo di a[ge tw§n (eij d ja[g j egw§n ejrevw, kovmisai de; su; mu§qon ajkouvsa~). Odisseo poi, proprio come Parmenide farà con il suo uditorio, riferisce ai compagni le indicazioni ricevute da Circe (XII 154-59).

57 (aujta;r ejph;n dh; tav~ ge pare;x ejlavswsin eJtai§roi, / e[nqa toi oujkevt j e[peita dihnekevw~ ajgoreuvsw, / oJppotevrh/ dhv toi oJdo;~ e[ssetai ajlla; kai; aujto;~ / qumw§/ bouleuvein: ejrevw dev toi ajmfotevrwqen. Od. XII 55-59)

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1.3.2 L’immagine del bivio nella poesia didascalica arcaica

Sembra del resto che, fin dall’età arcaica, l’immagine del bivio sia stata utilizzata per indicare – all’interno di un discorso di natura prevalentemente didascalica – la necessità di una scelta tra due diverse condotte di vita.

Il primo esempio a noi noto si trova nelle Opere e i Giorni in cui, ai vv. 214 e seguenti, Esiodo si rivolge direttamente a Perse, esortandolo a prestare ascolto a dike anziché a hybris. Seguire la tracotanza porta, infatti, a conseguenze rovinose sia la povera gente che quella benestante, mentre decidere di percorrere la via che porta alla giustizia è sicuramente la scelta migliore, giacché dike, una volta realizzatasi del tutto, risulta superiore a hybris (oJdo;~ d jeJtevrhfi parelqei§n / kreivsswn ej~ ta; divkaia: divkh d∆ uJpe;r u{brio~ i[scei ej~ tevlo~ ejxelqou§sa: vv. 216-18)59.

L’immagine della via che porta alla giustizia sembra anticipare quella del bivio davanti a cui Esiodo pone Perse, dopo aver descritto il modo in cui gli uomini amministrano la giustizia sotto la vigile sorveglianza degli dèi60. Qui il poeta, rivolgendosi, ancora una volta, al fratello méga nepios, introduce l’immagine delle due vie, presentando ciò che sta per dire come i suggerimenti ragionevoli di una persona che capisce quale scelta porti alle conseguenze migliori (soi; d jejgw; ejsqla; noevwn ejrevw, mevga nhvpie Pevrsh v. 286). Da un lato, si presenta la strada – facile da percorrere – che porta rapidamente alla miseria, dall’altro, il cammino lungo e ripido che, dopo grandi sforzi, porta ad una vita di prosperità e agiatezza (vv. 287-93). Sembra chiaro, peraltro che, mentre la prima via appare più allettante a chi non è in grado di comprendere a quale meta essa porti – venendo così percorsa da un gran numero di persone – la seconda – generalmente evitata perché ripida e faticosa – viene invece preferita da chi è in grado di capire che essa, alla fine, conduce ad una condizione molto migliore61. Non a caso, l’immagine del bivio è seguita dalla

59 Cfr. vv. 213-218. 60 Cfr. vv. 219-85.

61 soi; d jejgw; ejsqla; noevwn ejrevw, mevga nhvpie Pevrsh: / th;n mevn toi kakovthta kai; ijladovn ejstin eJlevsqai / rJh/divw~: leivh me;n oJdo;~, mavla d jejgguvqi naivei: / th§~ d jajreth~ iJdrw§ta qeoi; propavroiqen e[qhkan / ajqavnatoi: makro;~ de; kai; o[rqio~ oi|mo~ ej~ aujthvn / kai; trhcu;~ to; prw§ton: ejph;n d jeij~ a{kron i{khtai, / rJh/divh dh[peita pevlei, calephv per ejou§sa (“a te io che penso cose giuste le dirò, molto sciocco Perse: la miseria, infatti, la si può ottenere, anche in abbondanza, facilmente: piana è la strada e si trova molto vicina: davanti alla prosperità, invece, sudore anteposero gli dèi immortali: lungo ed erto il cammino fino a lei, e dapprima ripido; quando si giunga alla cima, diventa facile, pur essendo difficile” Op. vv. 286-92). Su ijlado;n, West (1978), nel suo commento ad loc., osserva: “elsewhere (Il. 2.93, Hdt. 1.172. 1…) the word refers to people moving along in crowds. This supports the usual interpretation, that it is easy for crowds of people to find their way to kakovth~ ”(p. 230).

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